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Notizie 16-30 settembre 2018


Netanyahu all'Onu: "L'Iran ha un deposito atomico segreto"

Perché essere orgogliosi di Israele. Il discorso del premier israeliano alle Nazioni Unite

intervenendo giovedì sera davanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha svelato "un'altra struttura atomica segreta" iraniana, cinque mesi dopo aver presentato in un video le prove degli imbrogli iraniani sottratte a Teheran dai servizi di sicurezza israeliani. Un discorso molto importante ed interessante, di cui riportiamo di seguito la traduzione integrale (testo ufficiale originale qui), a cura del Prof. Ugo Volli.
    Illustri Delegati, Signore e Signori,
      Quando ho parlato qui, tre anni fa, Israele era isolato tra le nazioni. Dei quasi 200 paesi che siedono in questa sala, solo Israele allora si opponeva apertamente all'accordo nucleare con l'Iran. Ci opponiamo ancora perché esso minaccia il nostro futuro, persino la nostra stessa sopravvivenza. Ci opponiamo perché l'accordo ha spianato la strada dell'Iran verso un arsenale nucleare. E eliminando le sanzioni, ha alimentato la campagna di carneficina e conquista dell'Iran in tutto il Medio Oriente. Ci opponiamo perché l'accordo era basato su una menzogna fondamentale, secondo cui l'Iran non starebbe cercando di sviluppare armi nucleari.
      Ora, Israele ha denunciato quella menzogna all'inizio di quest'anno. Lo scorso febbraio, Israele ha condotto un'audace incursione nell'archivio atomico segreto dell'Iran. Abbiamo ottenuto oltre 100.000 documenti e video che erano stati nascosti nei sotterranei di un edificio dall'aspetto innocente nel cuore di Teheran. A maggio, ho presentato un breve riassunto di ciò che abbiamo ottenuto ai media internazionali. Ho fornito prove concrete dei piani dell'Iran di costruire armi nucleari e dei suoi piani per ingannare la comunità internazionale. Israele ha condiviso queste informazioni e prove ancora più schiaccianti che abbiamo trovato con i membri del gruppo dei 5 + 1 e con l'Agenzia internazionale per l'energia atomica.
      I mesi sono passati. L'AIEA non ha ancora intrapreso alcuna azione. Non ha posto una sola domanda all'Iran. Non ha richiesto di ispezionare un singolo nuovo sito scoperto in quell'archivio segreto. Quindi, data questa inerzia, ho deciso di rivelare oggi qualcos'altro che abbiamo condiviso con l'AIEA e con alcune agenzie di intelligence. Quello che sto per dire non è stato condiviso pubblicamente prima.
      Oggi sto divulgando per la prima volta che l'Iran ha un'altra struttura segreta a Teheran, un magazzino atomico segreto per immagazzinare enormi quantità di materiale e equipaggiamento dal programma segreto sulle armi nucleari dell'Iran. A maggio abbiamo esposto il sito dell'archivio atomico segreto dell'Iran, proprio qui, nel distretto di Shorabad di Teheran. Oggi sto rivelando il sito di una seconda struttura: il magazzino atomico segreto dell'Iran. È proprio qui, nel distretto Turquzabad di Teheran, a pochi chilometri da lì.
      Lasciate che ti mostri esattamente come si presenta il magazzino atomico segreto. Ecco qui. Vedete, come l'archivio atomico, è un altro magazzino dall'aspetto innocente. Ora per quelli di voi a casa che usano Google Earth, questo magazzino atomico non più segreto è su Maher Alley, Maher Street. Avete le coordinate, potete provare ad arrivarci. E per quelli di voi che cercano di arrivarci, è a 100 metri dal Kalishoi, la fabbrica di pulizia dei tappeti. A proposito, ho sentito che fanno un ottimo lavoro pulendo i tappeti lì. Ma ormai possono essere tappeti radioattivi. Questo è il secondo sito segreto.
      Ora, i paesi con capacità satellitari potrebbero notare un aumento dell'attività su Maher Alley nei giorni e nelle settimane a venire. Le persone che vedranno correre avanti e indietro sono funzionari iraniani che cercano disperatamente di finire il lavoro di pulizia di quel sito. Perché, vedete, da quando abbiamo fatto irruzione nell'archivio atomico, sono stati occupati a pulire il magazzino atomico.
      Proprio il mese scorso hanno rimosso 15 chilogrammi di materiale radioattivo. Sapete cosa hanno fatto con questi? Avevano 15 chilogrammi di materiale radioattivo, dovevano portarlo fuori dal sito, così lo tirarono fuori e lo sparsero attorno a Teheran nel tentativo di nascondere le prove. I residenti a rischio di Teheran potrebbero voler sapere che possono ottenere un segnalino Geiger su Amazon per soli $ 29,99. Ad oggi sono solo 4 milioni di rial iraniani, ma ci arriveremo più tardi. Parlerò dell'economia iraniana tra un minuto. Hanno preso questo materiale radioattivo e lo hanno disperso intorno a Teheran.
      Ora, i funzionari iraniani che puliscono quel sito hanno ancora molto lavoro da fare perché hanno almeno 15 container, sono giganteschi, 15 container pieni di materiale nucleare e materiale immagazzinato lì. Ora, dal momento che ognuno di questi container può contenere 20 tonnellate di materiale, questo significa che questo sito contiene fino a 300 tonnellate, 300 tonnellate di materiale e materiale relativi al nucleare.
      Quindi, Illustri Delegati,
      dovete farvi una domanda. Perché l'Iran ha mantenuto un archivio atomico segreto e un magazzino atomico segreto? Perché, dopo tutto, quando il Sud Africa e la Libia rinunciarono ai loro programmi nucleari, la prima cosa che fecero fu distruggere sia gli archivi che il materiale e le attrezzature.
      La risposta alla domanda è semplice. La ragione per cui l'Iran non ha distrutto il suo archivio atomico e il suo magazzino atomico è perché non ha abbandonato il suo obiettivo di sviluppare armi nucleari. In effetti, prevedeva di utilizzare entrambi questi siti in pochi anni, quando sarebbe stato il momento giusto per la bomba atomica. Ma, signore e signori, state tranquilli, non succederà. Non accadrà perché ciò che l'Iran nasconde, Israele lo troverà.
      Signore e signori,
      Ho un messaggio al capo dell'AIEA, il signor Yukiya Amano. Credo che sia un brav'uomo. Credo che voglia fare la cosa giusta. Bene, signor Amano, faccia la cosa giusta. Vada a ispezionare questo magazzino atomico, immediatamente, prima che gli iraniani finiscano di ripulirlo.
      Illustri delegati,
      vi ricordate quando ci avevano promesso che le ispezioni potevano avvenire in qualsiasi momento, ovunque? Lo ricordate? Sempre e ovunque? Beh, che ne dite di condurre ispezioni proprio qui, proprio ora? E il signor Amano, mentre c'è, ispezioni gli altri siti segreti di cui le abbiamo parlato. Una volta per tutte, raccontare al mondo la verità sull'Iran.
      Ora ho anche un messaggio per i tiranni di Teheran: Israele sa cosa state facendo e Israele sa dove lo state facendo. Israele non lascerà mai sviluppare armi nucleari a un regime che chiede la nostra distruzione. Non ora, non tra dieci anni, mai. E Israele farà tutto ciò che deve fare per difendersi dall'aggressione dell'Iran. Continueremo ad agire contro di voi in Siria. Agiremo contro di te in Libano. Agiremo contro di voi in Iraq. Agiremo contro di voi quando e dove dovremo agire per difendere il nostro stato e difendere il nostro popolo.
      Illustri delegati,
      Tre anni fa, poche settimane dopo che l'accordo nucleare era stato completato, ho posto questa domanda proprio da questo podio: qualcuno crede seriamente che inondare la teocrazia radicale dell'Iran con armi e denaro possa frenare il suo appetito per l'aggressione? Molti dei sostenitori dell'accordo credevano proprio questo. Credevano che il regime iraniano sarebbe diventato più moderato, più pacifico. Credevano che l'Iran avrebbe usato i miliardi di dollari ricevuti in sanzioni per migliorare la vita della sua gente - per risolvere il problema dell'acqua, per risolvere il problema dei trasporti, per risolvere il problema dell'elettricità, ospedali, scuole … Questo è quello che credevano, e forse anche molti di voi lo hanno creduto.
      Bene, questo non è successo. Invece, l'Iran ha usato i soldi per alimentare la sua vasta macchina da guerra. Proprio l'anno scorso, l'Iran ha attaccato i curdi in Iraq, ha massacrato i sunniti in Siria, armato Hezbollah in Libano, finanziato Hamas a Gaza, ha lanciato missili in Arabia Saudita e minacciato la libertà di navigazione nello Stretto di Hormouz e nello Stretto di Bab al Mandeb. Che pace … Che moderazione…
      E se pensate che l'aggressione dell'Iran sia stata confinata in Medio Oriente, ripensateci. Il mese scorso, due agenti iraniani sono stati arrestati per aver preparato attacchi terroristici proprio qui negli Stati Uniti. E diverse settimane fa, agenti iraniani sono stati arrestati per aver organizzato attacchi terroristici nel cuore dell'Europa.
      Eppure, mentre gli Stati Uniti stanno affrontando l'Iran con nuove sanzioni, l'Europa e altri stanno placando (appeasing) l'Iran cercando di aiutarla a superare quelle sanzioni. Ora ho appena usato una parola, una parola dura, una parola molto forte, e lo uso a malincuore, ma sfortunatamente è esattamente quello che stiamo vedendo di nuovo in Europa. Pensate a questo: la stessa settimana in cui l'Iran è stato colto in flagrante nel tentativo di assassinare cittadini europei, i leader europei stavano stendendo il tappeto rosso per il presidente Rouhani, promettendo di dare all'Iran ancora più denaro.
      Sono figlio di uno storico, devo chiedere. Ma non chiedo semplicemente come figlio di uno storico, lo chiedo come ebreo, come cittadino del mondo, come qualcuno che ha vissuto il ventesimo secolo: questi leader europei non hanno imparato nulla dalla storia? Si sveglieranno mai?
      Bene, noi in Israele, non abbiamo bisogno di un campanello d'allarme, perché l'Iran ci minaccia ogni giorno. Perché nonostante le migliori speranze, e c'erano molte speranze per l'accordo nucleare, questo accordo ha affatto allontanato lontano la guerra. Ha portato la guerra sempre più vicina ai nostri confini. In Siria, l'Iran sta cercando di stabilire basi militari permanenti contro di noi e ha già lanciato missili e droni nel nostro territorio. A Gaza, l'Iran sta armando gruppi terroristici per lanciare attacchi missilistici nelle nostre città e attacchi terroristici contro i nostri civili. In Libano, in Libano, l'Iran sta fornendo il know how a Hezbollah per costruire siti segreti in cui convertire razzi imprecisi in missili guidati con precisione, missili che possono colpire in profondità Israele entro una precisione di dieci metri.
      Badate a questo: Hezbollah usa deliberatamente l'innocente popolo di Beirut come scudo umano. Hanno posto tre di questi siti di conversione missilistica a fianco dell'aeroporto internazionale di Beirut. Ecco un'immagine che vale più di mille missili. Questo è l'aeroporto internazionale di Beirut. Ecco il primo sito missilistico. È nel quartiere di Ouzai sul bordo dell'acqua, a pochi isolati dalla pista. Ecco il secondo sito. È sotto uno stadio di calcio, quello è lo stadio di calcio, a due isolati di distanza. Ed ecco il terzo sito. È adiacente all'aeroporto stesso, proprio accanto ad esso. Quindi oggi ho anche un messaggio per Hezbollah: Israele sa che cosa state facendo. Israele sa dove lo state facendo. E Israele non vi lascerà scappare.
      Signore e signori,
      Proprio come i sostenitori dell'operazione nucleare avevano torto su cosa sarebbe successo quando le sanzioni sarebbero state rimosse, si sbagliavano, erano completamente in errore, su cosa sarebbe successo quando le sanzioni sarebbero state ripristinate. Hanno sostenuto che le sanzioni statunitensi da sole avrebbero poco impatto economico sull'Iran. Questo è quello che hanno detto. Veramente?
      Bene, vediamo cosa è successo all'economia iraniana ora che il presidente Trump ha costretto le compagnie a scegliere tra fare affari con l'Iran e fare affari con gli Stati Uniti, il cui PIL è 50 volte più grande di quello dell'Iran. Un anno fa, l'economia iraniana era in crescita esplosiva. Ora sta crollando. La valuta dell'Iran sta precipitando. L'inflazione e la disoccupazione sono in aumento. Compagnie aeree britanniche, banche tedesche, compagnie petrolifere francesi, importatori giapponesi di petrolio e molti altri si stanno sforzando di uscire. Se questo è un piccolo impatto economico, immaginate che cosa succederà con la prossima serie di sanzioni statunitensi imposte a novembre.
      Anche su un altro punto i sostenitori dell'accordo erano in errore. Hanno anche sostenuto che il ripristino delle sanzioni avrebbe unito il popolo iraniano attorno al regime. Beh, vi sono decisamente delle manifestazioni, ma non per il regime. Si stanno schierando contro il regime. Non stanno gridando "Morte all'America". Dicono "morte alla dittatura". Non stanno gridando "Esportiamo la rivoluzione islamica". Dicono: "Lasciamo la Siria!" Lasciamo il Libano! Lasciamo Gaza! Badate a noi in Iran!
      Io ascolto queste proteste. Parlo con il popolo iraniano. Dico queste cose con i video e ricevo tante risposte dagli iraniani. All'inizio pensavo che questi fossero esuli iraniani che vivono nella sicurezza di Londra, Parigi o Los Angeles. No. Sono iraniani dell'Iran che abbracciano Israele, che criticano il regime. Con i loro nomi. E poco dopo questi messaggi sono scoppiate le proteste, non per quello che ho detto, ma perché qualcosa di straordinario stava avvenendo lì. Perché in queste proteste, il popolo iraniano mostra un incredibile coraggio. Dai centri urbani ai villaggi periferici - e sta abbracciando ora tutto l'Iran - dai mercanti del bazar alle giovani donne che scoprono i loro capelli, il popolo iraniano sta coraggiosamente affrontando un regime che li ha brutalmente repressi per quattro decenni e che ha sperperato i loro soldi, continua a sperperare il loro denaro in guerre sanguinose in tutto il Medio Oriente.
      Ecco cosa dico ai leader europei e agli altri: invece di coccolare i dittatori iraniani, unisciti agli Stati Uniti, a Israele e alla maggior parte del mondo arabo nel sostenere nuove sanzioni contro un regime che mette in pericolo tutti noi e tutto il mondo. Israele è profondamente grato al presidente Trump per la sua audace decisione di ritirarsi dal disastroso accordo nucleare con l'Iran. Molti, molti dei nostri vicini arabi sono anche grati. E anche tutti coloro che si preoccupano della pace e della sicurezza del mondo dovrebbero essere grati.
      Ma, signore e signori, ho un'importante confessione da fare. Questo potrebbe sorprendervi, ma devo ammettere che l'accordo con l'Iran ha avuto una conseguenza positiva, non intenzionale, ma una conseguenza positiva. Dando potere all'Iran, l'accordo ha portato Israele e molti stati arabi più vicini che mai, più vicini che mai, in un'intimità e un'amicizia che non ho mai visto in vita mia e che sarebbe stata inimmaginabile qualche anno fa. E sapete, quando le amicizie nascono da una minaccia, da una sfida, si vedono rapidamente opportunità, non solo per la sicurezza, ma su come portare una vita migliore per gente che Israele può aiutare e vuole aiutare. Israele apprezza profondamente queste nuove amicizie e spero che arriverà presto il giorno quando Israele sarà in grado di espandere la pace, una pace concordata, oltre l'Egitto e la Giordania ad altri vicini arabi, compresi i palestinesi. Non vedo l'ora di lavorare con il presidente Trump e il suo team per la pace per raggiungere questo obiettivo.
      Voglio anche sfruttare questa opportunità, siamo all'ONU, è un posto che conosco perché ho servito qui come ambasciatore molti anni fa per molti anni, quindi conosco le Nazioni Unite. Voglio sfruttare questa opportunità per esprimere l'apprezzamento di Israele al presidente Trump e all'ambasciatore Haley per l'incrollabile sostegno che hanno fornito a Israele alle Nazioni Unite. Hanno inequivocabilmente appoggiato il diritto di Israele a difendersi. Hanno giustamente denunciato l'UNESCO e il Consiglio per i diritti umani Onu moralmente in bancarotta : enti che hanno votato più risoluzioni contro Israele che rispetto a tutto il resto del mondo messo insieme. Dieci volte rispetto a, non so, Iran, Siria. Neppure dieci volte, perché non puoi moltiplicare lo zero per nessun numero. Hanno fermato i finanziamenti, il presidente Trump e l'ambasciatore Haley, hanno smesso di finanziare un UNRWA non riformato, un'organizzazione che invece di risolvere il problema dei profughi palestinesi, lo perpetua.
      Giorno dopo giorno, l'amministrazione Trump ha resistito a quella che è stata a lungo una specialità qui all'ONU: calunniare Israele. Anche se la vergognosa risoluzione che confrontava il sionismo con il razzismo è stata abrogata 25 anni fa, mi dispiace dire che il suo cattivo odore si sente ancora in queste sale. Israele ha trasportato in aereo gli ebrei etiopi verso la libertà e una nuova vita in Israele, nello stato ebraico. Eppure qui all'ONU Israele è assurdamente accusato di razzismo. I cittadini arabi israeliani votano nelle nostre elezioni, prestano servizio nel nostro parlamento, presiedono i nostri tribunali e hanno esattamente gli stessi diritti individuali di tutti gli altri cittadini israeliani. Eppure qui all'ONU, Israele è vergognosamente accusato di apartheid. Oggi, ci sono almeno cinque volte più palestinesi quanti ce ne furono nel 1948, l'anno della fondazione di Israele. Eppure qui all'ONU, Israele è oltraggiosamente accusato di pulizia etnica.
      Signore e signori, sapete di cosa si tratta? È lo stesso vecchio antisemitismo con una faccia nuova di zecca. Questo è tutto. Una volta, fu il popolo ebraico a essere calunniato e tenuto a un livello inferiore. Oggi, è lo stato ebraico che viene calunniato e tenuto a un livello inferiore. Ecco un esempio: prendete gli attacchi stravaganti che sono stati lanciati contro Israele dopo che la nostra Knesset, il nostro parlamento, ha recentemente adottato una legge che dichiara Israele lo stato nazione del popolo ebraico.
      Intendiamoci, Israele è un paese libero. Chiunque può opporsi a una legge e c'è chi lo ha fatto. Puoi chiedere che siano usati termini differenti in questa o quella clausola, oppure puoi che sia aggiunta o tolta una clausola. Tutti possono farlo. Ma quando Israele è chiamato razzista per aver fatto dell'ebraico la sua lingua ufficiale e la stella di Davide la sua bandiera nazionale, quando Israele è etichettato come uno stato di apartheid per dichiararsi lo stato nazionale del popolo ebraico, questo è assolutamente assurdo. E sapete perché? Perché sono rappresentati in questa sala oggi più di 100 paesi che hanno una sola lingua ufficiale, anche se molte altre lingue sono comunemente parlate in quei paesi. Ci sono più di 50 paesi qui che hanno croci o mezzelune sulle loro bandiere, anche se hanno molti non musulmani e non cristiani che vivono in mezzo a loro. E ci sono dozzine di paesi che si definiscono stati nazionali di un particolare popolo, anche se ci sono molte minoranze etniche e nazionali all'interno dei loro confini. Nessuno di questi paesi viene denigrato o diffamato per aver celebrato la propria identità nazionale unica. Solo Israele è denigrato. Solo Israele è diffamato. Ciò che è unico riguardo al popolo ebraico non è che abbiamo uno stato nazione. Ciò che è unico è che molti ancora si oppongono al fatto di avere uno stato nazionale.
      Qualche attimo fa, il presidente Abbas ha affermato scandalosamente che la legge dello stato di Israele dimostra che Israele è uno stato razzista e apartheid. Presidente Abbas, dovresti pensarci meglio. Hai scritto una tesi di laurea che nega l'Olocausto. La tua Autorità Palestinese impone condanne a morte ai palestinesi per aver venduto terre agli ebrei. Avete sentito? Se un ebreo compra un appartamento, un pezzo di terra in qualsiasi parte dei territori palestinesi, il palestinese che lo ha venduto è giustiziato. Questo è quello che dice la legge. Presidente Abbas, paghi con orgoglio i terroristi palestinesi che uccidono gli ebrei. Anzi, più uccidono, più sono pagati. Anche nella loro legge. E condanni la moralità di Israele? Chiami Israele razzista?
      Questa non è la via per la pace. Questo non è il modo per raggiungere la pace che tutti desideriamo e di cui abbiamo bisogno e alla quale Israele rimane impegnato. Questo organismo non dovrebbe applaudire il capo di un regime che paga i terroristi. L'ONU dovrebbe condannare una politica tanto spregevole. E l'ONU, che ha negoziato un cessate il fuoco nel 2014, dovrebbe chiedere a Hamas di liberare i nostri caduti, Oron Shaul e Hadar Goldin, che è stato rapito quando Hamas ha violato quel cessate il fuoco. Hamas dovrebbe anche rilasciare i due cittadini israeliani tenuti prigionieri, Abera Mengistu e Hisham al Sayed.
      Signore e signori,
      Ogni volta che vengo qui, mi sento come oggi: privilegiato per stare qui come primo ministro dello stato ebraico e democratico di Israele. Alcuni credono che Israele non possa essere sia ebraico che democratico. Questo è falso. Israele è entrambi, e Israele rimarrà sempre entrambi.
      Da quando Abramo e Sara hanno fatto il loro viaggio verso la terra promessa quasi 4000 anni fa, la Terra di Israele è stata la nostra patria. È il luogo in cui Isacco e Rebecca, Giacobbe, Lea e Rachele hanno portato avanti la loro eterna alleanza con Dio. È qui che Giosuè ci ha resi una nazione sovrana, dove regnò Davide e Isaia predicò, dove combatterono i Maccabei e dove Masada cadde. È il luogo dal quale siamo stati esiliati e al quale siamo tornati, ricostruendo la nostra antica ed eterna capitale Gerusalemme.
      Lo stato nazione di Israele è l'unico luogo in cui il popolo ebraico esercita con orgoglio il nostro diritto collettivo all'autodeterminazione. Questo diritto è stato riconosciuto quasi un secolo fa dalla Società delle Nazioni e oltre 70 anni fa dalle Nazioni Unite, quando ha votato per sostenere la creazione di uno stato ebraico. È quello che ha detto, quella risoluzione: uno stato ebraico. Allo stesso tempo, Israele è una democrazia vibrante, dove tutti i suoi cittadini - ebrei e non ebrei - godono di uguali diritti individuali, e questi diritti sono garantiti dalla legge. In Israele, che tu sia ebreo o arabo, cristiano o musulmano, druso o beduino o qualsiasi altra cosa, i tuoi diritti individuali sono esattamente gli stessi e rimarranno sempre gli stessi. In quel Medio Oriente, questo non è ovvio; in Medio Oriente, dove le donne sono spesso trattate come proprietà, le minoranze sono perseguitate, i gay sono impiccati, Israele si distingue come un brillante esempio di libertà e progresso.
      Signore e signori,
      Non potrei essere più orgoglioso di rappresentare il mio paese Israele. Sono orgoglioso del fatto che abbiamo reso Israele una potenza tecnologica globale di creatività strabiliante, nell'informatica, nell'agricoltura di precisione (sapete di cosa si tratta? Puntiamo il fertilizzante e l'acqua verso la singola pianta, non il campo, non la parte di un campo, fino alla pianta). Sono orgoglioso di questi geni, che portano questi sviluppi incredibili, nella gestione delle risorse idriche, nella sicurezza informatica, nei veicoli autonomi, nella salute digitale, nei dispositivi medici e in tanti altri campi che stanno migliorando la vita di miliardi di persone in tutto il mondo.
      Sono orgoglioso dei brillanti studiosi, imprenditori innovativi e artisti di talento di Israele. Sono orgoglioso degli insegnanti devoti di Israele, dei medici compassionevoli e delle nostre squadre di ricerca e salvataggio che salvano vite da Haiti al Messico, dal Nepal alle Filippine. Sono orgoglioso, sono orgogliosissimo dei soldati coraggiosi di Israele, degli uomini e delle donne che difendono coraggiosamente la nostra patria mentre sostengono i valori più alti.
      E soprattutto, Signore e Signori, soprattutto sono orgoglioso del popolo di Israele, che trae forza straordinaria dalle profonde sorgenti della nostra eredità, che possiedono uno spirito indissolubile e che sono determinati come sempre a costruire un sicuro e magnifico futuro per il solo ed unico stato ebraico.
      Grazie".
(Progetto Dreyfus, 30 settembre 2018)


Trump spinge per uno Stato palestinese. Netanyahu frena

di Giordano Stabile

Benjamin Netanyahu mette i paletti al piano di pace di Donald Trump. Il premier israeliano è rimasto sorpreso dall'improvviso sostegno del presidente americano alla nascita di uno Stato palestinese. Per due anni la Casa Bianca ha messo nell'angolo i palestinesi, ha spostato l'ambasciata a Gerusalemme, tagliato i fondi ai rifugiati. Ma aveva anche promesso qualcosa di «molto buono» in cambio delle concessioni fatte a Israele. E ora ha spiegato che l'accordo che preferisce, quello «che funziona meglio» è nel solco della soluzione «due popoli, due Stati». Il piano sarà presentato entro tre mesi dal consigliere della Casa Bianca, suo genero, Jared Kushner, che «ama Israele ma saprà essere onesto con i palestinesi».

 «Mai finché sarò premier»
  Netanyahu non ha mai escluso la possibilità della nascita di uno Stato palestinese, ma non è certo la sua prima scelta. Anche nel celebre discorso all'università di Bar Ilan, nel 2009, sotto la spinta di Obama, era rimasto prudente. L'arrivo di Trump sembrava aver seppellito la linea seguita fin dagli accordi di Oslo, e qualche mese fa il premier ha proposto uno «Stato minus», qualcosa in meno della piena sovranità e qualcosa in più di una semplice autonomia per Cisgiordania e Gaza. Dopo le dichiarazioni di Trump, è sembrato spiazzato. A New York ha spiegato che preferisce «parlare di sostanza, non di etichette». La parola Stato «può voler dire tante cose - ha continuato - persone diverse intendono cose diverse, che cosa intendo io? Non lo so, fate voi, voglio che i palestinesi si autogovernino, ma senza poterci fare del male».
Netanyahu deve fronteggiare anche gli alleati di destra nella coalizione: il ministro dell'Educazione e leader del partito Beit Yehudi Naftali Bennett ha minacciato di «uscire dal governo se nascerà uno Stato palestinese». Il ministro dell'Energia Yu - val Steinitz, del partito del premier, il Likud, ha proposto una «confederazione» fra Israele e la Cisgiordania. Per questo, il leader israeliano ha ribadito quali sono le linee invalicabili per Israele. Lo Stato palestinese dovrà essere demilitarizzato e «Israele dovrà avere la preminenza nel controllo della sicurezza, in ogni circostanza». Non ha escluso che l'accordo di pace possa arrivare durante il suo mandato, che scade l'anno prossimo, ma ha insistito: «Israele non cederà mai il controllo della sicurezza sulla sponda occidentale del Giordano. Non accadrà finché io sarà primo ministro e credo che anche gli americani lo capiscano».

(La Stampa, 30 settembre 2018)


Tamimi ricevuta dal Real Madrid

«Cosa c'entra con i valori del calcio?» ha twittato il portavoce del ministero degli Esteri.

Il prestigioso successo di una giovane attivista che ha il fondamentale compito di attivare l'odio contro Israele
La giovane attivista palestinese Ahed Tamimi è stata ricevuta ieri dal Real Madrid al Santiago Bernabeu, riferisce il sito Marca.com. Immediata la reazione di Israele. «Il prestigioso club del Real Madrid abbraccia una terrorista che incita all'odio e alla violenza».
«Vergognoso», ha commentato oggi su Twitter il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, per poi aggiungere in un altro tweet: «Cosa c'entra con i valori del calcio?».
Ahed Tamimi, 17 anni, era stata condannata da un tribunale militare israeliano a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato due soldati israeliani entrati nel villaggio cisgiordano dove risiede.
La ragazza è poi tornata in libertà lo scorso luglio diventando un simbolo della lotta dei palestinesi e suscitando molto seguito internazionale. Secondo il giornale sportivo spagnolo, Tamimi - questa settimana in visita in Spagna con la sua famiglia dove ha partecipato a diversi eventi politici e sociali - ha incontrato il team manager Emilio Butragueno, che le ha consegnato una maglia con il suo nome.

(tio.ch, 30 settembre 2018)


Chi alimenta l'odio contro Israele fornendo agli odiatori “nobili motivi” per farlo (in questo caso: la lotta contro l’"occupazione"), se è bravo riesce a far carriera. In questo caso, ad essere stata brava è la famiglia della giovane schiaffeggiatrice di soldati, che ha pensato con lungimiranza all’avvenire della loro figlia. Si osservi il video.M.C.


Belgio - Stop ai finanziamenti alle scuole palestinesi: sono intitolate ai terroristi

Il Belgio ha deciso di tagliere i fondi alle scuole palestinesi. Il ministero dell'Istruzione ha fatto sapere che il provvedimento è stato preso in seguito all'intitolazione di alcuni istituti a noti terroristi.
   Il dicastero belga ha sottolineato che prima di prendere la decisione aveva invitato più volte il Ministero della Pubblica Istruzione palestinese a invertire la rotta:
   "Finché i nomi delle scuole sono usati per glorificare il terrorismo, il Belgio non può più cooperare con il Ministero della Pubblica Istruzione palestinese e non darà budget per la costruzione di scuole. Il nostro Paese ha ripetutamente inviato la posizione belga al Ministero della Pubblica Istruzione palestinese".
   La nota del ministero belga ha continuato sottolineando che fin tanto non ci sarà un'inversione di tendenza sarà impossibile cooperare con la leadership palestinese nella costruzione di nuove scuole e nel potenziamento di quelle già esistenti.
   Come in occasione di un edificio scolastico costruito nel 2013 a Hebron grazie al finanziamento belga che prima venne inaugurato come scuola elementare per ragazze (Beit Awwa) e in seguito venne intitolato a Dalal Mughrabi, un terrorista palestinese che fece parte di un commando che nel 1978 uccise 38 persone, fra cui 13 bambini.
   Il Belgio, tuttavia, ha reso noto che continuerà a essere partner della leadership palestinese per lo sviluppo del settore privato promuovendo l'imprenditoria digitale e per il miglioramento dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti delle donne.
Il Belgio è stato il primo paese a prendere questo provvedimento, non chiudendo gli occhi davanti a un problema enorme: nelle scuole palestinesi si insegna l'odio e con l'odio non ci sarà mai quella pace che i palestinesi dicono di perseguire.

(Progetto Dreyfus, 28 settembre 2018)


ltalkim, un contributo sempre più incisivo

Gli italiani d’Israele

 
"I rapporti tra i nostri due Paesi vivono, ad ogni generazione, una nuova stagione di reciproco interesse, amicizia e curiosità". Così il presidente Sergio Mattarella descriveva il legame tra Italia e Israele, in visita a Gerusalemme nell'autunno 2016, nella prolusione che inaugurò l'anno accademico all'Università ebraica. Un legame incarnato più di ogni altra cosa dagli italkim, gli Italiani d'Israele. che decennio dopo decennio continuano a dimostrarsi un solido ponte tra i due mondi. A raccontare alcune delle storie più straordinarie è la mostra "70 anni di Israele: gli ltalkim e il loro contributo alla costruzione del paese", inaugurata a fine agosto al Museo d'Arte ebraica italiana u. Nahon. Realizzata nell'ambito delle celebrazioni del settantesimo anniversario dalla fondazione dello Stato, l'iniziativa mette in risalto l'apporto culturale, accademico e scientifico degli Italkim alla costruzione del paese, con le biografie di 23 italiani che salirono nella Palestina mandataria negli anni venti e Trenta, e di cui sei divennero vincitori del prestigioso Premio Israele. Tra questi Roberto Bachi (1909-1995), figlio dell'economista Riccardo, grande esperto di statistica che, emigrato dopo la promulgazione delle Leggi Razziste, dopo la sua fondazione organizzò i servizi statistici dello stato di Israele e ne diresse l'Istituto centrale dal 1949 al 1971, oltre a contribuire a fondare la Facoltà di Scienze sociali all'Università ebraica di Gerusalemme, dove fu professore ordinario, direttore di Dipartimento e pro-rettore. Ad arrivare a ricoprire l'incarico di rettore del prestigioso ateneo fu Giulio Racah (1909-1965), un altro protagonista della mostra. Fisico che fu tra l'altro allievo di Enrico Fermi, i suoi studi sulla spettroscopia gli valsero la fama di grande scienziato nel mondo. Dopo la morte per un tragico e fortuito incidente a Firenze, ancora oggi il Dipartimento di Fisica dell'Università porta il suo nome.
   E appunto, generazione dopo generazione, studiosi, imprenditori, intellettuali continuano ad affermarsi protagonisti della vita dello stato ebraico. Per restare nell'ambito dei Musei, il Nahon continua a rappresentare un'istituzione di punta del panorama culturale del paese (e Andreina contessa, per anni sua curatrice, è stata nominata nel 2017 direttore del Museo e Parco del castello di Miramare a Trieste). Ma anche il Museo di Arte contemporanea di Tel Aviv ha scelto alla sua guida un'italkià, Tania Coen Uzzielli, già a capo dei servizi curatoriali del Museo d'Israele e membro del comitato scientifico del Museo dell'Ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara. "È una nomina di cui sono felice e credo che renda onore all'ebraismo italiano", aveva dichiarato Coen Uzzielli in occasione della sua nomina lo scorso giugno. Se i numeri delle aliyot rimangono contenuti rispetto a quello da altri paesi come Francia o Stati uniti «negli ultimi anni il picco è stato nel 2014, con poco oltre 300 persone», il ruolo degli italkim nella società continua a mantenersi importante. E in parallelo crescono i rapporti tra istituzioni e università, specie quelli improntati alla ricerca scientifica: solo a giugno 2018, l'lsrael-ltalv Joint lnnovation council for Industriai, Scientific, and Technological cooperation in R&D ha annunciato nuovi investimenti per quattro milioni di euro all'anno per promuovere otto progetti accademici e sei di cooperazione industriale. "La cooperazione bilaterale tra Italia e Israele è tra le più fruttuose - ha commentato il ministro per l'Economia e l'industria Eli Cohen - In 17 anni di lavoro comune sono stati finanziati circa cento progetti nell'ambito industriale e decine in ambito scientifico".

(Pagine Ebraiche, settembre 2018)



L'uomo saggio del Talmud

Una biografia di Rabbi Akiva. È il personaggio più citato nella letteratura rabbinica nonostante non esistano prove storiche della sua esistenza

di Anna Foa

Rabbi Akiva, descritto come «il capo di tutti i saggi», è il personaggio più citato nella letteratura rabbinica, 1341 volte soltanto nel Talmud babilonese e centinaia di volte nel Talmud di Gerusalemme e nella letteratura midrashica. Eppure, di lui sappiamo molto poco, e nessuna fonte esterna al mondo ebraico lo ricorda. È stato dedotto che fosse nato prima della distruzione del Tempio, intorno al 50 dell'era cristiana, e morto durante la rivolta di Bar Kochba, intorno al 135, giustiziato dai romani. Non esistono però prove storiche della sua esistenza, anche se nulla ci suggerisce che si tratti di una figura immaginaria.
   Di questo personaggio, al tempo stesso famosissimo ed evanescente, Barry Holtz, docente al Jewish Theological Seminary of America e studioso raffinato della letteratura rabbinica, ci propone qui una biografia, Rabbi Akiva. L'uomo saggio del Talmud (Torino, Bollati Boringhieri, 2018, pagine 203, euro 26). Non è il primo, dal momento che su Akiva sono stati scritti studi e perfino romanzi. Ma Holtz è estremamente consapevole delle difficoltà di un simile proposito, tanto da porle tutte sul tavolo in apertura del libro. Non esiste nel mondo ebraico, a differenza che in quello greco-romano, una tradizione biografica. Le fonti rabbiniche che ci parlano di lui, in particolare il Talmud babilonese, sono posteriori alla sua vita anche di centinaia di anni, e sono per di più indifferenti al problema di ogni biografia, la collocazione nel tempo del proprio oggetto. Inoltre, sono fonti sparpagliate, senza nessuna pretesa di sistematicità e di coerenza, in testi innumerevoli e di epoche differenti.
   E ancora, si domanda l'autore, collocando Akiva nel suo periodo storico, cos'era allora un ebreo? Cos'era un rabbino, cos'era la sinagoga? Siamo poco dopo l'inizio dell'era rabbinica, maestri di Akiva furono, secondo la tradizione, Rabbi Eliezer e Rabbi Joshua, a loro volta allievi di Johanan ben Zakkai, considerato il fondatore dell'ebraismo rabbinico dopo la caduta del Tempio, anche lui una figura più mitica che storica e sulla cui stessa esistenza sono stati formulati dubbi. Siamo, comunque, nel momento iniziale dell'ebraismo rabbinico. Quanto alle sinagoghe, se con il 70 il Tempio viene distrutto, è pur vero che le sinagoghe appaiono prima della sua distruzione, ma si tratta di realtà molto diverse da come si struttureranno nel tempo. Gli stessi dubbi circondano la natura della figura rabbinica, molto diversa da quella dei secoli successivi. E allora? Come procedere?
   Il risultato è un libro al tempo stesso serio e documentato e di piacevole lettura, in dialogo continuo con le sue fonti. Un testo in cui ci si propone di dare una risposta non alla domanda «Chi era Akiva?» ma a quella «Perché e come Akiva è rimasto nel mondo rabbinico a personificare il sapiente, l'ebreo, il rabbino, per non parlare poi del suo martirio, rimasto emblematico nei secoli?». Perché ci si è ricordati di lui, quindi, e cosa ha rappresentato la sua memoria?
   Incrociando le fonti e interrogandole con finezza interpretativa, Holtz arriva a definire alcuni tratti della personalità di Akiva, un uomo di grandissimo valore intellettuale che si è fatto da sé, in un mondo in cui gli studiosi discendono da famiglie importanti; un uomo al tempo stesso modesto e consapevole della sua superiorità intellettuale; un grande studioso di mistica; colui che ha consentito, nella discussione tra rabbini riportata nella Mishna, l'ingresso del Cantico dei Cantici nel canone biblico ebraico; colui che ha appoggiato la rivolta antiromana di Bar Kochba e ha offerto alla cultura ebraica un modello insuperato di martirio, morendo con le parole dello Shemà in bocca. E molte altre cose ancora, lette tra le righe dei testi rabbinici, decodificate, interpretate nella volontà della cultura rabbinica di crearsi dei modelli, una tradizione, un'esegesi.
   Restano naturalmente molti punti oscuri, là dove le fonti si contraddicono, o dove troppo scoperto è l'intento delle fonti più tarde di reinterpretare in chiave celebrativa gli inizi dell'era rabbinica. Non sappiamo perché e come Akiva abbia iniziato a studiare. Le fonti sono discordanti, secondo alcune a quarant'anni, da solo, secondo altre giovanissimo, spinto dalla moglie. Resta il mistero dei 24 anni passati nello studio e dei suoi ventiquattromila allievi morti secondo la leggenda. O del Pardès, il frutteto, in cui secondo i testi rabbinici, entrarono quattro rabbini e da cui solo Rabbi Akiva uscì indenne, una delle storie più commentate dell'intera letteratura rabbinica. Ciò nonostante, di Akiva sappiamo poco. Ma la realtà della sua vita non è, secondo Holtz, importante. Come ha scritto il grande studioso Ahad Ha'am, a proposito non di Akiva ma di Mosé, «quel che importava non era necessariamente quel che accadde storicamente, ma quel che penetrò nella coscienza storica».
   Ecco quello che in questo bel libro Holtz vuole raccontare: «Un uomo nella comunità dei maestri, che discute di Torah, preparando il campo al futuro».

(L'Osservatore Romano, 30 settembre 2018)



«Non far suonare la tromba davanti a te»

«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini, per essere osservati da loro; altrimenti non ne avrete premio presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l'elemosina, non far suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma quando tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra, affinché la tua elemosina sia fatta in segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa.»

Dal Vangelo di Matteo, cap. 6

 


La Russia si offre come mediatore tra Israele e Iran

La Russia è pronta a fornire una "piattaforma conveniente" per i negoziati tra Iran e Israele, ha dichiarato il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov.

"Da molti anni portiamo avanti l'idea per la creazione di un sistema di sicurezza nella zona del Golfo Persico. Siamo favorevoli affinché venga instaurata questa cooperazione. Anche senza collaborazione, prima di tutto si dovrebbe almeno iniziare a parlare. Se saremo percepiti da entrambe le parti (Iran e Israele — ndr) come una piattaforma conveniente dove potersi incontrare, saremo solo felici", ha detto il capo della diplomazia russa in una conferenza stampa a margine dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York.
Allo stesso tempo Lavrov ha definito ingenua la volontà di isolare l'Iran.

(Sputnik Italia, 29 settembre 2018)


Olbia, Tavolara: onorati i nostri Giusti fra le Nazioni

OLBIA - Non bisogna mai dimenticare il passato, ma soprattutto bisogna rendere merito a chi nel passato ha compiuto gesti eroici come aver salvato degli ebrei dalle retate naziste durante la seconda guerra mondiale.
   A Tavolara, ieri - grazie a una iniziativa dell'Anpi, è successo proprio questo: sono stati onorati Bianca Ripepi e Girolamo Sotgiu, i nostri Giusti fra le Nazioni: l'onorificenza dello Stato di Israele dedicata a chi, in quei tempi bui, si è distinto salvando vite in pericolo.
   A narrare questa bellissima cerimonia è Marella Giovannelli. Ecco il suo racconto condiviso sui social network.
"Un vecchio tronco ritorto di ginepro da ieri pomeriggio onora, nel piccolo cimitero di Tavolara, la tomba di Girolamo e Bianca Sotgiu "Giusti fra le Nazioni" per avere salvato diversi ebrei dopo l'otto settembre del 1943. Su iniziativa di Domenico Piccinnu, presidente dell'ANPI Olbia-Tempio, è stata organizzata una toccante cerimonia che ha coinvolto i familiari e diversi rappresentanti istituzionali del territorio capitanati da Sabrina Serra, assessore alla Cultura del Comune di Olbia. All'incontro hanno partecipato numerosi iscritti ANPI di tutta Italia e la presidente nazionale dell'associazione Carla Nespolo. E' stata lei a ricordare per prima la figura dei Sotgiu che, quarant'anni fa, ricevettero nella loro casa di Tavolara, l'allora senatrice Nespolo insieme allo storico Lucio Villari. Ha quindi rievocato le serate trascorse a parlare di politica e storia, a lume di candela perché a quei tempi, a Tavolara non c'era ancora l'elettricità. Commosso l'intervento di Federica, figlia di Girolamo Sotgiu e Bianca Ripepi che nel suo libro "Da Tavolara a Rodi" ha raccontato la vita sua e del marito, entrambi antifascisti militanti. La stessa Bianca partecipò, da dirigente politico, alle lotte per l'emancipazione femminile e per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori agricoli in Sardegna. Presente alla cerimonia Tonino Bertoleoni, il "re" di Tavolara con la sua famiglia. Assente giustificata Lina Kantor che nel 1944 aveva otto anni e viveva a Rodi. Nella stessa città abitavano Girolamo e Bianca Sotgiu che salvarono diversi ebrei aiutandoli a fuggire. Quando il padre e la madre della piccola Lina furono catturati dai tedeschi e deportati, i Sotgiu per salvarla la adottarono falsificando dei documenti. - Senza l'intervento, provvidenziale e coraggioso dei Sotgiu, io sarei finita in un campo di sterminio. - dichiarò due anni fa Lina Kantor, arrivata in Sardegna dal Sud Africa per conoscere i discendenti di Girolamo e Bianca Sotgiu. E grazie alla sua testimonianza l'Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ha deciso di inserire i Sotgiu tra i Giusti".

(Olbia.it, 29 settembre 2018)


Le navi della speranza che lasciarono l'Italia per raggiungere Israele

Il senso più profondo dell'ultimo libro di Alberto Cavanna è racchiuso in una frase che si legge al termine della bandella «Perché il male per quanto grande può essere attraversato, lasciato alle spalle. Come il mare». Nel suo «Ma forse un dio» edito per i tipi di Cairo lo scrittore ligure, che più volte abbiamo recensito nel nostro angolo del mare, racconta del grande esodo degli ebrei alla fine della seconda guerra mondiale verso Israele. Nel 1943 la città di La Spezia passa alla storia come la Porta di Sion perché diviene il principale porto di imbarco, sono decine le navi dei migranti cariche all'inverosimile che affrontano un viaggio pericoloso, un difficile collo di bottiglia fatto di visti in tempo di guerra, un lasciapassare che fa la differenza tra la vita e la morte. Così viene subito da pensare che in ogni epoca ci sia un grande esodo come quello a cui stiamo assistendo senza comprenderne la portata.
   Il libro di Cavanna, però, non affonda nel blu intenso del mare, nella sua crudezza è assolutorio narrando la storia della giovane ebrea Anna Della Seta e del balilla della Lunigiana Ettore Sbarra. Due destini che si incrociano e si ritrovano nel lungo viaggio per mare verso Israele raccontato come solo la penna di Cavanna riesce a fare. Lui è uno scrittore vero e ce ne sono pochi nella nostra epoca.
   Questo racconto mi riporta ad un altro libro che vi consiglio, l'autrice è Ada Sereni e si intitola «I clandestini del mare» (Mursia editore), una storia a tratti ancora più forte perché narrata dalla viva voce di una protagonista. Ada Sereni è stata responsabile delle relazioni internazionali del movimento dell' Aliàh Bet, che si occupava proprio di portare in Israele gli ebrei italiani. La sua è stata una vita eroica e avventurosa, insieme al marito Enzo Sereni che poi morì a Dachau fondò uno dei primi kibbutz, quello di Ghivat Brenner, nei pressi di Tel Aviv.
   Si stima che almeno 25.000 persone partirono dalle coste italiane fra l'estate del 1945 e il maggio del 1948 verso Erez Israel, la terra d'Israele ancora sotto mandato britannico e chiusa all'immigrazione ma non va dimenticato che questo esodo riguardò anche la nostra Puglia ed in particolare il Salento dove sorserò molti campi profughi. A Tricase, Santa Caterina di Nardò, Santa Maria di Leuca e Santa Cesarea Terme vennero ospitati soprattutto ebrei askenaziti ma il campo più grande fu a Santa Maria al Bagno. Le autorità militari lo indicarono con la dicitura «Dìsplaced Persons Camp numero 34». Santa Maria al Bagno era un borgo di pescatori, fatto di semplici costruzioni e abitato da gente tranquilla, un luogo perfetto in cui inviare i profughi ebrei. Nel campo - si legge su finti web - venne allestita una Sinagoga e sorsero una scuola, un ospedale e il servizio postale. Inoltre, furono attivati corsi di falegnameria, maglieria, sartoria, scrittura a macchina, meccanica o pesca per gli adulti. I profughi venivano sfamati alla mensa gestita dall'Unrra e avevano a disposizione alimenti come la cioccolata, il pane caldo e la carne, tutto cibo insolito per i salentini, che avevano conosciuto la fame nel periodo della guerra. Il male, come il mare, può essere lasciato alle spalle.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 29 settembre 2018)


Livorno piange Paolo Belforte, storico editore di libri ebraici

Addio all'editore e libraio Paolo Belforte, morto a 95 anni, erede e il continuatore della storica casa editrice Salomone Belforte e C. fondata nel 1834 a Livorno, ma già attiva dal 1805 nella pubblicazione di libri ebraici.

(Nazione-Carlino-Giorno, 29 settembre 2018)


MERKAVA: il carro di fuoco degli israeliani

 
MERKAVA
La nuova versione dell'MBT MERKAVA, la Mk-4 apparsa per la prima volta in pubblico nel giugno del 2002, costituisce la quarta generazione del modello originale Mk-1, la cui progettazione iniziò alla fine della guerra del Kippur e che vide il primo impiego operativo nel corso della campagna del Libano del 1982.
  Il MERKAVA Mk-4, che con le sue 65 tonnellate è forse il carro più pesante del mondo, è equipaggiato con il cannone MG-251 da 120/44 mm ad anima liscia, costruito in Israele dalla IMI Slavin Land System Division e progettato per tollerare pressioni interne più elevate del precedente 120/44 della Rheinmetall, in modo tale da poter consentire una maggiore velocità iniziale in funzione dell'impiego di un avanzato tipo di munizionamento ad energia cinetica. La massa rinculante dell'MG-251 è di 2.000 kg, la medesima del precedente modello tedesco, ma il suo sistema di assorbimento del rinculo è più compatto. Il cannone può impiegare tutti i tipi di munizionamento oggi esistenti, compresi proietti APFSDS ad energia cinetica, HEAT (High-Explosive Antitank), APAM (Antipersonnel/Antimaterial), oltre al missile a guida laser LAHAT (Lase-Homing Antitank).
  Il servente può prelevare i proietti da un magazzino costituito da due tamburi rotanti sistemati nella controcarena posteriore. Il sistema di caricamento semiautomatico, che contiene 10 colpi di pronto impiego di quattro tipi diversi, selezionabili in automatico, viene azionato elettronicamente e la selezione dei colpi di pronto impiego viene controllata mediante un microprocessore.
  Il carro è dotato di un avanzato sistema per il controllo del tiro integrato, incentrato su una versione migliorata del visore KNIGHT Mk-3 della Elbit, che utilizza calcoli balistici effettuati da un modernissimo computer il cui software è concepito per tenere in considerazione tutti i parametri che influenzano l'equazione balistica. Accanto al visore migliorato KNIGHT Mk-3, stabilizzato su due assi per il cannoniere, sull'Mk-4 è presente anche un sistema di osservazione panoramico stabilizzato su due assi per il capocarro, entrambi dotati di un avanzato sistema FLIR (camera termica) e di uno schermo TV per i canali di osservazione diurna e notturna, che contribuiscono ad incrementare notevolmente la probabilità di centrare il bersaglio al primo colpo.
  Un sistema automatico di tracking (ATS, Automatic Tracking System) della seconda generazione aggancia il bersaglio a una distanza di alcuni chilometri, inseguendolo automaticamente sia che si tratti di mezzi in movimento sul terreno, sia che si tratti di elicotteri in volo a bassa quota. Il mirino del cannoniere inizia quindi la sequenza di fuoco, indipendentemente da qualsiasi azione evasiva che il bersaglio possa compiere quando si accorge di essere sotto attacco.
  Per quanto riguarda la protezione, dato che il MERKAVA Mk-4 è stato progettato per i moderni campi di battaglia, la massima attenzione è stata data al miglioramento delle capacità di sopravvivenza nei confronti dei sistemi controcarro della terza e della quarta generazione, con particolare attenzione ai missili a guida terminale dotati di profilo d'attacco dall'alto. Per assicurare la massima protezione della parte superiore della torretta, il portello del servente è stato eliminato. Ciò permette di utilizzare un'ampia gamma di sistemi di protezione modulare - costituita da corazzature ibride - sul cielo della torretta stessa, nonché sull'intera superficie del carro.Per la difesa perimetrale l'Mk-4 è dotato del sistema di allarme laser Amcoram LWS-2, i cui sensori sono in grado di scoprire missili in avvicinamento subito dopo il lancio. Nell' LWS-2 è incorporato un avanzato sistema difensivo, denominato TROPHY Active Protection System (APS), il cui funzionamento è basato sull'associazione di un radar di ricerca e tracking IAI Elta, che è destinato alla scoperta delle minacce in arrivo, con un dispositivo di lancio per contromisure hard-kill. Dopo l'individuazione di un ordigno potenzialmente pericoloso, il TROPHY inizia automaticamente il processo di intercettazione che neutralizza la minaccia ad una distanza di sicurezza. Il subsistema radar è costituito da 4 antenne fisse di cui 2 sul tetto della torretta rivolte in avanti e le restanti 2 dietro la controcarena posteriore della medesima.
  I due lanciatori per contromisure hard-kill sono ubicati ai due lati della torretta e ciascuno copre un arco di 210o. Il TROPHY è efficace, sia contro i missili controcarro a lunga gittata, sia contro i sistemi a breve gittata e fornisce una protezione sui 360o. Ha inoltre la capacità di fronteggiare minacce dall'alto.
  L'apparato di propulsione dell'Mk-4 è costituito da un turbodiesel ad iniezione diretta da 1.500 Hp a 3.700 giri/min., raffreddato a liquido, General Dynamics GD 883. La sua caratteristica più evidente è la compattezza. Rispetto al motore del LEOPARD 2, esso presenta un volume specifico pari solo al 60%; in particolare l'altezza è pari a 656 mm (contro 845) mentre la larghezza è limitata a 940 mm (contro 1.060).
  L'Mk-4 è stato impiegato per la prima volta in Libano, nel corso dell'operazione PIOGGIA D'ESTATE, e 18 di essi sono stati messi fuori combattimento a causa di missili anticarro a carica in tandem. Le perdite tutto sommato elevate, visto che gli Hezbollah non allineavano nessun carro per tener testa agli Mk-4, sono state attribuite alle lacune nel programma di addestramento generale del Corpo corazzato e la mancanza di preparazione sia a livello di equipaggi, sia di unità costituite.
  Il Tsahal ha cominciato a modificare la propria dottrina operativa, plasmandola su un concetto di guerra asimmetrica, in cui l'avversario, che prima era convenzionale, ora è diventato non convenzionale, e dove il carro, che prima combatteva contro carri nemici e osservava a grande distanza, deve affrontare sempre più spesso piccole squadre fortemente armate con sistemi anticarro.

(Difesa Online, 28 settembre 2018)


L’agenzia Onu per i rifugiati palestinese UNRWA ottiene 118 milioni di dollari

NEW YORK - L'agenzia Onu per i rifugiati palestinese UNRWA ha ricevuto un impegno per il pagamento di un totale di 118 milioni di dollari da parte di paesi donatori per aiutarla a superare una crisi scatenata dai tagli dei finanziamenti Usa. Lo ha detto oggi il ministro degli esteri giordano.
Germania, Svezia, Unione europea, Turchia e Giappone sono stati tra i paesi che si sono fatti avanti con fondi supplementari per l'UNRWA nel corso di una riunione tenutasi ieri a margine dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha detto Ayman Safadi in una conferenza stampa.

(Pars Today, 28 settembre 2018)


Netanyahu all'Onu. Tutti i messaggi rivolti agli amici e ai nemici di Israele

di Giovanni Quer

Dopo la rivelazione a maggio dell'archivio segreto sul nucleare custodito alla periferia di Teheran, Netanyahu ha rivelato un nuovo segreto: un "arsenale" nucleare nascosto in un magazzino nella capitale iraniana
  Il decimo discorso di Netanyahu all'Onu è forse il suo migliore atto politico-retorico. Ha concentrato in quaranta minuti i messaggi più importanti di Israele al mondo, incominciando dall'Iran. Dal 2011, Netanyahu ha parlato all'Onu di un argomento principale: l'Iran e il nucleare. Con il suo stile che mescola enfasi, ironia, sicurezza e strumenti visuali, Netanyahu ha questa volta parlato non solo di Iran, ma anche della pace con gli Stati arabi e coi palestinesi e della delegittimazione di Israele.
  Dopo la rivelazione a maggio dell'archivio segreto sul nucleare custodito alla periferia di Teheran, Netanyahu ha rivelato un nuovo segreto: un "arsenale" nucleare nascosto in un magazzino nella capitale iraniana. Mostrando una foto satellitare, Netanyahu indica il posto dove sarebbero state nascoste 300 tonnellate di materiale nucleare, non lontano dallo stesso sito dove si trovava l'archivio trafugato. Scherzosamente, Netanyahu invita ad andare su Google Earth a vedere le immagini delle strade di Teheran. "Hanno passato gli ultimi mesi a ripulire l'arsenale", continua Netanyahu, che allude a 50 kg di materiale radioattivo sparpagliato per tutta Teheran. Sempre con tono ironico, invita i residenti di Teheran a comperare un misuratore di radioattività su Amazon per verificare personalmente.
  A proposito del sito nucleare, Netanyahu si rivolge all'Iaea (l'organizzazione per l'energia atomica: "Fate la cosa giusta, andate a vedere"). Il primo di una serie di messaggi che accusano l'organizzazione di inerzia, disinteresse e quasi inadeguatezza.
  Non spende nemmeno una parola sul regime, perché il messaggio che vuol far arrivare non è l'intenzione di far cadere il potere degli ayatollah. In compenso ricorda le attività terroristiche dell'Iran, compresi i due piani di attacchi terroristici negli Usa e in Europa di recente sventati e loda il popolo iraniano che protesta contro la crisi economica dovuta alla politica di guerra e destabilizzazione del regime.
  Sempre continuando sugli avvertimenti all'Iran, Netanyahu passa a redarguire Hezbollah: "Israele sa cosa state facendo, Israele sa dove lo state facendo, e Israele non ve la lascerà passare". Il premier israeliano accusa Hezbollah di usare gli abitanti di Beirut come scudi umani, rivelando che l'organizzazione terroristica sciita starebbe nascondendo arsenali di missili ad alta precisione in tre punti nel distretti Ouzai del quartiere "Dahiyye" di Beirut, vicino all'aeroporto e controllato da Hezbollah. L'uso dell'espressione "scudi umani" è un chiaro avvertimento alla popolazione civile libanese, messa in pericolo dagli arsenali delle milizie del Partito di Allah in caso di un attacco israeliano.
  Che le parole di Netanyahu si riferiscano a Beirut, Gaza o Damasco, poco importa, perché pare parlare sempre all'Iran: "Israele agirà contro l'Iran ovunque e in qualsiasi momento", avvertendo quindi anche la Russia che Gerusalemme non ha intenzione di cambiare la politica in Siria contro il consolidamento della presenza militare delle Guardie della Rivoluzione iraniane.
  E sempre sull'Iran, Netanyahu continua il suo discorso rivolgendosi all'Europa, accusando il Vecchio continente di ostacolare la politica di Trump, e invitando gli Stati europei a unirsi alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, che l'Ue sta cercando di circonvenire. In un accorato appello all'Europa, Netanyahu chiede "non avete imparato dalla storia?" Il premier israeliano accusa apertamente la politica di appeasement europea, la volontà di pace a tutti i costi, che impedisce di riconoscere e combattere i pericoli.
  Ma non è tutto negativo l'accordo sul nucleare iraniano, dice Netanyahu, "ci sono delle conseguenze positive, non intenzionali, ma positive". L'accordo cui Israele si è opposta oltre ogni limite, che ha sempre criticato, e da cui gli Stati Uniti si sono ora ritirati, ha avvicinato Israele e molti Stati arabi che hanno il comune interesse di combattere il nemico iraniano. Netanyahu parla di stretti rapporti e di amicizia, che spera potranno portare alla pace, compresi i palestinesi.
  E qui, Netanyahu risponde alle accuse di Abu Mazen, che lo ha preceduto: Israele ricorda l'apartheid del Sudafrica, Usa in favore di Israele, Corte Suprema di Israele cancella la storia, "tutta Gerusalemme Est" capitale della Palestina, lode ai "martiri e prigionieri di guerra". Netanyahu rifiuta lezioni morali dal leader palestinese, ricordando che ha scritto una tesi di dottorato negazionista, che amministra un'entità che prevede la pena di morte per chi vende proprietà a ebrei, e che paga terroristi che "hanno ucciso ebrei". In un appello accorato, Netanyahu ricorda che Hamas ancora tiene in ostaggio le salme di due soldati dal 2014, e due cittadini israeliani Avera Mengistu e Hisham al-Sayed.
  All'Onu e al mondo Netanyahu dice chiaramente che le accuse di razzismo sono assurde, perché Israele riconosce e protegge il principio di eguaglianza. Sottolineando come tutti i cittadini abbiano eguali diritti individuali, Netanyahu difende la Legge sullo Stato Nazione, poiché Israele è uno Stato "ebraico e democratico" come lo hanno voluto la Lega delle Nazioni e le Nazioni Unite.
  Il linguaggio ufficiale dei ministeri israeliani pare confondere i diritti individuali e quelli collettivi. Con l'obiettivo di difendere il diritto collettivo all'autodeterminazione del popolo ebraico, i politici israeliani parlano di "diritti individuali" riconosciuti alle minoranze, quando invece il sistema giuridico riconosce anche diritti collettivi. La complessità giuridica e politica evidentemente si adatta male al "branding". Il messaggio di Netanyahu è chiaro: basta con la delegittimazione di Israele, che riconosce e protegge diritti delle minoranze, delle donne, delle comunità Lgbt, contrariamente a molti altri Stati al mondo che pure non sono oggetto di così tanta attenzione da parte dell'Onu e delle sue agenzie.
  In questo senso, il premier israeliano ringrazia il Presidente Donald Trump e la rappresentante americana all'Onu Nikki Haley per il sostegno a Israele di fronte ai tentativi di riscrivere la storia all'Unesco, di demonizzare Israele al Consiglio dei Diritti Umani "in bancarotta morale", di perpetuare il conflitto attraverso le attività dell'Unrwa. Cos'è tutto questo se non "il vecchio antisemitismo, con una nuova faccia?" chiede Netanyahu all'assemblea.
  Come reagirà l'Iran? La politica degli Stati Uniti si mantiene sulla linea del minimo intervento in Siria, ma è pronta a difendere le posizioni di Israele con la Russia, che imperturbata appoggia Assad. L'Iran sta nuovamente attraversando una crisi economica causata dalle prime sanzioni americane, che l'Europa sembra voler bypassare senza pensare alla possibilità di spingere per un cambiamento della politica militare e forse anche del regime iraniani. Ma sotto pressione americana, e forse prossima pressione internazionale dopo le rivelazioni di Netanyahu, l'Iran potrebbe decidere di sferrare un attacco, attraverso Hezbollah, che ha un saldo controllo sul Libano, e Hamas, che continua una politica di guerra "soffusa" con manifestazioni ai confini di Gaza e a tratti con lancio di missili.
  E come reagirà Abu Mazen? Messo alle strette da una chiara politica americana e da qualche Stato europeo che chiede conto del finanziamento dei terroristi, Abu Mazen sente di perdere appoggio sia internazionale sia interno. La sua popolarità è ai minimi storici nella West Bank e a Gaza non riconoscono la sua autorità, additandolo come responsabile della crisi umanitaria per via delle sanzioni imposte a Hamas. Favorire un'ondata di attacchi terroristici per la difesa di "al-Aqsa" potrebbe essere una via per riguadagnare consensi (come lo è stato nel 2015 e nel 2016). Cedere alle pressioni e incominciare a trattare sarebbe la sua fine, dopo troppi anni passati a creare una mentalità di rifiuto alla normalizzazione dei rapporti con Israele.

(formiche.net, 28 settembre 2018)


"Razzismo in cattedra", mostra al museo Sartorio di Trieste

Sarà inaugurata il 4 ottobre al museo Sartorio di Trieste la mostra sulle leggi razziali "Razzismo in cattedra" del liceo Petrarca, sospesa dopo che il Comune aveva invitato alla "prudenza" sulla scelta della locandina, la quale ritraeva tre ragazze sorridenti e una prima pagina del 'Piccolo', risalente al 1938, che annunciava la cacciata di insegnanti e studenti ebrei da scuola.
"Il Comune - spiega la dirigente scolastica Cesira Militello - ha concesso le sale del museo Sartorio per l'allestimento e il manifesto originale è stato accettato". La situazione di stallo si è "risolta", osserva Militello: "il manifesto è in fase di stampa e la mostra sarà visitabile fino al 14 ottobre". Saranno esposti documenti scolastici, fotografie e giornali dell'epoca; pagelle e quaderni degli ex alunni del Petrarca. "Stiamo valutando di avviare un nuovo progetto di alternanza scuola-lavoro per realizzare una versione digitale della mostra perché possa essere fruibile dalle città che si sono offerte di ospitarla".

(ANSA, 28 settembre 2018)


Palestinesi: Sputare nel pozzo

In realtà, i palestinesi hanno un messaggio prioritario per l'amministrazione statunitense ed è: vi odiamo e sobilliamo contro di voi, ma ci aspettiamo che continuerete a erogarci denaro contante per miliardi di dollari. E quando cercherete di aiutarci, ci riserveremo il diritto di sputarvi in faccia.

di Bassam Tawil


   Ancora una volta, i palestinesi inviano messaggi contrastanti in merito alla loro posizione nei confronti dell'amministrazione del presidente americano Donald Trump. Da un lato, i palestinesi condannano l'amministrazione Trump per la sua decisione di tagliare tutti gli aiuti americani all'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA); dall'altro, sono contrari a qualsiasi piano dell'amministrazione americana per fornire loro aiuti finanziari e migliorare le condizioni di vita.
   Questa posizione palestinese non è soltanto un doppio gioco, ma riflette altresì lo stato di confusione e incertezza che regna tra la leadership palestinese a Ramallah in particolare e la popolazione palestinese in generale.
   In realtà, i palestinesi hanno un messaggio prioritario per l'amministrazione statunitense ed è: vi odiamo e sobilliamo contro di voi, ma ci aspettiamo che continuerete a erogarci denaro contante per miliardi di dollari. E quando cercherete di aiutarci, ci riserveremo il diritto di sputarvi in faccia.
   È questo il messaggio - nonostante l'offuscamento molto ipocrita - che i palestinesi cercano da tempo di comunicare agli Stati Uniti.
   E ora i fatti.
   Il 4 settembre scorso, i palestinesi hanno inscenato una protesta a Ramallah contro la decisione dell'amministrazione Trump di sospendere gli aiuti americani all'UNRWA. Durante le proteste davanti alla America House (il centro educativo e culturale che appartiene al Consolato generale americano con sede a Ramallah, la capitale de facto dei palestinesi), i palestinesi hanno bruciato le foto di Trump e di alcuni dei suoi alti rappresentanti, come l'ambasciatore americano in Israele David Friedman e i consiglieri presidenziali Jared Kushner e Jason Greenblatt. I manifestanti hanno scandito slogan di condanna nei confronti dell'amministrazione Trump, accusandola di essere "pienamente complice" di Israele nella sua "aggressione e guerra" contro i palestinesi.
   In altre parole, i manifestanti palestinesi, tra cui gli alti funzionari di Fatah, la fazione al potere del presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, chiedono che gli Stati Uniti continuino a finanziare i "profughi" palestinesi attraverso l'UNRWA. Il messaggio che i manifestanti hanno inviato all'amministrazione Trump è il seguente: Guardate, bruciamo le foto del vostro presidente e degli alti funzionari, e vi odiamo, perciò vi preghiamo di continuare a darci milioni di dollari ogni anno.
   Come di recente osservato in un altro articolo pubblicato dal Gatestone, in arabo questo è chiamato wakaha (impudenza o audacia). Ci vuole molta wakaha per sputare in faccia a qualcuno e poi tendere la mano per elemosinare denaro.
   Il giorno successivo alle proteste di Ramallah, manifestanti palestinesi a Gerusalemme Est hanno cercato di impedire a un gruppo di imprenditori palestinesi di partecipare a un incontro organizzato dal Consolato generale americano. Indovinate un po' chi ha guidato le proteste contro il meeting che era finalizzato ad arrecare vantaggi ai residenti arabi di Gerusalemme? Gli attivisti di Fatah, la fazione di Abbas: Shadi Mtour e Awad Salaymeh. I manifestanti si sono radunati all'esterno del Notre Dame Hotel, situato proprio di fronte alla Porta Nuova della Città Vecchia, e hanno impedito agli imprenditori di entrare nell'edificio.
   Mtour ha affermato che l'incontro organizzato dal Consolato generale degli Stati Uniti è stato un tentativo di "scavalcare la leadership palestinese" di Ramallah. "Questo è inaccettabile perché appoggiamo la posizione ufficiale palestinese di boicottare l'amministrazione statunitense", egli ha detto. Ha inoltre dichiarato che alcuni degli imprenditori hanno distolto lo sguardo alla vista dei manifestanti. Tuttavia, Mtour ha espresso il suo profondo disappunto per il fatto che altri abbiano preferito ignorare le proteste e partecipato all'incontro. E ha aggiunto: "Vergogna a loro e a chiunque accetti di scendere a compromessi su Gerusalemme".
   Salaymeh, da parte sua, ha accusato i partecipanti palestinesi al meeting di promuovere la "normalizzazione" con Israele e gli Stati Uniti, perché, come egli ha asserito, Stati Uniti e Israele sono "due facce della stessa medaglia".
   Nel caso in cui nessuno l'avesse notato, Mtour e Salaymeh sono entrambi membri di Fatah, la fazione che domina e controlla l'Autorità palestinese. L'intera esistenza di Fatah dipende essenzialmente dagli aiuti finanziari degli Stati Uniti, dell'Ue e di altri donatori occidentali.
   Così, mentre i manifestanti chiedevano a Ramallah che gli Stati Uniti revocassero la decisione di tagliare i fondi all'UNRWA, gli uomini di Abbas a Gerusalemme Est hanno cercato di bloccare una riunione patrocinata dagli Stati Uniti per discutere in che modo aiutare l'economia palestinese.
   Questo non è stato il primo episodio in cui i palestinesi hanno rifiutato un tentativo da parte degli americani di aiutarli. Lo scorso mese di luglio, i palestinesi hanno ostacolato una visita programmata alla città di Nablus, in Cisgiordania, da parte di una delegazione del Consolato americano. L'incontro pianificato era parte di un costante impegno statunitense per migliorare la cooperazione e accrescere le opportunità economiche. La visita è stata annullata per timori legati alla sicurezza dei diplomatici statunitensi, dopo che i manifestanti palestinesi avevano minacciato di far saltare l'incontro e chiesto di boicottare la delegazione in visita.
   Per accrescere la confusione in merito alla posizione palestinese nei confronti degli Stati Uniti, è stato da poco rivelato che una delegazione formata da alti funzionari dei servizi di sicurezza palestinesi e di intelligence si è di recente recata in visita a Washington per una serie di colloqui con i funzionari della CIA.
   Abbas e la leadership palestinese non hanno smentito la notizia riguardante la visita. Ma aspettate un attimo, Abbas e i suoi funzionari non boicottano l'amministrazione Trump dopo la decisione del dicembre 2017 da parte del presidente americano di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele?
   Ovviamente, Abbas e la leadership palestinese non hanno una strategia ragionata in merito all'amministrazione statunitense. Il loro messaggio e le azioni contrastanti sono un ennesimo segnale della mancanza di una reale visione palestinese. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che la retorica antiamericana dei palestinesi renderà più difficile per loro in futuro la possibilità di essere considerati dagli americani dei partner affidabili e leali per qualsiasi processo di pace con Israele.
   Evidentemente Abbas e i suoi alti funzionari a Ramallah desiderano avere entrambe le cose: continuare a istigare contro l'amministrazione Trump e ricevere gli aiuti finanziati dai contribuenti americani. Questa istigazione, intanto, alimenta il sentimento antiamericano tra i palestinesi e molti altri arabi, che ora definiscono gli Stati Uniti come il nemico numero uno degli arabi e dei musulmani. Da qui, la strada verso la violenza e le azioni terroristiche contro i cittadini americani in Medio Oriente è molto breve.
   Bruciare le immagini di Trump e degli alti funzionari dell'amministrazione americana nelle strade delle città palestinesi dovrebbe essere considerato non solo offensivo, ma a tutti gli effetti un atto di guerra contro gli americani. Abbas e soci farebbero bene a sapere che sputando nel pozzo da cui bevono, l'acqua che attingono sarà davvero amara.
* Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.

(Gatestone Institute, 27 settembre 2018 - Trad. Angelita La Spada)


Hamas invita Abbas a rimuovere le "sanzioni" su Gaza

GERUSALEMME - La leadership del movimento islamista Hamas chiede oggi al presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, di rimuovere le "sanzioni" sulla Striscia di Gaza imposte da Ramallah per fare pressione e riprendere il controllo amministrativo dell'enclave, perso nel 2007. Lo riferiscono i media locali. Le dichiarazioni di Hamas giungono in risposta a quelle fatte ieri a New York da Abbas. L'anziano leader ha precisato che farà ricadere la responsabilità del possibile mancato accordo di riconciliazione tra Hamas e il partito Fatah, sponsorizzato dall'Egitto, su Gaza. Abbas si riferiva a ulteriori tagli ai servizi nell'enclave, come già avvenuto in passato nel tentativo di convincere Hamas a cedere il controllo di Gaza. Hamas teme che Abbas possa ridurre i finanziamenti per l'assistenza sanitaria e altri servizi per i residenti della Striscia. Centinaia di sostenitori di Hamas hanno manifestato ieri sera a Gaza dopo le dichiarazioni di Abbas all'Assemblea generale dell'Onu.

(Agenzia Nova, 28 settembre 2018)


Netanyahu: "Teheran ha un deposito atomico segreto"

di Giordano Stabile

L' Iran ha un deposito segreto nel cuore di Teheran dove «nasconde materiale radioattivo e lo spalma in tutta la città come Nutella». Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha tenuto un altro dei suoi discorsi a effetto all'Assemblea generale dell'Onu, ieri sera, e l'obiettivo era di nuovo la Repubblica islamica e il suo programma nucleare che, secondo l'Intelligence dello Stato ebraico, non si è mai fermato. Dopo le rivelazioni sui documenti rubati dal Mossad nella capitale iraniana lo scorso febbraio questa volta Netanyahu ha indicato un luogo preciso e invitato gli ispettori dell'Aiea ad andare a controllare «immediatamente».

 La sfida a Rohani
 
Hassan Rohani
  Una sfida diretta al presidente iraniano Hassan Rohani, che all'Onu ha ribadito che l'Iran ha rispettato l'accordo firmato nel 2015 e che è invece l'America di Donald Trump a essere fuori dal diritto internazionale. Ma il leader israeliano ha rivelato che nel deposito segreto ci sono almeno «300 tonnellate di materiale radioattivo» e che «15 chili sono stati spostati lo scorso mese» per altre destinazioni. «Ho un messaggio per i tiranni di Teheran - ha continuato -: Israele sa che cosa state facendo». E lo Stato ebraico «continuerà ad agire contro l'Iran in Siria e anche in Iraq». Un riferimento ai raid compiuti negli ultimi cinque anni contro installazioni militari gestite dai Pasdaran e convogli di missili diretti all'Hezbollah libanese. Raid che potrebbero estendersi anche al vicino Iraq dove, sempre secondo l'Intelligence israeliana, i Guardiani della rivoluzione islamica avrebbero spostato missili e rampe di lancio.
  Una offensiva a tutto campo, che ha toccato pure il Libano dove, nelle parole del premier israeliano, «Hezbollah usa gli abitanti di Beirut come scudi umani» e avrebbe nascosto i suoi missili anche «sotto lo stadio». Netanyahuha parlato subito dopo l'intervento del presidente palestinese Abu Mazen. Il raiss ha ribadito che «Gerusalemme non è in vendita» e ha attaccato Israele e la nuova legge fondamentale dello Stato-nazione, definita «razzista». Netanyahu ha replicato che l'Autorità palestinese «uccide chi vende la terra a un ebreo: non è razzismo questo?». Ma il duro scambio non ha chiuso le porte a una ripresa dei colloqui di pace. Dopo che Trump ha per la prima volta sostenuto di preferire la soluzione «due popoli, due Stati», quella prospettata a Oslo venticinque anni fa, anche il premier israeliano si è detto favorevole al fatto che «i palestinesi possano governare se stessi purché non facciano del male a noi». Di fatto un'apertura a uno Stato palestinese, per la prima volta dal 2009.

(La Stampa, 28 settembre 2018)


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Israele e la minaccia dell'Iran. «A Teheran l'atomica segreta»

L'accusa del premier Netanyahu davanti all'assemblea: «In un deposito il materiale per il loro programma nucleare»

Benjamin Netanyahu
La bomba degli ayatollah
A Teheran esiste un deposito segreto in cui il regime iraniano stocca materiale per il programma atomico
Mahmoud Abbas
Sfiducia nel piano di pace
Israele vuole creare uno Stato dell'apartheid. E Trump indebolisce la sua stessa proposta dei «due Stati»

di Fiamma Nirenstein

La battaglia non è finita, non finisce mai per Israele: l'Iran ancora prepara la bomba atomica e lo fa proprio a Teheran dove il Mossad ha scoperto una fabbrica zeppa di strumenti e materiali atomici, mentre, sempre da rivelazioni inedite, gli hezbollah gestiscono tre fabbriche segrete di missili di precisione attaccate all' aeroporto di Beirut. Così Netanyahu, mostrando le strutture in foto e sulle mappe di Google, nel suo discorso all'Assemblea generale dell'Onu denso di passione e di temi diversi, ha rivelato informazioni di intelligence molto drammatiche, mai trapelate prima. Ha anche affermato che materiale radioattivo, nel tentativo di celare la fabbrica di Teheran, è stato disperso dagli iraniani proprio nella capitale stessa con grande rischio della popolazione. E ha rivolto un appello all'Aiea, l'agenzia atomica, e al suo capo Yukya Amano: fate finalmente un'ispezione, ha esclamato, visto che neppure quando a febbraio vi abbiamo consegnato le informazioni sull'archivio atomico che provavano la permanenza del disegno atomico vi siete mossi. Netanyahu, anche se ha disegnato un quadro molto diverso da quello per cui per tanti anni ha seguitato a denunciare valorosamente da solo, all'Onu, la pericolosità dell'Iran e ha ringraziato l'amministrazione Trump per aver ristabilito un regime di sanzioni verso il regime degli Ayatollah, pure ancora sente che per Israele questo è il primo tema strategico: un Paese che lo minaccia di sterminio ogni giorno, che insiste nel preparare una bomba atomica per questo, e che nel contempo, come il Primo Ministro israeliano ha descritto, si espande in Siria, in Iraq, in Libano, in Yemen con un disegno imperialista e di avvicinamento al confine israeliano.
   Netanyahu ha anche messo in guardia l'Occidente, l'ha anzi richiamato: perché questo colpevole appeasement? Non si capisce come l'Europa (e non solo, non si è scordato di dire Netanyahu, con palese riferimento alla Russia di Putin) seguiti a sostenere un regime che oltretutto la minaccia con attentati terroristi, di cui gli ultimi molto recentemente sventati.
   Il corpo a corpo con Abu Mazen, si può dire, nonostante i toni aspri su temi morali sostanziali non c'è stato sul terreno politico, l'asprezza inutile delle accuse di Abu Mazen intervenuto poco prima, che disegna esplicitamente Israele come un Sud Africa da distruggere in quanto indegno di esistere, ha cassato una possibile discussione. Delegittimazione e demonizzazione, accuse di apartheid, disprezzo per la nuova costituzione che definisce Israele lo Stato del popolo ebraico, esaltazione dei «nostri martiri» gli shahid terroristi che sono l'unica costante strategica della storia palestinese hanno svuotato quell'ombra di resipiscenza che, dato il taglio di fondi dei Trump, è sembrata riabilitare il concetto di processo di pace. Ma non ha funzionato: è passato troppo tempo, troppo sangue, anche troppo logoramento di una leadership ormai alla fine. Trump il giorno prima, quando nel suo discorso all'Onu e anche nel suo incontro con Netanyahu ha cercato di spingere avanti la formula «due Stati per due popoli» ha detto che pensa che sia la migliore, anche se poi alla fine è tornato a un «decidano loro, uno Stato, due Stati, quello che li fa star meglio». Ma Abu Mazen ha aperto il suo discorso dicendo «Gerusalemme non è in vendita». Un palese riferimento al trasferimento americano dell'ambasciata nella capitale. Da qui, dopo una marea di proteste, accuse, dopo la descrizione di Israele come di un mostro violatore di tutti i diritti umani, e le accuse durissime a Trump, non si capisce in realtà dove si appoggi la ripetuta assicurazione di Abu Mazen di essere disponibile alla pace.

(il Giornale, 28 settembre 2018)


Gran-Bretagna - Il 40% degli ebrei potrebbe emigrare

LONDRA - Israele deve prepararsi fin d'ora a una possibile emigrazione in massa degli ebrei dalla Gran Bretagna a causa della ascesa politica di Jeremy Corbyn. L'avvertimento è giunto dal vice ministro israeliano Michael Oren (ex ambasciatore di Israele negli Stati Uniti), all'indomani della conferenza annuale dei laburisti inglesi, conclusasi con un ampio sostegno al loro leader. L'antisemitismo rappresentato da COrbyn e dal partito laburista - ha scritto Oren su twitter - nonostante gli impegni scritti presi dalla sinistra contro l'antisemitismo, minaccia di conquistare l'Inghilterra. Il 40% degli ebrei inglesi - ha aggiunto - sta considerando se lasciare quel Paese». Non si è spenta neanche l'eco delle polemiche sulle posizioni del Labour sull'antisemitismo e sull'impegno del laburista Corbyn a riconoscere lo Stato di Palestina.

(Avvenire, 28 settembre 2018)


Gli ebrei tedeschi votano la destra: ci difende

Creano un'associazione interna ad AfD. Il leader Schulz: «È l'unico partito che prende sul serio l'antisemitismo»

di Carlo Nicolato

 
«Come AfD stiamo dalla parte della Comunità ebraica in Germania»
Ci avevano raccontato con un certo sentito allarmismo che con l'AfD (Alternative für Deutschland) al Bundestag in Germania si sarebbero prefigurati tempi bui con qualche sentore di nazismo e campi di sterminio. Quantomeno si diceva che quei brutti figuri che avevano attraversato per la prima volta la soglia del Parlamento tedesco avrebbero sdoganato alcuni dei momenti più bui della storia dell'umanità. Ovviamente, tranne qualche infelice affermazione personale, nulla di tutto questo è successo. Anzi dobbiamo registrare che oltre a non essere dei pericolosi nazisti, come ha sottolineato nientemeno che il commissario federale per l'antisemitismo Felix Klein, quelli dell'AfD contano tra le loro file diversi ebrei e che il prossimo 7 ottobre verrà fondata un'associazione interna al partito volta a difendere gli stessi ebrei tedeschi «dall'odio antisemita dei musulmani».
  «L'ìslamofobia batte l'antisemitismo» ha titolato il Manifesto, ma quella che sembra un orrida rivoluzione nella mente di qualcuno è invece solo la logica conseguenza di due fatti: il primo è che l'AfD non è per l'appunto un partito nazista, tantomeno antisemita, il secondo è che il vero antisemitismo risiede prevalentemente in quella parte di popolazione di religione musulmana che in Germania, come altrove, per convenienza politicamente corretta è diventata intoccabile.

 Origini russe
  Non a caso il promotore dell'iniziativa Dimitri Schulz, un 31enne ingegnere meccanico di origini russe, sostiene che l'AfD è l'unica forza politica in Germania a «tematizzare l'odio antisemita musulmano, senza sminuirlo», senza ridurlo cioè a quasi un folklore necessario, un obolo che si deve pagare per assecondare l'insindacabile principio dell'accoglienza. Schulz, che è ebreo e non ha mai messo in dubbio che in Germania vi sia un antisemitismo politico diffuso e ben radicato, sostiene di non avere avuto problemi all'interno dell'AfD che anzi lo ha accolto a braccia aperte nel 2014 dopo che ha deciso di lasciare l'Udc in quanto «non difende più i valori tradizionali di cristiani ed ebrei, quelli della famiglia e dell'educazione». E soprattutto ritiene che se c'è un antisemitismo che in Germania ha vita facile quello va cercato nella popolazione di fede musulmana, quella cresciuta in modo esponenziale con l'ondata degli immigrati turchi prima e dei siriani, iracheni e afghani poi.

 Pro e contro
  Gli ebrei che hanno scelto di militare nelle file dell' Afd, spiega Schulz, vogliono preservare la comunità ebraica dall'immigrazione di massa costituita prevalentemente da «giovani uomini di cultura islamica». Un'immigrazione di stampo «anti-semita» e quindi «nociva». L'associazione si chiamerà per il momento JAfD che è acronimo di "Juden in der Alternative für Deutschland" e verrà inaugurata a Offenbach nell'Assia dove però c'è già chi sta cercando di opporsi. Come il presidente della comunità ebraica della stessa città che ha definito il programma «una pazzia». AIfred Jacoby ha ricordato tra le altre cose le affermazioni del presidente dell'AfD Alexander Gauland secondo cui Hitler e il nazismo sono stati «solo una cacca di uccello in più di mille anni di gloriosa storia della Germania» e quelle del parlamentare Björn Hocke che ha definito il Memoriale della Shoah di Berlino «un' opera della vergogna». L'ex presidente del Consiglio centrale degli ebrei, Charlotte Knobloch, ha detto che «l'AfD è un partito in cui gli antisemiti potranno sentirsi a casa».
  Ma a confortare le indicibili tesi degli appestati del Bundestag ci sono i fatti. Basti dire che l'aprile scorso il presidente del Consiglio centrale degli ebrei, Josef Schuster, ha invitato tutti i cittadini di religione ebraica a «non portare la kippah nelle grandi città tedesche» e ad evitare i quartieri ad alta densità islamica. Ci sarà un motivo.

(Libero, 28 settembre 2018)


Gaza - Hamas vieta la trasmissione del discorso di Abu Mazen

'Collaborazionismo con Israele'. Centinaia di membri di Fatah fermati.

GAZA - Nelle ore che hanno preceduto il discorso del presidente Abu Mazen all'Assemblea generale dell'Onu si e' bruscamente impennata la tensione fra Hamas ed al-Fatah a Gaza e in Cisgiordania. A Gaza Hamas ha impedito alle emittenti della Striscia di trasmettere il discorso e ha vietato che esso sia offerto ai clienti nei locali pubblici della Striscia. Fonti di al-Fatah hanno denunciato che fra ieri e oggi centinaia di suoi membri sono stati fermati dai servizi di sicurezza di Hamas a Gaza per impedire che al termine del discorso essi organizzino manifestazioni di sostegno. Ieri dirigenti di Hamas hanno accusato Abu Mazen di collaborazionismo con Israele, hanno denunciato i suoi incontri con gli esponenti politici israeliani Ehud Olmert e Tzipi Livni, e hanno sostenuto che egli ''non rappresenta piu' il popolo palestinese''. In parallelo duri attacchi alla leadership di Hamas sono stati lanciati da portavoce di al-Fatah in Cisgiordania dove - secondo Hamas -decine di esponenti islamici sono stati fermati.

(ANSAmed, 27 settembre 2018)


La piaga dell'antisemitismo in Europa. Il report e l'analisi di Fiamma Nirenstein

di Maria Scopece

Maria Scopece
Presentato a Montecitorio alla presenza dell'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, del giornalista Carlo Panella e del sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, sostiene che la nuova destra "populista" che sta raccogliendo successi in tutta Europa, dall'Ungheria all'Austria all'Italia, sarebbe riuscita ad emarginare le frange antisemite
   "È triste dirlo, ma sono le organizzazioni per i diritti umani, prime fra tutte quelle dell'Onu, dall'Assemblea Generale alla Commissione per i Diritti Umani, e poi a ruota l'Unione Europea in cui la condanna incessante è il leit motiv, che definiscono un antisemitismo di tipo nuovo in cui in diritti umani sono usati come maschere per nascondere un comportamento discriminante nei confronti di Israele e degli ebrei". A scrivere questo atto d'accusa è Fiamma Nirenstein, giornalista, scrittrice e, tra l'altro, Senior researcher presso il think tank israeliano Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa), nel dossier "L'antisemitismo nell'Europa contemporanea" del Centro Studi Machiavelli. "Io provo sconcerto nei confronti di questa Europa piena di odio e antagonismo nei confronti di Israele" - dice Fiamma Nirenstein a Formiche.net - "L'Ue ha mille ragioni per essere amica di Israele: abbiamo la stessa cultura, è l'unico Paese democratico del Medio Oriente, combatte il terrorismo anche sul suolo europeo, ha appena sventato un attacco terroristico a Parigi. Quella dell'Europa mi sembra un'autentica persecuzione motivata da ragioni ideologiche che affondano le radici nella conclusione della seconda guerra mondiale e nella difficoltà a rapportarsi con tutto ciò che somiglia a uno Stato nazionale e all'idea di doversi difendere militarmente per restare in vita".
   Il report, presentato a Palazzo Montecitorio alla presenza dell'ambasciatore Giulio Terzi di Sant'Agata, del giornalista Carlo Panella e del sottosegretario agli Esteri Gugliemo Picchi, sostiene che la nuova destra "populista" che sta raccogliendo successi in tutta Europa, dall'Ungheria all'Austria all'Italia, sarebbe riuscita ad emarginare le frange antisemite, al contrario da quanto successo a sinistra, dove, attraverso l'israelofobia, si starebbero aprendo spazi sempre più preoccupanti all'odio contro l'ebreo in quanto tale. Inoltre, Nirenstein afferma: "L'esempio che collega più palesemente il nuovo antisemitismo con il terrorismo riguarda un leader occidentale importante della sinistra, Jeremy Corbyn, segretario del Partito Laburista inglese" - scrive l'autrice - "varie foto scattate in Tunisia nell'ottobre del 2014 lo mostravano mentre deponeva una corona sulla tomba dei massacratori palestinesi degli atleti israeliani di Monaco. Vicino a Corbyn figurava, fotografata, Fatima Bernawi che tentò di far saltare per aria il cinema Sion a Gerusalemme nell'Ottobre del '67. Corbyn ha orgogliosamente, in altre circostanze, chiamato fratelli gli uomini di Hamas, e ha incoronato la sua carriera pubblica di antisemita sostenendo dopo un viaggio a Gaza di aver visto lo stesso tipo di distruzione che i nazisti avevano portato a Stalingrado. Altre volte, ha partecipato a convegni negazionisti della Shoah", ha aggiunto.
   I partiti "sovranisti" europei sarebbero stati più capaci di rendere marginali e a contrastare quelle sacche minoritarie infettate dall'antisemitismo. "Anche a destra ci sono movimenti antisemiti contro i quali ci vuole il massimo della repressione e della severità. Io quando ero nel Consiglio d'Europa ho fatto votare per buttare fuori Jobbik (partito conservatore d'estrema destra ungherese). Ho anche manifestato contro Jobbik in Ungheria" - continua la giornalista parlando con Formiche. net - "Ma i Paesi nei quali operano questi piccoli partiti non hanno caratteristiche tali da destare preoccupazioni. Fa preoccupare molto di più il partito laburista inglese di Corbyn che accusa Israele di essere genocida, di comportarsi a Gaza come i nazisti, di avere occupato terre altrui e di essere colonialista. Non ho mai sentito questi discorsi fatti dai partiti di destra europei. Mentre questi sono slogan che passano sotto traccia in tutto ciò che ha rapporti istituzionali con l'Europa e con l'Onu. Alle Nazioni Unite c'è una maggioranza formata da Paesi Islamici e da Paesi terzi che mette Israele fuori legge e in minoranza in continuazione. Paesi che fanno vivere le donne in uno stato di oggettiva minorità si sono permessi di accusare Israele di violare i diritti delle donne. Pazzia".
   L'Italia si trova ad affrontare la questione dell'antisemitismo dal punto di vista interno ed esterno. Un'Italia più prossima alla Russia, vicina all'Iran tutt'altro che benevolo nei confronti di Israele, è ormai un dato di fatto. "Onestamente oggi non credo che Putin sia molto promettente" - aggiunge la scrittrice a Formiche.net - "Io vedo molto bene un'Italia vicina agli Stati Uniti. Poi certo mi sembra logico che possa essere utile e necessario parlare anche con la Russia ma non vedo nessuna motivazione per una maggiore vicinanza a Putin che non agli Usa. La strada delle democrazie va preferita sempre".
   Carlo Panella, nel corso del suo intervento, sottolinea come i massicci flussi migratori, provenienti da Paesi di religione islamica, stanno facendo sorgere un nuovo soggetto di Islam europeo. "Stiamo assistendo alla nascita attraverso l'immigrazione, anche per conseguenza del colonialismo in Francia e Inghilterra e del mercato del lavoro in Germania e in Italia, di un Islam in Europa" - dice Panella dal palco - "Questo Islam, focalizzato sulla questione israelo-palestinese è un Islam che porta al suo interno un forte elemento di antisemitismo di matrice religiosa e sta contagiando parte della sinistra progressista che non a caso continua ad avere e a portare dentro di sé quell'esperienza e quell'odio antisemita. Come si costruirà l'Islam in Italia è un tema di schiacciante attualità". A questa questione ci risponde l'autrice. "L'Italia deve favorire la costituzione di un Islam integrato nel tessuto italiano e per questo deve far rispettare le regole: non deve permettere la poligamia, la reclusione delle donne, l'escissione o il delitto d'onore. Dopo di che l'Italia deve contrastare l'antisemitismo e i sentimenti anti cristiani".

(formiche.net, 27 settembre 2018)


Sale di preghiera per cristiani e musulmani all'aeroporto di Tel Aviv

In una nuova ala del Terminal 3 dell'aeroporto internazionale israeliano sono state aperte due sale distinte per la preghiera dei non ebrei

di Giorgio Bernardelli

MILANO - Due mani aperte nel gesto della preghiera, sopra una scritta in ebraico, in arabo e inglese. Nella nuova ala E del Terminal 3 dell'aeroporto Ben Gurion - l'aeroporto internazionale di Israele - un cartello semplice e non confessionale indica da qualche settimana le «stanze della preghiera». Ambienti semplici, aperti senza troppo clamore, ma che segnano un gesto importante: il debutto di uno spazio pubblico pensato per la vita spirituale dei non ebrei in un ambiente tra i più frequentati di Israele.
   Esisteva ovviamente già una sinagoga nell'aeroporto Ben Gurion, come in tutti i più importanti luoghi di incontro israeliani. Ed era già dal 2006 che l'autorità aeroportuale aveva parlato dell'idea di aprire nel nuovo Terminal uno spazio per la preghiera non ebraica, anche in ragione del fatto che musulmani e cristiani rappresentano insieme quasi il 20% della popolazione israeliana e frequentano come tutti gli altri l'aeroporto. Questo progetto si era perso però nei meandri della burocrazia, finché a rilanciarne l'esigenza è stato un incidente singolare: nel 2015 nel giorno di Simchat Torah - una festività ebraica, durante la quale gli ebrei religiosi non viaggiano - una famiglia di turchi musulmani in transito dall'aeroporto ha scambiato la sinagoga completamente vuota per una moschea e si è messa lì a pregare, utilizzando addirittura i tallit (i manti della preghiera della tradizione ebraica) come tappeti. Quando qualche passante se n'è accorto e glielo ha fatto notare la famiglia ha immediatamente interrotto la propria preghiera scusandosi, mostrando così di essere in buona fede e di non aver avuto alcun intento provocatorio. Ma le immagini erano comunque troppo ghiotte per non circolare sui social.
   Poco dopo i lavori per il completamento dell'ala E hanno offerto la possibilità di affrontare una volta per tutte le questione. È stata istituita una commissione che ha scelto di non realizzare né una moschea né una cappella, ma due sale di preghiera comunque distinte, pensate per ebrei e musulmani che cercano uno spazio per il raccoglimento. È stata l'amministrazione aeroportuale a finanziarne la realizzazione e ne cura anche la pulizia e la custodia. Un'attenzione particolare è stata riservata anche alla questione dei simboli religiosi, ha raccontato all'edizione francese del sito Terrasanta.net Yiska Harani, ricercatrice israeliana attiva nel campo del dialogo interreligioso che ha collaborato come consulente al progetto.
   La principale preoccupazione era infatti quella dei possibili atti di vandalismo che in un contesto come quello delle tensioni identitarie del Medio Oriente potrebbe diventare ulteriore benzina sul fuoco. Alla fine si è deciso di utilizzare comunque come pittogrammi specifici un campanile sormontato da una croce e una cupola con una luna crescente.
   Quanto al significato per la società israeliana di questa nuova presenza Yiska Harani sottolinea il messaggio inclusivo. Potrebbe essere anche un esempio per l'apertura di altri spazi di questo genere nel Paese? «In Israele i treni circolano su distanze relativamente brevi, non vedo un'esigenza di questo genere per le stazioni - ha risposto la consulente dell'autorità aeroportuale a Terrasanta.net -. Piuttosto potrebbe essere un'idea interessante per le università».

(La Stampa, 27 settembre 2018)


E' la vita degli ebrei di Francia

Interi quartieri che si svuotano, proiettili a casa, omicidi e l'abbandono dell'intellighenzia.

di Giulio Meottl

 
Francis Kalifat
ROMA - "Gli ebrei si sentono minacciati nelle loro case", aveva detto appena il mese scorso Francis Kalifat, che guida le comunità ebraiche francesi. Due giorni fa, il portone di una casa nel Diciottesimo arrondissement di Parigi è stata imbrattata con la frase: "Qui vive la feccia ebraica". Racconta un corposo dossier del mensile Causeur che "un nuovo antisemitismo imperversa nei sobborghi francesi e spinge molti ebrei a partire". In un anno, ci sono stati due omicidi islamisti dentro alle case degli ebrei (Sarah Halimi e Mireille Knoll, che si aggiungono ad altre dieci uccisioni).
   A fine agosto, un'ala del Parlamento francese è stata evacuata a causa di una lettera di minacce di morte contro un parlamentare di origine ebraica, insieme a diversi grammi di polvere bianca. Il "maiale sionista" è Meyer Habib, che da questa estate è protetto da quattro agenti della gendarmeria. "Hanno minacciato di decapitarmi", ha rivelato Habib.
Il magazine Causeur di Élisabeth Lévy racconta l'islamizzazione dei quartieri ebraici. "In dieci anni, la comunità si è dimezzata, da 800 famiglie a 400, gli ebrei fuggono dall'islamizzazione", testimonia David Rouah, presidente della comunità di Vitry-sur-Seine. "Quando usciamo dalla sinagoga, ci sputano, ci tirano lattine, uova, pomodori. Moto e auto ci suonano il clacson, gridando 'Allahu Akbar'. Quando c'è un evento politico in Israele, i musulmani attaccano gli ebrei. Gli ebrei vogliono trasferirsi. Rimangono i poveri, chi non può permettersi di mettere i figli nelle scuole private o trasferirsi. Ebrei e poveri. Doppia punizione".
   A Villepinte ci sono 60-70 famiglie ebree delle 150 di dieci anni fa, ha spiegato Charly Hannoun, presidente della comunità: "La maggior parte è andata in Israele. Chi rimane si sta facendo la domanda: restare o andarsene?"
   Tanti ebrei sono scappati nel 17esimo arrondissement di Parigi. Di 173 mila abitanti, 42 mila oggi sono ebrei. "E' un esodo interno e quasi tutti i sabati si ricevono nuove famiglie". Jean-Pierre S., direttore di una società di costruzioni, ha ricevuto una lettera con un proiettile accompagnato da "Allahu Akbar, siete tutti morti". E' solo una parte del numero del dossier di Causeur. "Sono estremamente preoccupato, tanto per gli ebrei francesi quanto per il futuro della Francia", ha detto Alain Finkielkraut in un'intervista di poche settimane fa con il Times of Israel. "E' il peggiore antisemitismo che abbia mai visto in vita mia e peggiorerà". Finkielkraut ha raccontato che non si sente più sicuro a vivere nel quartiere dove è cresciuto con i genitori tra Piace de la République e la stazione della Gare du Nord. "Quello che mi preoccupa molto è l'abbandono degli ebrei da parte di una parte importante dell'intellighenzia", ha spiegato Finkielkraut. "Hanno scelto il loro campo, che è quello dei palestinesi contro gli israeliani, e in Francia, i musulmani contro gli ebrei. Questa è una delle cose più difficili con cui vivere oggi".
   Il New York Times ha appena raccontato che a Aulnay-sous-Bois da 600 famiglie ebraiche si è scesi a 100; a Le Blanc Mesnil da 300 a 100; a Clichy-sous-Bois da 400 a 80; a La Courneuve da 300 a 80. Ouriel Elbilia, rabbino, ha detto che il fratello a Clichy ormai non officia più i servizi in sinagoga: ché non c'è più nessuno. "Negli ultimi venti anni, intere comunità si sono trasferite", ha detto Ariel Goldmann, che guida una agenzia di servizi sociali ebraici. "Questi posti si stanno svuotando".
   Per un quadro più generale, oggi a Montecitorio il Centro Machiavelli presenta il dossier realizzato da Fiamma Nirenstein sull'antisemitismo nell'Europa contemporanea. Si parla di "israelofobia" e di una nuova "malattia cognitiva della società". C'è quel dato, terribile: E' fuggito dall'Europa un ebreo su quattro". I minatori erano soliti portarsi dietro dei canarini per avvertire la presenza di gas. Se cadevano a terra significava che l'aria era ammorbata. Gli ebrei sono i canarini delle società europee.
   
(Il Foglio, 26 settembre 2018)


Tel Aviv un mondo a parte

La città delle startup ospita oltre trecento centri di ricerca di grandi multinazionali. Innovazione e ricchezza. Ma un rischio c'è: la possibile frattura tra ultraortodossi e la ricca comunità hi-tech.

di Jaime D'Alessandro

6500
È il numero delle startup israeliane. Solo lo scorso anno ne sono nate oltre 1000. L'84% degli investimenti arriva dall'estero
23 miliardi di dollari
È la cifra record raccolta nel 2017 dalla vendita di aziende hi-tech. Dopo Usa e Cina, è la nazione con più compagnie quotate al Nasdaq
4,3
La percentuale del prodotto interno lordo spesa in ricerca e sviluppo in Israele. L'Italia spende l'1,2%, la media europea è dell'1,9%

TEL AVIV - Il paradosso ha una sua personificazione e ci viene incontro sorridente. Un signore giovane dalla barba nera con kippah in testa. Si chiama Moshe Friedman, a capo di Ampersand a Tel Aviv. È uno spazio di lavoro collettivo, in un grattacielo ai margini del quartiere di Beni Barak, pensato per gli ebrei ultraortodossi. «Qui sia gli uomini che le donne possono accedere al digitale in un ambiente consono alle nostre tradizioni», racconta lui mentre mostra gli uffici fra vetrate che guardano la città e pavimento in legno industriale. Gli ultraortodossi rifiutano buona parte della contemporaneità, basta dare un'occhiata al documentario One of us su Netflix per avere un'idea del grado di chiusura. Ora però in Israele hanno deciso di includerli nella rivoluzione digitale, tentando quel che sulla carta sembra impossibile.
   «Se non risolviamo questo nodo in prospettiva avremo un problema bello grosso», spiega Efrat Makin-Knafo del comune di Tel Aviv. «La città rischia di spaccarsi fra ricchi e poveri, fra religiosi e minoranze da un lato e la sempre più danarosa comunità hi-tech dall'altro. È una frattura pericolosa. Per questo stiamo cercando di portare tutti dentro il movimento delle startup aprendo spazi per il coworking e offrendo corsi gratuiti di formazione». La Makin-Knafo nell'amministrazione cittadina ricopre la carica di "Chief Resilience Offìcer", dirige il dipartimento dedicato alla resilienza, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzarsi dinanzi alle difficoltà. E la difficoltà, qui come in Europa o negli Stati Uniti, sono le disparità sociali che si stanno acuendo anche grazie all'hi -tech. Il flusso di denaro che arriva nella "nazione delle startup", o Start-up Nation come l'hanno chiamata Dan Senor e Saul Singer nell'omonimo saggio del 2009, si va ingrossando. Il miracolo economico somiglia ad una bomba ad orologeria. Arabi israeliani e ultraortodossi, che hanno un tasso di fertilità ben superiore agli altri, sono esclusi per motivi diversi dal servizio militare. Ed è l'esercito la prima forma di "networking" per i futuri imprenditori e una delle entità tecnologicamente più all'avanguardia della società. I ventenni imparano responsabilità, apprendono tecnologie, vengono messi in condizione di prendere decisioni, indirizzati nelle varie unità secondo la propria attitudine. Se si è abbastanza bravi da finire in divisioni come la 8200, dedicata al digitale e alla cybersecurity, una volta finita la leva è difficile restare senza lavoro. Ma ci sono fette della società che restano indietro. «La scommessa oggi, crescita economica per tutti, è quindi inevitabile benché difficile», sostiene la Makin-Knafo.
   Nel Paese ci sono 6500 startup e oltre 330 centri di ricerca di grandi multinazionali, quasi tutti a Tel Aviv. Lo scorso anno, grazie ad acquisizioni straniere di aziende hi-tech, sono piovuti 23 miliardi di dollari. Mobileye, comprata da Intel per 15 miliardi, detiene il record. Ma la lista è lunga e include anche Waze, di proprietà di Googie dal 2013 (sborsò 1,3 miliardi).
   I residenti nell'area di Tel A viv sono 3,8 milioni sugli 8,5 totali. Il reddito pro capite dello stato ebraico, stando all'Ocse, è più basso di quello italiano: 38 mila dollari l'anno contro 39 mila. Ma qui però è del 40 per cento più elevato. Quasi la metà del prodotto interno lordo israeliano viene da Tel Aviv.
   La città è una bolla, un'oasi, un'isola. Basta metterei piede per capire di essere un universo a parte a 200 chilometri da Beirut, 70 da Gerusalemme, 400 dal Cairo. Prospera sul filo del rasoio in un mondo ostile che guarda con sospetto ai suoi costumi liberali anche all'interno dei confini israeliani. I ragazzi che solcano la città su monopattini elettrici sono distanti secoli dai religiosi di Gerusalemme. Il governo di Benjamin Netanyahu detesta il comune guidato da 20 anni dal laburista Ron Huldai. AI quale però può dir poco visto il potere economico della città. «Diciamo che ci sono state fasi difficili nel dialogo fra noi e il governo», scherza lo stesso Huldai al City Summit, mentre dialoga con la sua collega Hanna Gronkiewicz-Waltz che guida Varsavia dal 2006 e ha problemi analoghi. L'evento è parte del Tel Aviv Innovation Festival (Dld) dove si ripete di continuo che l'unica via per una società più moderna è quella di far entrare tutti nella crescita economica evitando i paradossi statunitensi. Ma di Moshe Friedman o di altri ultraortodossi al Dld non si vede nemmeno l'ombra. E pochi sono gli arabi. In una giornata calda e dal cielo limpido, il festival dell'innovazione è ancora appannaggio dei ragazzi dal monopattino. Tutti giovani, tutti ovviamente ebrei.
   «Non so se il modello della "nazione della startup" è esportabile da noi», commenta l'ambasciatore italiano, Gianluigi Benedetti, che ha organizzato una delegazione di aziende del nostro Paese. «Ma certo, si impara molto guardando come si sta muovendo questa città». Soprattutto quando tenta di coniugare l'impossibile, dando vita a paradossi per evitare un futuro peggiore del presente.

(la Repubblica, 26 settembre 2018)


Netanyahu non va alla conferenza sull’antisemitismo

"Non voglio avere a che fare con l'Unesco".

Non basta una conferenza sull'antisemitismo, l'Unesco deve "smettere di praticarlo". Con queste motivazioni il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha declinato un invito dell'Unesco a partecipare ad un convegno sull'antisemitismo organizzato a New York.
Convegno a margine dell'Assemblea generale dell'Onu in corso al Palazzo di Vetro. "Ho deciso di non partecipare - ha aggiunto - a causa delle persistenti ed importanti accuse contro Israele. Dal 2009 l'Unesco ha varato 71 risoluzioni contro di noi e solo contro tutti gli altri paesi messi insieme: un oltraggio".
L'Unesco - ha proseguito il premier - "deve smetterla con l'assurdità di passare provvedimenti che negano la connessione tra il popolo ebraico e la nostra eterna capitale Gerusalemme. Non importa quello che dice: il Muro del Pianto non è Territorio palestinese occupato né la Tomba dei Patriarchi a Hebron...". Netanyahu ha poi confermato che Israele non farà parte dell'Unesco fino a che l'organismo dell'Onu "non la smette di negare la storia e comincia a stare dalla parte della verità".

(tvsvizzera, 27 settembre 2018)


Netanyahu chiede aiuto a Trump per continuare a colpire in Siria

 
Sottotitolo
L'arrivo degli S-300, ma soprattutto dei nuovi sistemi di guerra elettronica inviati dalla Russia in Siria sta mettendo in agitazione Israele. E adesso Benjamin Netanyahu, insieme ai vertici delle Israel Defense Forces (Idf), teme che la sua aviazione possa perdere la superiorità aerea nella regione.
   La sfida lanciata da Vladimir Putin non è di secondaria importanza per le strategia dello Stato ebraico. E l'ombrello elettronico che potrebbe coprire l'intero territorio israeliano e le acque di fronte alla Siria mette in dubbio la libertà di manovra di Israele, che fino a questo momento era stata sostanzialmente garantita dalla stessa Russia.
   Il fatto è che il Cremlino ha innalzato il livello dello scontro nella guerra in Siria portandolo su un piano di electronic warfare che è difficile da gestire per i suoi avversari. E su questo frangente Israele si trova spiazzata non tanto perché tecnologicamente arretrata, ma perché è complicato riuscire a contrastare questo sistema in un'area estremamente vasta come tutto il territorio siriano.
   Un conto è realizzare alcune operazioni chirurgiche nell'ambito della guerra elettronica: altro è invece riuscire a prevalere su un sistema di jamming che può coprire un'area che va dal Mediterraneo ai deserti siriani.
   Come scritto su questa testata, Israele può anche pensare a un duello con la Russia: ma i rischi per le Idf sono molto alti. Ed è per questo che Netanyahu ha fatto quello che molti osservatori e analisti avevano già preventivato, e cioè chiedere aiuto direttamente agli Stati Uniti. Cosa che è avvenuta in queste ore durante il bilaterale fra il primo ministro israeliano e Donald Trump a margine dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
   E il premier israeliano ha ottenuto quello che voleva: come dichiarato da lui stesso ai giornalisti dopo il vertice con il presidente Usa. Parlando delle garanzie sulle libertà di manovra in Siria, Netanyahu è stato molto netto: "Ho ricevuto quello che ho chiesto. Sono venuto con punti specifici e li ho presi". Non ha specificato in cosa consistessero queste sue richieste, ma è evidente che il Pentagono appoggerà le Idf in Siria per cercare di scardinare lo scudo elettronico imposto dalla Russia a tutela del Paese.
   Come scrivono i media israeliani, Netanyhau ha confermato che, in ogni caso, il meccanismo di de-confliction tra Israele e Russia continuerà. E questo nonostante la crisi diplomatica e militare nata dopo l'attacco di Latakia della scorsa settimana e l'abbattimento dell'Il-20 per errore della contraerea di Damasco (errore che i russi considerano esclusivo frutto delle manovre dell'aviazione israeliana).

(Gli occhi della guerra, 27 settembre 2018)


Lo Stato islamico continua a celebrare l'attacco in Iran

Il portavoce dello Stato islamico definisce l'Iran come la fortezza dei politeisti


di Franco Iacch

Lo Stato islamico continua a celebrare l'attacco avvenuto sabato scorso ad Ahvaz, nel sudovest dell'Iran, con un messaggio audio diffuso questa notte sulla rete.
  The Assault Of The Monotheists On The Fortress Of The Polytheists è stato letto da Abu al-Hassan al-Muhajir, portavoce del gruppo dal dicembre del 2016. Poche ore dopo il messaggio è stato tradotto in francese ed inglese in formato Pdf. Si tratta del quinto messaggio audio letto da al-Muhajir dopo quello del 22 aprile scorso (di ben 55 minuti) intitolato So From Their Guidance Take An Example. Quest'ultimo sarebbe stato scritto da Abu Bakr al-Baghdadi.
  Abu al-Hassan al-Muhajir, presentato su Al Furqan il 5 dicembre di due anni fa, è l'erede di Abu Mohammad al-Adnani eliminato dagli Stati Uniti il 30 agosto del 2016. Al-Muhajir non possiede la preparazione ed il carisma del suo predecessore.

 Stato islamico: "L'Iran è la fortezza dei politeisti"
  Il messaggio audio di questa notte celebra l'attacco avvenuto il 22 settembre scorso in Iran. Lo Stato islamico ha la necessità strategica di sfruttare il valore promozionale e propagandistico dell'attentato. La propaganda è essenziale per la sopravvivenza dello Stato islamico sia come gruppo che come idea per coltivare quella profondità strategica digitale. È un meccanismo prezioso con il quale far valere l'acquiescenza nel suo proto-Stato ed un'arma penetrante con cui affermare la propria egemonia terroristica all'estero. Negli anni a venire, servirà come bandiera attorno alla quale i veri credenti del califfato si raduneranno, una volta perduti i territori.
  3 minuti e 17 secondi: questa la durata del messaggio audio The Assault Of The Monotheists On The Fortress Of The Polytheists. In un preciso passaggio Al-Muhajir (Colui che viene da lontano) definisce l'Iran come "la fortezza dei politeisti".
  "Lo scioccante attacco che ha sconvolto l'Iran rappresenta la giusta vendetta per il pagano trattamento dei sunniti.
  Teheran è oggi debole. La spada della giustizia dello Stato islamico è calata sulla fortezza dei politeisti e sul Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. Li abbiamo colpiti all'interno delle loro stesse case e circondati dalla loro stessa sicurezza".
  Al-Muhajir conclude il suo breve messaggio lanciando un appello ai militanti dello Stato islamico che combattono in Siria: "Siate risoluti".
  Il linguaggio è strumento di influenza, con forme metriche strutturate per riflettere la visione di una realtà. E' il linguaggio a definire le azioni accessibili e delegittimare le altre percezioni del mondo. La strategia linguistica dello Stato islamico si basa sul concetto dogmatico della giustizia divina che motiva e azioni in vita. E' l'interpretazione che motiva l'omicidio, inteso come obbligo sacro. Le azioni fisiche sono soltanto il mezzo per raggiungere l'obiettivo spirituale.

 L'importanza di Abu Muhammad al-Adnani
  Il siriano Taha Subhi Falaha noto con lo pseudonimo Abu Mohammad al-Adnani, è stato uno dei primi membri della diramazione irachena di al Qaeda in Iraq. Pupillo di Abu Musab al-Zarqawi ed erede designato di Abu Bakr al-Baghdadi, è stato nominato emiro dello Stato islamico in Siria all'inizio del 2013 dopo la separazione del gruppo con il Fronte Nusra, ex affiliazione siriana di al Qaeda. Si ritiene che quando al-Adnani annunciò la formazione del califfato nel giugno 2014, fosse l'unico siriano della leadership dello Stato islamico.
  Abu Mohammed al-Adnani ha diretto i reparti speciali del gruppo come la quwat khas e l'Emni, unità d'infiltrazione ed intelligence dello Stato islamico. L'Emni, sotto la guida di al-Adnani, aveva il compito di garantire la sicurezza interna del Dawla (parola araba per lo stato) e proiettare il terrore all'estero. Gli elementi dell'Emni hanno guidato tuti i principali attentati avvenuti in Occidente come Parigi e Bruxelles. Cellule Emni sono state identificate in Austria, Germania, Spagna, Libano, Tunisia, Bangladesh, Indonesia e Malesia. Nelle intenzioni di al-Adnani, l'Emni avrebbe dovuto creare un bacino globale di terroristi da inserire e guidare nella loro rete internazionale. L'uomo era noto anche per le sue doti oratorie. Il portavoce dello Stato islamico, ucciso il 30 agosto del 2016 in un raid aereo degli Stati Uniti, nella primavera del 2014 annunciò una direttiva rivolta ai militanti sparsi nel mondo: "Quanti non sono in grado di realizzare un IED, potranno sempre spaccare la testa dei crociati con una pietra, macellarli con un coltello o travolgerli con l'auto". Proprio al portavoce dello Stato islamico si deve la prima reinterpretazione della teologia islamica. Al-Adnani ha gettato le basi della nuova mentalità radicale islamista sostenendo la liceità e la natura obbligatoria della jihad nel Ramadan, definito il "mese di conquista". Nel suo primo discorso, Abu Mohammed al-Adnani ha decontestualizzato le classiche prescrizioni del Corano per garantire un supporto religioso ad omicidi e missioni di martirio.

(il Giornale, 27 settembre 2018)


Netanyahu: "L'abbattimento dell'Il-20 avrebbe potuto avere conseguenze peggiori"

L'abbattimento dell'Il-20 russo sul Mediterraneo, avrebbe potuto portare a "conseguenze più gravi", ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Radio Kan, radio nazionale Israeliana, riporta le sue parole. Netanyahu non ha specificato cosa intendesse esattamente con queste parole.
Il primo ministro ha anche osservato che il paese continuerà ad opporsi al rafforzamento della presenza militare iraniana in Siria e progetta di mantenere un dialogo con Mosca.
Lunedì scorso, 17 settembre uno dei sistemi missilistici siriani S-200 ha abbattuto un aereo da ricognizione russo Il-20, mentre volava verso la base di Khmeymim base. Allo stesso tempo, quattro F-16 israeliani hanno attaccato obiettivi siriani a Latakia.
Secondo il Ministero della Difesa i piloti israeliani hanno incastrato l'aereo russo sotto il fuoco della difesa aerea siriana. Quindici soldati russi sono morti. Allo stesso tempo, Israele non ha avvertito il comando russo circa l'operazione prevista. Il Ministro della Difesa Sergei Shoigu ha affermato che la responsabilità per l'accaduto ricade interamente sul lato israeliano.
Inoltre, nel quadro delle misure volte a migliorare la sicurezza dei militari russi Mosca entro due settimane fornirà i sistemi missilistici antiaerei S-300 a Damasco.
A sua volta, Israele ha negato le accuse addossando la responsabilità interamente su Siria e Iran.

(Sputnik Italia, 27 settembre 2018)


Gaza: lungo incontro Netanyahu-Sisi all'Onu

Due ore con focus sulla situazione regionale e nella Striscia

Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ed il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi si sono incontrati ieri ai margini della seduta dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Su Facebook Netanyahu ha aggiornato che il colloquio è durato quasi due ore nel corso delle quali sono stati discussi "sviluppi regionali e la situazione a Gaza".
Da mesi l'Egitto cerca di raggiungere una tregua di lunga durata fra Israele e Hamas, ma uno degli ostacoli che non sono stati ancora superati riguarda la riconciliazione fra Hamas e l'Anp di Abu Mazen senza la quale resta difficile stabilizzare la Striscia.
Nella sua pagina Facebook Netanyahu ha pubblicato una fotografia dell'incontro che mostra la stretta di mano fra i due leader. Sullo sfondo compare la bandiera nazionale dell'Egitto, mentre manca quella israeliana.

(ANSAmed, 27 settembre 2018)


Federica Mogherini e la politica del non olet con l'Iran

Mentre Trump dall'Onu attacca Teheran, l'Alto rappresentante Ue cerca di salvare il regime dalle sanzioni Usa e dalla crisi. Una politica disastrosa che causerà perdite enormi all'Europa.

di Carlo Panella

Nelle stesse ore nelle quali Donald Trump ha lanciato dalla tribuna dell'Onu accuse inconfutabili all'Iran sostenendo che «non possiamo permettere a un regime che ha minacciato gli Usa di morte e minaccia di morte Israele di avere una testata nucleare», l'ineffabile Federica Mogherini ha avviato un tortuoso percorso europeo per evitare le sanzioni americane a Teheran, salvare il regime dalla disastrosa crisi economica che ha costruito con le sue mani e continuare la sua politica aggressiva in Medio Oriente. Per spiegare queste strategie non solo divergenti, ma confliggenti, non è il caso di ricordare la bella definizione di Robert Kagan: «Gli americani sono figli di Marte, dio della guerra, gli europei di Venere, dea dell'amore». Si deve invece ricorrere al più prosaico pecunia non olet, memento dell'imperatore Vespasiano rivolto al figlio Tito che lo rimproverava di avere imposto una tassa sugli orinatoi pubblici.
L'Europa che si rispecchia nella vacuità terrena di Federica Mogherini non si occupa né preoccupa della espansione militare oltranzista dell'Iran in tutto il Medio Oriente, men che meno delle minacce dirette che migliaia di pasdaran e di missili iraniani dislocati in territorio siriano costituiscono per quella Israele di cui gli ayatollah continuano a preconizzare la scomparsa. L'Europa e Mogherini si occupano e preoccupano unicamente di un interscambio Europa-Iran che è aumentato dai 7,7 miliardi di euro del 2015 ai 21 miliardi del 2017: l'export è cresciuto del 31,5%, l'import dell'83,9%. In particolare l'Italia è diventata il primo partner commerciale con 1,7 miliardi di euro di export nel 2017 e, rispetto al 2016, ha visto il suo scambio con Teheran più che raddoppiare; quello tra Iran e Francia è aumentato del 118% addirittura in pochi mesi, da gennaio a ottobre del 2017.

 Questa Europa è priva di visione a medio-lungo termine
  Questa è l'Europa, di questo solo sa ragionare, priva totalmente - Mogherini ne è il simbolo vivente - di una visione politica strategica di medio-lungo periodo. È la stessa Europa che nel nome di una cieca politica di austerity (qui il simbolo è la mediocre Kanzlerin Angela Merkel) ha letteralmente "costruito" politicamente quel favore popolare, quel consenso ai sovranisti e ai populisti che pure si accinge ora a spazzare via quell'asse popolar-socialdemocratico che l'ha governata da sempre. Mogherini con l'Iran e Merkel con l'economia portano il Vecchio Continente verso uno svuotamento pieno del suo ruolo, persino della sua straordinaria forza politica ed economica. Da grande potenza mondiale quale poteva essere, l'Europa si accinge a diventare un coacervo di crisi nazionali. Si è dunque facili profeti nel prevedere che gli affari europei che Mogherini continua a riproporre con un Iran sempre più aggressivo, ma sconvolto da una crisi interna inevitabile, si riveleranno nel breve periodo un fallimentare disastro con perdite per decine di miliardi di dollari per l'Europa.

(Lettera43, 27 settembre 2018)


Altre scritte pro Br a Milano. E insulti in arabo anti-Israele

Dopo i volantini di Sesto, nuovi messaggi per la Lioce. Lega: «Inquietante». Spray rosso anche in via Padova.

di Alberto Giannoni

MILANO - Scritte rosse. Inquietanti scritte rosse pro Br sono apparse in piazza Pompeo Castelli. E deliranti scritte rosse contro Israele sono apparse ieri in via Padova. A un giorno di distanza dai manifesti di solidarietà con le Brigate rosse apparsi a Sesto San Giovanni (denunciati dal sindaco Roberto Di Stefano e condannati trasversalmente dai partiti, nonché dall'Anpi) altri segnali preoccupanti arrivano dunque a Milano. A Villapizzone, all'angolo fra piazza Pompeo Castelli e la via privata Fassini, sulle mattonelle bianche di una palazzina privata è comparsa una scritta con lo spray: una data, 28/9/2018, e un messaggio, «solidarietà alla Br-Pcc Nadia Lioce», il tutto corredato con falce e martello e stella a cinque punte. La data fa riferimento al giorno in cui all' Aquila è fissata un'udienza del nuovo processo (per le proteste in carcere) a carico di Nadia Desdemona Lioce, la brigatista che all'Aquila sconta il carcere a vita dopo le condanne per gli omicidi dei professori riformisti Marco Biagi e Massimo D'Antona e del sovrintendente dei polizia Emanuele Petri.
   I messaggi pro-Br sono stati fotografati ieri, poi cancellati in serata. Il capogruppo leghista del Municipio 8 Enrico Salerani, ha commentato così: «Per via Bramantino (le scritte omofobe alla Scuola Popolare, ndr) è nata una polemica incredibile, ne hanno parlato tutti i Tg e tutti i quotidiani. Adesso voglio vedere se useranno la stessa enfasi. Un'altra scritta mi è stata segnalata a poche decine di metri, nello stesso quartiere». «Non capisco - ha aggiunto - come possano resistere queste enclavi. Questa è una zona già problematica, ed episodi simili preoccupano. Poco tempo fa, durante una manifestazione, non abbiamo fatto in tempo a chiudere una saracinesca e ci hanno distrutto la vetrata della sezione, con trenta persone dentro». «Poi - ha proseguito - per due manifesti di Casa Pound è stata fatta una sceneggiata, ora non vorrei vedere doppiopesismo da parte di qualcuno».
   In via Padova, intanto, è comparsa la scritta rossa «Israele Stato terrorista», parole anche in arabo. E l'Associazione Milanese Pro Israele osserva «con grande preoccupazione i gravi segnali di antisemitismo che negli ultimi mesi si stanno presentando a Milano». «Prima i cori esplicitamente antisemiti in arabo del 9 dicembre e ora critiche infamanti e disgustose verso l'unica democrazia in Medio Oriente che trapelano il solito odio anti ebraico. La lingua e la zona delle scritte insieme agli slogan islamisti del 9 dicembre fanno pensare ad una onda lunga di un certo antisemitismo già presentate in altre capitali europee». «Questo fenomeno - conclude l'Ampi - in meno di dieci anni ha portato alla strage di Tolosa contro la scuola ebraica, il museo ebraico di Bruxelles e dell'hyper kasher a Parigi. È una battaglia che Milano deve affrontare in modo trasversale, nessuno si può sottrarre».

(il Giornale - Milano, 27 settembre)


Israele tra due fuochi. Ma Putin fa il doppio gioco

di Fiamma Nirenstein

Sembra che la Russia stia giocando un gioco troppo complicato, dopo che un suo aereo è stato per errore abbattuto da un missile del suo amico Assad e gli ufficiali russi hanno seguitato, nonostante le prove dicano il contrario, ad accusare Israele contraddicendosi varie volte. La crisi è ancora in corso, è un incubo che si realizza: Israele che viene in conflitto con l'orso russo. Non è un caso che Netanyahu da quando nel 2015 la Russia si è schierata in Siria in difesa di Assad, tenendo al suo fianco gli iraniani e gli Hezbollah, abbia incontrato Putin ben tre volte, per evitare che i gomitoli della storia li portino a un confronto non desiderato.
   Adesso dunque, per uscire da questo guaio, ora che Putin ha tenuto il suo punto per non deludere gli alleati, non è una buona idea che Putin fornisca ad Assad l'S-300, un incredibile sistema missilistico che non dovrebbe essere dato nelle mani di un avventuriero macellaio pronto a irrorare di gas nervino il suo stesso popolo. Non è una buona idea anche perché Israele, che pure da tempo era pronto a questa mossa, non è per niente contento. E oggi come oggi, se non ci saranno svolte drammatiche, il fatto che Israele sia preoccupato, significa che anche gli Stati Uniti lo saranno, e le tensioni Usa-Russia possono acuirsi.
   Putin ha subito uno smacco tecnico imbarazzante, i suoi stessi alleati gli hanno buttato giù un aereo con 17 persone a bordo, e quindi cerca di rimediare di fronte alla sua opinione pubblica e a quella mediorientale. Presso le quali, dare addosso agli ebrei è sempre piuttosto di moda.
   L'Europa a sua volta, durante questo sciagurato termine mogheriniano, ha trovato un marchingegno tecnico per seguitare a fare affari con l'Iran, anche qui in polemica con gli Usa. Il fronte anti Trump è popolare presso l'Ue, unificante di fronte alle vere, profonde fratture che la dividono.
   Ma tutte queste mosse vanno solo nella direzione di rafforzare un regime che prepara solo delusioni, violenza, terrorismo, occupazioni imperialiste in Medio Oriente.
   E Israele ha già detto chiaramente che comunque perseguirà i suoi interessi: niente Iran sul confine. É il Paese che ha dichiarato che Israele è un albero ammarcito destinato a essere distrutto, e che adesso lo ha proditoriamente collocato fra le nazioni contro cui compiere una terribile vendetta dopo l'attacco terroristico di tre giorni fa. Netanyahu è diretto a New York per l'Assemblea Generale dell'Onu: Israele griderà di nuovo ma non più nel deserto. L'Iran ha rispettato l'accordo, ha detto la Mogherini. Si, quello di restare se stesso, accanito, imperialista, furbo, sicuro di potere impaurire e sedurre. Tutti, fuorché Israele. E adesso anche Trump.
   
(il Giornale, 26 settembre 2018)


Adesso la Russia sfida Israele La guerra in Siria diventa elettronica

di Lorenzo Vita

La scelta della Russia di inviare il nuovo sistema S-300 in Siria non è solo un segnale rivolto a Israele e a tutti i Paesi coinvolti nei raid nel Paese. È soprattutto un messaggio che indica come la guerra in Siria si stia trasformando in una guerra elettronica.
  L'annuncio sugli S-300 è infatti importante non tanto per il sistema missilistico in sé, ma per quanto dichiarato dalla Difesa russa: cioè la decisione di Mosca di rendere possibile bloccare i radar e i sistemi di comunicazione satellitare nemici ponendo fine alla libertà di navigazione.
  È questo che è particolarmente importante: molto più del tipo di sistemi missilistici di cui viene rifornita Damasco. Ed è su questo punto che si concentrano gli obiettivi russi e le attenzioni di Israele e Stati Uniti. Il primo per mantenere la superiorità aerea sulla Siria, il secondo per capire fino a che punto si possa spingere la Russia nella guerra elettronica.

 I nuovi sistemi russi
  Secondo le prime informazioni giunte dal quotidiano russo Izvestia, Mosca avrebbe già inviato nella base aerea di Khmeimim un aereo Ilyushin Il-76 con un carico di primi strumenti per aumentare il livello di deterrenza dei sistemi di comunicazione dei radar nemici. Un ombrello protettivo che sembra sia destinato a coprire non solo lo spazio aereo siriano ma anche le acque del Mediterraneo orientale davanti alle coste della Siria: lì da dove sono partiti i più recenti attacchi da parte dell'aeronautica israeliana.
  Un segnale che i vertici militari di Israele non intendono sottovalutare. Entro due settimane, la Russia armerà la Siria con questi sistemi rendendo molto più difficile alle forze aree delle Israel defense forces (Idf)la possibilità di operare nei cieli siriani e quindi di colpire gli obiettivi iraniani e di Hezbollah.
  Secondo il sito israeliano Debka, il sistema giunto nella base di Khmeimim sarebbe il Krasukha-4, "che può neutralizzare satelliti spia e radar terrestri e aerei e danneggiare l'EW nemico". A detta degli esperti, il Krasukha-4 è molto avanzato, anche se non è considerato il sistema di electronic warfare più sofisticato a disposizione dell'arsenale russo. "Il sistema può bloccare i sistemi di comunicazione, disabilitare i missili e gli aerei guidati e neutralizzare i satelliti e i radar di orbita della Low-Earth Orbit (Awacs) a distanze di 150-300 km, che coprono il nord e il centro di Israele".

 Israele rivedrà i suoi piani?
  Il guanto di sfida del Cremlino potrebbe quindi costringere la Fionda di Davide a rivedere i suoi piani operativi in Siria, perché adesso non sarà impossibile, ma certamente molto più difficile colpire i target che da sempre sono stati oggetti dei bombardamenti israeliani.
  Ma il guanto di sfida potrebbe essere stato comunque raccolto da Benjamin Netanyahu e dai comandanti delle Idf. Perché dalle ultime informazioni che giungono da Israele, non sembra che lo Stato ebraico abbia intenzione di rinunciare alle sue operazioni in territorio siriano.
  Lo ha ribadito anche il ministro della Difesa Avigdor Lieberman interrogato proprio su questo punto. Ai microfoni di Radio Kan, il titolare della Difesa israeliana ha detto: "Abbiamo operato con prudenza e responsabilità e solo nei casi in cui non abbiamo avuto altra scelta. Quindi nulla è cambiato o cambierà. Questa è la nostra politica".
  Ma qualcosa sembra destinato a cambiare per forza, visto che l'intelligence israeliana è all'opera per capire come potrebbe muoversi l'aviazione senza essere costretta a rinunciare alle sue strategia siriane. Sicuramente le Idf andranno molto più caute nei prossimi strike: che ci saranno, perché adesso Israele non può pubblicamente dichiarare di aver perso la propria libertà di manovra interrompendo i suoi raid. Ma la questione è capire se questo avverrà con il placet russo, come avvenuto in questi anni, o se questo vorrà dire sfidare Mosca in un duello elettronico dai risvolti molto complessi.

 Il possibile aiuto degli Stati Uniti
  Un duello che già è stato realizzato altre volte in passato, ma che adesso costringe Israele a un passaggio ulteriore: chiedere l'assistenza degli Stati Uniti. Fino ad ora, Netanyahu ha avuto le spalle coperte da Donald Trump, ma si è saputo destreggiare in Siria anche autonomamente: la potenzialità, anche cyber, della propria aviazione suppliva perfettamente anche in assenza di un supporto concreto da parte americana.
  Ma adesso, con un'area che potrebbe estendersi per centinaia di chilometri e non più per piccole porzioni di territorio, la guerra elettronica si fa estremamente più complessa. Come suggerito da Debkafile, un conto sono operazioni chirurgiche contro obiettivi specifici del campo di battaglia elettronico: un altro conto è un intero Paese coperto dai sistemi russi. Ed è possibile che nel vertice fra Netanyahu e Trump a New York si discuta anche di questo.
  Del resto Israele non è l'unico Paese interessato a queste evoluzione delle dinamiche siriane. Il Pentagono è perfettamente consapevole dei rischi per le proprie forze aree e lo ha dimostrato anche l'ultimo episodio, in cui sembra che un Su-35 russo abbia intercettato un F-22 americano mentre volava all'interno dello spazio aereo siriano.
  Proprio per questo motivo, oltre che per il legame esistente fra l'amministrazione Trump e il governo Netanyahu, il presidente Usa avrà sicuramente un occhio di riguardo alle richieste israeliane. Anche perché le forze Usa potrebbero essere molto interessate a capire i sistemi di difesa russi, testandoli direttamente in Siria.
  Ma anche le altre potenze coinvolte nella guerra in Siria non possono rimanere indifferenti alla scelta del Cremlino. Questa decisione russa di fatto pone Mosca a un livello operativo molto più avanzato di quanto ci si potesse attendere. E Francia e Regno Unito, che operano costantemente al largo della Siria (e con la prima probabilmente coinvolta nel raid su Latakia), non possono che essere interessate a un sistema che di fatto blocca anche le loro forze aeree e navali.

(Gli occhi della guerra, 26 settembre 2018)


Israele - Russia, Tel Aviv tenta la mediazione in Siria

Accordo raggiunto con Putin?

di Marco Paganelli

La decisione russa di rispondere all'abbattimento, attribuito a Israele, del suo jet in Siria genera preoccupazione in tutto il mondo. Mosca vuole tutelare i propri militari, presenti in loco, dopo l'uccisione di 15 di loro, deceduti nello schianto del mezzo, nella notte tra il 17 e il 18 settembre scorso.

 La Russia blinda l'alleata Siria
  Vladimir Putin ha annunciato così che i suoi soldati schiereranno un paio di batterie, dei temutissimi missili S300, nel paese mediorientale. La località, secondo quanto riferito dai media, dovrebbe essere situata presso la città di Latakia. L'esercito potrebbe dislocarne però successivamente persino altre 8 al confine con Giordania, Israele, Libano e Iraq. Non ci sono conferme di tali indiscrezioni, ma un passo del genere sarebbe deleterio per l'intero Medioriente in quanto aumenterebbe la tensione regionale.

 Israele prova ad abbassare i toni
  Il premier dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu, ha comunicato che proseguiranno i raid aerei contro i target di Teheran ed Hezbollah sul suolo siriano, coordinandosi con Mosca grazie ad un accordo raggiunto tra i responsabili dei due eserciti, nonostante la decisione presa da Vladimir Putin, col via libera di Bashar al - Assad, di rendere inaccessibile lo spazio aereo. Lo ha annunciato, in una nota, il gabinetto di sicurezza riunito d'urgenza, in mattinata, a Tel Aviv. Le autorità hanno posto nuovamente, nel comunicato, le proprie condoglianze per l'uccisione dei militari russi nel tragico incidente della settimana scorsa (si attende ora la reazione della controparte a tali nuove dichiarazioni). Altre notizie che si susseguono, in queste ore concitate, parlano di una presunta decisione della Casa Bianca di inviare all'esercito israeliano, storico partner di Washington, vettori molto potenti, entro i prossimi 7 giorni, per rafforzare la propria sicurezza.

 La guerra elettronica russa in Siria contro Israele e i suoi alleati
  Il pentagono potrebbe reagire così alla decisione di Mosca di istituire, su tutto il paese guidato da Bashar al - Assad, un'unica grande zona di interdizione al volo e di avviare "azioni di disturbo", mediante mezzi elettronici, dei velivoli ostili al governo di Damasco. Le misure in questione, minacciate ieri, potrebbero causare difficoltà non solo ai caccia di Tel Aviv, nel colpire i target di Hezbollah e dell'Iran sul suolo siriano, ma anche a quelli americani e di altre nazioni impiegati regolarmente nell'area.

 Mosca: "Nuovo allarme armi chimiche, provocazione Occidente"
  Il ministro degli Esteri del Cremlino, Sergej Lavrov, ha cercato di rassicurare oggi sostenendo che i provvedimenti del suo paese non rappresentano una pericolo per nessuno. Ha lanciato, invece, l'ennesimo allarme legato al fatto che sono giunte armi chimiche (il loro uso è vietato dalle convenzioni internazionali) nella città di Idlib, anche dall'Europa, pronte per essere utilizzate. Le immagini riprese con telecamere, diffuse poi nei circuiti mediatici, servirebbero all'Occidente per incolpare il governo locale e ottenere il "casus belli" per avviare ulteriori azioni non diplomatiche. La realizzazione di prospettive così cupe potrebbe scatenare dunque una rappresaglia, come quella dello scorso aprile, dei mezzi militari di Donald Trump insieme a quelli di Londra e di Parigi in uno scenario, però, ben più complicato di allora. Il tycoon, Emmanuel Macron e Theresa May potrebbero trovarsi infatti a scontrarsi direttamente con l'esercito siriano, quello iraniano e dello zar (i rapporti tra Mosca, Teheran e Damasco sono più che solidi da molti anni).

 L'incognita Iran e le sue minacce contro Usa, Gb e alleati
  Bisogna aggiungere, a questo scenario molto complicato, la volontà del governo di Teheran di attuare "una forte risposta" contro gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l'Arabia Saudita (quest'ultima è in guerra, per procura, contro il paese sciita anche nello Yemen) e Israele accusati di avere organizzato l'attentato, durante la parata militare svolta sabato scorso, nella città di Ahvaz. Il ministro della Difesa americano ha definito, nelle ultime ore, "ridicole" queste accuse iraniane. Non bisogna dimenticare che il paese degli Ayatollah gode di ottimi rapporti con la Siria ed entrambi beneficiano della protezione, diplomatica e militare, di due superpotenze: la Russia e la Cina.

 Vertice Assemblea Onu
  La speranza è che la diplomazia "sotterranea", cioè non sotto i riflettori mediatici, riesca a fermare questa pericolosa escalation. Le minacce iraniane e la nuova situazione in Siria sono state già al centro dei colloqui, nelle ultime ore, tra i funzionari dell'Eliseo e degli Usa e saranno nell'agenda del vertice, dei Capi di stato e di governo di tutto il mondo, che si tiene in questi giorni a New York in occasione della riunione annuale dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E' fondamentale ricordare che il Consiglio di sicurezza dell'Onu non è riuscito a fermare, a causa di forti divergenze al proprio interno, la crisi siriana che ha provocato, dal suo inizio nel 2011, oltre mezzo milione di morti.

(Agenzia Stampa Italia, 26 settembre 2018)


«Bruxelles sarà islamica». Sharia nel cuore d'Europa

Il leader musulmano: «Entro il 2030 noi la maggioranza. E succederà anche in Italia»

di Manila Alfano

La capitale dell'Unione Europea con il destino di diventare musulmana. Lo dicono i numeri, lo ribadisce orgoglioso Redouane Ahrouch, consigliere comunale ad Anderlecht, uno dei diciannove Comuni della Regione di Bruxelles Capitale, e fondatore del Parti Islam, il partito islamista che sta facendo molto rumore in Belgio. Le amministrative sono alle porte, il 14 ottobre arriva presto e loro sono pronti già da molto tempo. Leader del partito che vuole introdurre la sharia in Belgio, è un ex autista di bus che già negli anni '90 si era speso per la creazione di una delle prime moschee sciite della città, eletto a Molenbeek, il quartiere della Capitale divenuto celebre dopo gli attentati di Parigi del 2015. «Il 33% della popolazione è di religione islamica». Il consigliere srotola i dati e si fa presto a capire la portata del suo discorso. «Su 1,2 milioni di abitanti, ci sono circa 400mila musulmani. Nel giro di 12 anni, nel 2030 saremo in tutto 1,3-1,4 milioni e noi saremo la maggioranza».
   L'Occidente che cambia e lo fa in fretta, l'islamizzazione che come un'onda annunciata ora si abbatte nel cuore della vecchia Europa cogliendola però di sorpresa. Non c'è modo di sapere se la previsione di Ahrouch sul destino di Bruxelles sia esatta, perché il governo belga non pubblica dati ufficiali sull'appartenenza religiosa dei cittadini. Ma la prospettiva appare credibile dall'evidenza: da anni a Bruxelles, dove l'immigrazione dal Nordafrica è iniziata nei primi anni Sessanta, il nome più diffuso per i nuovi nati è Mohammed. E Bruxelles «non è una regione come un' altra, è la capitale d'Europa», sottolinea fiero Ahroueh. Contro il Parti Islam (sta per Intégrité, Solidarité, Liberté, Authenticité, Moralitè) in Belgio si è levato un coro di voci, da sinistra e da destra, per chiederne la messa al bando. Ma è troppo tardi. L'onda sembra ormai troppo vicina per fuggire, ora che la Costituzione belga, come tutte le Costituzioni democratiche, protegge la libertà di culto, di parola e di associazione: anche per questo partito che ha già proposto anche una sorta di apartheid all'interno dei mezzi pubblici: uomini dietro e donne davanti. Un movimento che ha già creato sconcerto, che si appella a valori universali come la giustizia sociale. Dopo le elezioni del 2012 però la musica è cambiata: oggi il partito Islam parla apertamente di sharia (benché all'occidentale) e vorrebbe reintrodurre la pena di morte, «ma solo in casi rari». E aggiunge una frase che suona come una minaccia: «L'islamizzazione - avverte - avverrà anche da voi in Italia, perché siete tra la prima e la seconda generazione».

(il Giornale, 26 settembre 2018)


Corrente ebraica anti islamica nell'Afd tedesca

Alice Weidel e Alexander Gauland, leader del partito tedesco Afd
I membri ebrei del partito dell'ultradestra tedesca Afd vogliono fondare un'associazione, che nascerà il prossimo 7 ottobre. «L'Afd è l'unico partito a livello federale a tematizzare l'odio antisemita musulmano, senza sminuirlo», ha detto il fondatore Dimitri Schulz, alla Dpa. «Un'immigrazione di massa di giovani uomini di cultura islamica, è nociva per la vita degli ebrei in Germania, a causa della socializzazione antisemita». Il nome ufficiale dell'associazione, che terrà l'assemblea costituente a Offenbach (Assia), non è stato ancora scelto, ma per il momento il gruppo si lascia individuare come JAFD. Secondo l'ultimo sondaggio Infratest, l'Afd è la seconda forza politica in Germania: con un vero e proprio balzo in avanti, il partito dell'ultradestra guidato da Alexander Gauland e Alice Weidel sarebbe oggi al secondo posto se si votasse adesso per il rinnovo del Bundestag. Afd verrebbe oggi votata dal 18% degli elettori tedeschi, superando così di un punto la Spd, ferma al 17%.

(Il Tempo, 26 settembre 2018)


Mosca consegnerà a Damasco i sistemi da difesa aerea S-300

La fornitura era nell'aria da anni ma Vladimir Putin aveva sempre rimandato la consegna di sistemi di difesa aerea a lungo raggio S-300 all'alleato siriano per non indispettire Gerusalemme, che considera l'S-300 una minaccia perchè in grado di colpire obiettivi in profondità anche nei cieli israeliani.
In seguito all'abbattimento, il 17 settembre scorso, dell'aereo russo IL-20 da intelligence, sorveglianza e ricognizione, il Cremlino ha rotto gli indugi e dopo aver dimostrato in modo circostanziato le responsabilità dei caccia F-16 israeliani nell'abbattimento del velivolo-spia colpito da un missile siriano S-200 (Sa-5) Vladimir Putin ha annunciato entro due settimane la consegna delle batterie di S-300 a Damasco
  Noi russi - ha detto Putin - consideriamo le azioni dell'aviazione israeliana come causa della tragedia", che ha visto morire i 15 soldati che erano a bordo dell'aereo, e "il dispiegamento degli S-300", che era stato sospeso tempo fa, "si rende necessario per la difesa delle truppe russe".
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, avvertito il capo del Cremlino che quelle armi "potrebbero cadere in mani irresponsabili". Con un chiaro riferimento alle forze iraniane e alle milizie Hezbollah presenti in Siria.
Stessa reazione da Washington dove il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton ha parlato di "escalation" chiedendo a Mosca di ripensarci. La Russia sembra però aver rotto gli indugi, mettendo da parte i toni moderati con cui lo stesso Putin aveva commentato il tragico "incidente" dell'IL-20.
  A far cambiare idea al presidente avrebbero contribuito le pressioni dell'establishment militare e in particolare del ministro della Difesa, Sergey Shoigu, a favore di una risposta "muscolare" e i dati emersi circa la ricostruzione degli eventi del 17 settembre in cui emerge (ma Gerusalemme nega) che i piloti degli F-16 con la stella di David abbiano usato deliberatamente l'IL-20 per farsi scudo dai missili siriani.
Lo avrebbero dimostrato i dati raccolti dal sistema di difesa aerea russo S-400 schierato nella base aerea russa di Hmeimim, presso Latakya, rivelando che il missile anti-aereo siriano stava inseguendo un jet israeliano F-16 prima di alterare bruscamente la sua traiettoria e colpire l'aereo russo.
Secondo il portavoce del ministero della Difesa russo, il maggiore generale Igor Konashenkov i dati radar del sistema di difesa aerea S-400 "hanno mostrato chiaramente la direzione del volo del missile S-200 lanciato dal sistema di difesa aerea siriano, così come le posizioni degli aerei russi e israeliani", ha detto Konashenkov, aggiungendo che "è abbastanza chiaro che il missile stava prendendo di mira il jet israeliano."
  Tuttavia, il missile ha improvvisamente cambiato rotta e "bloccato su un bersaglio con una sezione trasversale radar più ampia e una velocità inferiore", cioè l'IL-20 russo in fase di l'atterraggio. Il jet israeliano, che ha effettivamente usato il Il-20 come copertura dall'attacco, ha poi cambiato bruscamente la sua altitudine e la direzione del volo, ha detto Konashenkov.
L'aereo israeliano ha poi continuato a pattugliare l'area al largo della costa siriana, i dati del radar mostrano, confutando le affermazioni delle Forze di Difesa israeliane che i loro aerei erano già tornati nello spazio aereo israeliano al momento dell'incidente. "I dati non suggeriscono solo, ma dimostrano che la colpa del tragico abbattimento dell'aereo russo Il-20 ricade interamente sull'Air Force israeliana", ha detto il generale ai giornalisti.
Tutte le "affermazioni di Israele sul suo presunto non coinvolgimento in questa tragedia che ha causato la morte di 15 militari russi sono false" ha detto esplicitamente Shoigu aggiungendo che l'aeronautica israeliana ha dato ai russi meno di un minuto di preavviso prima di attuare i raid sulla costa fornendo inoltre false informazioni sulla posizione dei loro obiettivi.
  La decisione di fornire a damasco gli S-300 potrebbe cambiare gli equilibri nei cieli siriani come pure aumentare il rischio di scontri tra russi e israeliani.
Il presidente russo Vladimir Putin ha definito la mossa una misura "adeguata", volta a "prevenire qualsiasi potenziale minaccia" per le vite del personale di servizio russo schierato in Siria, in uno scambio telefonico con Netanyahu per il quale questi missili "rendono la situazione nella regione più instabile", confermando che Israele "continuerà a difendere i proprio interessi",
Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov , ha precisato che la decisione di Mosca di fornire a Damasco i missili antiaerei a lungo raggio non è un atto ostile nei confronti di "Paesi terzi", ma è stata dettata dalla necessità di garantire la "sicurezza" delle forze russe in Siria.
"La situazione relativa alla sicurezza dei nostri soldati, dei nostri piloti, che è emersa dopo la tragedia dell'Il-20, impone la necessità di adottare misure più' efficaci e vigorose".
  In realtà queste possono già contare sull'ombrello protettivo di difesa aerea offerto dagli S-400 (nelle foto a lato e sotto) schierati a Hmeymin, sulle batterie di S-300 poste a protezione della base navale di Tartus e sui sistemi di difesa aerea imbarcati sulle navi russe nel Mediterraneo Orientale.
Per questo la consegna degli S-300 ai siriani ha il chiaro obiettivo di potenziare le capacità delle forze di Assad di difendersi e persino prevenire i raid aerei israeliani. Specie se verranno fornite le versioni più recenti dell'S-300, la VM con missili SA-23 con 300 chilometri di raggio d'azione o addirittura VMD (o V-4) con missili 9M82MD con un raggio d'azione di ben 400 chilometri.
Shoigu, annunciando l'invio, entro due settimane, di una batteria di S-300 alla Siria, ha aggiunto che la Russia "bloccherà i dispositivi di navigazione satellitare, i radar e i sistemi di comunicazione utilizzati dagli aerei da guerra nelle aree del Mar Mediterraneo al largo delle coste siriane", creando così una sorta di "bolla elettronica" controllata dai russi tesa a scoraggiare nuove incursioni israeliane o delle potenze Occidentali contro il territorio siriano.
  Shoigu ha ricordato che la decisione di sospendere le forniture degli S-300 a Damasco fu presa nel 2013 proprio su richiesta d' Israele, nonostante la Siria avesse pagato per la commessa e le sue unità avessero ricevuto il necessario addestramento. Una cortesia che ora è stata stracciata.
"Le condizioni di quella scelta sono venute a mancare", ha detto Shoigu, precisando che "i centri di comando siriani saranno dotati dei sistemi di controllo automatizzati forniti solo alle forze armate russe". Questo non solo permetterà ai siriani "d'identificare gli aerei russi" in volo, evitando dunque i casi di fuoco amico, ma anche di migliorare "l'emissione operativa degli ordini" ed eventualmente il lancio di missili anche nel caso in cui gli obiettivi dovessero essere individuati dai radar russi.
A quanto pare di comprendere, di fatto le difese aeree siriane saranno quindi pienamente integrate con il dispositivo russo presente nel paese arabo, rendendo così più ardua e rischiosa (anche in termini politico-strategici) ogni incursione aerea e missilistica sul territorio siriano.

(Analisi Difesa, 25 settembre 2018)


Netanyahu vieta ai ministri di discutere in pubblico l’abbattimento del Il-20 russo

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha invitato i ministri del suo governo a non discutere pubblicamente dell'abbattimento del velivolo russo Il-20 davanti alle coste di Latakia, in Siria, lo scorso 17 settembre. Lo riferisce l'emittente televisiva "Hadashot". Sebbene sia stata la contraerea siriana ad abbattere il velivolo, Mosca ritiene responsabili i militari israeliani dell'episodio che ha provocato una certa tensione diplomatica fra Russia e Stato ebraico. Netanyahu ha istruito i rappresentanti del governo oggi durante un incontro del gabinetto di sicurezza, prima di partire verso New York, dove parteciperà alle 73esima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. La riunione del gabinetto di sicurezza israeliano si è svolta ad un giorno dall'annuncio di Mosca di fornire alla Siria il sistema di difesa S-300, una mossa condannata sia da Israele che dagli Stati Uniti.

(Agenzia Nova, 25 settembre 2018)


I ragazzi iracheni che rischiano l'arresto per riscoprire la storia degli ebrei in Iraq

Un gruppo di ragazzi iracheni rischia l'arresto perché si è messo in contatto con coetanei israeliani, di origine irachena, e insieme stanno cercando di ricostruire la storia degli ebrei in Iraq, fino agli Anni Quaranta una delle comunità ebraiche più numerose e ricche di cultura. Il leader del gruppo, che si fa chiamare con il nome di un antico eroe mitologico mesopotamico, Gilgamesh, ha raccontato la loro vicenda al quotidiano Haaretz. Gilgamesh ha organizzato incontri a Istanbul e Berlino ma ora teme di finire sotto tiro da parte delle autorità irachene.
   Tutto è cominciato sei anni fa quando Gilgamesh ha incontrato un giovane israeliano, Ariel Dloomy, durante una conferenza in Europa. Anche Dloomy ricorda l'incontro e l'emozione di «ascoltare un iracheno della mia età con una conoscenza fantastica della storia degli ebrei in Iraq, amareggiato per le condizioni sociali ed economiche patite dal suo Paese a causa dell'esodo degli ebrei». Il padre di Dloomy era nato in Iraq e fuggito in Israele all'età di 13 anni. «I suoi ricordi erano amari - continua Dloomy -. Ci raccontava del Farhud, il pogrom a Baghdad del giugno 1941, quando 180 ebrei vennero uccisi. Ci raccontava di suo zio rapito da musulmani e mai ritrovato, delle proprietà perse dalla sua famiglia, della vita in povertà in Israele».
   Gli ebrei hanno prosperato in Iraq sin dal VI secolo prima di Cristo, ma il Farhud segnò l'inizio della loro fine. Nel 1948, poco prima della dichiarazione della nascita dello Stato di Israele, il governo iracheno cacciò gli ebrei dai posti pubblici, impose quote nelle università e in altre istituzioni, e appoggiò gli attentati alle sinagoghe. In seguito gli ebrei persero la cittadinanza e i loro beni vennero confiscati. Fra il 1948 e il 1951 quasi tutti i 120 mila ebrei iracheni erano stati trasferiti in Israele.
   Gli incontri organizzati da Gilgamesh e Dloomy sono i primi dagli Anni Cinquanta. «Gilgamesh ha portato con sé i suoi amici, e io discendenti di ebrei iracheni», spiega ancora il giovane israeliano: «Siamo riusciti a raccogliere fondi da fondazioni europee». I primi incontri sono avvenuti a Istanbul e Berlino, «perché erano destinazioni che non insospettivano le autorità irachene». Fra i partecipanti, rivela Haaretz, c'era anche l'imprenditore Vered Cohen-Barzilay: «Mio padre - spiega - era originario dell'Iraq, e io mi sono sempre sentito parte del Medio Oriente. Voglio capire meglio le mie origini Mizrahi, cioè dell'ebraismo mediorientale».

(NewsstandHub, 25 settembre 2018)


Putin protegge i cieli di Assad dai raid: in arrivo i missili S-300

di Giordano Stabile

La Russia fornisce a Bashar al-Assad nuovi, sofisticati sistemi antiaerei, istituisce una nofly-zone sopra Lattakia chiude i cieli della Siria ai raid israeliani. E' la conseguenza più clamorosa dell'abbattimento di un velivolo russo una settimana fa, durante una battaglia fra cacciabombardieri con la Stella di David e le difese siriane. L'annuncio è stato dato dal ministro della Difesa Sergei Shoigu: la Russia fornirà alla Siria «entro due settimane» i moderni S- 300, molto più avanzati rispetto agli attuali S-200. È stato proprio un missile lanciato da una batteria siriana di S-200 a colpire per sbaglio il quadrimotore russo Ilysushin in ricognizione davanti a Lattakia. Domenica Mosca ha accusato formalmente Israele di essere responsabile dell'abbattimento e ieri sono arrivati i provvedimenti «drastici» annunciati da Vladimir Putin.

 Israele: nessuna responsabilità
  Israele ha ribattuto che la responsabilità era dei siriani, colpevoli di aver risposto al fuoco alla cieca. Ieri il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che sono «la Siria e l'Iran» ad aver messo in pericolo i militari russi, ma non ha convinto il capo del Cremlino, deciso a blindare i cieli siriani per «garantire la sicurezza alle nostre forze armate». Sul banco degli imputati sono finiti però anche i sistemi obsoleti in dotazione ai siriani, sprovvisti del meccanismo di riconoscimento elettronico in grado di distinguere gli aerei nemici da quelli amici, il cosiddetto Identification Friend or Foe System. Ora tutti i sistemi in Siria ne saranno dotati. Le prime batterie di S-300 a essere consegnate ai siriani saranno quelle già presenti per difendere le basi russe.
  In realtà già nel 2013 Assad doveva ricevere gli S-300, ma Putin aveva bloccato la fornitura proprio su richiesta israeliana. Nel frattempo l'aviazione di Israele ha condotto centinaia di raid in Siria su basi e convogli dei Pasdaran e delle milizie sciite alleate. Il tutto con il tacito assenso di Mosca. L'abbattimento dell'Ilyushin ha cambiato la situazione. Rispetto agli S-200 gli S-300 sono dotati di un radar molto più potente e di missili più veloci e agili, in grado di mettere in seria difficoltà gli F-16 israeliani.
  Israele però dispone anche di una dozzina di F-35, cacciabombardieri a bassa tracciabilità radar. Finora l'aviazione israeliana li ha usati soltanto una volta, in un test operativo. Adesso i jet «invisibili» potrebbero essere la risposta agli S- 300. Gli F-35 sono stati concepiti proprio per distruggere le difese aeree in raid notturni per poi permettere ai cacciabombardieri tradizionali di agire senza ostacoli.

(La Stampa, 25 settembre 2018)


Ebrei nei Paesi islamici: discriminazione e fuga. Una storia dimenticata

Robiati Bendaud, allievo del rabbino Laras, ricostruisce una vicenda rimossa e sofferta

di Alberto Giannoni

Vittorio Robiati Bendaud
È una storia dimenticata, quella degli ebrei nei Paesi islamici. Ma è la storia della gran parte della comunità ebraica di Milano, i cui componenti provengono per lo più dai Paesi arabo-musulmani: la Libia, l'Iraq, la Siria e il Libano, la città di Mashhad in Persia fino alla cacciata dello Scià. Una storia volutamente dimenticata, per ragioni politiche: la vicenda degli ebrei nelle terre della Mezzaluna non è funzionale alla logica che incolpa di ogni male l'Occidente, e alla vulgata «antisionista», per non dire antisemita. Ora, a far luce su quella vicenda, arriva il saggio di Vittorio Robiati Bendaud, allievo prediletto del rabbino Giuseppe Laras e oggi coordinatore del tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia, che a Milano ha sede.
   «La stella e la mezzaluna», edito da Guerini, frutto di un lavoro di ricerca durato 8 anni, ripercorre in 250 pagine 1.400 anni di coesistenza, da Maometto fino alle soglie della Prima guerra mondiale. È il primo saggio che in Italia si occupa del tema.
   Famiglia di origini libiche, studi filosofici, Bendaud si ferma prima dei tanto vituperati guasti del colonialismo, prima della nascita di Israele, e prima della diaspora che porterà quasi un milione di ebrei a scappare dai Paesi islamici, lasciando tutto per rifarsi un vita, in Europa, negli Usa o in Israele, ovviamente senza retoriche o sovvenzioni, Bendaud esce dallo stereotipo di una idilliaca «convivenza», per raccontare quella che era solo una «coesistenza», rapporti complessi, discontinui e altalenanti di due «civiltà», entrambe eminentemente orientali: quella arabo-islamica ma anche quella ebraica, che in molti di quei territori era autoctona e precedente alla diffusione dell'islam: «Ci sono stati rilevantissimi prestiti culturali, religiosi e linguistici - spiega Bendaud - gli ebrei si esprimevano in arabo, anche se non potevano usare caratteri arabi. Il primo libro stampato nel mondo islamico era una Bibbia, da stampatori ebrei». Il pensiero ebraico per otto secoli si esprime in lingua araba, che divenne veicolo di scienza, letteratura e filosofia, in un' osmosi che oggi è spesso rimossa. Grandi prestiti, ma in un rapporto «complesso, sofferto, ambiguo». «L'ebraismo non sarebbe lo stesso - ammette Bendaud - senza l'incontro-scontro con l'islam».
   Niente versioni di comodo però. «Non si può parlare di convivenza, semmai di coesistenza, vista l'impermeabilità dei due gruppi e una società islamica che prevedeva una struttura discriminatoria, una "protezione" che era in sé anche una subalternità, sebbene variabile per intensità e durezza, nelle varie epoche e nei diversi Paesi». «C'è una forbice ampia, si va da una protezione-discriminazione soft a momenti di persecuzione attiva e violentissima». «In Europa - spiega Bendaud - sino all'età contemporanea il problema era: cosa ne facciamo degli ebrei? Che diritti hanno? Nel mondo islamico un posto c'era, regolamentato dal Corano e dalla Sharia. Gli ebrei dovevano pagare una tassa, riscossa fra l'altro talora con pratiche di grande umiliazione: restare per ore sotto il sole, mentre l'esattore da un baldacchino si rivolgeva loro in modo sprezzante, potevano essere percossi». Altri esempi di questa subalternità: «Gli ebrei non potevano uscire dai loro quartieri con le scarpe ai piedi, dovevano toglierle davanti alle moschee e al passaggio di un musulmano», Gli ebrei, insomma, erano discriminati, umiliati, tollerati e in genere risparmiati. È vero che la loro condizione era meno pericolosa di quella dei cristiani, anche perché non erano percepiti come una minaccia, privi com'erano di Stati alle loro spalle. Questa solitudine, tuttavia, li esponeva totalmente agli umori del momento e li privava di un porto sicuro in cui cercare riparo. Si determinò quindi un delicatissimo gioco con tre attori, due dei quali nella stessa condizione di soggezione, che creava competizione ma anche speciale solidarietà, come durante l'unico caso paragonabile alla tragedia indicibile della Shoah, quel genocidio armeno in cui gli ebrei occidentali salvarono migliaia di vite.
   Poi è arrivata la storia del tardo Ottocento e del Novecento. Con «l'arrivo dell' Occidente che - spiega Bendaud - è stato uno spartiacque, e ha inoculato elementi totalitari esogeni di cui hanno fatto le spese anche i musulmani, ma soprattutto gli ebrei e anche i cristiani, ieri come oggi». «E l'antiebraismo cristiano ha contribuito a modulare quello islamico tradizionale. Oggi sta avvenendo un processo inverso, anche in Occidente».

(il Giornale, 25 settembre 2018)


Ottant'anni fa Monaco. La lezione del vertice che non fermò il nazismo

Francia e Inghilterra permisero alla Germania di riprendersi i Sudeti che dopo la Prima guerra mondiale erano passati alla Cecoslovacchia. Ma la concessione non placò la brama di Hitler.

di Gian Enrico Rusconi

Gli accordi di Monaco del 29 e 30 settembre 1938 sono rimasti nella memoria storica come l'esempio più clamoroso e infausto del cedimento delle democrazie alla dittatura hitleriana. Il termine stesso di appeasement (pacificazione, accomodamento, ricerca della pace a tutti i costi) da allora ha cambiato senso diventando sinonimo di codardia e di cecità. Il più accanito ma isolato oppositore di quegli accordi, Winston Churchill, avrebbe detto in Parlamento con brutale preveggenza: «Dovevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra». Quelle parole erano rivolte al premier inglese Neville Chamberlain, uno dei protagonisti di quella vicenda, immortalato tra l'altro nella celebre fotografia che lo vedeva, appena messo piede in Gran Bretagna, agitare i fogli degli accordi sottoscritti. Per lui erano la prova tangibile che la guerra oscuramente minacciata da Hitler era stata scongiurata e si apriva un'era di pace garantita dalle «grandi» potenze europee. Era quello che sperava e attendeva l'opinione pubblica «il popolo» qualcuno direbbe oggi). Tutti i protagonisti sono festeggiati nelle rispettive nazioni: Gran Bretagna, Francia, Italia e persino in Germania.

 La nuova mappa
  L'oggetto specifico della trattativa a Monaco era la regione dei Sudeti, cioè la regione di confine tra Austria e Germania abitata da tedeschi (3,25 milioni), assegnata con la pace di Versailles al nuovo Stato della Cecoslovacchia, e perentoriamente rivendicata dalla Germania hitleriana. Ma Francia e Gran Bretagna si erano fatte garanti dello status quo - sino al 30 settembre 1938, quando la Cecoslovacchia senza neppure essere consultata è stata costretta a cedere i Sudeti ai tedeschi.
  Il nazionalsocialismo era andato al potere con l'esplicita intenzione di liquidare le conseguenze della pace di Versailles, di riconquistare i confini originari del Reich . Le potenze vincitrici della guerra mondiale tardivamente avevano tentato di correggere alcuni errori di Versailles d'intesa con gli ultimi governi della repubblica di Weimar. Ma con il nazionalsocialismo al potere, la situazione era diventata intrattabile.

 L'Anschluss
  Nel marzo 1938 il Führer era entrato a Vienna tra l'entusiasmo delle piazze austriache, realizzando l'Anschluss, il «ricongiungimento» tanto desiderato dei popoli di lingua e cultura tedesca all'interno di un'unica Grande Germania. (Anche qui, soltanto in un secondo tempo il termine Anschluss avrebbe acquistato il significato negativo e generalizzato di assorbimento coatto e ingiusto di un'altra una entità politica).
  Ma l'aspetto più straordinario di queste vicende è che tutti i successi hitleriani erano avvenuti senza manifeste azioni militari: soltanto con la loro minaccia. Hitler era riuscito ad ottenere tutto quello che voleva giocando sulla possibilità credibile di ricorrere alle armi. Era un giocatore d'azzardo, a pieno titolo. È così che si presenta a Monaco, accanto ai leader inglese (Chamberlain), francese (Daladier) e all'alleato italiano (Mussolini). Sin dall'inizio il Führer ha un comportamento singolare. «Hitler, con l'orologio in mano, si baloccava con l'idea di dare l'ordine di mobilitazione. Ma forse non faceva molto sul serio. È certo però che durante l'intera riunione era molto contrariato . Infatti pari tra pari non lo era comunque. Era costretto a trattare. Mussolini lo assecondava molto attento. Chamberlain trattava con i metodi di un uomo d'affari giuridicamente educato, facendo tirare la trattativa fino a mezzanotte, Come ricordo, al Führer è rimasto un amaro sapore».

 La rabbia del Führer
  Così ha lasciato scritto un attento osservatore presente alla riunione, il segretario di stato tedesco (e vice di Goering) Ernst von Weizsächer, Costui era il tipico nazional-conservatore, fiancheggiatore critico del nazionalsocialismo. Vedeva giusto nel constatare la contrarietà del Führer che doveva accettare un accordo, certamente favorevole nei suoi termini materiali, ma frutto di una contrattazione che limitava la sua sovranità decisionale.
  Ma dietro alla sofferta remissività di Hitler ci sono altri fattori: primo fra tutti la resistenza dei vertici militari tedeschi ad intraprendere un'azione di forza che avrebbe portato ad una guerra con gli occidentali, il cui esito poteva essere catastrofico. In realtà i militari si sbagliavano perché nell'estate/ autunno 1938 nessuna delle potenze occidentali era disposta a rischiare una guerra ritenendosi impreparata. Hitler invece proprio a Monaco intuisce la fatale fragilità della posizione occidentale. E ne approfitta: pochi mesi dopo infatti fa entrare le truppe tedesche a Praga, annettendo ciò che resta della Cecoslovacchia nel protettorato della Boemia e della Moravia e creando un regime-fantoccio in Slovacchia, Gli accordi di Monaco sono smentiti, azzerati. Francia e Inghilterra si limitano ad una protesta diplomatica, anche se accelerano il loro riarmo.

 La Polonia
  Hitler continua nel suo azzardo nel settembre 1939 attaccando la Polonia. I militari lo assecondano, anche se con qualche riluttanza, sino all'ultima sfida decisiva: l'attacco a occidente del maggio 1940. L'incredibile sconfitta della Francia in poche settimane sembra premiare «il genio militare e politico» del Führer, Toccherà a Winston Churchill il compito immane di tenergli testa e fare la guerra non semplicemente per riconquistare l'onore perso a Monaco, ma per salvare il futuro della democrazia in Occidente. La lezione di Monaco non è semplice. Non è quella semplicistica di non trattare mai con i tiranni e i dittatori o viceversa all'opposto di ricercare sempre la pace o l'intesa a qualunque costo. Occorre combinare prudenza e fermezza nelle proprie convinzioni di principio. Non usare la forza come ricatto ma essere pronti a ricorrervi risolutamente, quando è necessario. È l'arte più difficile della politica. È quella che è mancata alle democrazie.

(La Stampa, 25 settembre 2018)


Quei professori cacciati perché ebrei. Care Università, non basta scusarsi

Ottant'anni fa le leggi razziali del Fascismo

di Fabio Roversi Monaco

SONO oltre 80 le Università che oggi prendono atto di quanto è avvenuto nel 1938, dopo averlo cancellato dalla loro storia e dalla loro memoria. Peraltro, alcune di queste Università non sono colpevoli, ma caratterizzate da una 'vanità' mal riposta, poiché è nel 1938 che le vere Università di allora hanno violato ogni principio etico, accettando e condividendo le leggi razziali. Ciò è avvenuto per Bologna, Padova, Torino e altre Università, che hanno non subìto, ma accettato le leggi razziali, tanto che, nell'immediato dopoguerra, si sono impegnate nel danneggiare i professori ebrei discriminati con ulteriore perfidia. Ebbene, quelle stesse Università, più le sorelline minori, oggi presentano le scuse, quasi a saldo di un debito contratto in anni ormai lontani.
L'università di Bologna, di cui sono stato Rettore, affrontò l'argomento, e, nel 1998, fu apposta all'ingresso di via Zamboni 33 la lapide da me scritta, della quale sono orgoglioso, anche se il Rettore di Pisa rivendica oggi un presunto primato. Nella lapide si dà enfasi all'ignominia delle leggi razziali, ma ancor più al silenzio acquiescente della comunità scientifica.
I docenti e i ricercatori furono non discriminati, ma eliminati come scorie o metastasi delle Università italiane in quanto erano ebrei, «e quindi non italiani». Essi non accetterebbero mai queste scuse, generalizzate e ipocrite. Credo che l'Università di Pisa, che le definisce «solenni», vada criticata per questo. I professori e gli studenti, tutti morti, spesso massacrati nel fiore della vita, non ebbero allora nessuna difesa dall'Istituzione. Se nei campi di sterminio o comunque per espulsione, professori e studenti ebrei delle Università italiane hanno pagato un prezzo atroce, tutto questo non può essere oggetto di scuse. Scuse che la nostra tradizione ipocrita ritiene poi quasi sempre coperte da un perdono che può essere perfino implicito.
Il sistema seguito è deviante. per dare il giusto peso a quanto avvenuto, occorre ricordare in un luogo apposito, uno per uno, i professori cacciati, spesso non reintegrati nel 1945, e comunque maltrattati dalla burocrazia dopo la guerra, per il solo fatto di essere ebrei. L'Accademia italiana che si è riconosciuta razzista, salvo poche nobili figure, deve riconoscerne e celebrarne la coerenza. Le 80 Università si facciano carico di studiare le vite e le carriere dei professori di allora, per indicarli ai giovani a testimonianza di quanto lo spirito e la scintilla nell'uomo possano rivivere. Le scuse, presentate come risarcimento morale, vogliono essere una pietra tombale e non fanno rivivere nulla.
Le Università istituiscano borse di studio che ricordino quanto avvenuto per ogni studente o professore cacciato, in modo tale che il ricordo, la denuncia e l'azione, non le scuse e il perdono, possano essere in perpetuo contrapposti all'ignominia e all'acquiescenza. La Crui affidi a un gruppo di ricerca la tematica, per mettere in luce che gli ebrei erano perfettamente integrati, in quanto italiani; e che la loro presenza ha sempre rappresentato il meglio del sapere.
Pochi (0,1%), ma perfettamente integrati, gli ebrei nell'ambito della nazione. molti, anzi moltissimi (7%) gli ebrei professori nelle Università italiane. Di livello superiore, in tutto il mondo, la qualità dei ricercatori ebrei, che hanno conseguito per l'Italia almeno quattro premi Nobel. Fondamentale il ruolo di Fermi e di altri come lui. Questo va detto per respingere una frase vile: «Sono ebrei, e, in quanto tali, non Professori italiani (giusto, quindi, che fossero cacciati)».
Le Università italiane trovino, per una volta, la forza di volare più alto, e quelle esistenti nel 1938 individuino come obiettivo quello di favorire al loro interno la rinnovata presenza di professori ebrei, anche rafforzando gli scambi internazionali.

(il Resto del Carlino, 25 settembre 2018)


La Russia sfida Israele, missili più moderni ad Assad

L'annuncio del ministro della Difesa: entro due settimane forniremo gli S-300

di Giordano Stabile

Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo
Il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha annunciato che la Russia fornirà alla Siria «entro due settimane» i moderni sistemi anti-aerei S-300, molto più avanzati rispetto agli attuali S-200. Una settimana fa un missile lanciato da una batteria siriana di S-200 ha colpito per sbaglio un Ilyushin, quadrimotore russo di ricognizione, durante un raid condotto da quattro F-16 israeliani. Ieri Mosca ha accusato Israele di essere responsabile dell'abbattimento, costato la vita a 15 avieri. Le forze aeree israeliane hanno ribattuto che la colpa era dei siriani che avevano risposto al fuoco alla cieca.

 Fine di una tacita intesa
  L'incidente è dovuto però anche ai sistemi obsoleti in dotazione ai siriani, che erano sprovvisti del meccanismo di riconoscimento elettronico in grado di distinguere gli aerei nemici da quelli amici. Anche per questo Mosca ha deciso di consegnare subito gli S-300, che saranno integrati nei sistemi russi presenti in Siria. Il contratto, firmato all'inizio degli anni Duemila, prevedeva la consegna già nel 2013 ma la Russia l'aveva sospesa proprio su richiesta israeliana. L'aviazione di Israele ha condotto in questi ultimi cinque mesi centinaia di raid in Siria su obiettivi legati ai Pasdaran iraniani e alle milizie sciite alleate, a cominciare da Hezbollah, con il tacito assenso di Mosca. Ma l'abbattimento dell'Ilyushin ha cambiato la situazione.

 Decisione di Putin in persona
  La decisione, ha precisato Shoigu, è stata presa in persona dal presidente Vladimir Putin, che aveva annunciato la scorsa settimana misure drastiche «per aumentare la sicurezza delle nostre truppe in Siria». I militari siriani delle difese anti-aeree «hanno già ricevuto l'addestramento» e questo significa che gli S-300 saranno operativi in tempi brevi. Rispetto agli S-200 sono dotati di un radar molto più potente, che individua obiettivi fino a 350 chilometri di distanza, e di missili più veloci e agili, in grado di mettere in seria difficoltà gli F-16 israeliani. La mossa, assieme alla chiusura dello spazio aereo siriano, è un segnale chiaro allo Stato ebraico: la risposta a eventuali nuovi raid sarà molto più decisa.

 La risposta israeliana, gli F-35
  Israele però dispone di una dozzina di F-35, cacciabombardieri a bassa visibilità radar, che possono essere usati in missioni notturne senza essere individuati dai sistemi di difesa russa. Finora l'aviazione israeliana li ha usati soltanto una volta, come test operativo. Ora i jet "stealth" potrebbero essere la risposta alle nuove difese siriane. Gli F-35 sono stati concepiti proprio per distruggere le difese aeree - come gli S-300 e gli ancora più avanzati S-400 - per poi permettere ai cacciabombardieri "tradizionali" di compiere i raid senza ostacoli.

(La Stampa, 24 settembre 2018)


Oggi a New York incontro tra Al Sisi e Netanyahu

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, incontrerà oggi a New York il presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, a margine della 73ma sessione dell'Assemblea generale dell'Onu. Lo riferisce oggi la stampa egiziana. Al Sisi ribadirà a Netanyahu che la soluzione a due Stati deve far parte di qualsiasi futuro accordo di pace statunitense e deve comprendere i principi previsti dai precedenti negoziati, riferisce l'emittente israeliana "Channel 10".
   Ieri, 23 settembre, il quotidiano panarabo edito a Londra "Al Hayat" ha reso noto che l'Egitto ha proposto un nuovo quadro per la riconciliazione tra i due principali partiti palestinesi, Fatah e Hamas. Inoltre, il piano egiziano include un messaggio di Israele ad Hamas, che richiede lo stop delle manifestazioni del venerdì lungo la linea di demarcazione con la Striscia di Gaza e la creazione di una zona cuscinetto di 500 metri lungo la barriera interdetta all'accesso, riferisce "Al Hayat". Questo piano prevede la cessione all'Autorità nazionale palestinese del controllo di Gaza, dal 2007 amministrata da Hamas, e dei limiti al braccio armato di Hamas, le Brigate Ezzeddin al Qassam, e alle agenzie di sicurezza dell'enclave. Inoltre, il progetto prevede che Hamas accetti la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967.

(Agenzia Nova, 24 settembre 2018)


Shoah: violata targa Perlasca

"Un insulto inaccettabile alla storia e alla memoria di una persona giusta che, in silenzio e con grande coraggio, ha salvato migliaia di persone dalla persecuzione razziale del nazifascismo". Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, condanna senza appello

PADOVA - "Un insulto inaccettabile alla storia e alla memoria di una persona giusta che, in silenzio e con grande coraggio, ha salvato migliaia di persone dalla persecuzione razziale del nazifascismo". Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, condanna senza appello il vandalismo di ignoti contro la targa che Varese ha dedicato a Giorgio Perlasca, il commerciante padovano che a Budapest, fingendosi console spagnolo, ha salvato migliaia di ebrei dall'annientamento nazista. Israele gli ha tributato il titolo di 'Giusto tra le nazioni' iscrivendo il suo nome nel memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme .
   "Mi auguro davvero che gli inquirenti (cui chiediamo di identificare al più presto gli autori) ci confermino che si è trattato soltanto di un atto di stupidità e ignoranza - prosegue il presidente del Veneto - perché colpire la memoria di un nostro concittadino, che ha custodito con grande discrezione nel suo cuore quanto fece mosso unicamente dal suo senso di giustizia e umanità, risulta per noi una violenza inaccettabile. Un vero e proprio atto blasfemo, giusto a ottant'anni dalla vergogna italiana delle leggi razziali".

(Adnkronos, 24 settembre 2018)


Ebrei a Collecchio: dalle leggi razziali alla fine della Seconda guerra mondiale

Il saggio di Ubaldo Delsante ricostruisce un capitolo inedito della nostra storia

 
La cinquecentesca Villa Lalatta, dove si rifugiarono Giuseppe Muggia e la sorella durante gli ultimi mesi della guerra, in una cartolina d'epoca.
«Tenere vivo il passato è un obiettivo che può essere raggiunto solo mediante l'opera attiva della memoria, che sceglie, rielabora e ricicla. Ricordare è interpretare il passato; o, più correttamente, raccontare una storia significa prendere posizione sul corso degli eventi passati». Parte da questa significativa citazione di Bauman lo studioso Ubaldo Delsante nell'introdurre il suo prezioso saggio «Con la faccia infarinata. Ebrei a Collecchio dalle leggi razziali alla fine della Seconda guerra mondiale» (Edizioni Graphital, 96 pp.). In queste pagine, dense di dati e di considerazioni importanti, Delsante ricostruisce un contesto. Scava con competenza nell'archivio della memoria. Scolpisce nella roccia della coscienza collettiva alcuni nomi e alcune storie individuali da non dimenticare. Perché quel passato così drammatico e deprecabile di razzismo e persecuzione non abbia più a ripetersi.
   L'autore affronta innanzitutto l'impatto delle leggi razziali nella macrostoria, così come nella microstoria locale. I discriminati furono circa 250 a Parma, «da contare su di una mano o poco più a Collecchio». Certo, tuttavia, non è il numero che conta, come rileva lo stesso Delsante, ma il significato di quella discriminazione. Dopo avere rievocato il contesto delle leggi razziali, lo studioso analizza nello specifico «l'intento predatorio» dell'antisemitismo; quindi, messo a fuoco «l'obbligo dell'autodenunzia», segnala le conseguenze pratiche che trovarono esito nell'esclusione sociale (ad esempio, di insegnanti e alunni) e poi nel sequestro dei beni.Ma quali sono i nomi degli ebrei che furono legati a Collecchio? Quale fu la loro (tragica) sorte? Delsante ne rievoca pubblici drammi e vicende private, a partire dal nome. Già, il nome: una sorta di tessera, unica, irripetibile, che, aggiunta alle altre, va a realizzare il mosaico della memoria.
   Ed ecco, dunque, Giuseppe Muggia, Raffaele Rossi, Bianca Eichhorst, Silvana Rossi, Enrichetta Artom vedova Melli, Emma Vigevani, Cesare Finzi, Ada Rossi Finzi, Giuseppe Parenzo (ma non solo: un ulteriore approfondimento è dedicato ad «altri ebrei e "misti"»).. A eccezione di Parenzo, peraltro ospite occasionale in paese, «nessuno degli ebrei, che in un modo o nell'altro avevano interessi nel territorio comunale di Collecchio, finì sui treni bestiame diretti ai campi di concentramento». Delsante approfondisce inoltre la questione della tomba dimenticata a Gaiano, opera della scultore ferrarese Arrigo Minerbi.«La tomba […] - spiega lo studioso - rimane indisturbata a Gaiano anche dopo la promulgazione delle leggi razziali, mentre a rischio è la vita dello scultore, che fortunatamente trova un "Giusto tra le nazioni", don Gaetano Piccinini», il quale lo aiuta a salvarsi. Altrove, anche le opere di artisti ebraici furono distrutte. Quale fu il bilancio di queste persecuzioni? Non mancarono confische (i beni furono restituiti nel dopoguerra), vessazioni, angherie. D'altra parte, il clima generale non si segnalava per l'odio nei confronti degli ebrei. «La legislazione adottata dal regime - precisa lo studioso - venne dunque calata in un contesto che non era per nulla ricettivo, nonostante la propaganda antirazziale messa in atto nelle più svariate forme». Ne è testimonianza l'atteggiamento restio alla collaborazione di funzionari e autorità locali quando si trovarono a dover attuare le leggi. Insomma, alla banalità del male si oppose la banalità di un bene diffuso. Questo importante saggio di Delsante, arricchito da un apparato di documenti e da un utile indice dei nomi, inaugura la collana «Memorie», promossa ed edita dal Comune di Collecchio.
   Come spiegano il sindaco Paolo Bianchi e l'assessore alla Cultura Michela Zanetti, «la storia locale, le sue memorie e, soprattutto, gli autori che se occupano, rappresentano un patrimonio documentale ed interpretativo che deve essere raccolto e sistematizzato, consegnato al futuro con la convinzione che "fare memoria" e "fare storia" siano due azioni contigue e conseguenti l'una all'altra».
   
(Gazzetta di Parma, 24 settembre 2018)


Rischio di guerra Russia - Israele?

Monito di Netanyahu: "I Raid proseguiranno sulla Siria". Mosca: "Israele responsabile dell'abbattimento del jet".

di Marco Paganelli

Benjamin Netanyahu ha detto a Vladimir Putin, nelle ultime ore, che la decisione annunciata oggi dal Cremlino di spostare la struttura difensiva missilistica S 300 in Siria, nelle prossime due settimane per tutelare i propri militari, è da "giocatori irresponsabili".
Il premier israeliano ha comunicato quindi, al presidente russo, che la scelta in questione aumenta i rischi legati alla sicurezza nella regione e che Israele continuerà a intraprendere i passi necessari per tutelare i suoi interessi. Lo ha riportato l'agenzia di stampa Sputnik.
   La fonte ha precisato, inoltre, che il ministero della Difesa di Mosca ha respinto quanto riferito dallo Stato ebraico in merito all'assenza di responsabilità di quest'ultimo nell'abbattimento, avvenuto lunedì scorso sopra i cieli di Latakia, del jet russo con a bordo 15 soldati deceduti nello schianto del mezzo. I dati emersi dal sistema radar S 400, situato presso la base di Hmeim, consentono di attribuire con certezza, secondo Mosca, la paternità dell'atto ostile del 17 settembre scorso ai caccia con la Stella di David. Questi ultimi e quelli di altre nazioni potrebbero avere però, a breve, più difficoltà a effettuare in modo indisturbato i raid contro bersagli, iraniani e di Hezbollah, presenti sul territorio gestito dal governo di Damasco. Ogni nuova azione offensiva potrebbe generare, infatti, una guerra diretta con Bahar al - Assad e soprattutto con lo zar suo alleato.
   Tutto questo si aggiunge alla volontà del governo di Teheran di attuare "una forte risposta" contro gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l'Arabia Saudita e Israele accusati di avere organizzato l'attentato, durante la parata militare svolta sabato scorso, nella città di Ahvaz.
   Le attuali dinamiche geopolitiche pongono seri rischi alla pace globale e gettano ombre fittissime sul vertice annuale, dei capi di stato e di governo di tutto il mondo, che inizierà a breve a New York.

(Agenzia Stampa Italia, 24 settembre 2018)


Nel giorno di Kippur, attacco alla sinagoga di Danzica

di Agnieszka Markiewicz (*)

Due giorni fa, nel giorno di Kippur, la più solenne festività ebraica, mentre si stava celebrando una funzione qualcuno ha lanciato una pietra attraverso la finestra della sinagoga di Danzica. Secondo i testimoni, è stato solo per caso che nessuna delle donne e dei bambini che erano accanto alla finestra all'interno del tempio sono rimasti feriti.
   Si tratta di uno dei più gravi attacchi contro la comunità ebraica da quando la Polonia ha respinto il comunismo nel 1989, e ricorda - per chi conosce la storia della Polonia moderna - l'aggressivo antisemitismo degli anni Trenta. Per i membri della comunità ebraica polacca di oggi, che sta vivendo un periodo di rinascita dopo l'olocausto si tratta di un evento traumatico.
   Per evitare facili accuse di allarmismo nel dare tanta importanza ad una pietra lanciata attraverso una finestra della sinagoga, concedetemi di contestualizzare questo evento all'interno dei più ampi sviluppi degli ultimi mesi. Una lettera anonima antisemita è stata infilata sotto la porta d'ingresso del Centro di Ricerca sull'Olocausto. A seguito della denuncia dell'accaduto alle forze dell'ordine, il pubblico ministero si è rifiutato di avviare un'indagine. Michał Szpądrowski, in precedenza rimosso dallo staff della campagna elettorale a sindaco di Varsavia di Patryk perché aveva scritto di voler "dare il benvenuto agli ebrei con un Kalashnikov", è stato il primo eletto nella lista dei candidati al consiglio comunale nel distretto di Varsavia.
   In numerose occasioni, contenuti antisemiti sono stati trasmessi sui canali della televisione pubblica. La presenza dell'Onr, una organizzazione fascista di estrema destra, è accettata negli spazi pubblici, nelle scuole e nelle chiese. Una quantità mai vista prima di materiale anti-semita è apparso su internet durante la controversia attorno all'emendamento dell'Atto sull'Istituto del Ricordo Nazionale, a seguito del quale, a marzo, tutte le principali organizzazioni ebraiche in Polonia hanno firmato una lettera esortando il governo polacco ad agire concretamente per combattere l'antisemitismo, dato che gli ebrei del Paese non si sentono sicuri.
   Tutti questi esempi sono accaduti negli ultimi mesi, e in tutti i casi le autorità hanno risposto con un nulla di fatto. Quando si sente dire che la Polonia è il posto più sicuro per gli ebrei in Europa, viene in mente un famoso detto: se è tutto così buono, perché è così brutto?
   Di certo, l'antisemitismo non è un problema puramente polacco, e in effetti, la comunità ebraica potrebbe sentirsi più al sicuro che in molti paesi dell'Europa occidentale. Tuttavia, dobbiamo ricordare che in Polonia la comunità ebraica è molto piccola, conteggiata in diverse migliaia (alcune stime si riferiscono a un massimo di 30mila persone con discendenza ebraica), e non può essere paragonata al mezzo milione di persone come la grande comunità ebraica di Francia. Inoltre, la Polonia è stata segnata in maniera eccezionale e tragica dai crimini del fascismo e dell'Olocausto, pertanto dovrebbe avere una particolare sensibilità riguardo alle terribili conseguenze possa portare l'odio. Non possiamo trarre giovamento dal fatto che la situazione potrebbe essere peggiore altrove, se ciò significa continuare a ignorare i preoccupanti avvenimenti qui da noi.
   Un ottimo esempio di come si può e si dovrebbe reagire è stato dato dal sindaco di Danzica, Paweł Adamowicz. Lo scorso giugno, durante una conferenza organizzata dall'Ajc assieme alla città di Varsavia, il presidente Adamowicz, insieme ai sindaci di Varsavia, Poznań e Białystok, hanno firmato una dichiarazione di "tolleranza zero per i pregiudizi, la xenofobia e l'antisemitismo". Il giorno dopo l'attacco alla sinagoga, il sindaco Adamowicz, insieme con i rappresentanti della Comunità Ebraica, la Chiesa Cattolica, la Chiesa Evangelica e altri, hanno preso parte a una cerimonia di riparazione simbolica del danno causato durante Yom Kippur, esprimendo solidarietà con la comunità ebraica e il rifiuto dell'odio e dell'antisemitismo.
   L'attacco alla comunità ebraica di Danzica dimostra che le parole hanno delle conseguenze. Se lasciate senza una forte reazione, l'incitamento all'odio si trasforma in azioni. Possiamo solo sperare che la pietra gettata nella sinagoga di Danzica funga da segnale di allarme e solleciti le autorità a tutti i livelli a prendere provvedimenti decisivi. Finché non si ammette l'esistenza del problema, è difficile immaginare di risolverlo.
(*) Agnieszka Markiewicz è "Rubin e Frances Partel" direttore dell'Ufficio per l'Europa centrale "Shapiro Silverberg" dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 24 settembre 2018)


Dal Pozzo incontra Di Segni: «Guardiesi legati agli ebrei»

 
 
Guardiagrele
GUARDIAGRELE - Il sindaco di Guardiagrele, Simone Dal Pozzo, insieme al suo vice Gianluca Primavera e all'assessore Marilena Primavera, sono stati ricevuti venerdì scorso nella sinagoga di Roma dal rabbino capo della Comunità ebraica Riccardo Shemuel Di Segni, per anni collaboratore del rabbino Elio Toaff. L'incontro organizzato grazie alla mediazione della guardiese doc ma romana di adozione Katia Ranieri e del suo consorte Gianluigi Rossi, è servito per ricordare l'80 anniversario della promulgazione delle leggi razziali. «Per noi guardiesi», ha sottolineato Dal Pozzo, «si è trattato di un atto doveroso, visto che la nostra cittadina ha un legame particolarissimo con la comunità ebraica. Va infatti ricordata la presenza del ghetto, il campo di concentramento negli anni della guerra, un matrimonio tra due ebrei celebrato nel febbraio del 1942 dallo stesso Elio Toaff, cittadino onorario di Guardiagrele, all'epoca rabbino di Ancora. E poi», aggiunge Dal Pozzo, «non bisogna dimenticare la storia di Emidio e Milietta Iezzi, "Giusti tra le Nazioni", i cui nomi dall'aprile del 1996 sono scolpiti sul "Muro dell'onore", nel Giardino dei giusti, a Yad Washem Gerusalemme».
   L'amministrazione comunale guardiese vuole infine ricordare che con le nuove relazioni desidera ridare linfa alla memoria, partendo da una delle pagine più tristi della storia. «Una vicenda», ha concluso Dal Pozzo, «che ha però rivelato l'identità accogliente della nostra cittadina, fatta di persone pronte a rischiare la propria vita per salvare quella altrui. Questo siamo stati e questo desideriamo continuare ad essere». Di Segni dal 2001 è rabbino capo della Comunità ebraica di Roma. Ha conseguito il titolo di rabbino presso il Collegio rabbinico italiano nel 1973 e come rabbino capo di Roma occupa la cattedra rabbinica più importante in Italia. Membro del Consiglio direttivo dell'assemblea dei rabbini d'Italia dal 1999 al 2007 e vicepresidente della Conferenza Rabbinica Europea, dal 2010.

(il Centro, 24 settembre 2018)


L'aereo russo abbattuto. Adesso Mosca alza il tiro: «Israele deve chiederci scusa»

Il ministero della Difesa russo insiste: la responsabilità dell'abbattimento del jet militare russo l Ilyushin-20 nei cieli di Latakia in Siria lo scorso 17 settembre è di Israele. Le giustificazioni israeliane, che incolpano dell'accaduto i siriani (sull'aereo abbattuto volavano 15 ufficiali russi, tutti morti) non sono state accolte: il Cremlino pretende le scuse ufficiali di Gerusalemme. Secondo Mosca il tragico incidente, avvenuto durante un'azione dell'aviazione militare israeliana su Latakia che portò all'impiego della contraerea siriana che colpì l'aereo russo in volo nella zona, è stato «causato da azioni negligenti e non professionali dei piloti israeliani, che usarono volutamente l'11-20 come scudo per difendersi dai missili della contraerea siriana». In un primo tempo era sembrato che Putin volesse evitare uno contrasto aperto con il premier israeliano Netanyahu, con il quale condivide gli sforzi per una gestione della crisi siriana. Lo stesso Netanyahu aveva inviato a Mosca una delegazione militare per chiarire l'estraneità israeliana al tragico incidente e sembrava che questo avesse chiuso la questione. Ieri invece il portavoce del ministero della Difesa russo è tornato ad accusare Israele, che nega ogni responsabilità.

(il Giornale, 24 settembre 2018)


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Jet russo abbattuto, l'accusa di Mosca: "La responsabilità è tutta di Israele"

Il 17 settembre un ilyushin è stato colpito dalla contraerea siriana su Latakia.Il Cremlino: azione sconsiderata.

di Giordano Stabile

Abbiamo esposto le nostre truppe al fuoco dell'Isis per recuperare i corpi dei soldati israeliani morti in Siria e ora Israele ci ringrazia così, con comunicazioni «fuorvianti» che hanno portato all'abbattimento di un nostro aereo. È questo il punto saliente della relazione del ministero della Difesa russo sull'incidente di una settimana fa nei cieli di fronte a Latakia. Un raid aereo dell'aviazione israeliana concluso con un missile della contraerea siriana che invece di colpire gliF-16 con la stella di David ha centrato un Ilyushin. Tutto per colpa, secondo Mosca, del mancato avvertimento da parte degli israeliani. La rivelazione del portavoce russo, colonnello Igor Konashenkov, cioè che una pattuglia di Spetsnaz si era spinta nel territorio controllato dallo Stato islamico vicino al Golan per individuare le sepolture e i resti di soldati caduti in battaglia nel 1973 e mai restituiti dallo Stato siriano, rivela la complessità della relazione fra lo Stato ebraico e la Russia.
Per tre anni, da quando Putin ha deciso di intervenire in sostegno di Assad, le due potenze hanno convissuto. Israele ha condotto centinaia di raid contro postazioni e convogli iraniani e Mosca ha lasciato fare, purché non venissero «messe a rischio vite dei militari russi», la linea rossa tracciata dallo Zar e concordata con Netanyahu.

 «Informazioni fuorvianti»
  Il Cremlino ora accusa Israele di «sconsideratezza» e ingratitudine. Konashenkov ha confermato che gli israeliani hanno avvertito del raid solo un «minuto prima» che gli F-16 si presentassero davanti a Latakia e le «informazioni fuorvianti riguardo la posizione dei raid hanno reso impossibile guidare l'lyushin verso un luogo sicuro». Ma il portavoce ha soprattutto enfatizzato la disponibilità dimostrata con Israele. Ha rivelato che la Russia ha convinto l'Iran a ritirare le milizie sciite, «1050 uomini, 24 sistemi missilistici anti-aerei e tattici, 145 altri pezzi di artiglieria» a «140 chilometri a Est del Golan», come chiesto da Israele.

 Le tombe di Aleppo
  C'è di più. La Russia ha «protetto tombe ebraiche ad Aleppo» oltre a inviare forze speciali alla ricerca dei resti dei soldati israeliani caduti. Un ufficiale, nota il portavoce' è rimasto ferito dall'Isis ma «la missione è andata avanti». Per Israele riportare a casa i soldati, vivi o morti, è priorità nazionale e il gesto russo è segno di grande amicizia. Anche per questo lo Stato ebraico ha usato toni contenuti e ieri ha ribadito che «gli aerei israeliani erano già rientrati nel proprio spazio aereo quando l'aereo russo è stato abbattuto»: la colpa è dei siriani. Il portavoce ha poi confermato la disponibilità di Israele a proseguire il coordinamento con la Russia in Siria. Ma lo spazio aereo siriano rimane chiuso, ufficialmente per «esercitazioni in corso». Secondo media vicini al governo di Damasco lo rimarrà anche dopo la fine delle manovre, il 26 settembre. È di fatto una no-fly-zone per i jet israeliani. Come nota l'analista militare Amos Harel, le argomentazioni russe sono «dubbie», ma destinate a creare «una nuova realtà». Molto meno favorevole a Israele. -

(La Stampa, 24 settembre 2018)


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Aereo abbattuto: a proposito del video del Ministero della Difesa russo

Putin e generali non sembrano pensarla allo steso modo sull'abbattimento dell'aereo russo in Siria

Il Ministero della Difesa Russo ha diffuso un video in 3D che mostra l'attacco israeliano al deposito di Latakia e l'abbattimento dell'IL-20M russo. Il portavoce del Ministero, il generale Konashenkov, ha accusato i piloti israeliani di irresponsabilità.
Sembra che ci sia un diversa idea tra il Cremlino, nella persona di Putin, e i suoi ministri. Il primo sembra avere la situazione sotto controllo, parla con il premier e i ministri israeliani e ha una visione lucida dell'accaduto. I secondi sembrano soffrire la sindrome anti-israeliana molto di moda nonostante i chiarimenti e le prove fornite dalle IDF....

(Rights Reporters, 24 settembre 2018)


* * *  Segue un'altra interpretazione dei fatti all'interno dello stesso sito  * * *


Aereo abbattuto: capriole e bugie russe. E Putin sarebbe amico di Israele?

Mai sentite tante bugie messe una in fila all'altra come quelle ascoltate ieri durante la conferenza stampa del Generale Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, che senza prendere minimamente in considerazione i rapporti israeliani, accusa Israele dell'abbattimento dell'aereo russo. Sembra quasi che Konashenkov abbia letto una velina proveniente da Teheran

Contrordine compagni, tra Russia e Israele non va affatto tutto bene come i più ottimisti speravano. Non potrebbe essere altrimenti. Putin è tutto fuorché un amico dello Stato Ebraico. E' il maggior alleato dell'Iran al quale non si è fatto scrupolo di vendere armi (gli S-300, per esempio) e con il quale ha interessi politici e militari convergenti.
Ieri i russi hanno chiuso le indagini sull'incidente accorso all'aereo IL-20 abbattuto per errore dalla contraerea siriana e, contrariamente a quanto affermato solo pochi giorni fa, hanno fatto ricadere le colpe su Israele....

(Rights Reporters, 24 settembre 2018)


Russia consegna gli S-300 ad Assad. Per Israele è allarme rosso

Putin aveva annunciato la scorsa settimana misure drastiche "per aumentare la sicurezza delle truppe russe in Siria" dopo l'abbattimento di un aereo.

di Umberto De Giovannangeli

La risposta è arrivata. Ed è di quelle che, al di là delle rassicurazioni verbali, fanno scattare l'allarme rosso ai piani alti del ministero della Difesa israeliano a Tel Aviv. Entro due settimane la Russia completerà la consegna a Damasco del sistema di difesa aerea S-300, precedentemente sospesa su richiesta d'Israele come risposta all'abbattimento dell'aereo russo IL-20 nel corso di un raid israeliano in Siria. Ad annunciarlo è il ministro della Difesa russo, Sergeij Shoigu. "Nel 2013, su richiesta israeliana, abbiamo fermato la fornitura alla Siria del sistema S-300, pronto alla spedizione e per il quale erano già state addestrate le truppe siriane. Oggi la situazione è cambiata e non per colpa nostra", ha dichiarato il ministro.
   La decisione, ha precisato Shoigu, è stata presa in persona dal presidente Vladimir Putin, che aveva annunciato la scorsa settimana misure drastiche "per aumentare la sicurezza delle nostre truppe in Siria". I militari siriani delle difese anti-aeree "hanno già ricevuto l'addestramento" e questo significa che gli S-300 saranno operativi in tempi brevi.
   Il Cremlino è stato sorprendentemente esplicito sui rapporti e sulle conseguenze dell'abbattimento dell'aereo russo, che pur essendo avvenuto a causa di un colpo sferrato dalla contraerea siriana, Mosca ha attribuito ad azioni "codarde" di Israele, ossia al fatto che gli F-16 usassero l'Il-20 da scudo. Una "negligenza criminale", ha detto il generale Igor Konashenko, portavoce del ministero. Per i russi non è vero che il pattugliatore è stato colpito dalla sbadataggine della contraerea siriana mentre i cacciabombardieri israeliani stavano già rientrando - versione ufficiale diffusa da Gerusalemme. Sono stati gli aerei della Israeli Air Force a indurre in errore le difese aeree del regime, hanno usato l'Il-20 come scudo, hanno penetrato il sistema di comunicazione tra siriani e russi (questo lo scrive la Tass), e per questo il fuoco della contraerea assadista l'ha centrato. "Naturalmente, secondo i nostri esperti militari, la causa della tragedia sono azioni deliberate dei piloti israeliani - ha rilanciato il portavoce del Cremlino - che certo non possono non danneggiare le nostre relazioni, e soprattutto questo sta costringendo la parte russa a prendere ulteriori misure efficaci per garantire la sicurezza delle nostre truppe in Siria".
   Il portavoce di Putin ha chiarito che le misure russe, compreso l'oscuramento delle comunicazioni e trasmissioni radar per i velivoli da attacco provenienti dal Mediterraneo, sono soltanto mirate a proteggere il contingente russo che sull'Ilyushin ha perso 15 uomini. "Per tutti dovrebbe essere evidente la necessità di azioni della Russia per migliorare la sicurezza dei suoi militari. Pertanto, in questo caso, la Russia è guidata esclusivamente da questi interessi. Queste azioni non sono dirette contro Paesi terzi, hanno lo scopo di proteggere i nostri militari", ha detto Dmitry Peskov, rispondendo alla domanda se la decisione di fornire alla Siria il complesso S-300 vada a ledere le relazioni tra Russia e Israele.
   Per Israele, che in sette anni ha effettuato oltre un centinaio di incursioni in Siria contro basi e mezzi iraniani e delle milizie sciite libanesi Hezbollah, il dispiegamento in Siria degli S-300 costituirebbe una minaccia ai suoi velivoli (un caccia F-1 6 è stato abbattuto dai siriani nel febbraio scorso) tenuto conto che del raggio d'azione degli S-300 (oltre 200 chilometri) e della capacità del suo radar di tenere sotto controllo anche lo spazio aereo israeliano.
   Le nuove regole di ingaggio russe costringono adesso Israele a rivedere i suoi piani in Siria. I militari israeliani hanno detto che non fermeranno gli attacchi contro obiettivi iraniani in Siria: "L'Idf continuerà a operare in conformità con le direttive del governo israeliano contro i tentativi incessanti dell'Iran di stabilirsi in Siria e armare Hezbollah con armi letali e accurate", ribadisce un portavoce militare dello Stato ebraico. Putin avrebbe cercato di sfruttare "l'incidente" dell'aereo Il-20 dell'aviazione di Mosca abbattuto nei cieli della Siria 17 settembre "per cambiare le regole del gioco" con l'obiettivo di "controllare più da vicino la situazione in Siria" ed è convinto che "Israele possa danneggiare i suoi interessi", dice ad Agenzia Nova Ely Karmon, ricercatore presso l'International Institute for Counter-Terrorism (Ict) e The Institute for Policy and Strategy (Ips) dell'Interdisciplinary Center (Idc) di Herzlyia, in Israele, commentando la divergenza di posizione tra l'establishment militare e quello politico strategico di Mosca dopo l'abbattimento del cargo militare Il-20 a largo di Latakia. Dopo circa 24 ore dall'incidente, ha spiegato Karmon, "Putin ha capito che Israele non era responsabile, ma che era stato un grande errore di forze russe e siriane". Finora Mosca "ha dato una mano contro gli iraniani, ma non ha impedito il trasferimento di armi iraniane nel nord" della Siria, ha evidenziato il ricercatore, quindi Israele "deve attaccare" i centri di transito e smistamento di armi, che però ricadono nella no-fly-zone che Mosca vorrebbe istituire. Karmon ha concluso domandandosi se i russi siano "in grado di cambiare le regole del gioco e continuare a sfidare" Israele, sottolineando che "anche loro pagheranno un prezzo".
   Entrata nel suo ottavo anno, la devastante guerra siriana (almeno 500 mila le vittime, in larga parte civili, 11 milioni di persone sfollate, 5,5 milioni di profughi fuori dal Paese e 6,5 all'interno, l'economia distrutta) è sempre più una guerra internazionalizzata che rischia di far esplodere l'intera polveriera mediorientale, travolgendo così anche la "pax putiniana". E non solo in Siria.

(L'HuffPost, 24 settembre 2018)


Russia, Siria, Israele: incroci pericolosi sui cieli del Medio Oriente

Un incidente molto grave, che ha portato Israele vicino allo scontro con la Russia

di Ugo Volli

Nei giorni scorsi, mentre gli ebrei di tutto il mondo erano concentrati sulla ricorrenza di Kippur, un grave incidente è accaduto sui cieli del Mediterraneo prospiciente la Siria. Subito dopo che l'aviazione israeliana aveva bombardato un sito vicino al porto di Latakia, dove sembra ci fosse una fabbrica di guide di precisione per i missili destinati all'uso di Hizbullah per colpire Israele, la contraerea siriana ha abbattuto un aereo russo di raccolta dati e coordinamento militare di ultima generazione, uccidendo 15 soldati russi. Immediatamente il ministero della difesa della Russia ha dato la colpa a Israele, ma poi Putin ha smorzato la polemica. L'incidente è molto grave perché rompe un equilibrio delicatissimo fra Israele e Russia, la quale è alleata dell'Iran ma vuole mantenere buoni rapporti con lo stato ebraico. Ma perché è accaduto?
  Vale la pena di guardare alla dinamica dei fatti. Ci sono due versioni. La prima è quella russa, che sostiene che i jet israeliani si siano infilati nella scia del loro aereo spia per condurre il bombardamento senza rischio, approfittando della traccia radar molto più grande di quest'ultimo per non essere rilevati e usandolo come scudo contro l'antiaerea siriana. Israele inoltre avrebbe avvertito la Russia solo un minuto prima dell'azione, violando il patto di consultazione militare reciproca che è stato stabilito fra i due paesi per evitare incidenti, impedendo in pratica all'aereo spia di togliersi dal teatro di battaglia. La versione israeliana è assai diversa: l'aereo spia non sarebbe stato vicino durante l'azione e sarebbe stato colpito dagli spari indiscriminati dei siriani quando già i bombardieri erano nello spazio aereo israeliano, distante circa 400 chilometri da Latakia (un quarto d'ora di volo). Israele ha mandato il capo dell'aviazione a Mosca a esibire i documenti (probabilmente le tracce radar) che dimostrano la sua versione e lo stesso Putin ha parlato di "una catena di casualità".
  Bisogna notare che questo incidente mostra una fragilità insospettata dello schieramento militare russo in Siria. Se davvero le forze russe sono rimaste sorprese dall'azione israeliana, questo significa che il loro decantato sistema radar, che dovrebbe coprire l'intero Medio Oriente, funziona malissimo, anche perché Latakia è la loro principale base navale in Siria e avrebbe potuto essere colpita facilmente da qualunque nemico. Inoltre un aereo di guerra elettronica dell'ultima generazione, che non solo viaggiava non scortato, ma non si era accorto neanche lui del pericolo e soprattutto non era stato in grado di mettere in atto le contromisure elettroniche per evitare i razzi dell'antiaerea, che pure sono di fabbricazione russa, non i più moderni e dunque conosciuti benissimo dall'aviazione russa. Infine, è evidente che l'antiaerea siriana funziona molto male essendo incapace di distinguere amici (che pure dovrebbero essere forniti di un segnale in codice nel trasponder radar, che li identifica) dai nemici. Fra l'altro l'aereo spia è un quadrielica molto più lento dei jet israeliani, tanto più per il fatto di essere su una rotta di atterraggio. O forse i siriani (e i loro capi iraniani) non si fidano dei russi, credono, come si era detto in altre circostanze, che i russi abbiano passato i codici a Israele.
  Insomma, la posizione russa risulta seriamente indebolita, al di là della perdita di una aereo e dei militari. Ma la Russia è una potenza mondiale, che può rafforzare il suo dispositivo in Medio Oriente, anche se a rischio di innescare una spirale di guerra che potrebbe coinvolgere tutta la potenza di Israele e anche gli Usa. Putin ha scelto di bloccare l'escalation anche verbale. Probabilmente è consapevole del costo dell'egemonia che ha ottenuto in Medio Oriente e del rischio di un'alleanza con paesi infidi e aggressivi come l'Iran e i suoi satelliti. Nel migliore dei casi potrebbe capire perché Israele chiede con forza che sia smantellato l'apparato militare iraniano in Siria, che mette a rischio la pace nella regione. Certamente però nella calma raggiunta dopo l'incidente ha avuto grande peso il rapporto personale di fiducia che Netanyahu ha raggiunto con Putin, la credibilità che Israele ha come potenza forte e responsabile nella regione. Sono risorse essenziali nella lunga guerra che Israele si trova a condurre contro l'aggressione iraniana.

(Progetto Dreyfus, 23 settembre 2018)


Salviamo l'unica sinagoga di Mosul trasformata dall'Isis in deposito di armi

I jihadisti hanno distrutto i templi yazidi, le chiese cristiane, l'antica moschea Nuri. Siamo chiamati a un dovere: vogliamo o no liberare una delle città più antiche del mondo?

di Bernard-Henri Lévy

Quando, nel novembre 2016, ho iniziato le riprese per «La battaglia di Mosul», avevo un obiettivo: quali che fossero i rischi, le insidie o le vicissitudini di una guerra di cui nessuno sapeva quando o come sarebbe finita, dovevo raggiungere la tomba di Giona, sul Tigri, nel centro esatto della città.
Questo è stato fatto. L'ultima dimora, ridotta allo stato di cenere e macerie, di colui che ritengo il più enigmatico e in fondo, il più stimolante tra i profeti della Bibbia, appare in una delle sequenze finali del film.
E quando io e la mia troupe decidemmo che la missione era compiuta, ci fu questa doppia soddisfazione: aver seguito, fino alla fine, la prima metà di questa guerra di liberazione e allo stesso tempo aver trovato ciò che pensavamo fosse l'ultima testimonianza del fatto che la capitale del Califfato era stata, al tempo in cui si chiamava Ninive, un luogo eletto della narrativa biblica e, di conseguenza, della storia ebraica.
Ma ecco.
Colpo di scena.
La settimana scorsa mi telefona il mio vecchio amico Hugues Dewavrin, vicepresidente dell'Ong la Guilde du Raid, che mi aggiorna.
C'è, a Mosul, un certo Ornar Mohammed, autore del blog «Mosul Eye», che non ha mai smesso, per tutto il tempo dell'occupazione dell'Isis, di diffondere notizie sulla devastazione della città.
È uno «storico cittadino» di grande talento, innamorato della sua città, e tutti i giornalisti della regione aspettavano le sue informazioni, all'epoca anonime, perché sapevano che erano le più affidabili sulla vita quotidiana degli abitanti di Mosul.
Bene, alla fine di giugno, Ornar Mohammed ha pubblicato foto sorprendenti: nel cuore della città vecchia, dove i jihadisti si erano trincerati per la loro ultima, disperata resistenza, è emersa dal nulla una sinagoga di cui nessuno sembrava conoscere l'esistenza.
«Ciao a tutti», ha scritto poi, su Twitter! Lancio un appello, ho bisogno di aiuto! Ho trovato, incise su delle pietre blu, strane iscrizioni in ebraico - e ho bisogno di volontari per trascriverle e tradurle».
E da lì si compie il miracolo di Internet.
Carlos C. Huerta, rabbino dell'esercito nel 2003 , all' epoca dell'invasione americana dell'Iraq, risponde che gli ricorda qualcosa.
Frida Ghitis, giornalista della Cnn e veterana delle guerre in Iraq, ma anche del Kosovo e di Gaza, decifra una benedizione del Deuteronomio.
Un archeologo israeliano risponde che vede - ma sta parlando della stessa stele? - un versetto del Libro dei Re e un omaggio a Yahya Ben Meir e Meir David Halevi.
Per un altro, con sede a Londra e specialista nella doppia storia, ebraica e araba, della pietra di Gerusalemme, si tratta piuttosto del Libro dei Proverbi.
Per un altro, che scrive dal Brookings Institution di Washington, è un passaggio dal Libro dei Numeri.
Un altro ancora, un ex diplomatico israeliano, pubblica foto risalenti al secolo scorso di una strada molto simile dove calzolai ebrei sono intenti a riparare le scarpe dei loro vicini arabi.
In breve, bastano poche ore di conversazione felice e ispirata sui social network per eliminare gli ultimi dubbi e concordare, almeno su questo punto: l'Isis, nella sua stupidità abissale e profonda ignoranza teologica evidentemente non l'aveva compreso, ma lì - trasformata in deposito di armi e munizioni - c'era una sinagoga simile a quelle che si trovano nella parte curda dell'Iraq (ma in Kurdistan sono riconosciute e onorate in quanto tali!).
Questa scoperta conferma ciò che si sapeva della presenza, a Mosul, fino alla sua evacuazione nei primi Anni '50 del '900, di una comunità ebraica composta da decine di migliaia di anime.
E ci ricorda che i luoghi sono come i cuori, che devono anch'essi nascondersi, seppellirsi, assumere un'identità presa in prestito, cambiare, per sopravvivere. Può darsi che esista una forma di marranismo urbano, tale che, dopo decenni di occultamento, gli stessi jihadisti che hanno metodicamente distrutto i templi yazidi, le chiese cristiane, l'antica moschea Nuri, oltre naturalmente alle minime vestigia dell'antica storia ebraica, possano essere passati accanto a un luogo santo dove si continuava, ma in segreto, a cantare le lodi del Signore.
Ma, soprattutto, l'appello di «Mosul Eye» ci chiama a un dovere.
Vogliamo davvero salvare una delle città più antiche del mondo?
L'Unesco pensava davvero ciò che ha affermato quando ha battezzato il suo programma di ricostruzione urbana e politica «lo spirito di Mosul»?
Saremo in grado di riportare questa città sfigurata a essere il crocevia di popoli, religioni e civiltà che è stata per secoli e che la sua anima imperitura aspira a ridiventare?
Se è così, dobbiamo ascoltare questo studioso musulmano che, dall'occhio del ciclone, il cuore immobile di quello che è stato l'epicentro del jihadismo globale, chiede di far tornare alla vita l'ultima sinagoga ancora esistente nella città del profeta Giona.
Altrimenti, se ci riveliamo incapaci di accettare questa magnifica e sacra sfida, se non riusciamo ad elevarci all'altezza di questo figlio del Corano che vuole ricordare di essere anche l'erede di Mosè, allora addio Fratellanza, Addio Pace - e avanti verso lo strazio della guerra di religioni e di culture.

(La Stampa, 23 settembre 2018 - trad. Carla Reschia)


I Savi di Sion truccarono il Superbowl

di Marcello Flores

 
Il XX secolo inizia con la scoperta di una cospirazione di cui molti sospettavano l'esistenza, senza averne, però, le prove. La pubblicazione nel 1903 dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion portava alla luce il piano di dominio mondiale messo in opera dagli ebrei nei giorni del Congresso sionista di Basilea del 1897. Quel complotto era inventato - come tutti poterono sapere con certezza almeno dal 1921, quando il «Times» di Londra mostrò trattarsi di un falso, costruito sulla base di citazioni tratte da pubblicazioni precedenti e riferite ad altro, o inventate appositamente - ma fornì ad Adolf Hitler una delle «prove» per giustificare, nel Mein Kampf, la necessità di una lotta senza quartiere agli ebrei per salvare Germania e razza ariana; e da allora ha costituito e continua, purtroppo, a costituire un elemento di propaganda antiebraica ripetuta e diffusa: dal magnate dell'auto Henry Ford, che ne finanziò nel 1920 la pubblicazione di 500 mila copie, ai dirigenti dell'Iran post rivoluzione islamica, che lo citano ripetutamente, ai dirigenti di Hamas, che lo considerano un documento storico valido.
  Naturalmente non era la prima volta che si cercava di spiegare la storia - gli eventi che non piacevano e che si volevano combattere - con l'idea di un complotto ordito in genere da chi voleva cambiare radicalmente il lento scorrere del tempo per mettere fuori gioco la morale corrente, l'autorità tradizionale, i valori patriottici e cristiani che ne erano insieme l'origine e la conseguenza. Se la rivoluzione francese, ad esempio, è stata considerata un complotto massonico e illuminista, la rivoluzione russa è stata considerata, alternativamente, il risultato di un complotto della Germania imperiale o - ancora una volta - dell'internazionale ebraica. E dopo la sconfitta degli Imperi centrali nella Prima guerra mondiale si diffuse rapidamente in Germania !'idea che la colpa fosse dovuta alla «coltellata alla schiena» che ebrei e socialisti avevano vibrato all'esercito per far crollare !'impero e impadronirsi del potere con la rivoluzione che portò alla Repubblica di Weimar.
  Chi riuscì a far credere a milioni di persone che fosse davvero esistito un complotto per porre fine all'esperienza di costruzione del socialismo in Urss, o per uccidere tutti i capi comunisti a partire da sé stesso, fu Stalin. I grandi processi nell'epoca del Grande Terrore (1936-1938) furono tutti dedicati a denunciare e svelare il presunto complotto che i vecchi bolscevichi accusati (Trotsky, Zinoviev, Bukharin, ecc.) avevano messo in piedi insieme alle potenze imperialiste. E l'ultimo «complotto» scoperto da Stalin poco prima di morire - quello dei «camici bianchi» - servì a denunciare i medici ebrei che tra il 1951 e il 1952, si disse, stavano cercando di uccidere i vertici del Partito comunista. Non è, come si vede, la verosimiglianza maggiore o minore che fa credere a un complotto ma la fiducia (o la fedeltà) verso chi pretende di averlo svelato e verso chi lo diffonde e lo difende come verità storica.
  Un altro modo di creare un complotto è comunicare false informazioni riuscendo a spacciarle per buone, facendole credere vere almeno a gran parte dell'opinione pubblica. Così fece il nazismo accusando i comunisti di avere incendiato il palazzo del Reichstag nel febbraio 1933, legittimando così la rapida messa fuori legge dei partiti e la violenta repressione degli oppositori; così fece il presidente americano Lyndon Iohnson quando prese a pretesto l'incidente nel golfo del Tonchino nell'agosto 1964 (che non era avvenuto nelle modalità raccontate) per bombardare il Nord Vietnam senza formale dichiarazione di guerra. Ma di un complotto, inventato, venne anche accusato il presidente Roosevelt che avrebbe saputo, secondo alcuni, dell'attacco giapponese a Pearl Harbor ma non avrebbe fatto nulla, riuscendo così a portare gli Usa in guerra con l'appoggio dell'opinione pubblica. In molti ritengono che l'omicidio di John Kennedy, l'attacco terroristico dell'11 settembre, ma anche l'uccisione di Lincoln, la morte della principessa Diana e tanti altri eventi storici - di cui non sappiamo ancora tutto e sui quali le ricostruzioni e interpretazioni ufficiali lasciano molti dubbi - siano stati il frutto di un complotto ordito da politica, mafia, finanza, religione o da tutte queste entità insieme. Neppure lo sport si è salvato dall'accusa di complotto. A farne le spese sono stati soprattutto, negli Usa, i giocatori di football dei New England Patriots, accusati più volte di avere vinto il Superbowl grazie a una cospirazione: contro gli Jacksonville Jaguars nel gennaio di quest'anno e contro le Eagles di Filadelfia nel febbraio 2005.

(Corriere della Sera, 23 settembre 2018)


Cancogni e le sorelle ebree in fuga

di Guido Caserza

In Uzbekistan era usanza porre sull'ingresso di casa una forma di pane, il cosiddetto pane del ritorno, per offrirlo a chi intraprendeva un lungo viaggio perché lo assaggiasse e un giorno tornasse a mangiarne il resto. Questo pane è il simbolo centrale del romanzo di Franca Cancogni, intitolato Il pane del ritorno (Bompiani, pp. 398, euro 19). Lo si può considerare un' opera prima, poiché il precedente romanzo della Cancogni, Adua del l978, era stato scritto con il fratello Manlio.
   Un esordio unico nella storia della letteratura se si considera l'età dell'autrice, che è nata nel l920. Un romanzo che scaturisce da una penna così attempata non può che avere al centro il tema della memoria dispiegato nei modi di una saga famigliare sui generis, sortita da testimonianze di vita vissuta liberamente romanzate.
   Nella casa di riposo Ben Gurion di Tel Aviv, dove è alloggiata, Frida riannoda i fili della propria esistenza mettendo per iscritto i propri ricordi e intrattenendo con le sue fantasiose risorse gli altri ospiti. È una sorta di Sherazade che cerca di rimandare all'infinito l'eclissi della memoria, ripercorrendo la storia di una diaspora poco conosciuta, quella delle comunità ebraiche lungo la via della Seta. Protagoniste sono la stessa Frida e la sorella Abigail, due ragazze di origine ebraica che, rimaste orfane e sole in uno sperduto paese della campagna russa, trovano salvezza a Bukhara, in Uzbekistan, in casa del ricco mercante ebreo Asherove della sua famiglia.
   È il periodo edenico della loro esistenza, il cui sogno di durata viene però infranto quando l'Uzbekistan diventa un posto pericoloso per gli ebrei e la famiglia deve organizzare la fuga. Inizia così un lungo pellegrinaggio attraverso l'Iran, l'Afghanistan e l'India. Tra matrimoni, continui spostamenti, lutti e perdite dolorose, l'avventurosa diaspora su treni e carri traballanti, attraverso paesaggi favolosi. Infine, per le due sorelle, l'approdo in Israele, che si configura così come il topico ritorno alla Terra Promessa, fino al malinconico sopraggiungere della vecchiaia e al ricovero nella casa di riposo, dove i diversi destini danno luogo a una ricca materia narrativa che la veneranda Cancogni domina e sviluppa con una scrittura sorprendentemente giovanile.

(Il Mattino, 23 settembre 2018)



Il regno dei cieli è simile a....

In quel giorno Gesù, uscito di casa, si mise a sedere presso il mare; e una grande folla si radunò intorno a lui; cosicché egli, salito su una barca, vi sedette; e tutta la folla stava sulla riva. Egli insegnò loro molte cose in parabole, dicendo: «Il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte del seme cadde lungo la strada; gli uccelli vennero e la mangiarono. Un’altra cadde in luoghi rocciosi dove non aveva molta terra; e subito spuntò, perché non aveva terreno profondo; ma, levatosi il sole, fu bruciata; e, non avendo radice, inaridì. Un’altra cadde tra le spine; e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra cadde nella buona terra e portò frutto, dando il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi per udire oda».
Egli propose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand’è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito che una donna prende e nasconde in tre misure di farina, finché la pasta sia tutta lievitata».
Tutte queste cose disse Gesù in parabole alle folle e senza parabole non diceva loro nulla, affinché si adempisse quello che era stato detto per mezzo del profeta: «Aprirò in parabole la mia bocca; proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Allora Gesù, lasciate le folle, tornò a casa; e i suoi discepoli gli si avvicinarono, dicendo: «Spiegaci la parabola delle zizzanie nel campo». Egli rispose loro: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo; il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; le zizzanie sono i figli del maligno; il nemico che le ha seminate, è il diavolo; la mietitura è la fine dell’età presente; i mietitori sono angeli.”

Dal Vangelo di Matteo, cap. 13

 


Attesa a Gaza una delegazione dell'intelligence egiziana

GAZA, 22 set 16:15 - Una delegazione di alto livello dell'intelligence egiziana arriverà a Gaza entro oggi, secondo quanto riferito dai media palestinesi. Si prevede che la delegazione incontrerà gli alti funzionari del Movimento palestinese di Hamas per riprendere i colloqui di riconciliazione con il governo egiziano in modo da porre fine alla divisione palestinese. Guidata dal generale Ahmed Abdel-Khaleq, che è responsabile della riconciliazione inter-palestinese presso l'Intelligence pubblica egiziana, la delegazione arriverà nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Erez controllato da Israele. La visita arriva pochi giorni dopo che la delegazione di Fatah, guidata da Azzam al Ahmad, membro del Comitato centrale del Movimento di Fatah e dal Comitato esecutivo dell'Olp, ha concluso una visita al Cairo dove ha discusso anche della riconciliazione interpalestinese.

(Agenzia Nova, 22 settembre 2018)


Franz Kafka voleva fare il cameriere in un ristorante vegetariano a Tel Aviv

Fantasticheria realizzata: con Dora Diamant, figli e redenzione dalla sofferenza

di
Fabrizio Coscia

Nell'ultimo anno della sua vita, Franz Kafka progettò di trasferirsi in Palestina, a Tel Aviv, per aprire un ristorante vegetariano con Dora Diamant, una giovane insegnante polacca, ebrea chassidica, con cui era andato a vivere a Berlino. Proprio a Berlino, in effetti, durante un viaggio di diversi anni prima, Kafka era rimasto molto colpito da un ristorante vegetariano in cui si era trovato a mangiare. «Ma nulla è così buono come il cibo qui nel ristorante vegetariano», scrisse a Max Brod. Aveva apprezzato, in particolare, «il cavolo riccio con le uova fritte (la pietanza più cara)», e soprattutto «la pace col mondo» che si provava in quel posto, e aveva aggiunto, con la sua consueta autoironia, che lì era tutto «così vegetariano che persino le mance sono proibite».
   Il progetto prevedeva che Dora lavorasse in cucina e Kafka servisse ai tavoli, ma non fu mai realizzato, per l'aggravarsi delle condizioni di salute di Kafka, che di lì a poco morì di tisi. Mi piace però immaginare che si sia verificata questa possibilità, che il grande viaggio in Palestina, cioè, si sia realizzato davvero e che i due abbiano aperto insieme il ristorante, dove il grande scrittore praghese accoglie i clienti con il suo bellissimo ed enigmatico sorriso e passa tra i tavoli con movimenti eleganti (anche un altro grande scrittore che Kafka amava molto, Robert Walser, sognava di fare il cameriere), offrendo ciò che la cuoca Dora prepara: zuppa di farro, semolino al succo di lamponi, lattuga con la panna, frittata di cipolla, tè alle foglie di fragola; o proponendo la specialità della casa: il cavolo riccio con le uova fritte. A fine serata lui e Dora contano gli incassi della giornata, chiudono il locale e tornano a casa, attraversando in silenzio la città semideserta, a tarda notte, stanchi morti ma, probabilmente, appagati. Si addormentano abbracciati, lei con la testa appoggiata sul suo petto, lui con una mano che accarezza i capelli della donna, mentre fissa il soffitto senza vederlo, con gli occhi spalancati nel buio. In questo sogno mai realizzato, per Kafka tutto è cambiato: niente più insonnia, niente più nevrosi, senso di colpa o solitudine. Per la prima volta nella sua vita ama senza angoscia ed è riamato. Dora gli ha dato finalmente la sensazione di essere un uomo tra gli uomini, non più quella «bestia silvestre» che rifuggiva i rapporti umani, come lo scrittore si definì una volta in una lettera a Milena Jesenskà. E accompagnato da questa sensazione nuova, in modo inaspettato, Kafka guarisce e sopravvive, scrivendo brevi, sapienziali parabole sempre più luminose, sempre più essenziali, sempre più enigmatiche, finché non rinuncia per sempre alla scrittura, perché è riuscito a chiamare «con la parola giusta», «con il giusto nome», facendola arrivare fino a lui, quella «meraviglia della vita» di cui aveva scritto una volta nei Diari, ovvero quella «essenza dell'incantesimo» che per tutta la sua esistenza, prima di allora, gli era rimasta «nascosta» e «decisamente lontana». Adesso gli bastano la Palestina, il suo ristorante vegetariano e Dora, che intanto ha sposato e gli ha dato dei figli, e che gli sarà accanto quando infine muore, vecchio e grato alla vita, redento dalla sofferenza terrena, proprio come la cantante Josefine di un suo vecchio racconto, dopo aver vissuto così, perso felicemente tra la folla anonima e innumerevole del suo popolo, e pronto a raggiungere uno stadio di più alta redenzione, dimenticato come tutti i suoi fratelli.

(Pangea news, 22 settembre 2018)


Israele in mostra al Festival della Letteratura di Viaggio di Roma

 
In occasione del 70o anniversario della nascita dello Stato di Israele, l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo presenta all'interno del Festival della Letteratura di Viaggio di Roma, la mostra fotografica Uno Sguardo su Israele. Storia tra città e deserto.
   La mostra è stata inaugurata il 21 settembre alle ore 17:00 presso il cinquecentesco Palazzetto Mattei in Villa Celimontana, storica sede della Società Geografica Italiana, con un evento aperto al pubblico e rimarrà aperta per tutta la durata del Festival e oltre, fino al 15 ottobre. In concomitanza con l'inaugurazione della mostra, sarà organizzato l'incontro "I Sensi del Viaggio" con lo scrittore israeliano Yaniv Iczkovits, vincitore del prestigioso premio Agnon, e la filosofa Donatella Di Cesare.
   "Siamo felici di portare Israele all'interno del Festival della Letteratura di Viaggio, il perfetto contenitore per presentare ai viaggiatori italiani il nostro Paese nel 70o anno dalla nascita dello Stato", afferma Amir Halevi, Direttore Generale del Ministero del Turismo di Israele, giusto in occasione della presentazione alla stampa della mostra.
   "Il turismo è uno dei settori di punta di Israele sul quale continuiamo a investire con azioni di marketing e promozione, incentivi alle compagnie aeree per l'incremento dei collegamenti e potenziamento delle infrastrutture. Tra gennaio e agosto abbiamo accolto 2.6 milioni di visitatori, il 16,5% in più rispetto allo scorso anno. L'Italia è uno dei mercati chiave e tra i primi cinque per crescita, pari al 40% nei primi otto mesi del 2018, quando 93.300 italiani hanno visitato Israele".
   Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo e Amir Halevi, direttore generale del Ministero del Turismo di Israele accolgono colleghi della stampa nella splendida sala del consiglio della Società Geografica Italiana che sarà sede della mostra fino al 14 ottobre p.v.
   "E' un grande onore per noi partecipare per la prima volta al Festival della Letteratura di Viaggio con una mostra che racconta attraverso 20 scatti di 12 fotografi la varietà del territorio di Israele. Un viaggio attraverso la Galilea, Tel Aviv, Gerusalemme, il Mar Morto e il deserto del Negev e un invito aperto a scoprire dal vivo la destinazione e il suo incredibile mix di storia, archeologia, architettura, cultura millenaria, spiritualità e natura: poche mete al mondo sanno entrare nel cuore dei visitatori come Israele", commenta Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
   La mostra accompagna il visitatore in un viaggio tra modernità e tradizione alla scoperta di Israele, destinazione unica al mondo per storia, cultura e natura. Il percorso ha inizio nel nord del Paese, nella verde Galilea, con le sue dolci colline e i vigneti, per proseguire lungo la costa fino a Tel Aviv, città dinamica, giovane e innovativa celebre per le sue spiagge e l'architettura Bauhaus. Si prosegue fino a Gerusalemme, città dal fascino millenario, dalla storia e cultura uniche al mondo. Il Mar Morto non è lontano, il punto più basso della terra, che regala panorami naturali scenografici. Una speciale attenzione è dedicata poi al deserto del Negev con le imponenti formazioni rocciose scolpite dal vento e i grandi crateri: un luogo che ha visto il passaggio di numerosi popoli e civiltà nel corso dei millenni attraverso la Via dell'Incenso.
   Autori delle fotografie, alcuni tra i più grandi fotografi di viaggio contemporanei, che vantano grandi collaborazioni in Italia e all'estero: Irisphoto, Deltaoff, Graziano Perotti, Daniele Pellegrini, Amir Ehrlich, Vladimir Khirman, Lidia Bagnara, Marco Ansaloni, Jimmy Pessina, Yoav Lavi, Dafna Tal, Giovanni Tagini.
   Sentiti ringraziamenti alla Società Geografica Italiana e al curatore del "Festival della Letteratura di Viaggio" Antonio Politano per aver saputo interpretare lo spririto del viaggio verso Israele attraverso le immagine esposte.

(Il Gist, 22 settembre 2018)


Tra Russia e Israele va tutto bene, la cooperazione in Siria andrà avanti

Tutto chiarito tra Russia e Israele sull'abbattimento dell'aereo russo. La cooperazione tra Mosca e Gerusalemme sulla Siria andrà avanti, anzi, verrà perfezionata nelle prossime settimane.

Tra Russia e Israele va tutto bene. La delegazione delle IAF (Israeli Air Force) in missione a Mosca per spiegare ai russi quanto accaduto in occasione dell'abbattimento del IL-20 con 14 militari a bordo avvenuto durante un attacco aereo israeliano su una base iraniana a Latakia, in Siria, ha avuto successo e la cooperazione tra Israele e Russia sulla Siria andrà avanti senza intoppi. Anzi, verrà perfezionata....

(Rights Reporters, 22 settembre 2018)


Davvero alcuni Paesi del Golfo usano un software israeliano per spiare i cittadini?

Pegasus è prodotto dalla NSO Group ed normalmente utilizzato dai governi per attività di anti terrorismo. Ma secondo Citizen Lab e Amnesty International alcuni Paesi lo utilizzano anche per tenere sotto controllo i cittadini e i partiti di opposizione. Ne ha scritto anche il New York Times.

 
Si chiama "Pegasus" ed è un software di spionaggio prodotto dall'azienda israeliana NSO Group, normalmente utilizzato dai governi per attività di anti terrorismo. Tuttavia un recente studio di Citizen Lab rivela come questo programma negli ultimi due anni sarebbe diventato molto popolare presso i governi di alcuni paesi del Golfo - Arabia saudita, Bahrein, Emirati arabi uniti - per fini anche diversi da quelli del contrasto al crimine: spiare i propri cittadini, per limitarne più efficacemente le libertà e neutralizzare le opposizioni. "Ne emerge un quadro inquietante in termini di rischio per i diritti umani, con almeno sei paesi, detentori del software Pegasus, che lo hanno usato contro la società civile", si legge nel report, che cita anche il Marocco tra di essi.
  Il software si serve del meccanismo del clickbaiting, attirando utenti che finiscono per installarlo involontariamente sui propri telefoni. Se ne è accorto il mese scorso anche un membro dello staff di Amnesty International: una mattina, ha ricevuto un messaggio su Whatsapp da un numero sconosciuto, che lo informava su una imminente, quanto sospetta, manifestazione di protesta di fronte all'ambasciata saudita a Washington, invitandolo a prendervi parte. In calce al messaggio - poi analizzato da un team di esperti informatici dell'organizzazione - c'era un hyperlink, che una volta cliccato installava "Pegasus" sul device. La presunta manifestazione di protesta era un'esca.
  Citizen Lab ha registrato questa pratica anche in Bahrein, dove il regime (sunnita) reprime le richieste di maggiori libertà politiche e sociali della popolazione a maggioranza sciita. Nel piccolo paese del Golfo le esche sono state "inserite" in domini web popolari come "Shiavoice.com". Interpellati da Middle east eye, i governi di Arabia Saudita, Bahrein e Emirati arabi uniti non hanno voluto rilasciare commenti.

 Le rivelazioni del New York Times
    Non è chiaro quale sia il ruolo dell'azienda con sede a Tel Aviv: solo due settimane fa il New York Times rendeva noto che ai danni della NSO sono state emesse due denunce - una da un cittadino qatariota e l'altra da alcuni giornalisti e attivisti messicani, rispettivamente in Israele e a Cipro - che la accusano di aver "partecipato attivamente ad attività di spionaggio illegali". Alle denunce sono stati allegati dei documenti che proverebbero l'utilizzo illegale del software da parte degli Emirati arabi uniti, perlomeno da un anno a questa parte. Secondo il NYT, gli emiratini avrebbero così condotto attività di spionaggio ai danni dell'emiro del Qatar (con cui gli altri paesi del Golfo sono ai ferri corti da più di un anno), del direttore di un "quotidiano con base a Londra" e di un principe saudita.
  Nel suo rapporto, Citizen Lab ha identificato almeno sei operatori di Pegasus nei tre paesi del Golfo citati, oltre ad altri tre che "potrebbero in questo momento condurre attività di spionaggio anche in Canada, Francia, Grecia, Regno Unito e Stati Uniti". Come ricorda Bill Marczak di Citizen Lab, è al momento impossibile sostenere con certezza che questi operatori siano riconducibili inequivocabilmente ai governi dei paesi del GCC. Tuttavia, aggiunge Marczak, "secondo le mie stime dietro questi operatori dovrebbero esserci proprio i governi, anche perché uno di essi è noto per fare gli interessi dell'Arabia saudita". Almeno cinque di essi, secondo il rapporto, stanno conducendo attività di sorveglianza su obiettivi qatarioti.

 La versione dell'azienda
  Nel report si parla anche dell'azienda israeliana: "I casi identificati sollevano diversi dubbi sull'integrità della NSO, così come sull'integrità della tutela dei diritti umani. L'azienda ha una serie di clienti che conducono queste attività in diversi paesi, molto probabilmente violandone le leggi". In risposta, l'azienda israeliana ha emesso un comunicato stampa in cui definisce il report "impreciso", negando che il proprio software operi nei paesi elencati. Un comunicato a cui Citizen Lab ha risposto a sua volta, sostenendo che NSO avrebbe malinteso le conclusioni del report, poiché in esso "non vengono elencati direttamente dei presunti clienti dell'azienda (e quindi i loro paesi d'appartenenza, ndr), ma solo una serie di 'locations informatiche infettate' dall'attività del software".

(AGI, 22 settembre 2018)


"Non solo gli ebrei. Il mio film racconta tutti gli italiani"

Il regista Giorgio Treves e il documentario che ricostruisce la persecuzione antisemita. "Diversi" nasce dal bisogno di sapere, di capire e di far conoscere. Quei fatti tornano a minacciare: c'è sempre un nuovo nemico a cui addossare le colpe.

di Fulvia Caprara

ROMA - Sono passati 80 anni da quel giorno assurdo (18 settembre 1938) in cui «il popolo italiano, che non era tradizionalmente antisemita, fu spinto dalla propaganda fascista ad accettare la persecuzione di una minoranza che viveva pacificamente in Italia da secoli». Giorgio Treves ha girato 1938 Diversi, un documentario in cui immagini, voci, testimonianze dirette, disegni animati e testi interpretati da attori famosi, per comporre il quadro di un evento agghiacciante che, come altri orrori della Storia, potrebbe sempre ripetersi: «Il film nasce da un profondo bisogno di sapere, di capire, e di far conoscere. Anche perché quei fatti, seppure in modi diversi, tornano a minacciare il nostro futuro».
Dopo l'anteprima alla Mostra di Venezia, l'opera, realizzata da Tangram Film di Roberto e Carolina Levi arriva nei cinema l'11 ottobre e il 23 andrà in onda su Sky Arte che ha collaborato alla produzione. Vi partecipano Liliana Segre, Roberta Bassi, Marco Avagliano, Rosetta Loy, Sergio Luzzatto, Luciana Castellina, Walter Veltroni e gli attori Roberto Herlitzka e Stefania Rocca.

- Che cosa successe nella sua famiglia in seguito alla promulgazione?
  «I miei furono avvisati dagli Agnelli, ci fu detto che era meglio andare via. Così, nel maggio del 1940, per sfuggire alle leggi razziali fasciste mio padre e mia madre lasciarono Torino e si imbarcarono sull'ultima nave passeggeri che andava in America».

- Come reagirono gli italiani?
  «Nel film volevo mostrare proprio questo, è una delle ragioni per cui non ho scelto solo testimoni ebrei. Ci furono modi differenti di rispondere, i comportamenti cambiavano, soprattutto se si trattava di ebrei amici. Ci fu pure chi aveva aziende e cercò di assumere persone facendogli cambiare il nome. Per Diversi ho voluto anche testimoni che non avessero già parlato in televisione e che potessero raccontare con lo sguardo dell'infanzia, perché all'epoca degli avvenimenti erano bambini».

- Come fu possibile un cambiamento così repentino nell'atteggiamento del popolo italiano?
  «Fino al 1935 il razzismo da noi quasi non esisteva, ma il fascismo, nel Ventennio della sua dittatura, è riuscito a dividere il Paese, a creare una serie A e una serie B con una propaganda accanita. I perseguitatori più agguerriti furono gli studenti cresciuti in quei vent'anni. Nella società era stato inoculato un virus che ha messo radici e continua a proliferare».

- Secondo lei nutrito da cosa?
  «Dall'indifferenza, dall'abulia, da una generale perdita di coscienza e dalla tendenza a delegare le decisioni a un capo, a chi è al potere in quel determinato momento. Le discriminazioni ci sono sempre state, negli Anni 60 riguardarono i meridionali, i "terroni" che andavano a lavorare al Nord. Credo che forse il periodo berlusconiano abbia contribuito a formare una generazione di italiani con tendenza alla miopia e alla voglia di chiudersi nel proprio guscio».

- In questa fase avverte segnali preoccupanti di ritorno al passato?
  «Mi colpisce il modo con cui vengono recepite certe affermazioni. Sono rimasto sconvolto quando ho letto che la Meloni ha proposto la depenalizzazione della tortura. Questo è un sintomo importante, c'è la volontà di cancellare certe cose. Salvini ha dichiarato di voler fare il censimento dei Rom, nel '38 quello stesso procedimento fu messo in pratica sugli ebrei».

- Per indicare l'intento del film ha scelto di citare le parole di Umberto Eco. Perchè?
  «Quel testo in cui dice che "Il fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti" e in cui ne analizza i denominatori comuni fa rabbrividire. È vero, c'è sempre un nuovo nemico su cui le colpe possono essere addossate».

(La Stampa, 22 settembre 2018)


Nasrallah: equilibrio di potere tra la resistenza e Israele è cambiato

BEIRUT - Ancora una volta, il segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hasan Nasrallah, ricorda al nemico israeliano che l'intero equilibrio di potere tra la resistenza in Libano e il regime sionista è cambiato.
Il leader di Hezbollah in un discorso tenuto giovedì per commemorare l'Ashura (il decimo giorno del mese di Muharram) ha detto:" il regime sionista sta cercando di impedire all'Hezbollah di possedere missili avanzati e precisi" avvertendo che la Resistenza ha missili molto precisi e altri di altre categorie, e se Israele impone una guerra al Libano, avrà il destino che non si sarebbe mai aspettato".
"Israele è arrabbiato perché le sue trame non hanno avuto successo e sono state neutralizzate in Siria e in Iraq," ha sottolineato Nasrallah.
Ogni anno, nel decimo giorno del mese di muharram, il primo del calendario lunare islamico, gli sciiti ricordano il martirio dell'imam Hussein ibn Ali(as), terzo imam sciita e nipote del profeta Muhammad, martirizzato dal califfo omayyade nel 680 durante la battaglia di Karbalà.

(ParsToday, 21 settembre 2018)


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Netanyahu risponde a Nasrallah: "Gli suggerisco di pensarci venti volte"

di Katia Cerratti

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha risposto al segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, il quale, giovedì scorso, in occasione del decimo giorno di commemorazioni religiose dell'Ashura, aveva affermato che il suo partito possiede missili di precisione come avvertimento per Israele contro il quale ha combattuto una guerra nel luglio 2006.
"La Resistenza (Hezbollah, ndr), possiede sia missili di precisione che meno precisi, cosi come altri armamenti. Se Israele oserà affrontare il Libano, dovrà far fronte a un destino inaspettato", aveva dichiarato il leader sciita.
"Ho sentito la bravata di Hezbollah. Tali parole provengono dalla stessa persona che dopo la guerra del 2006 aveva ammesso che se avesse saputo quale sarebbe stata la risposta di Israele dopo il rapimento dei nostri tre soldati, ci avrebbe pensato due volte. Oggi, gli suggerisco di riflettere non due volte ma venti volte, poiché, se ci attaccherà, riceverà un colpo di una portata inimmaginabile", ha affermato Netanyahu.
Giovedì, il primo ministro israeliano, ha inoltre fatto sapere che il suo paese continuerà a difendersi dall'Iran. "Noi non vogliamo la guerra ma se vogliono imporcela allora utilizzeremo tutte le nostre forze", ha affermato a Gerusalemme, durante una cerimonia per il 45esimo anniversario della guerra del Kippur. "L'Iran, che chiede apertamente la distruzione di Israele, è in testa alle minacce contro di noi nella regione … Continueremo a difenderci da questo pericolo", ha aggiunto.
L'Iran, nemico giurato di Israele, è un alleato di peso del regime di Bashar al-Assad nella guerra contro i ribelli e i jihadisti in Siria. Israele insiste che non permetterà all'Iran di usare la Siria come testa di ponte contro di lui. Più volte, negli ultimi mesi, ha colpito gli interessi iraniani in Siria.

(Arab Press, 21 settembre 2018)


Israele e Palestina, la realtà virtuale potrà favorire la pace?

Può la realtà virtuale favorire un incontro tra due popoli profondamente divisi come quello israeliano e palestinese? Ad occuparsi di questo aspetto è il Guardian, che in un recente e interessantissimo dossier parla di una particolare mostra d'arte a Gerusalemme, che offre agli israeliani l'opportunità di "vivere" l'esperienza di abitare in una casa di una famiglia palestinese, indossando un visore per la realtà virtuale. Un modo, sostengono gli ideatori della Mostra, per mettere a nudo la separazione radicata di due società che vivono fianco a fianco ma, sempre più, in mondi a parte.
   Il Museo di Israele, dove si tiene la mostra, è a pochi chilometri dai quartieri arabi di Gerusalemme dove vivono migliaia di palestinesi. Ed è a qualche chilometro in più dal villaggio della West Bank dove la famiglia ha accettato di essere "usata" per il progetto, dal vivo. "In superficie, la mostra non è minacciosa, è quasi ingenua. Ma penso che il sotto-strato sia molto tragico", ha detto l'artista ideatore, Daniel Landau, la cui iniziativa è parte integrante di una mostra nell'ala giovanile del museo che esplora gli incontri umani, con altre opere che mettono sotto i riflettori l'impatto degli smartphone sulle relazioni o le interazioni con gli estranei per la strada.
   La stanza di Landau, chiamata "Visitatori", è stata tagliata in due, con un lato decorato come la casa di una famiglia ebrea e l'altro come una casa palestinese. Il visore per la realtà virtuale offre ai visitatori una visione a 360 gradi della casa, e può permettere di ascoltare le storie dei membri della famiglia.
   Più di 200.000 persone hanno già visitato la mostra negli ultimi tre mesi, ha detto Landau. "La risposta iniziale è che dicono: Non sono mai stato in una casa araba. Non ho mai incontrato persone arabe. Sono sorpreso di vedere quanto siano simili".
   Israeliani e palestinesi - società che un tempo si conoscevano in modo molto profondo- non sono mai state fisicamente divise come lo sono oggi. Israele ha costruito una barriera fisica e ha impedito alla maggior parte dei palestinesi di entrare al di là dei confini, e ha di contro vietato ai propri cittadini di entrare nelle città della West Bank controllate dai palestinesi. Gaza, che è geograficamente scollegata dalla Cisgiordania, è stata messa sotto un sostanziale blocco. Anche nelle città arabe maggioritarie di Israele, e a Gerusalemme, c'è poca interazione tra vicini. I movimenti palestinesi anti-israeliani di boicottaggio continuano a raccogliere forza e, tra gli israeliani, la "convivenza" è spesso considerata un termine politicamente divisivo.
   Naturalmente, una simile iniziativa da sola non può cambiare profondamente il panorama di riferimento, ma può probabilmente avvicinare tali mondi distinti. Le due famiglie interessate dal progetto vivono a pochi metri l'una dall'altra, ma non si sono mai incontrate perché sono separate dal muro che divide la West Bank. Landau ha detto che alla famiglia palestinese sono stati concessi permessi speciali per viaggiare in Israele, al solo scopo di visitare il museo.
   Ispirato dalla sua esperienza di crescere in un'area ebraica di Gerusalemme, con un amico in un vicino villaggio palestinese, Landau sperava di trovare lì delle famiglie disponibili a partecipare al suo progetto, ma ha detto che la situazione era troppo tesa. "A volte è troppo doloroso", ha detto. "Ci sono molte controversie. Ci sono troppe ferite aperte".

(Universo Virtuale, 21 settembre 2018)


Israele - "Turismo, numeri importanti"

 
C'è anche Israele tra i paesi protagonisti dell'undicesima edizione del Festival della Letteratura di Viaggio inaugurato ieri a Roma e giunto quest'anno alla undicesima edizione. Nel 70esimo anniversario dalla nascita dello Stato una mostra fotografica rende infatti omaggio alle suggestioni paesaggistiche e urbane dello Stato ebraico, da Haifa ad Eilat.
"Uno sguardo su Israele, storia tra città e deserto" il titolo dell'esposizione, allestita fino al 15 ottobre a Palazzetto Mattei di Villa Celimontana. L'occasione, per Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, per fare un bilancio sui primi dati del 2018. Fino ad oggi, ha sottolineato, il numero di turisti italiani che ha viaggiato in Israele "è cresciuto del 40% rispetto al 2017 e dell'80% rispetto a due anni prima".
Il 2017, in generale, è stato un anno da record: 3,6 milioni di turisti complessivamente si sono recati in Israele. Se il trend sarà confermato a fine 2018 si sfioreranno i quattro milioni. "Dopo Tel Aviv e Gerusalemme - ha annunciato poi - il prossimo anno il nostro nuovo brand sarà il deserto del Negev". Una sfida possibile anche grazie all'imminente apertura del secondo aeroporto internazionale, in programma sempre nel 2019, che servirà la città meridionale di Eilat e la regione limitrofa. "Per noi - le sue parole - sarà una grande opportunità per promuovere il deserto del Negev, con circa 70 voli diretti in inverno dall'Europa".

(moked, 21 settembre 2018)


L'incidente aereo in Siria non comprometterà i rapporti russo-israeliani

Da tempo le forze armate israeliane intervengono in Siria a tutela dei propri interessi di sicurezza, che ritengono minacciati tanto dalla volontà iraniana di acquisire basi nei pressi dei confini dello Stato ebraico quanto dal possibile rafforzamento dell'Hezbollah libanese.

Proprio allo scopo di evitare incidenti in caso di incursioni, le autorità russe ed israeliane hanno concordato delle procedure per lo scambio preventivo di informazioni, che nel complesso avevano funzionato abbastanza bene, seppure nei limiti di una situazione comunque non facile.
  Chiaramente, nelle prime ore di lunedì 18 settembre scorso qualcosa non è andata per il verso giusto ed il risultato è stato l'abbattimento di un Il-20 russo e la morte dei 15 militari che si trovavano a bordo. Sono circolate a caldo varie ricostruzioni dell'accaduto, alcune delle quali avevano chiamato in causa anche una fregata francese, ma al momento in cui questo commento viene pubblicato la versione più accreditata, sulla quale si registra la più ampia convergenza delle fonti, è che il velivolo russo sia stato colpito per errore da un missile S-200 lanciato dalla contraerea siriana.
Damasco ha in parte riconosciuto le proprie responsabilità, sottoscrivendo quest'analisi dei fatti e contribuendo ad evitare un inutile avvitamento diplomatico della crisi. L'accertamento della verità si presenta del resto molto difficile, data la gran moltitudine di navi ed aerei presenti nell'area al momento della disgrazia. Lo complicano anche le inevitabili recriminazioni degli Stati coinvolti. D'altra parte, la perdita di vite umane è sempre un fatto deprecabile e lo è ancor più quando esiste la sensazione che la si sarebbe potuta evitare.
Proprio per questo motivo — e per la presenza nella zona interessata dall'incidente delle forze di almeno tre potenze nucleari — occorre salutare con favore la prudenza alla quale si è finora improntato il comportamento di tutti gli attori in causa.
Mosca ha contestato al governo israeliano le modalità di conduzione dell'attacco, che sarebbe stato preannunciato alle controparti russe nel teatro con un preavviso troppo breve perché si potessero adottare tutte le precauzioni necessarie a prevenire scontri indesiderati. Tel Aviv ha replicato, inviando un alto ufficiale della propria Aeronautica nella capitale russa per fornire tutte le informazioni utili a ricostruire dinamica e cause dell'incidente.
  Tali circostanze parrebbero dimostrare che al di là della caduta dell'Il-20 e del disappunto che ha comprensibilmente suscitato al Cremlino, non esiste alcuna volontà di precipitare in Siria una crisi politico-militare di maggiori proporzioni, malgrado questa volta i velivoli di Tsahal si siano pericolosamente avvicinati alle zone di maggior importanza per il contingente inviato dalla Russia in Siria. Tutti paiono consapevoli dei rischi che l'aggravamento delle relazioni russo-israeliane potrebbe comportare e stanno facendo del loro meglio per gettare acqua sul fuoco.
  Venendo alle probabili conseguenze di quanto è successo, si possono solo formulare delle ipotesi. Qualora dalle inchieste che verranno condotte sull'abbattimento dovessero emergere gravi negligenze della difesa antiaerea siriana, è prevedibile che le autorità militari russe cercheranno di sottoporre a più stringenti controlli le specialità più "sensibili" delle forze armate di Assad. Non è neanche da escludere che si proceda al rafforzamento delle difese antiaeree e antimissilistiche russe rischierate a Damasco e dintorni, magari inviando sul posto i temibili S-400.
Tutto questo integra gli estremi di una risposta sostanzialmente "tecnico-operativa" alla crisi, che tuttavia potrebbe rivelarsi alla lunga insufficiente, eludendo i nodi politici reali di tutta la vicenda.
La guerra civile siriana sembra, infatti, finalmente avviarsi ad una conclusione che ridefinirà gli equilibri regionali per gli anni a venire. Il messaggio che gli attacchi israeliani sembrano veicolare è quello di una determinazione crescente dello Stato ebraico a sradicare la presenza militare iraniana in Siria ed isolare l'Hezbollah libanese. Le pressioni esercitate da Israele dovranno essere gestite all'interno di un negoziato bilaterale riservato, nel quale alla Russia sarà verosimilmente chiesto di allontanare dalla Siria ogni forza militare o paramilitare legata a Teheran. Non mancano analisti che ritengono questo indirizzo compatibile con gli interessi di Mosca, ad esempio nel campo energetico, ma non si vede come la politica mediorientale russa possa abbracciare apertamente questa prospettiva senza pagare un prezzo alle proprie attuali alleanze.
  Il momento è delicato perché è diffuso il convincimento che i combattimenti stiano per terminare. Ormai non si lotterebbe più per abbattere o difendere Assad, ma piuttosto per delimitare le frontiere delle future sfere d'influenza che attraverseranno in Siria. Le misure di prevenzione o "deconfliction", pure essenziali, permetteranno di guadagnare tempo prezioso, ma tra Russia ed Israele dovrà intervenire un chiarimento politico.

(Sputnik Italia, 21 settembre 2018)


Alla ricerca degli ebrei italiani che combatterono in Israele nel 1948

GERUSALEMME - Nel settantesimo anno dalla Fondazione dello Stato d'Israele si è costituito a Gerusalemme un Comitato di volontari con lo scopo di raccogliere e ricordare alle generazioni future i nominativi e le storie degli ebrei italiani che nel 1948 lasciarono l'Italia per andare in Israele ad arruolarsi e combattere come volontari nell'appena creato Zahal. A rilanciare la notizia è Beniamino Lazar, presidente del Comites di Gerusalemme, membro del neonato comitato, che spiega: "già sono stati raccolti circa 15 nominativi: chiediamo a tutti coloro, sia in Israele che all'estero, che sono a conoscenza di un qualche nominativo di volontario che arrivò in Israele in quel periodo, di comunicarlo all'indirizzo di posta elettronica: lazarba@netvision.net.il oppure inviando una lettera al: P.O.Box 4672 - Jerusalem".

(aise, 21 settembre 2018)


Ebraismo e cristianesimo. Centro e diaspora

Avevamo promesso di tornare sull'argomento degli evangelici che sostengono Israele. L'articolo che segue vuol essere una riflessione che si propone di dire qualcosa sui fatti così come accadono, ma tenendo conto del piano di Dio così come si riesce a capire dalla Bibbia. I termini ebraismo e cristianesimo, che in nessun caso hanno valore teologico ma solo indicativo di realtà sociali, qui sono usati in modo approssimativo e tecnico al solo fine di inquadrare un tema ed esporre una tesi che vuol essere soltanto uno stimolo alla riflessione.

di Marcello Cicchese

L'ebraismo ruota intorno a un centro territoriale: Gerusalemme (Salmo 137:5). Al centro di questo centro si trova il Tempio, la casa dell'Eterno (Salmo 122:1).
  Il Messia Gesù "è venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto" (Giovanni 1:11), ma prima di lasciare questa terra ha detto: "Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, fino al giorno in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Luca 13:35).
  Dopo la sua risurrezione Gesù fu assunto in cielo, e subito dopo la sua ascesa si presentarono alla folla radunata due uomini in vesti bianche che rivolsero loro queste parole: "Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo" (Atti 1:11).
  Quaranta giorni dopo scese sui discepoli lo Spirito Santo promesso da Gesù, e al popolo radunato l'apostolo Pietro rivolse queste parole: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (Atti 1:38-39).
  Tremila persone scesero nelle acque del battesimo in quell'occasione e altre se ne aggiunsero in seguito fino ad arrivare a cinquemila. Nacque a questo punto il primo nucleo di ciò che poi si chiamerà "chiesa", ma che allora poteva considerarsi soltanto come un movimento interno al popolo ebraico che annunciava di credere in Gesù come il Messia promesso a Israele. Chiameremo "gruppo messianico" questa particolare sottosocietà della nazione israelitica di quel tempo.
  Le autorità ebraiche si opposero a questo movimento, e dopo aver respinto Gesù come Messia respinsero anche, con fatale coerenza, i discepoli che proclamavano la risurrezione del Messia Gesù.
  Dopo qualche tempo, con sorpresa, i messianici s'accorsero che lo Spirito Santo promesso da Gesù cadeva anche all'esterno di Israele, perché molti gentili manifestarono di credere in Gesù come loro Signore e Salvatore e vollero essere battezzati. Il gruppo messianico dunque si allargò ai gentili, ma non per questo intendeva uscire dall'ambito del popolo ebraico. La conversione dei gentili non era intesa come un movimento di Israele verso l'esterno, ma, al contrario, come un'attrazione che l'esterno gentile provava verso Israele. I gentili che arrivavano a credere in Gesù manifestavano, con il loro stesso atto di fede, la volontà di porsi in relazione con Israele; ed era una relazione che in un primo tempo non poteva che essere di subordine, perché i credenti nel Messia d'Israele che provenivano dal paganesimo avevano bisogno di essere istruiti su tutto ciò che riguardava le Scritture e le tradizioni ebraiche. E gli istruttori non potevano che essere i messianici ebrei. Dunque "prima il giudeo e poi il greco", come dirà in seguito l'apostolo Paolo (Romani 1:17).

 Israele perde il centro
  
La presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio furono un trauma tremendo per la nazione israelitica, e quindi anche per il gruppo messianico. I messianici però erano stati avvertiti da Gesù: "Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina" (Luca 21:20). Credettero a quella parola, e quando videro che cominciava a formarsi l'assedio, prima che fosse troppo tardi lasciarono la città e si rifugiarono a Pella.
  Con la caduta di Gerusalemme, la distruzione del Tempio e la successiva repressione della rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C., il popolo ebraico perse il suo centro, cioè la casa dell'Eterno in mezzo a Gerusalemme.
  Di conseguenza, anche il gruppo messianico perse il suo centro territoriale, perché credere in Gesù come Messia d'Israele e ottenere il beneficio del perdono dei peccati e la promessa di vita eterna non li esimeva dal considerare Gerusalemme il centro del mondo, il luogo in cui Gesù era vissuto, morto, risuscitato e in cui avrebbe posato i suoi piedi al suo ritorno.
  Ma quello che l'imperatore Adriano voleva, era proprio far perdere a Gerusalemme il posto di centro del popolo ebraico; quindi ne cambiò il nome in Aelia Capitolina e proibì agli ebrei di abitarvi.
  Da quel momento la diaspora ebraica, cominciata con la caduta del primo Tempio ma mitigata fino ad allora dalla presenza di Gerusalemme come centro di riferimento storico-politico dell'ebraismo, diventò spazialmente di dimensioni mondiali e temporalmente di dimensioni che finirono per essere considerate eterne: Gerusalemme ebraica non esiste più, né mai più ci sarà. Resta solo come aspirazione ideale, come rimpianto eterno che favorisce il raccogliersi del popolo ebraico intorno al nuovo centro: la Torà. Non più storia, ma istruzione; non più politica, ma devozione. L'ebraismo perde il centro politico territoriale e va in diaspora a tempo indeterminato.
  Il gruppo messianico, nato originariamente come sottosocietà di Israele apertasi in seguito all'ingresso dei gentili, entrò anche lui in diaspora, nel senso che perse il naturale collegamento che aveva avuto con Gerusalemme, centro originario della diffusione del Vangelo. Il suo distacco però fu meno traumatico, perché il suo centro adesso era in cielo, nel Messia Gesù che siede alla destra di Dio (Matteo 22:44). Lo Spirito Santo diffuso tra i discepoli e presente individualmente in tutti coloro che di vero cuore si erano ravveduti e avevano creduto in Gesù Messia, sosteneva questa fede.

 La corruzione del cristianesimo era stata prevista
  Com'è potuto accadere allora che quel piccolo gruppo messianico uscito dal costato del popolo ebraico abbia potuto trasformarsi nei secoli in un impero religioso-politico mondiale con centro in Roma? Alcuni spiegano la cosa parlando di corruzione del cristianesimo primitivo, aspirando romanticamente ad un "ritorno alle origini". Chi parla così però non tiene conto che nel Nuovo Testamento è già predetta la corruzione del cristianesimo storico, perché in esso sono presenti fin dall'inizio i semi del falso vangelo seminati dall'Avversario. Gesù l'aveva detto:
  "Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand'è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami»" (Matteo 13:31-32).
  Questa parabola fa parte delle sette cosiddette "parabole del regno", che da molti sono interpretate in senso positivo, come preannuncio di un cristianesimo vincente che si espande e trionfa. E' vero il contrario: sono parabole che preannunciano uno sviluppo abnorme e corrotto prodotto dal seme della Parola di Dio in un terreno che l'ha ricevuto ma ne ha usato la potenza a fini di dominio. E' vero che il cristianesimo, come fenomeno storico-politico, col passare del tempo si estenderà nel mondo, perché la potenza redentrice del Vangelo non può essere arrestata, ma il suo successo politico spingerà gli uccelli del cielo della parabola (simboli demoniaci che nella parabola delle zizzanie portano via subito il seme del Vangelo dal cuore di chi lo riceve) ad annidarsi tra i rami dell'albero e a trarne sordidi vantaggi. Ed è quello che è successo.

 Il cristianesimo corrotto si accentra
  Dopo la distruzione del Tempio e la sparizione di Gerusalemme come centro della nazione ebraica, il gruppo che adesso possiamo chiamare "messianico-cristiano" per la sua costituzione etnicamente mista, avrebbe dovuto rimanere sempre in diaspora, come Israele e, nei limiti del possibile, insieme a Israele. La diaspora, che per gli ebrei è un giudizio, per i discepoli di Gesù è una vocazione: "E disse loro: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura" (Marco 16:15).
  Ma questo non è avvenuto, e l'ex gruppo messianico trasformatosi in quell'istituzione politica chiamata "Chiesa", dopo aver raggiunto una sufficiente distanza non solo da Israele ma anche dall'originario messaggio di Gesù, sentì il bisogno di avere un centro politico territoriale che ne esprimesse il carattere imperiale, consono alla sua pretesa missione. Questo centro naturalmente non poteva essere Gerusalemme, troppo vicina alla storia degli ebrei e, soprattutto, troppo vicina al Gesù del Vangelo da cui aveva preso le distanze. Al momento opportuno si presentò l'occasione adatta: l'impero romano in dissoluzione. Così la Chiesa istituzionale, invece di disperdersi tra le genti assegnò a Roma il posto di centro della cristianità e di tutto il mondo.
  La predicazione del Vangelo, che avrebbe dovuto continuare ad avvenire in diaspora, si alterò al punto da far pensare che il compito dei discepoli di Gesù fosse quello di lavorare alla costruzione e allo sviluppo del "centro", da cui avrebbe dovuto irradiarsi in tutto il mondo la civiltà cristiana ben organizzata in tutte le sue stratificazioni. E naturalmente al centro di questo centro avrebbe dovuto esserci "Uno" che rappresentasse nella sua persona il Sovrano temporaneamente assente. Lo chiameranno "Papa", e ce n'è ancora uno in circolazione.

 Le parole del Vangelo portano frutto in diaspora
  Tuttavia, nonostante le zizzanie seminate dall'Avversario nel campo del mondo affinché le piante cattive si mescolassero con quelle buone, il seme della parola del Vangelo ha continuato ad essere accolto dagli uomini, e dove ciò è davvero avvenuto non sono sorte imponenti basiliche, e duomi, e cattedrali, e monasteri, ma sono spuntati gruppi più o meno grandi di persone che si sono ritrovate insieme "nel nome di Gesù". In certi tempi e in certi luoghi questo potrebbe essere avvenuto anche all'ombra di qualche duomo, ma in ogni caso non era il duomo ad essere importante, ma le persone che si radunavano nel nome di Gesù. Perché Gesù l'aveva detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro" (Matteo 18:20). Come si vede, le cattedrali a questo scopo non servono.
  Abbiamo cominciato col dire che l'ebraismo ha un centro territoriale: Gerusalemme. Adesso aggiungiamo che il cristianesimo autentico non ne ha. Non avrebbe mai dovuto esistere un centro cristiano territoriale, ad imitazione e in sostituzione del centro ebraico. I discepoli di Gesù sono chiamati a vivere in diaspora, come sono stati gli ebrei per tanti secoli, anche se in forma e posizione diverse. Storicamente è avvenuto che l'ebraismo ha perso il centro e il cristianesimo se ne è costruito uno. Il "cristianesimo accentrato" è espresso in forma esemplare dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana), che ben rappresenta l'albero della parabola in cui si vengono a rifugiare farabutti di ogni tipo, come agevolmente si può vedere anche in questi giorni.
  Quanto agli evangelici, certamente anche tra di loro si trova di tutto, nel bene e nel male, ma la loro posizione nel mondo è fondamentalmente diversa da quella cattolica. Le dottrine e i comportamenti possono essere diversi, ma non esiste né si ricerca un centro territoriale. E' un "cristianesimo diasporico" che ha un solo Centro: Gesù, che ora siede in cielo alla destra di Dio, è presente in mezzo ai suoi nella persona dello Spirito Santo, e un giorno tornerà sulla terra per completare la sua missione. E quando ciò avverrà, al centro del mondo ci sarà Israele, con capitale Gerusalemme, non lo Stato del Vaticano, con al centro la Basilica di San Pietro.

 Il cristianesimo accentrato si disgrega; il cristianesimo diasporico si rinforza
  Due cose sono indubbiamente nuove nel cristianesimo dei nostri tempi. La prima è che oggi il cristianesimo accentrato sta perdendo i pezzi, come mostra l'articolo di Giulio Meotti che qui sotto riportiamo ed è una specie di lamento funebre sulla caduta del cristianesimo trionfante di una volta: chiese che si svuotano, chiese che si chiudono, chiese che si affittano, chiese che si danno in comodato, chiese che si vendono agli islamici, e così via piangendo. Ma per questo non c'è da piangere: il cristianesimo accentrato e trionfante non ha futuro. Ed è bene che sia così.
  La seconda è che oggi nel cristianesimo diasporico, che invece continua ad espandersi in forma non registrata dai media, si è destato in qualche sua parte uno "strano", imprevedibile amore per Israele. Si possono dare varie spiegazioni del fenomeno; molte sono maliziose, e mentre chi le fa pensa di rivelare basse ragioni in chi viene indicato, in realtà quello che si rivela è la bassezza di chi indica. Qui se ne propone una, che non ha la pretesa di essere "la" spiegazione, ma si offre alla riflessione di chi è interessato:
    l'interesse e l'amore per Israele che spunta oggi nel cristianesimo diasporico è nostalgia e attrazione per quel centro territoriale che appartiene al popolo ebraico, nel passato è stato perso, ed ora si sta ricostituendo intorno al popolo e allo Stato di Israele.
Abbiamo già detto che per gli evangelici il centro è Gesù che siede alla destra del Padre, ma si sa anche che un giorno Gesù tornerà sulla terra e "i suoi piedi si poseranno sul monte degli Ulivi, che sta di fronte a Gerusalemme, a oriente" (Zaccaria 14:4). Con la costituzione dello Stato ebraico è avvenuto il più grande miracolo degli ultimi due secoli. Un miracolo storico, diluito in decenni e tuttora in esecuzione: il popolo ebraico è tornato sulla sua terra, l'ha fatta rifiorire, la difende. E questo è potuto avvenire perché Colui che siede alla destra del Padre l'ha desiderato. Gesù aspetta il giorno in cui il suo popolo gli dirà: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore". E questo avverrà in Israele, a Gerusalemme. E se Gesù guarda con amore e desiderio a questo luogo e a questo popolo, i discepoli che lo seguono condividono con Lui il suo stesso amore e desiderio.

(Notizie su Israele, 21 settembre 2018)


Crollano le roccaforti. È il tramonto dell'Europa cattolica

Irlanda, Baviera, Francia, Austria, Spagna: quasi espugnate anche le ultime ridotte. Resiste solo la Polonia.
Quando Ratzinger disse. "C'è una città europea dove i cristiani sono soltanto l'otto per cento della popolazione"
"La fede è evaporata", ha detto Friedrich Wetter, subentrato a Ratzinger come arcivescovo di Monaco, dove c'è un solo candidato al sacerdozio

di Giulio Meotti

 
Una ex chiesa adibita ad abitazione di charme. Vaste aree dell'Europa sono oggi risucchiate dalla secolarizzazione
Cinque anni fa, l'arcivescovo e primate d'Irlanda, Diarmuid Martin, pubblicò un articolo intitolato "Un'Irlanda post-cattolica?". Martin vi prefigurava uno scenario in cui "il cattolicesimo è stato spodestato". Si direbbe che quello scenario oggi si è quasi avverato, a giudicare dalla veduta aerea del Parco Phoenix di Dublino, dove Papa Francesco ha presenziato all'ultimo giorno della sua storica visita nel paese. E' lo stesso parco in cui un altro Papa, Giovanni Paolo II, si presentò quarant'anni fa. Un lasso di tempo molto breve. Per Wojtyla, arrivarono 1,2 milioni di persone. Dublino aveva le vie deserte. Un terzo di tutti gli irlandesi si era riversato sull'immenso parco della capitale. Per Papa Bergoglio, appena in 120 mila, di cui seimila operatori della pubblica sicurezza. E avevano venduto mezzo milione di biglietti. Meno di un terzo si è presentato. E' un decimo della presenza che ci fu nel 1979 per Giovanni Paolo II. Ed eravamo in Irlanda. Se lo stesso evento fosse stato organizzato in un altro paese europeo, avremmo visto forse un parco ancora più spoglio.
  Vaste aree dell'Europa sono oggi già completamente risucchiate dalla secolarizzazione e sono in via
Dal 1995 a oggi, il numero di sacerdoti attivi in Irlanda è diminuito del 43 per cento. E tre su quattro avranno più di 60 anni nel 2030
definitiva di scristianizzazione: Olanda, Belgio, Inghilterra, Svizzera, tutti i paesi scandinavi, Repubblica Ceca, per citarne soltanto alcuni. Nazioni praticamente già "perse" per il cattolicesimo e dove il fervore religioso è riservato a pochi anziani e all'islam. Ma un fenomeno forse più grave, e meno conosciuto, sta colpendo anche le famose ridotte del cattolicesimo.
  L'Economist ha titolato "Il vuoto dentro. Il cattolicesimo si sta svuotando nelle sue tradizionali roccaforti europee". Lo sguardo che il Papa ha distolto dall'Europa, per rivolgerlo invece alle periferie, appare strategico. "Oggi la Repubblica democratica del Congo ha lo stesso numero di cattolici dell'Austria e della Germania messe insieme", ha scritto John Allen su Foreign Policy." E l'India ha più cattolici di Canada e Irlanda messi insieme". Come si misura il "vuoto" di cui parla l'Economist? Dal numero delle vocazioni, dalla frequenza alla messa, dall'accorpamento delle parrocchie e delle diocesi. E il trend appare molto chiaro ovunque nei paesi che erano sempre stati assegnati di default all'emisfero cattolico.
  Nel 2001 l'allora cardinale Joseph Ratzinger parlò in termini spietati delle terribili implicazioni della contrazione della fede in Europa. E pose domande radicali sulla sostenibilità dell'identità dell'Europa: "Per incominciare: la chiesa si ridurrà numericamente?", disse Ratzinger a Peter Seewald. "Quando ho fatto questa affermazione, mi sono piovuti da tutte le parti rimproveri di pessimismo. E oggi tutti i divieti paiono caduti in disuso, tranne quello riguardante ciò che viene chiamato pessimismo e che spesso non è altro che sano realismo. Nel frattempo i più ammettono la diminuzione della percentuale di cristiani battezzati nell'Europa di oggi. In una città come Magdeburgo la percentuale dei cristiani è solo dell'otto per cento della popolazione complessiva, comprendendo - si badi bene - tutte le confessioni cristiane. I dati statistici mostrano tendenze inconfutabili". Sono trascorsi diciassette anni da quella intervista e i dati statistici da allora sono quasi ovunque crollati a picco.
  Nel 2015, l'Irlanda è diventata il primo paese al mondo ad approvare il matrimonio omosessuale con un voto popolare. E in maggio l'Irlanda ha spazzato via tramite referendum anche un divieto di aborto fra i più restrittivi al mondo. "Illustra bene quanto rapida sia stata la secolarizzazione irlandese", ha detto la scorsa settimana al Washington Post Crawford Gribben, professore di Storia alla Queen's University di
In Lussemburgo, piccola enclave un tempo interamente cattolica nel cuore dell'Europa, le parrocchie scenderanno da 274 a 33
Belfast. La frequenza in chiesa si è inaridita. "Si può vedere in una mattina di domenica nelle parrocchie di tutto il paese, dove sacerdoti anziani presiedono file polverosi di banchi e distribuiscono l'Eucaristia con mani tremanti a una fila di pensionati", ha commentato il Washington Post. "I segni del declino religioso sono ovunque. Il paese elogiato da un Papa nel 1961 come il più fecondo produttore di preti cattolici, oggi vede quei ranghi assottigliarsi rapidamente. Quest'anno, solo sei giovani sono entrati nel seminario nazionale presso il Collegio di St. Patrick a Maynooth a studiare per il sacerdozio". Secondo l'Irish Times, "è il numero più basso dalla sua fondazione nel 1795".
  Si prevede che le presenze settimanali alla messa nell'arcidiocesi di Dublino scenderanno di un altro terzo nei prossimi quindici anni, mentre il numero di sacerdoti che servono nelle parrocchie diminuirà del sessanta per cento. "E questa è la proiezione più ottimistica", scrive l'Irish Times. Una relazione preparata per il Consiglio dei sacerdoti di Dublino da consulenti esterni osserva che i tre quarti dei sacerdoti avranno più di sessant'anni entro il 2030. Il rapporto ha rilevato anche che dal 2000 il tasso di matrimoni cattolici nell'arcidiocesi sta crollando a un tasso annuo del quattro per cento. A novembre, l'Associazione dei preti cattolici ha rivelato che dal 1995 il numero di preti cattolici attivi in Irlanda è diminuito del 43 per cento, da 3.550 a 2.019. In tutto, ora ci sono circa ottanta uomini che si preparano per diventare sacerdoti nel seminario nazionale. Solo nel 1990, quel numero era di 525. La diocesi di Clogher in Irlanda ha raggruppato 37 parrocchie in 14 "aree pastorali".
  Come ha spiegato Jason Horowitz sul New York Times in un dettagliato resoconto pubblicato a maggio, i bastioni del cattolicesimo europeo stanno venendo giù uno a uno. "Nel Lussemburgo completamente cattolico il governo, guidato da un premier gay, ha abolito l'insegnamento religioso nelle scuole statali. Soltanto un cattolico su cinque va a messa in Spagna e molte delle 68 diocesi del paese non riportano
In quindici anni, il numero di seminaristi in Spagna è diminuito del 27 per cento. La metà delle parrocchie non ha un sacerdote fisso
ammissioni al seminario. Nell'Italia tradizionalmente cattolica, fino al 40 per cento delle parrocchie cattoliche è gestito da clero di origine straniera". L'arcidiocesi cattolica del Lussemburgo riduce le sue 274 parrocchie a sole 33.
  Il cattolicesimo spagnolo, che era uno dei più saldi in Europa, è ancora tramortito dalle guerre ideologiche degli anni di Zapatero e, da allora, è praticamente silente, menomato, incapace di risalire la china di una secolarizzazione travolgente. Non solo metà delle parrocchie spagnole sono ora prive di sacerdoti, ma anche l'età media dei chierici è salita a quasi 65 anni. Nel 2016 sono stati ordinati 138 sacerdoti nelle settanta diocesi in Spagna, rispetto ai 150 ordinati l'anno precedente. Ricardo Blàzquez, presidente della Conferenza episcopale, ha avvertito pochi mesi fa: "Se diversi decenni fa l'abbondanza di sacerdoti era straordinaria, attualmente è la scarsità a essere straordinaria".
  Nella Castilla y Leon ci sono più di cinquecento villaggi in cui i parrocchiani non possono partecipare alla messa se non salgono in auto. Non è un problema nuovo: nel 2002 era già uscita la notizia che un villaggio di Leon, Cebrones del Rio, di quasi settecento abitanti, era stato lasciato senza la messa per la festa di Ognissanti. I dati sui seminaristi della Conferenza episcopale spagnola sono impietosi: nel 2002 in Spagna c'erano 1.736 seminaristi sparsi in tutto il paese, il crollo è stato continuo da allora e nel 2018 i seminaristi sono scesi a 1.263. In totale, negli ultimi quindici anni il numero di seminaristi è diminuito in Spagna del 27 per cento, sebbene il dissanguamento si sia stabilizzato dal 2009, quando è stato registrato il minimo storico. Negli ultimi anni, come le parrocchie, sono stati rinforzati con sacerdoti stranieri. Un totale di 109 sacerdoti è stato ordinato in Spagna nel 2017, il 21 per cento in meno rispetto al 2016. Uno studio finanziato dalla chiesa ha dimostrato che, delle 23.286 parrocchie in Spagna, non meno di 10.615 non avevano sacerdoti permanenti.
  El Pais ha raccontato la storia di Teo Nieto, un sacerdote cattolico. "Essere un prete in Spagna non è più quello di una volta". Compie in auto una media di 138 chilometri al giorno per dire messa in tutte le parrocchie sotto la sua guida. Il sacerdote fa sei messe ogni fine settimana, due il sabato e quattro la
In Francia nel 2018 saranno ordinati 114 sacerdoti: nel 2017 erano stati 133. 58 diocesi non avranno neanche un'ordinazione
domenica, insieme ad altre sei durante la settimana, per un totale di 624 messe all'anno. "Il suo destino è tutt'altro che insolito nella Spagna centrale: a Salamanca, Cuenca, Segovia e Burgos, i parroci coprono molta strada. Un altro fattore è che la Spagna sta diventando più laica. Nel 2000, sette matrimoni su dieci sono stati celebrati in chiesa, mentre nel 2015 il numero è sceso a tre su dieci. Dei bambini nati nel 2013, è stato battezzato il 21 per cento in meno rispetto al 2005, secondo la chiesa cattolica".
  Il sud dell'Olanda, ultima ridotta del cattolicesimo in quel paese consegnatosi all'ateismo, è quasi perso. Ma già la visita in Olanda nel 1985 di Giovanni Paolo II aveva mostrato tutto questo. Le strade di Utrecht, capitale dei cattolici olandesi, erano vuote quando il pontefice passò in auto. E a Den Bosch, durante la processione, arrivarono appena ottomila persone. Il presidente della Conferenza episcopale olandese, il cardinale Willem Eijk, ha introdotto piani per fondere le parrocchie dell'arcidiocesi di Utrecht da 326 a 48.
  Persino la regione che ospita il santuario mariano più noto al mondo, Lourdes, è quasi ormai interamente scristianizzata. Avignone, la città dei Papi, è oggi nota come "la città dei salafiti", una delle città francesi a maggior tasso di islamizzazione. Della Francia "figlia prediletta della chiesa cattolica" resta soltanto un flebile ricordo. La rivista Esprit di recente ha spiegato che ci sarà "una chiesa ultra-minoritaria in una società scristianizzata". Nella diocesi di Evreux, il cristianesimo ha fatto parte del tessuto della vita per quindici secoli. Dei suoi 600 mila abitanti, circa 400 mila potrebbero definirsi, almeno in modo approssimativo, "cattolici". Ma ha solo sette preti con meno di quarant'anni.
  A ben guardare, il cattolicesimo francese si sta frammentando dal momento che il centro regge a malapena. La Francia sta assistendo a un numero sempre più basso di ordinazioni sacerdotali. Secondo le cifre appena pubblicate da La Croix, "nel 2018 verranno ordinati 114 nuovi sacerdoti. Si tratta di un calo significativo rispetto al 2017, quando furono ordinati 133 sacerdoti. Il declino è abbastanza netto a Parigi, con sei ordinazioni, quando ne aveva avute dieci un anno fa e undici nel 2016. Ci sono anche 58 diocesi che quest'anno non avranno un'unica ordinazione".
  La Croix spiega anche che le diocesi francesi perderanno in media un quarto dei preti attivi entro il 2024. A Nantes, i sacerdoti diminuiranno della metà, da 148 a 75, e a La Rochelle passeranno da 104 a 45. Nel
L'Austria passerà da 660 a 150 parrocchie. "E' inutile nascondere la testa sotto la sabbia", dicono dall'arcidiocesi di Vienna
2016, c'erano poco meno di sedicimila sacerdoti in Francia. Ogni anno sono circa ottocento le morti naturali nel clero. Data la tendenza demografica inevitabile, la Francia avrà seimila sacerdoti fra dieci anni. "Al ritmo attuale, tra dieci anni non ci saranno più di 80 preti diocesani contro i 180 attuali", ha detto il vicario generale della diocesi di Tolosa, Hervé Gaignard,
  Stessa situazione in Austria, dove le chiese sono ovunque (ce ne sono 42 soltanto a Salisburgo). Ma solo nella diocesi di Vienna ormai ben un quarto dei fedeli cattolici sono immigrati. "Tutti si rendono conto che non puoi semplicemente nascondere la testa nella sabbia" ha detto a Ncr Michael Pruller, portavoce della grande arcidiocesi di Vienna nell'annunciare la "grande riorganizzazione", ovvero la riduzione delle attuali 660 parrocchie dell'arcidiocesi di Vienna a 150. Appena ventidue è il numero dei nuovi sacerdoti in Austria, e di questi soltanto otto sono austriaci, quattro tedeschi, quattro nigeriani, tre polacchi, un americano, un cileno e un vietnamita. In una conversazione pasquale con la stampa, il cardinale Christoph Schònborn ha insistito sul fatto che "la chiesa del popolo non è morta". Ma uno studio molto citato dall'Istituto di Vienna per la demografia (per conto dell'Accademia delle scienze), spiega che il cattolicesimo è chiaramente in declino e nel breve futuro il numero di cattolici scenderà al di sotto del cinquanta percento. Già nel suo libro del 1990 "Before Infallibility: Liberal Catholicism in Biedermeier Vienna", Adam Bunnell descriveva così Vienna: "In nessun luogo la presenza del passato è più visibile che nelle chiese viennesi vuote ma comunque ben tenute che si incontrano in ogni angolo. Se le chiese sono ora vuote tranne che per qualche occasione, se il potere della chiesa non è che l'ombra di quello che era una volta, il cattolicesimo rimane parte integrante della coscienza di questo luogo. I viennesi pagheranno l'imposta alla chiesa anno dopo anno, non per visitare le chiese tranne che a Natale o a Pasqua - per il battesimo, il matrimonio o la sepoltura - ma per preservare la tradizione, per conservare il passato, per poter mostrare ai bambini ancora lo splendore e la bellezza in pompa magna". Dietro la stupefacente facciata barocca, il cattolicesimo austriaco è tuttavia eroso da una
A Utrecht, "capitale" dei cattolici nell'Olanda scristianizzata, un piano per fondere le parrocchie: passeranno da 326 a 48
crisi senza precedenti.
  In tutta la Germania il numero di preti è diminuito di oltre un quarto negli ultimi vent'anni. Nelle 27 diocesi del paese, 76 giovani sono stati ordinati preti diocesani nel 2017, come rivela un'indagine dell'agenzia di stampa cattolica (Kna). Nel 2016 le ordinazioni erano state 82. Nel 1995 ben 186 sacerdoti erano stati consacrati in Germania. Per la prima volta in cento anni, non c'è stata una sola ordinazione nella diocesi di Osnabruck.
  Una delle diocesi cattoliche più antiche della Germania, Treviri, passerà da 172 a 35 parrocchie, con una riduzione dell'ottanta per cento come da annuncio a maggio della portavoce, Judith Rupp, Già nel 2007, il settimanale Der Spiegel scriveva che "la chiesa cattolica in Germania sta esaurendo le vocazioni". Dieci anni dopo, le vocazioni anche nella cattolicissima Baviera sono praticamente finite. Ma non solo. Katholisch.de, il sito ufficiale della chiesa tedesca, ha rivelato che anche la diocesi di Magonza, quella di origine del cardinale conservatore Gerhard Muller, nell'ultimo anno non ha ordinato nessun sacerdote. Secondo le cifre pubblicate dalla Conferenza episcopale tedesca, mai prima d'ora sono stati ordinati così pochi sacerdoti in Germania. Nel 2015 un totale di 58 uomini sono diventati sacerdoti nel paese. Nell'ultimo decennio, il numero delle ordinazioni si è dimezzato: nel 2005 sono stati ordinati 122 sacerdoti diocesani. Nel 1965, il numero era di cinquecento. La diocesi di Hildesheim nel nord della Germania ha di recente "importato" dodici sacerdoti dall'India per far loro imparare il tedesco e dire messa. Hildesheim, una delle 27 diocesi cattoliche in Germania, ha attualmente 265 sacerdoti, ma ne ha ordinati solo 33 nell'ultimo decennio e solo uno quest'anno.
  "La fede è evaporata", ha detto un malinconico cardinale Friedrich Wetter, subentrato a Ratzinger come arcivescovo di Monaco dal 1982 al 2007. L'arcidiocesi di Monaco ha attirato l'anno scorso un solo candidato
ln Baviera ha chiuso l'ultimo convento delle Brigidine. Erano rimaste soltanto due suore, di cui una in un ospizio
al sacerdozio. Lo ha rivelato lo stesso presidente della Conferenza episcopale tedesca, cardinale Reinhard Marx, che ha parlato in una riunione diocesana e ha rivelato il fatto straordinario. In tutta l'arcidiocesi di Monaco di Baviera, terra di origine di Papa Benedetto XVI, oggi ci sono appena 37 seminaristi nei vari stadi di formazione a fronte di circa 1,7 milioni di cattolici. In confronto, la diocesi americana di Lincoln, in Nebraska, ha attualmente 49 seminaristi per circa 96 mila cattolici.
  Quando Ratzinger divenne Papa, alla messa di celebrazione nella sua cittadina natale di Traunstein non c'erano più di 75 persone nella chiesa che poteva contenerne mille. Nel 2011 anche la Baviera si svegliò scoprendo che i cattolici per la prima volta erano diventati minoranza anche in quel Land bastione della chiesa romana. Il dato emerse dal bilancio della curia di Monaco e Frisinga: i fedeli erano scesi a 1,77 milioni, il 49 per cento dei residenti. Nel 1987 (l'anno dell'ultimo censimento nell'allora Germania Ovest) il 67,2 per cento dei bavaresi ancora si dichiarava cattolico. E un anno fa, le autorità della chiesa cattolica bavarese hanno chiuso l'ultima abbazia delle monache Brigidine della Germania. Dal 1496, l'ex abbazia benedettina di Altomunster ospitava un ordine religioso femminile. Il Vaticano nel 2015 ne aveva però ordinato la chiusura dopo che il numero delle suore era sceso a due. di cui una era finita in una casa di riposo.
  In Europa "resiste" per adesso soltanto la Polonia, dove il quaranta per cento della popolazione va ancora a messa (nel resto dei paesi cattolici questa cifra si aggira dal cinque al dieci per cento). I polacchi sono
Resta soltanto la Polonia, che esporta preti in tutto il mondo e dove il quaranta per cento della popolazione va ancora a messa
praticamente tutti battezzati, ed esportano ancora sacerdoti nel resto del Vecchio continente. La Bbc ha riferito che "un quarto di tutti i seminaristi in Europa è polacco". Nel 2017, la Polonia ha ordinato 323 nuovi sacerdoti, il triplo della Spagna, un altro paese cattolico ma con dieci milioni in più di abitanti. Ha scritto Stephen Bullivant, direttore del Centro Benedetto XVI presso l'Università St Mary di Twickenham che di recente ha curato il più approfondito studio sulla scomparsa dei cattolici in Europa: "La probabilità che un cattolico polacco sulla ventina vada a messa una volta a settimana è 24 volte più grande di quella di un belga. Al contrario, è dieci volte più probabile che un cattolico belga non metta mai piede in una chiesa rispetto a un polacco". Al di là del giudizio sul merito della manifestazione ai confini polacchi contro "l'islamizzazione dell'Europa" che si è tenuta un anno fa, quel milione di fedeli era qualcosa di mai visto altrove in Europa.
  In Irlanda il fenomeno era già noto nel 2004, quando la diocesi di Dublino, la più grande del paese, non aveva pianificato ordinazioni per l'anno successivo. Nel 1970, 750 persone avevano cercato di diventare sacerdoti. Nel 2003, il numero era già sceso a 39. Tutti i seminari in Irlanda tranne uno hanno chiuso. Per la prima volta nella storia non c'erano abbastanza sacerdoti in Irlanda - un paese forgiato nel cattolicesimo - per tutte le sue chiese. Banogue, una piccola parrocchia di Limerick, fu tra le prime a perdere il suo sacerdote a tempo pieno, un fatto che scioccò e lanciò un segnale di avvertimento a tutto il paese e alla chiesa. David Blake, un cattolico di Limerick, disse all'inviato del New York Times che era andato a cercare di capire quella crisi: "E' un po' come se stessimo sistemando le sedie a sdraio sul Titanic e non ci rendessimo conto che la nave sta affondando".

(Il Foglio, 1 settembre 2018)


«Leggi razziali, furono un tradimento». L'Università chiede scusa agli ebrei

Pisa, ieri la cerimonia del ricordo.

Firma a San Rossore
Il 5 settembre 1938, nella tenuta di San Rossore a Pisa, il re Vittorio Emanuele III firmò il provvedimento in difesa della razza, «Regio decreto 1381, nei confronti degli ebrei stranieri».
Ottomila vittime
Nel giro di qualche anno le nuove norme portarono alla deportazione e allo sterminio di quasi 8.000 ebrei (oltre circa 2.000 deportati dai possedimenti), dei quali solo 826 riuscirono a sopravvivere.
I docenti espulsi
Le università italiane furono coinvolte e, spesso, complici di questo processo. Solo nell'Ateneo di Pisa furono espulsi 20 docenti e quasi 300 studenti e fu impedita l'iscrizione di studenti ebrei.

di Gabriele Masiero

PISA - E' l'abbraccio tra il rettore dell'università di Pisa, Paolo Mancarella, e Di Segni, presidente dell'Ucei, l'unione delle comunità ebraiche italiane, il momento più significativo della Cerimonia del ricordo e delle scuse, promosso dall'ateneo pisano per risarcire in qualche modo gli ebrei a 80 anni dall'entrata in vigore delle leggi razziali.
   Un abbraccio caloroso e sincero per chiedere scusa a nome di tutto il mondo accademico italiano ma che non sana una ferita ancora aperta. Lo si capisce dalle parole pronunciate poco prima proprio da Di Segni: «Ottant'anni sono la durata di tre generazioni. Un'eternità. Tanto abbiamo atteso per ascoltare queste parole nel nostro Paese. E' importante oggi tradurre la vostra solenne dichiarazione in fatti, saper trasmettere una ferma convinzione a chi tentenna, a chi desidera essere parte dell'accademia italiana. La nostra generazione ha ricevuto da chi ha vissuto l'esclusione un messaggio e una missiva che non ha carattere di rivendicazione o restituzione di odio ma di vigilanza e rispetto della libertà e del riconoscimento dell'altro e di partecipazione alla ricostruzione e allo sviluppo culturale e accademico dell'Italia e dell'Europa».
   Mancarella definisce «storica la giornata» di ieri e promette: «Dobbiamo avere la forza di non obbedire mai, di non obnubilare mai la mente per cedere a nuove inique ragioni, di Stato, di corporazione, di carriera, di quieto vivere, di indulgenza reciproca. La moralità degli studenti e dei docenti che allora subirono l'ingiustizia ci guidi nel ricordo, nella riparazione, nella ricostruzione delle virtù civiche oggi necessarie alla resistenza contro tutte le discriminazioni, anche quelle del nostro tempo perché intravedo nubi preoccupanti in Italia e in Europa, ma direi in tutto il mondo. Noi non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell'uomo».
   Mette in guardia dai pericoli di oggi anche il presidente della Crui, Gaetano Manfredi: «Le leggi razziali sono state una profonda ferita per il mondo accademico italiano perché tradirono la missione autentica delle università che è quella di tutelare tutte le culture. Oggi dobbiamo chiedere scusa trasformando questa assunzione di responsabilità in un impegno concreto e quotidiano per impedire che certi pericoli, ancora presenti nella società contemporanea, possano tornare. L'Università esiste da mille anni proprio perché ha saputo sempre essere il luogo dello scambio culturale e del rispetto, prima ancora della nascita delle nazioni. E deve continuare a essere quel luogo assicurando protezione a tutte le culture, le diverse religioni e le diverse opinioni. Solo così potrà incarnare la propria missione più autentica dal punto di vista didattico e della ricerca scientifica senza tradirla di nuovo come avvenne nel 1938».

(La Nazione, 21 settembre 2018)


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Scusarsi è facile, dobbiamo impedire che capiti ancora»

A Pisa i rettori chiedono perdono per le leggi razziali. Di Segni (Ucei): abbiamo atteso troppo questo giorno. Mancarella: Qui molti anni fa sono avvenute cose che non sarebbero mai dovute accadere. Ci sono vite che, a partire da questo luogo, sono state sospese, stravolte, distrutte.

di Mauro Bonciani

PISA - Ottanta anni dopo. Nel «doloroso ricordo di una delle pagine più tristi e vergognose della nostra storia» - come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio ha definito la firma delle leggi razziali a San Rossore nel settembre del 1938 - da Pisa arriva un messaggio forte e inedito. Di risarcimento per le responsabilità delle Università e del mondo accademico italiano, unito all'impegno a rivolgersi ai giovani con un linguaggio contemporaneo che parli loro di discriminazioni, razzismo, vera scienza. Anche il ministero dell'Istruzione, in una nota del ministro Marco Bussetti «chiede perdono per una pagina terribile».
   La «cerimonia del ricordo e delle scuse», tenutasi alla Sapienza alla presenza di tutti i rettori degli Atenei italiani e di esponenti della comunità ebraiche italiane e voluta dall'Università di Pisa, è stata contrassegnata da momenti di assoluto silenzio quando il rettore ha elencato i depurati e i deportati, dagli applausi ai passaggi più significativi dei discorsi ufficiali del rettore Paolo Mancarella e di Noemi Di Segni, presidentessa delle Comunità ebraiche italiane. Una giornata «che rimarrà nel cuore di tutti gli ebrei italiani e non solo, per sempre», come ha detto la senatrice a vita Liliana Segre nel suo videomessaggio.
   «Qui molti anni fa sono avvenute cose che non sarebbero mai dovute accadere. Ci sono vite che, a partire da questo luogo, sono state sospese, stravolte, distrutte», ha esordito Paolo Mancarella nel discorso in cui ha sottolineato più volte il concetto di obbedienza dietro cui tantissimi si sono riparati per restare inerti. «L'incontro di oggi vuole essere di risarcimento morale e civile da parte dell'istituzione che si rese corresponsabile: l'università obbedì alle leggi razziali - ha scandito - La parola scuse che abbiamo dovuto usare solo per far comprendere la nostra intenzione è eloquente, ma al contempo inappropriata e inadeguata. Noi oggi sentiamo il dovere di dire parole nette pur senza averne il diritto. Troppo facile quindi chiedere scusa, ma dobbiamo avere la forza di non cedere a nuove inique ragioni di Stato, di carriera, di quieto vivere». «Cosa farei oggi io?» ha domandato alla coscienza di tutti il rettore, facendo proprie le parole della lettera del professor Naftoli Emdin (il testo nel box qui accanto) chiudendo con una citazione di don Lorenzo Milani: «L'obbedienza non è più una virtù. Ecco non dobbiamo obbedire mai più a ciechi intendimenti che calpestino la ragione e annullino la dignità dell'uomo». Noemi Di Segni ha esortato alla vigilanza contro ogni razzismo, ribadito che «l'Altro siamo Noi», ricordato le colpe degli scienziati nel nefasto Manifesto della Razza, e ha sottolineato: «Ottanta anni sono per i demografi la durata di una intera vita e di tre generazioni. Per tutti noi sono un'eternità. Tanto abbiamo atteso per ascoltare queste parole nel nostro Paese».
   Alla cerimonia (con la vice sindaco di Pisa Raffaella Bonsangue arrivata in forte ritardo) è seguito l'inizio del convegno storico su antisemitismo e Shoah. Nel cortile della Sapienza gli ebrei pisani sono rimasti a lungo ad abbracciarsi. «Lei è Flora Cava, io Lia Gallichi, della famiglia Gallichi sterminata quasi completamente nel 1944 nell'eccidio ad opera dei nazisti in casa Pardo, il presidente della comunità pisana; ci chiamiamo scherzando le ragazze del 1938 - dice Lia - E stato bello, abbiamo riannodato fili e storie. Questa cerimonia è arrivata tardissimo, abbiamo aspettato tanto ... ».

(Corriere fiorentino, 21 settembre 2018)


"Zachor, l'impegno del ricordo per salvaguardare il futuro"

di Daniel Reichel

 
 
Ottant'anni fa Trieste fu il simbolo del tradimento e dell'infamia: dal balcone di Piazza Unità il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò le Leggi razziste. Con un colpo di spugna e davanti a una folla di migliaia di persone che applaudivano, il fascismo decise di cancellare i diritti civili conquistati dagli ebrei italiani dopo secoli di sofferenza. "Tutto il mondo dovrebbe chiedere scusa agli ebrei, io non sono il mondo ma il sindaco di Trieste e a nome della città chiedo scusa", ha dichiarato il primo cittadino Roberto Dipiazza nelle scorse ore in occasione dell'iniziativa organizzata con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità ebraica triestina per ricordare il 18 settembre 1938. Ed è proprio il principio del ricordo che è al centro della targa svelata in questo 80esimo anniversario: "Zachor. Ricorda quello che ti fece Amalek quando eri in cammino…. (Deut. XXV, 17). Il 18 settembre 1938 in questa piazza l'offesa del regime fascista ai diritti civili raggiungeva il suo culmine con l'annuncio dei provvedimenti in difesa della cosiddetta razza italiana. A ottant'anni dall'evento il Comune di Trieste, la Comunità Ebraica di Trieste e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane pongono questa epigrafe affinché le nuove generazioni ricordino e vigilino sulla salvaguardia dei diritti fondamentali di libertà e solidarietà civile", il testo della targa letto da due bambini della scuola ebraica, monito anche per il presente, come ha ricordato la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni. "In questa sede, in questa Piazza e in questa particolare giornata, dobbiamo con fermezza denunciare le parole di odio, le violenze verbali e fisiche rivolte contro individui o collettività che ogni giorno di più sentiamo pronunciate e difese anche nello spazio pubblico. - le parole della Presidente UCEI - Cerimonie e raggruppamenti nostalgici di matrice neo fascista con assenza, avallo o sottovalutazione dell'impatto che queste hanno su chi è fragile o impreparato, da parte della classe politica. Segnali inquietanti e preoccupanti che generano incertezza e che temiamo dover inevitabilmente accostare a quella esclusione, allora elusa e sottovalutata. Questo oggi accade e nessuno può restare inerte". Un appello alle istituzioni e ai cittadini a rimanere vigili, quello di Di Segni, che ha sottolineato come allora, nella Piazza Unità del 1938 il pericolo non erano solo le parole di Mussolini ma anche l'applauso convinto delle migliaia di persone presenti. "La speranza è che da questa piazza, nuovamente affollata, - ha detto Di Segni - possa riverberare un messaggio esattamente opposto a quello di 80 anni fa - un messaggio pronunciato dai massimi esponenti delle istituzioni - per la tutela dei diritti e non quello per la tutela della razza, che riscuota applausi e adesioni perché corrisponde alla ragionevolezza e desiderio di convivenza sociale". "Il testo riportato sulla targa inizia con il termine Zachor che in ebraico significa ricorda - ha sottolineato il presidente della Comunità ebraica Salonichio -. Perpetuare la memoria di ciò che avvenne è una responsabilità ed un valore che tutti noi dobbiamo salvaguardare. La targa verrà collocata, speriamo in tempi rapidi, in un luogo ben visibile presso il porticato del Municipio. Ci auguriamo che i passanti che la incroceranno sul loro cammino siano indotti, almeno per quell'attimo, a leggerla e a riflettere su ciò che accadde in quel lontano 18 settembre 1938".

(moked, 21 settembre 2018)


Israele: la Russia si assuma le proprie responsabilità sulla Siria

Una delegazione israeliana guidata dal comandante delle IAF è volata a Mosca per spiegare ai russi cosa è veramente successo al loro aereo abbattuto dai siriani. E mentre si fa strada l'ipotesi che l'incidente sia stato studiato a tavolino proprio per incolpare Israele, Gerusalemme chiede che la Russia si assuma le proprie responsabilità su quanto avviene in Siria.

L'incidente di pochi giorni fa nel quale la contraerea siriana ha abbattuto un aereo russo ha innalzato la tensione tra Russia e Israele. Anche se sembra chiarito che nel momento in cui l'aereo è stato abbattuto i caccia israeliani reduci da un raid su Latakia fossero già rientrati in Israele e che Siria e Iran abbiano cercato di approfittare della situazione indicando il raid israeliano come causa principale dell'incidente, ieri sera il viceministro degli esteri russo, Sergey Vershinin, ha minacciosamente affermato che «da oggi la Russia prenderà le misure necessarie per eliminare qualsiasi minaccia alla vita dei militari russi in Siria» con un velato (ma non tanto) riferimento a possibili futuri raid israeliani in territorio siriano....

(Rights Reporters, 21 settembre 2018)


Aereo abbattuto. Vertice a Mosca con gli israeliani

"Colpa solo siriana"

di Giordano Stabile

La Russia chiude lo spazio aereo nel Nord della Siria e Israele invia una delegazione a Mosca per chiarire la dinamica dell'abbattimento dell'Ilyushin Il-20 ed evitare che la crisi blocchi la sua libertà di manovra sui cieli siriani. Ieri il comandante dell'aviazione Amikam Norkin è arrivato nella capitale russa assieme a ufficiali dell'intelligence. I militari israeliani hanno spiegato che la responsabilità dell'incidente è della contraerea siriana e che non sono state le manovre dei loro F-16 a mettere in pericolo il velivolo russo. In effetti è emerso che la batteria di S-200 che ha lanciato il missile non aveva il dispositivo che permette di distinguere gli aerei nemici da quelli amici. È intervenuto anche il presidente siriano Bashar al-Assad, per dare la colpa a Israele, ma intanto il battaglione che gestiva la batteria è finito sotto inchiesta.
   Ora l'obiettivo di Mosca è evitare che si ripeta l'incidente. Israele ha offerto un più stretto coordinamento, anche se il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che i raid anti-iraniani continueranno. L'esercito israeliano ha pubblicato le foto satellitari del raid su Lattakia, con i depositi di armi destinate a Hezbollah, distrutti. I russi hanno chiuso lo spazio aereo e marittimo fra Siria e Cipro di fatto istituendo una no fly-zone per i jet israeliani. Le tensioni sono destinate a rimanere. Israele ha allargato il suo raggio d'azione al Nord dopo che Mosca non ha mantenuto la promessa di far ritirare le milizie sciite e Pasdaran a 100 chilometri dal Golan. E il raid di lunedì notte ha preso di mira per la prima volta Lattakia, a soli 30 km dalla base aerea russa di Hmeimim.

(La Stampa, 21 settembre 2018)


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Oggi a Mosca il capo di Stato maggiore dell'aeronautica di Israele

Dopo l’abbattimento dell’aereo russo da parte della contraerea siriana

GERUSALEMME - Il capo di Stato maggiore dell'Aeronautica israeliana guida oggi a una delegazione a Mosca per chiarire le circostanze nelle quali un aereo russo è stato accidentalmente abbattuto dalla contraerea siriana durante un raid israeliano. Lunedì sera la contraerea di Damasco ha colpito per errore un Iliushin-20 sopra il Mediterraneo, uccidendo le 15 persone a bordo. Nello stesso momento missili israeliani colpivano depositi di armi nella provincia di Latakia, nel nord est della Siria.
   Le forze armate israeliane hanno scelto la via della trasparenza. Il generale Amikam Norkin presenterà "il rapporto sulla situazione di quella sera… relativo a tutti i suoi aspetti" ha scritto Tsahal in un comunicato. La Russia ha inizialmente accusato i piloti israeliani di aver usato l'aereo russo come schermo per sfuggire ai lanci siriani. Ma Israele ha replicato che l'aereo russo era lontano dai luoghi attaccati dai jet dello stato ebraico, inoltre l'Iliushin è stato abbattuto quando i caccia di Israele erano già rientrati nel loro spazio aereo.
   In una conversazione telefonica martedì il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso "tristezza" per l'accaduto al presidente russo Vladimir Putin e gli ha offerto aiuto per l'indagine. Con toni più concilianti, Putin ha poi parlato di una "catena di circostanze accidentali tragiche", esortando Israele "a non permettere che questo genere di circostanze vengano replicate" ha detto il Cremlino.
   Ma il presidente siriano Bashar al-Assad, alleato di Mosca, ieri ha usato parole pesanti. "Questo disgraziato incidente è il risultato dell'arroganza e della depravazione israeliana" ha scritto in una lettera di condoglianze a Putin.

(askanews, 20 settembre 2018)


Trasformare missili in opere d'arte: la storia di Yaron Bob

di Nathan Greppi

Channukia       

Yaron Bob e alcune opere fatte con i resti dei missili
Dodici anni fa la sua casa venne colpita da uno dei razzi di Hamas; in seguito a ciò, lo scultore israeliano Yaron Bob, che vive nel piccolo villaggio di Yated vicino al confine con Gaza, decise di riutilizzare i resti dei missili caduti nella zona per creare opere d'arte dalle forme più svariate: fiori, menorot e simboli di pace.
   "Ho guardato quel razzo, e il razzo ha guardato me, come se mi stesse sfidando, e mi ha fatto così imbestialire che mi sono detto 'devo cancellargli il sorriso dalla faccia, smettila di avere paura,' e così ne ho ritagliato degli anelli," ha dichiarato Bob in un'intervista a Ynet.
   Per Bob scolpire non è solo un semplice passatempo, ma lo aiuta anche a gestire il disturbo da deficit di attenzione di cui soffre. Per questo in passato gestiva anche dei workshop di scultura per aiutare i giovani studenti che soffrivano del suo stesso disturbo. Un giorno, durante una di queste lezioni, la sirena si mise a suonare, e un razzo atterrò a soli 10 metri da lui, devastando il suo capannone, ma causandogli anche un trauma psicologico, di cui soffre ancor oggi.
   Dopo l'esplosione, Bob tornò nel suo luogo di lavoro per mettersi a pulire, e fu allora che decise di trasformare in arte uno strumento di distruzione. Ritagliò il razzo e con i pezzi creò diverse sculture a forma di fiore, che regalò alle famiglie colpite e al sindaco della città di Sderot, che lo spinsero a continuare questo lavoro. Molti dei razzi che ha utilizzato gli sono stati concessi dalla polizia dopo che questa ha verificato che non rimanessero tracce di esplosivo.
   Ad oggi, i fiori da lui creati sono stati mostrati al defunto presidente Shimon Peres, all'ex-segretario ONU Ban Ki-Moon, e ai politici Hillary Clinton e Tony Blair. "Erano emozionati e stupiti per il gesto," ha affermato Bob. Inoltre, in passato ha donato una scultura a forma di Menorah alla sinagoga di Montreal. Quando li vende, una parte del ricavato lo usa per finanziare la costruzione di camere blindate dove rifugiarsi quando ci sono allarmi.
   Ma esiste un tipo di razzi che Bob non intende riciclare per le sue opere: quelli che hanno causato danni fisici alle persone, poiché secondo lui delle sculture create con quei razzi portano con sé un'energia negativa: "I fiori che scolpisco non appassiscono, come il desiderio di pace del popolo d'Israele," ha concluso.

(Bet Magazine Mosaico, 20 settembre 2018)


Gii ebrei divorziano da Corbyn

La comunità ebraica londinese attacca a muso duro il leader del partito laburista. E' accusato di sostenere l'ondata di antisemitismo.

di Andrea Brenta

Una nuvola nera aleggia da mesi sul Partito Laburista britannico, addensandosi particolarmente sulle sezioni londinesi di Finchley e Golders Gree. Ovvero, la circoscrizione con l'elettorato ebraico più importante del Regno Unito.
   All'origine di questa tempesta estiva ci sono le accuse di compiacenza nei confronti dell'antisemitismo rivolte al leader dei Labour, Jeremy Corbyn. Alle elezioni municipali di maggio, il partito ha perso cinque seggi. Una sconfitta che brucia nella circoscrizione di Barnet. Come spiega a Le Monde Barry Rawlings, responsabile locale del partito, il quartiere «ha pagato il prezzo per il comportamento del Labour sull'antisemitismo». In un clima avvelenato, i conservatori sono riusciti a mobilitare l'elettorato ebraico, paventando i rischi del «Labour di Corbyn», «In quei giorni sui social media 250 membri del partito (su 540 mila) associavano gli ebrei o Israele a un'espressione o a immagini antisemite», racconta Gez Sagar, pilastro dei Labour a Barnet. «La direzione del partito avrebbe dovuto reagire immediatamente. Non l'ha fatto e i media e poi i Tory ne hanno approfittato».
   Già lo scorso anno la denuncia rivolta alle autorità nazionali del partito nei confronti di tweet manifestamente antisemiti di un'attivista locale del partito era rimasta lettera morta. La donna è stata sospesa solo dopo che il suo comportamento è stato reso pubblico dalla stampa. Ma la risposta degli elettori è stata terribile. «Nelle mie visite porta a porta mi sono ritrovata spesso davanti a persone in lacrime che balbettavano: "Ho votato Labour per tutta la vita. Questa volta, mi spiace, non posso più"», racconta Sara Conway, consigliere municipale di Burnt Oak, una zona di Barnet. Qui, su una sezione di circa 2 mila iscritti, si contano in media cinque defezioni a settimana.
   Le accuse rivolte a Corbyn sono quelle di non aver avviato il dialogo con la comunità ebraica. L'impasse in Medio Oriente e i social media hanno esacerbato la questione e fatto il resto. A luglio la deputata laburista Margaret Hodge ha dichiarato che Corbyn «ha scelto di trasformare il Labour in uno spazio ostile agli ebrei». In agosto l'ex rabbino Jonathan Sacks ha paragonato il leader all'ex deputato britannico di estrema destra razzista Enoch Powell. Mentre nientemeno che il premier israeliano Benyamin Nétanyahou in un tweet ha espresso la propria «condanna senza equivoci» di Corbyn, accusandolo di aver reso omaggio ai militanti del commando di Settembre nero. responsabili della morte degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel 1972.
   Lo stupore dei militanti laburisti deriva dall'incapacità del loro leader di frenare le polemiche, come se in ogni occasione Corbyn mettesse il dito nella piaga anziché fasciare la ferita. Soltanto in agosto il leader laburista ha ammesso che il suo partito ha un «reale problema» con l'antisemitismo e ha assicurato che «ristabilire la fiducia» della comunità ebraica era la sua priorità. Ora i militanti sperano che al congresso di Liverpool, in programma dal 23 al 26 settembre, Corbyn saprà trovare le parole giuste per «tendere la mano» agli elettori ebrei.

(ItaliaOggi, 20 settembre 2018)


…riflesso

di Giorgio Berruto

"Riflesso" di Orna Ben Ami
Agrigento, Matera, Ferrara, oggi Torino (presso l'Archivio di Stato fino al 14 ottobre), poi Milano. Sono le tappe dell'itinerario italiano della mostra "Entire Life in a Package", personale dell'artista israeliana Orna Ben Ami. Le opere di Orna sono composte da ferro saldato su scatti fotografici che riprendono chi lascia una casa e va via, migra: il materiale duro per definizione e l'attualità in presa diretta. In questo modo, sottolinea il curatore Ermanno Tedeschi, "pone in rilievo un elemento, una valigia o una bambola che richiamano alla forza e alla crudezza della fuga dal proprio paese e all'aspettativa per una nuova vita". L'obiettivo è evidenziare la dimensione umana del migrante, spesso misconosciuta e calpestata nel discorso pubblico contemporaneo. Non la migrazione come fenomeno, dunque, ma la persona che migra. "Israele è da sempre al centro di percorsi di migrazione", ha chiarito l'addetto culturale dell'Ambasciata di Israele in Italia Eldad Golan, intervenuto all'inaugurazione, non può dunque non essere particolarmente sensibile a "speranze, aspettative, paure, necessità dei migranti di ogni tempo".
   Delle ventiquattro opere esposte, quella che vedete riprodotta mi ha colpito in special modo. È intitolata "Riflesso", ed è creata a partire da una foto scattata in Macedonia nel 2015 da Stoyan Nenov per l'agenzia Reuters. Nella parte superiore vediamo un blocco unico, una massa amorfa in cui si perdono le distinzioni individuali. Sotto questa massa senza vita, che sappiamo nascondere persone, una sottile striscia di terra malferma divide dal riflesso, attraverso cui si distinguono colori, volti, si intravedono sguardi e sensazioni. È un invito alla meditazione sui temi della realtà e della percezione non meno che sull'attualità: la vita che scorre non scorre, è immobilizzata in una colata di ferro che distrugge i visi e azzera la possibilità di guardare negli occhi. Eppure questa rimane la realtà primaria, quella dei corpi. Al di sotto, il riflesso ha qualcosa di meno e qualcosa di più. In alto, sullo sfondo del cielo omogeneo, l'inquietante contorno di fili del telefono e armature di cemento, limite di uno spazio fuori dal tempo. Quello, sembra dire Orna, del migrante.

(moked, 20 settembre 2018)


Ecco come sono stati "informati" i palestinesi dell'attentato mortale di domenica a Gush Etzion

Menzogne e istigazione all'odio ad opera dei gruppi terroristici e dell'Autorità Palestinese non si fermano nemmeno davanti all'evidenza.

In fatto di fake news, l'informazione palestinese resta imbattibile. Si consideri come è stata "informata" l'opinione pubblica palestinese dell'attentato mortale di domenica scorsa presso Gerusalemme.
   I fatti. Verso mezzogiorno un 17enne palestinese, Khalil Jabarin, originario di Yatta (a sud di Hebron), ha aggredito a freddo e pugnalato alla schiena Ari Fuld, 54enne israelo-americano padre di quattro figli, sul marciapiede davanti all'ingresso di un centro commerciale a Gush Etzion (poco a sud di Gerusalemme). L'intero incidente è stato filmato da diverse telecamere di sicurezza e diffuso on-line da più fonti. Benché gravemente ferito, prima di crollare a terra Fuld è riuscito a inseguire brevemente e a ferire a sua volta Jabarin prima che questi potesse pugnalare qualcun altro, in particolare Hila Peretz, una venditrice di falafel, che afferma: "Fuld mi ha davvero salvato la vita. E' più che un eroe: ha dato la sua vita per me". Anche questa circostanza risulta confermata dal video di una telecamera di sicurezza. Trasportato d'urgenza al centro medico Shaare Zedek di Gerusalemme, nonostante gli sforzi dei medici Ari Fuld non è sopravvissuto alle ferite subite....

(israele.net, 20 settembre 2018)


El Al, ospitalità e comfort sui voli diretti per la Terra Santa

 
Nel 2018 El Al Israel Airlines compie 70 anni e celebra insieme allo Stato di Israele questo importante anniversario, a testimonianza di quanto la sua crescita ed evoluzione siano intrinsecamente legate alla storia del Paese.

 Le rotte dall'Italia
  Presente in Italia dal 1949, El Al oggi opera fino a 32 collegamenti diretti settimanali per Israele da quattro aeroporti: Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Venezia Marco Polo e Napoli Capodichino. Sulle rotte tra l'Italia e Israele vengono impiegati principalmente aeromobili Boeing 737/800 e 737/900 di nuovissima generazione con la doppia configurazione Business ed Economy. In alcuni casi, inoltre, i collegamenti sono effettuati con i Dreamliner 787: aeromobili acquisiti recentemente, altamente innovativi e tra i più efficienti nel panorama dell'aviazione mondiale.

 Ospitalità e comfort
  L'ospitalità israeliana è tangibile non appena si sale a bordo di un volo El Al, con il tradizionale benvenuto da parte degli assistenti di volo e un servizio accurato e puntuale che comprende un'esperienza culinaria garantita dai migliori chef israeliani, oltre a una selezione di vini di grande qualità. Gli aeromobili sono dotati di ogni comfort, grazie alle poltrone leggere, eleganti ed ergonomiche, frutto delle tecnologie più avanzate. Il nuovo sistema di illuminazione cambia di intensità e colore a seconda della fase di volo,il sistema di intrattenimento all'avanguardia denominato dreamstream è fruibile su tutti i dispositivi mobili dei passeggeri.
Il prestigioso servizio offerto da El Al in Business è di livello internazionale. Sulle tratte a lungo raggio, infatti, la compagnia aerea prevede poltrone-letto per un'esperienza di volo confortevole e rilassante.

 Viaggi religiosi di gruppo
  Un viaggio in Israele è un'esperienza a 360 gradi, per il pellegrino la Terra Santa rappresenta la meta fondamentale del suo percorso religioso e spirituale. Per l'organizzazione dei viaggi di gruppo El Al mette a disposizione la sua esperienza, cortesia e professionalità attraverso un servizio dedicato fornito dal Groupdesk, che valuta ed elabora le richieste dei tour operator per ottimizzare l'esperienza di viaggio e pellegrinaggio in Israele.
  Il viaggio in Israele di carattere storico, artistico, culturale e il pellegrinaggio dalla connotazione religiosa e spirituale prevedono tradizionalmente un soggiorno di 8 giorni/7 notti. Negli ultimi anni notiamo un diverso trend dove la gamma di offerte è più articolata e varia, affiancando ai pacchetti tradizionali formule più flessibili, come i city break e i long weekend il cui costo oscilla tra i 400 ed i 500 euro.
  Questa diversificazione è stata incoraggiata da El Al con un operativo che spesso prevede la doppia rotazione giornaliera, in collaborazione con le iniziative dei tour operator che interpretano le diverse esigenze dei clienti.
  Il 2017 è stato un anno molto positivo per Israele che ha evidenziato un trend di grande crescita: i dati del ministero del Turismo, infatti, registrano un incremento di poco inferiore al 30% rispetto all'anno precedente.
  Il viaggio in Israele inizia con il cordiale Shalom con cui El Al accoglie i passeggeri a bordo dei propri aeromobili perché El Al è più di una compagnia aerea. È Israele.

El Al Israel Airlines
Ufficio prenotazioni e biglietteria
06-42020310 / 02-72000212

(L’Agenzia di Viaggi, 19 settembre 2018)


Florentine e Jaffa, i quartieri di Tel Aviv tutti da scoprire

Il vecchio porto di Old Jaffa
Ce li racconta Dafna Kastiel, israeliana di origine europea e titolare dell'azienda di famiglia, che nel suo Paese è simbolo di mobili e decoro.
«Mio nonno era bulgaro, la nonna invece era greca: la mia famiglia è in Israele da 70 anni, dall'anno di fondazione dello Stato» racconta Dafna Kastiel, terza generazione di un'azienda il cui nome in Israele è simbolo di mobili e decor. Dafna ha imparato tutto in quella fabbrica ospitata da un edificio in stile Bauhaus a Florentine, una ex zona industriale che a Tel Aviv ora è considerata un quartiere emergente, corteggiato dagli hipster. Lì la società Kastiel faceva mobili su misura, dalle sedie per il primo Parlamento al tavolo per l'ambasciata italiana di Tel Aviv. «E anche se da quest'anno abbiamo deciso di chiudere, perché è diventato troppo difficile produrre, non mi sono arresa. Voglio continuare a portare lo spirito di Israele nei miei disegni, dare vita alle mie aspirazioni. Sto progettando uno showroom per Negev Ceramics e mi faccio ispirare da altri giovani. Oggi c'è una nuova generazione di studenti e designer, tra cui molte donne, che "sentono" gli spazi dell'abitare in modo vivo e stimolante».
Dafna, però, ha scelto di abitare in un'altra zona della città. «La mia casa è a Jaffa. Ho scelto di stare lì prima che diventasse di moda. Ha un'atmosfera contagiosa, è una comunità versatile, con colori e religioni differenti. Non ci sono grandi supermercati, ma un piccolo negozio di alimentari, la macelleria e il fruttivendolo. Mi piace particolarmente al venerdì mattina, quando attorno al mercato si respira l'atmosfera del weekend, visto che in Israele sabato è festa. Scendo presto, prendo un caffè con una fetta di torta al Milk (Rehov Beit Eshel 5) o la mia colazione preferita: l'hummus da Abu Hasan, in Ha' Dolfin street, il migliore della città. E poi mi metto a curiosare. Potrei trascorrere così tutta la giornata, pranzare con un piatto di pesce da Jopea Kitchen bar (Rabi Pinchas 9) e, al tramonto, scendere verso il porto vecchio: è questo il momento più bello».

 Un weekenda Old Jaffa
  La chiamano Old Jaffa o semplicemente Jaffa ed è la città vecchia, stretta attorno alla piazza dell'orologio e alla chiesa di St. Peter, dalla quale scende un dedalo di stradine verso il vecchio porto, il lungomare e alcune delle spiagge più tranquille di Tel Aviv.

 Dove fare shopping
  Qui c'è il marchio storico di moda israeliana Maskit, oggi diretto da Sharon Tal, che ha lavorato anche per Alexander McQueen. Più popolari le tante botteghe di rigattieri, negozi di modernariato e design attorno al mercato delle pulci, che si tiene tutti i giorni, tranne il sabato (orari: 10-18 da domenica a giovedì, 9-14 il venerdì).

 Dove dormire
  Il Market House ha un'atmosfera bohémienne, offre ai suoi ospiti l'happy hour e bici per spostarsi in città. Per informazioni: Go Israel e Cities Break.

(Donna Moderna, 19 settembre 2018)


Squadra di Israele si allena a Imperia con i ragazzi della Rari Nantes

Ogni pomeriggio, i ragazzi di Israele sostengono gli allenamenti insieme ai pari età della Rari. Iniziativa nata grazie all'amicizia tra la coach imperiese Mercedes Stieber e la ex pallanuotista ungherese Jusztina Kovacs

 
Mercedes Stieber (a sin.) con l'amica ungherese Jusztina Kovacs.
Ventisette giovani pallanuotisti israeliani dell' EMEK HAYARDEN sono in ritiro ad Imperia per svolgere i loro allenamenti prima dell'inizio della stagione in patria.
Si tratta di ragazzi provenienti dalla città di Afikim, situata sul Lago di Tiberiade, di età compresa tra i 13 e i 18 anni che si alleneranno fino a domenica presso la Piscina Cascione di Imperia. Al mattino, svolgeranno allenamenti tra loro mentre ogni pomeriggio si uniscono ai giovani giallorossi, per alcune piccole amichevoli.
"Gli atleti - precisa la società imperiese - sono allenati da Or Gil, ex allenatore dell'Israele di pallanuoto, e dall'ungherese Jusztina Kovacs che era già stata ad Imperia nel 2012 quando la Cascione ospitava la LEN Champions Cup e giocava nel Kyriat Tivon. La Kovacs è amica di Merci Stieber e, durante il giorno, spesso scambiano battute a bordovasca".

(Riviera.it, 19 settembre 2018)


Il doppio filo che lega Russia e Israele in Siria

L'abbattimento dell'aereo non incrina i rapporti tra Mosca e Tel Aviv. Anzi, potrebbe rafforzarli. Ecco quali sono gli interessi incrociati delle due potenze nell'area.

di Riccardo Amati

La Russia minimizza l'incidente, perché le relazioni con Israele sono determinanti al fine di rendere permanente il suo ritorno in Medio Oriente e quindi al ruolo di grande potenza. Confermando i rischi e i pericoli che l'avventura militare siriana ancora comporta, l'abbattimento dell'aereo spia a largo di Latakia potrebbe semmai portare a un rafforzamento della partnership con Gerusalemme (o Tel Aviv, se preferite), nella prospettiva di soluzioni diplomatiche per il dopoguerra in grado di dare stabilità e prestigio alla posizione di forza riconquistata da Mosca sullo scacchiere internazionale dopo 25 anni di assenza. Le parole con cui Vladimir Putin ha ridimensionato l'episodio costato la vita a 15 militari russi definendolo «una catena di tragici eventi casuali» suonano come uno schiaffo al suo ministro della difesa Sergei Shoigu, che aveva dato tutta la colpa a Israele («un atto ostile, risultato di azioni irresponsabili da parte dei militari israeliani») e preannunciato ritorsioni. Al di là di ogni valutazione sui cortocircuiti ricorrenti ai vertici del regime di Mosca, la correzione del tiro non lascia dubbi: le contromisure si limiteranno ad «assicurare ulteriormente la sicurezza del nostro personale e delle nostre installazioni in Siria», ha detto Putin. E una telefonata col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha subito disinnescato la crisi.

 L'accordo tra Israele e Russia resta intatto
  L'accordo di deconfliction con Israele resta intatto: nessuna interferenza sull'azione russa per ridare tutta la Siria a Bashar al-Assad, in cambio del via libera di fatto alle azioni di Israele sul territorio siriano contro gli obiettivi legati all'Iran e alla sua emanazione libanese, Hezbollah. Negli ultimi 18 mesi sono stati oltre 200 i raid degli aerei con la stella di David su bersagli di questo tipo, hanno reso noto fonti militari israeliane. La Russia non ha mai davvero protestato. I contatti costanti tra le forze armate e i servizi di sicurezza dei due Paesi hanno sempre evitato scontri diretti. Il ricognitore Yl-20 abbattuto il 18 settembre è stato vittima dei sistemi anti-aerei in mano all'esercito di Assad, non del fuoco diretto israeliano. «Israele e Russia hanno molti interessi in comune, in Siria», spiega a Lettera43.it Andrei Kortunov, direttore del Consiglio russo per gli affari internazionali, un centro studi del Cremlino. Per la Russia, il maggiore di questi interessi è quello di poter essere il broker di un futuro accordo di pace di Gerusalemme con Damasco. Per Israele, è il ritorno delle milizie di Hezbollah in Libano, a guerra finita. A una distanza maggiore possibile dalle di fatto annesse ma tuttora disputate alture del Golan. Quella tra Mosca e Gerusalemme non è un'alleanza, ma una relazione fondata sugli interessi nazionali delle due parti. Ciò le garantisce un grado di stabilità sufficiente per sopportare le pesanti divergenze sul ruolo dell'Iran nella regione.
  Fin dall'inizio delle operazioni militari intraprese per soccorrere Assad, la Russia ha mantenuto contatti stretti con Israele, evitando che il partner si sentisse minacciato dal dispositivo bellico che Mosca stava costruendo in Siria. Ha dimostrato di tenere in considerazione i timori di Israele per la sua sicurezza. Nel 2013 cancellò il previsto rifornimento di sistemi di difesa anti-area S-300 a Damasco, su esplicita richiesta di Netanyahu. Non ha rifornito di armi Hezbollah, e ha insistito perché l'esercito di Assad non trasferisse a Hezbollah gli armamenti con cui lo riforniva. Eppure la milizia filo-iraniana è stata e rimane l'alleato più efficace dei russi per le operazioni sul terreno in Siria. Il corteggiamento a Gerusalemme era iniziato già prima del conflitto siriano. Nel 2010, mentre la retorica anti-israeliana dell'allora presidente dell'Iran Mahmoud Ahmadinejad raggiungeva il culmine, la Russia aveva sospeso la consegna di sofisticati sistemi di difesa missilistica a Teheran, che li aveva già pagati. Una conferma della relativa solidità di rapporti costruiti nel tempo sul piano diplomatico e continuati con la collaborazione per evitare incidenti diretti sul teatro bellico arrivò quando, nel marzo del 2014, l'Assemblea generale dell'Onu condannò la Russia per l'annessione della Crimea: Israele si astenne. E non partecipò alle sanzioni contro Mosca.

 Le pressioni di Netanyahu in chiave anti-iraniana
  Israele conta sulla possibilità che la Russia riesca a garantire che nella Siria post-bellica non siano presenti forze militari straniere, a parte le sue. In particolare, Netanyahu da almeno due anni insiste con Putin affinché non sia permessa una presenza iraniana nella forma di una base navale sul Mediterraneo o di installazioni di Hezbollah e di altre milizie sciite nel Golan. La Russia appare disposta ad accettare queste richieste. L'alleanza con l'Iran resta prioritaria, ma a Mosca si ritiene di poterla gestire tenendo conto delle esigenze israeliane. «I russi considerano l'Iran una società complessa, con un sistema politico elaborato e caratterizzato da contrappesi», scrive il direttore del think tank Carnegie di Mosca Dmitri Trenin. «L'esperienza di Mosca con i leader iraniani suggerisce che - sebbene siano tipi difficili - facendo leva su interessi nazionali, economici o personali, un modo di trattare con loro si trova sempre». A Gerusalemme si scommette su questa expertise. Ai tempi dell'Unione Sovietica, Israele era l'avversario per antonomasia di Mosca in Medio Oriente. Oggi è un partner indispensabile per la sua politica militare e diplomatica in una regione dove Mosca è tornata senza una grande strategia. Col solo obiettivo di proiettare di nuovo la sua potenza sulla scena internazionale, al livello più alto. L'affidabilità di Israele come partner è corroborata da motivi economici di alta rilevanza strategica: da 10 anni l'industria della difesa russa compra tecnologia israeliana per i droni. Lo Stato ebraico è diventato la fonte di approvvigionamento pressoché esclusiva di Mosca nel settore. A confortare la stabilità delle relazioni ci sono anche le affinità culturali: il russo è la lingua non ufficiale più diffusa in Israele. Lo parla un milione e mezzo di persone, ovvero circa il 20% della popolazione. Effetto dell'imponente immigrazione dall'ex Urss.

 Ogni escalation in Siria danneggerebbe Mosca e Tel Aviv
  «Forse, dopo l'abbattimento dell'areo e la tragica perdita di vite, le relazioni tra Russia e Israele si rafforzeranno ancor più», suggerisce Trenin. La previsione potrebbe avverarsi, perché l'incidente dell' Yl-20 niente toglie alle ragioni di questa partnership inedita nella storia della diplomazia, mentre rende sempre più necessaria la collaborazione. Si tratta di evitare che nei pericolosi cieli della Siria, dove scorrazzano gli aerei da guerra di almeno sei Paesi (Russia, Israele, Siria, Turchia, Gran Bretagna, Usa), si verifichino eventi incontrollati con conseguenze letali. Non solo perché Mosca ha perso almeno 20 aerei e i relativi equipaggi dall'inizio delle ostilità. Ma perché ogni escalation, involontaria o provocata, renderebbe impraticabili gli obiettivi di Vladimir Putin in Medio Oriente. E attenterebbe alla sicurezza di Israele.

(Lettera43, 19 settembre 2018)


Yom Kippur, quando finì l'infallibilità di Israele

6 ottobre 1973. Il Mossad avverte dell'attacco a sorpresa, i militari lo snobbano. Così lo Stato ebraico rischiò di perdere il terzo conflitto contro gli arabi.

 
1973 - Carri armati israeliani sulle alture del Golan
GERUSALEMME - In occasione dello Yom Kippur sono stati declassificati in Israele molti documenti relativi all'attacco di Egitto e Siria. Lo Stato ebraico fu sorpreso da quell'attacco nonostante i molti segnali che venivano dal Cairo e Damasco, gli avvertimenti dell'intelligence, le manovre delle forze armate egiziane lungo il Canale di Suez. Il 6 ottobre 1973 Israele fu colpito nella data più intima delle sue festività, il Kippur, il giorno dell'espiazione (dei peccati). Unica giornata dell'anno in cui Israele rimane immobile, è tutto chiuso, non ci sono notiziari tv né radio, chiusi ristoranti e caffè. Persino porti, aeroporti e le frontiere restano, per 24 ore, sbarrati.
   La notte del 5 ottobre 1973, mentre i generali dello Stato maggiore si salutavano con il rituale augurio per il Kippur - "Hatima Tova" - dandosi appuntamento 48 ore dopo, convinti che non ci sarebbe stato nessun attacco contro lo Stato ebraico, il capo del Mossad Zvi Zamir mandava da Londra un messaggio destinato al primo ministro Golda Meir che avvertiva di imminente attacco: "L'esercito egiziano e l'esercito siriano sono pronti a lanciare un attacco sabato 6.10.'73 al crepuscolo",recita la prima riga del documento, reso pubblico dagli Archivi di Stato. Nella sua missiva di 5 pagine, completa di note manoscritte a margine, il capo del Mossad scriveva che la guerra poteva potenzialmente essere evitata se Israele avesse reso pubblico il piano di attacco.
   Anche se nessuno aveva mai visto l'originale, il documento scritto da Zamir era noto, così come lo era l'identità della sua fonte, Ashraf Marwan, un confidente dell'allora presidente egiziano Anwar Sadat, genero in disgrazia dell'ex presidente Nasser. Il documento include però dettagli sulle informazioni che Marwan aveva passato a Zamir mai rese note, come il suo suggerimento su come scongiurare la guerra.
   La pubblicazione di un comunicato del Mossad è un evento davvero raro, i documenti dell'Istituto rimangono in genere classificati per diversi decenni. Meno rara è stata invece la decisione degli Archivi del ministero della Difesa di rilasciare le trascrizioni della riunione dei generali dell'Idf il giorno prima della guerra. Le trascrizioni indicano che gli alti ufficiali avevano notato la mobilitazione di egiziani e siriani ma riportano come il capo dell'Intelligence militare, Eli Zeira, ritenesse le probabilità d'un attacco "molto basse, quasi inesistenti".
   Il Mossad era però certo della sua fonte. Marwan era una "importante risorsa" fin dagli anni Sessanta, il suo nome in codice era "Angelo". Due giorni prima aveva contattato il suo gestore nel Mossad e chiesto un incontro con Zamir proprio per avvertirlo dell'imminente attacco e come sarebbe stato condotto.
   Marwan disse al Mossad che l'Egitto avrebbe probabilmente limitato l'azione alla penisola del Sinai, che Israele aveva conquistato nella Guerra dei Sei giorni nel 1967.
   Il mattino dello Yom Kippur del 1973 la guerra trovò l'esercito israeliano impreparato, nonostante la lettera di avvertimento di Zamir e le altre pericolose avvisaglie. Oltre 2.500 soldati israeliani morirono nei combattimenti, insieme a migliaia di militari egiziani, siriani e iracheni.
   La pubblicazione del documento, 45 anni dopo getta nuova luce su una vecchia polemica, sulla responsabilità del mancato allarme degli attacchi imminenti. La guerra del Kippur e i fallimenti dell'intelligence che hanno impedito ai militari di vedere ciò che era così ovvio in retrospettiva, rimangono argomenti scottanti in Israele. Dopo la guerra, la commissione investigativa Agranat riconobbe Eli Zeira colpevole di "gravi errori" di giudizio. Ancora oggi, il 90enne ex capo dei servizi segreti militari si considera non responsabile, ammette errori di valutazione ma su Marwan rimane sempre della stessa idea: era un agente doppio e inaffidabile. Anche Zamir, 93 anni, non ha perso la verve e incolpa Zeira e l'Idf dei fallimenti dei servizi segreti militari che hanno fatto sì che Israele venisse colto di sorpresa. Nel 2004, cercando di promuovere la sua teoria su Marwan, Zeira rese noto il nome dell'agente che aveva avvertito il Mossad. Tre anni dopo Marwan, nel frattempo stabilitosi a Londra, cadde da un balcone della casa di Chelsea. Zamir ha chiesto che Zeira fosse processato per aver rivelato il nome di Marwan, e sebbene l'ex procuratore generale Yehuda Weinstein nel 2012 lo abbia condannato, decise di non processarlo, citando il contributo alla sicurezza nazionale, l'età avanzata e i molti anni trascorsi dagli eventi. F.S.

(il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2018)


Siria, jet russo abbattuto tensione Mosca-Israele. Ma il razzo è di Assad

Errore di Damasco mentre era in corso un raid di Gerusalemme: quattordici morti. Putin: tragica catena di eventi. Il dolore di Netanyahu.

di Pierluigi Franco

 L'incidente
  «Una catena di tragiche circostanze accidentali». Così il presidente russo, Vladimir Putin, ha spento la tensione diplomatica salita ieri con Israele dopo l'abbattimento di un aereo da ricognizione Ilyushin-20 (Il-20), con la morte di l5 soldati russi, per un errore dell'artiglieria contraerea siriana. La prima notizia sull'incidente era stata data ieri mattina dal ministero della Difesa russo dopo che si erano «persi i contatti con 1'Il-20 mentre quattro F-16 israeliani attaccavano obiettivi siriani nella provincia di Latakia».

 Incrocio fatale
  Da Mosca era arrivata anche la notizia che «i radar russi avevano registrato lanci di missili dalla fregata francese Auvergne, che era in zona». Ma ad abbattere l'aereo russo, in realtà, è stato il fuoco antiaereo dell'alleato siriano, probabilmente tratto in inganno dall'intreccio di voli nell'area. L'abbattimento è infatti avvenuto sul Mediterraneo, a circa35 chilometri dalla costa siriana, mentre l'aereo Il-20stava tornando alla base russa di Hmeimim, nelle vicinanze di Latakia dove era appena avvenuto l'attacco israeliano. La reazione immediata della Russia è stata dura e ha fatto temere il peggio. Mosca ha subito parlato di «azioni irresponsabili» di Israele, affermando che l'avvertimento degli attacchi era stato dato meno di un minuto prima, non rendendo possibile l'allontanamento dell'aereo russo. E un portavoce della Difesa era arrivato ad affermare che gli aerei israeliani avevano «deliberatamente creato una situazione pericolosa per le navi di superficie e gli aerei nella zona».
  Duro anche il ministro della Difesa russo, Serghei Shoigu, che in una telefonata al suo omologo israeliano, Avigdor Lieberman, aveva confermato ieri mattina «la piena responsabilità di Israele», minacciando «provvedimenti in risposta». Questo mentre il ministero degli Esteri russo convocava il vice-ambasciatore israeliano per le rimostranze ufficiali. Ma già nel pomeriggio, da Mosca e da Tel Aviv, sono arrivate le rassicurazioni. Putin ha parlato di tragiche circostanze, smorzando così le parole del suo ministro e affermando che la risposta russa sarà diretta a garantire la sicurezza del proprio personale e delle proprie strutture, escludendo quindi qualunque rivalsa nei confronti di Tel Aviv.

 La telefonata
  Poi è arrivata anche la telefonata a Putin del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha espresso «dolore a nome dello Stato di Israele», rimarcando la responsabilità esclusiva della Siria a causa del fuoco antiaereo «ampio e impreciso» e impegnandosi a fornire «tutte le informazioni necessarie» nelle indagini sull'incidente. Ma l'episodio ha fatto uscire dal silenzio anche le Forze di difesa israeliane (Idf), solitamente restie a parlare delle operazioni in Siria. In una nota, oltre al «dispiacere per la morte dei militari russi» e a dichiarare la piena responsabilità siriana, l'Idf ha espresso preoccupazione per quello che definisce «arroccamento militare» dell'Iran in Siria e per le spedizioni di armi iraniane verso le milizie sciite libanesi di Hezbollah. L'Idf ha infatti riferito che i suoi F-16 stavano prendendo di mira strutture militari siriane «da cui sarebbero stati trasferiti a Hezbollah in Libano sistemi iraniani per fabbricare armi letali». Secondo fonti di Tel Aviv, Israele avrebbe colpito più di 200 obiettivi iraniani in Siria negli ultimi 18 mesi. Un'azione che la Russia sembra tollerare e che Israele vorrebbe continuare.

(Il Messaggero, 19 settembre 2018)


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Russia-Israele: abbattimento dell'aereo Il-20

MOSCA - Ieri pomeriggio, poi, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha avuto un colloquio telefonico con Putin nel quale ha ribadito che la Siria è "responsabile" dell'abbattimento. "Il primo ministro, a nome dello Stato di Israele, ha espresso tristezza per la morte dei militari russi e ha affermato che la responsabilità dell'aereo abbattuto ricade sulla Siria", si legge in un comunicato del governo di Tel Aviv. Netanyahu ha sottolineato "l'importanza del continuo coordinamento nel settore della sicurezza tra Israele e Russia che è riuscito ad evitare molte vittime da entrambe le parti negli ultimi tre anni". Il capo dell'esecutivo israeliano ha ribadito a Putin che il paese è determinato ad impedire un radicamento della presenza militare iraniana in Siria. Inoltre, Israele condividerà tutte le informazioni sul raid di questa notte con Mosca, ha aggiunto Netanyahu. Il premier ha proposto, infine, di inviare a Mosca i vertici dell'Aviazione israeliana "per fornire tutte le informazioni necessarie".

(Agenzia Nova, 19 settembre 2018)


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Siria, dopo il raid di Israele arriva la risposta della Russia

di Lorenzo Vita

 
La mappa dell'attacco diffusa dai russi
La Russia ha confermato che l'Ilyushin-20 è stato abbattuto per errore dalla contraerea siriana. Una conferma che sa di ammissione: l'errore c'è stato, ma da parte dell'alleato siriano. E per adesso, Israele, per quanto chiaramente responsabile da un punto di vista generale, non è considerato il colpevole diretto dell'abbattimento dell'aereo russo.
   Mosca è fortemente adirata per quanto avvenuto questa notte nei cieli di Latakia. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il bombardamento israeliano non solo ha colpito l'area vicino la base di Khmeimim, ma ha anche causato, in maniera ancora tutta da chiarire, l'abbattimento di un aereo e la morte dei 15 membri dell'equipaggio.
   Ma, dietro l'ira del Cremlino e dei vertici militari russi, si nascondono anche una serie di trame ancora poco chiare che fanno capire perché la reazione russa sembra mantenersi in quegli stessi ranghi che, fino a questo momento, hanno caratterizzato gli equilibri fra Israele e Russia in tutto il conflitto siriano.
   La questione è certamente grave, a tal punto che si sono mossi sia Vladimir Putin che Sergei Shoigu e l'ambasciatore israeliano a Mosca è stato immediatamente convocato per chiedere delucidazioni su quanto avvenuto nella notte. E per ora i rapporti appaiono tesi.
   I militari russi hanno accusato subito Israele di non aver avvertito in tempo il comando in Siria per evitare una tragedia. E la Russia ha, almeno nelle prime ore, accusato apertamente lo Stato ebraico di avere sulla coscienza la morte dei 15 soldati imbarcati sull'Il-20 per averlo usato come "copertura" per eludere gli S-200 siriani.
   Il portavoce della Difesa russa, Igor Konashenkov, ha denunciato che "gli aerei israeliani hanno deliberatamente creato una situazione pericolosa a Latakia", definendo come "irresponsabili" le azioni dell'aeronautica dello Stato ebraico. Mentre il ministro Shoigu, come cita Tass, ha detto che "la responsabilità per l'abbattimento dell'aereo russo e per la morte degli uomini del suo equipaggio è solamente di Israele".
   "Il ministero della Difesa ha usato i diversi canali di comunicazioni disponibili, e in diverse occasioni, per sollecitare Israele ad astenersi dal condurre raid aerei in Siria, raid che minacciano la sicurezza del personale militare russo", ha continuato il capo della Difesa russa. "Al comando militare russo in Siria è stato notificato il raid degli F-16 israeliani solo un minuto prima dell'inizio", ha continuato Shoigu, ricordando che "le azioni del ministero della Difesa israeliano non rispettano lo spirito della partnership russo israeliana e quindi ci riserviamo il diritto di adottare misure di rappresaglia".
   Ma a queste reazioni, che in un primo momento sembravano essere improntate a una vera e propria escalation fra Mosca e Tel Aviv, sono poi seguite parole molto più concilianti da parte di Putin. Il presidente russo, in conferenza stampa a Mosca dove ha incontrato Viktor Orban, si è mostrato molto più conciliante rispetto ai suoi vertici militari. Il leader del Cremlino ha parlato dell'abbattimento dell'aereo come "risultato di una catena di circostanze tragiche", negando l'accusa rivolta a Israele di aver colpito deliberatamente, o attraverso tattiche dei suoi F-16, l'aereo-spia.
   E per adesso, la reazione russa - sintetizzata nelle parole di Putin - sembra essere decisamente controllata. Il presidente russo ha infatti detto che è previsto un forte incremento della difesa delle basi in Siria. "Per quanto riguarda le misure di ritorsione, saranno innanzitutto mirate a garantire ulteriormente la sicurezza del nostro personale militare e delle strutture in Siria", ha detto il leader russo e, ha continuato, "saranno passi che tutti noteranno". E adesso sono in molti a credere che l'ipotesi più accreditata sia un aumento del contingente presente in Siria, in particolare dei mezzi aerei, per imporre una no-fly zone in tutta l'area di Latakia.
   Secondo Rivista italiana difesa, "agli attuali 20 cacciabombardieri tattici Su-24M2 Fencer (12 aerei) e Su-34 Fullback (8 apparecchi) ed ai 4 caccia multiruolo Su-35S Flanker, dovrebbero aggiungersi una ventina di velivoli costituiti da altri caccia multiruolo Su-30SM e Su-35S e da cacciabombardieri Su-34 Fullback, oltre ad una manciata di aerei da supporto, tra cui almeno una coppia di aerocisterne Il-78M".
   Se confermate queste indiscrezioni, il piano di Mosca, a questo punto, sarebbe avere il totale controllo dei cieli siriani, ma confermerebbe anche una linea tutto sommato morbida nei confronti di Israele. Una scelta dettata anche dal fatto che Mosca e Tel Aviv dialogano costantemente sulle operazioni in Siria. E la rottura del canale militare e diplomatico di due comandi non sembra utile a nessuna delle parti.
   La guerra in Siria, ad ogni modo, sembra ancora lontana dal trovare una fine. E il raid a Latakia ne è la dimostrazione: c'è ancora molto di cui discutere. E gli attacchi servono anche come laboratori diplomatici e militari per capire le mosse e le capacità dei propri nemici (così come dei propri partner). Del resto, come spiegato da Fulvio Scaglione su questa testata, il fatto che questo raid sia arrivato nelle ore successive al vertice di Sochi per Idlib, è un segnale chiaro di come questi attacchi siano sempre "una continuazione della politica con altri mezzi".

(Gli occhi della guerra, 19 settembre 2018)


Da fascisti e antisemiti a campioni repubblicani

Lettera a “il Giornale”

In questi giorni gli attacchi contro Vittorio Emanuele III per aver firmato le leggi razziali nel 1938 si stanno moltiplicando. Ma la storia che viene raccontata è manipolata, distorta, e in parte insabbiata. Perché non ricordare che fu Vittorio Emanuele III nel 1904 a inaugurare la Sinagoga di Roma? E che Casa Savoia ebbe sempre rispetto per gli ebrei fin dall'epoca di Re Carlo Alberto e dello Statuto Albertino? E che gli ebrei (a esempio Sidney Sonnino) ebbero incarichi, titoli nobiliari, onorificenze da Casa Savoia? E che nel Senato del Regno nel 1938 sedevano 8 italiani di religione ebraica, nominati dal Re Vittorio Emanuele III? E che, sempre nel Senato del Regno, era presente un centinaio di antifascisti? Anche loro nominati dal Re! Nessuno di questi senatori chiese udienza al Re per chiedergli di non firmare quelle leggi. Perché non leggere il Diario di Ciano, dove si mostra chiaramente che il Re ebbe pietà degli ebrei e per questo fece infuriare Mussolini che parlò di «ventimila italiani con la schiena debole che si commuovono per la sorte degli ebrei»? Il Re disse che era uno di quei ventimila! Perché non raccontare che Norberto Bobbio nel 1938 era un «fascista da sempre» (sic!) e si impadronì di una cattedra universitaria lasciata da un professore ebreo? Poi, nel dopoguerra, divenne antifascista e Sandro Pertini lo nominò pure senatore, ma si guardò bene dal restituire la cattedra che aveva ottenuto in quel modo! Inoltre ci furono tanti antisemiti in quegli anni in Italia, come il giornalista Giorgio Bocca, padre Agostino Gemelli (a cui è stato intitolato il famoso Policlinico), Amintore Fanfani che scrisse l'attuale Costituzione antifascista (scritta, quindi, anche da un fascista e antisemita dichiarato). Niente male. Io non sono ipocrita, né conformista e perciò sto con Vittorio Emanuele III. Senza se e senza ma.
Marco Razzoli Cagliari

(il Giornale, 19 settembre 2018)


La frenesia con cui certa stampa si accanisce contro Vittorio Emanuele III per aver firmato le leggi razziali è sospetta. Vittorio Emanuele III è stato Re d’Italia per quarantasei anni, dunque è parte ineliminabile della storia italiana. Se ha firmato le leggi razziali, non è stato per un personale, improvviso raptus criminale, ma perché in quel momento ha espresso, in figura e in atti, nell’esercizio delle sue funzioni, l’unità della nazione italiana. Dopo quella firma non si è verificata nessuna rivoluzione popolare in Italia, a conferma che Re e nazione erano uniti e tali restano ancora oggi nella responsabilità di quell'atto. Se come italiani esultiamo tutti insieme quando la nostra nazionale vince il campionato mondiale di calcio, e ci riconosciamo con entusiasmo nella nostra squadra che vince per tutti noi, allora dobbiamo vergognarci tutti insieme per la firma apposta sotto quelle leggi razziali, riconoscendoci con umiliazione nel nostro Re che l’ha fatto per tutti noi. Gli ebrei italiani, naturalmente, sono esclusi. M.C.


Chengdu più vicina a Israele: Sichuan Airlines inaugura il volo per Tel Aviv

Continua l'espansione di Sichuan Airlines che sta allargando la propria rete di voli internazionali con l'inaugurazione di una rotta tra Chengdu e Tel Aviv. Il nuovo servizio, che avrà inizio il 26 settembre, sarà operato da aeromobili A330 di Airbus con una capacità di 277 posti in classe economica e una capacità di 24 posti in Business Class. In una fase successiva, la compagnia aerea servirà la tratta con il suo ultimo aeromobile in flotta, l'A350. Il tempo di volo sarà di 8 ore e 20 minuti, rendendo il viaggio più breve tra Israele e Cina.
La nuova rotta da Tel Aviv sarà servita il mercoledì e la domenica. I voli partiranno da Tel Aviv alle 15.35, con arrivo a Chengdu alle 6 del giorno successivo. I voli di ritorno partiranno da Chengdu alle 2.15, con arrivo a Tel Aviv alle 7.35 dello stesso giorno.
In questo modo la compagnia cinese espanderà la partnership con TAL Aviation costituita poco più di due anni fa in concomitanza con il lancio della rotta da parte della compagnia tra Chengdu e Praga. TAL Aviation fornirà una varietà di servizi al mercato israeliano General Sales Agent nominato dalla compagnia aerea.
Gideon Thaler, CEO di TAL Aviation, commenta: "Siamo entusiasti di espandere la cooperazione tra Sichuan Airlines e TAL Aviation e, con l'inaugurazione di questa tratta, offriremo al mercato israeliano il servizio di volo più breve tra Israele e Cina. in grado di offrire comode coincidenze con Sichuan Airlines in Cina e in Asia".

(Travelnostop, 19 settembre 2018)


Una riflessione e un augurio per Yom Kippur

di Ugo Volli

Gli ebrei di tutto il mondo si preparano in queste ore al giorno più solenne del loro calendario liturgico, il Giorno dell'Espiazione o Yom Kippur. Si tratta di un momento di autoesame e pentimento per gli errori e i peccati commessi, che si sostanzia in una giornata intera, 26 ore di digiuno, concentrazione, esame di coscienza e preghiere. E' la ricorrenza che forse più caratterizza la tradizione ebraica rispetto alle altre esperienze religiose. Per questa ragione la difficile prova del digiuno è quella che continua ad attirare più fedeli, l'ultima abbandonata dagli assimilati, la più toccante per le coscienze incerte.
   La logica della giornata non è quella di ottenere un'assoluzione attraverso il rituale: l'etica ebraica bada soprattutto ai fatti. Prima di essere in condizione di poter chiedere l'indulgenza divina bisogna chiedere scusa per i torti fatti agli altri; e anche per quanto riguarda le trasgressioni compiute contro la legge divina il pentimento ha da essere un vero ritorno nella strada della legge e non semplicemente una richiesta di scuse.
   L'aspetto più significativo è il modo in cui ci si pone in questo processo: ciascuno è solo di fronte alla sua coscienza e alla divinità, non vi sono intermediari che possano distribuire il perdono o anche solo formulare un giudizio. Ma nelle preghiere la richiesta di indulgenza e anche l'elenco dei peccati commessi sono formulati al plurale. Il torto e anche l'esigenza di salvezza riguardano collettivamente il popolo ebraico. Non basta per esempio sapere di non aver ucciso nessuno o di non aver commesso spergiuro per non essere coinvolti in questi misfatti, perché c'è qualcuno che l'ha fatto e la responsabilità non è solo sua, ma collettiva.
   Anche l'esame di coscienza dunque dev'essere collettivo, e andare al di là dei formulari liturgici. Per questo mi permetto di indicare una strada di riflessione che vorrei condividere nel grande corpo del popolo ebraico che rifletterà su se stesso nella lunga giornata che va da martedì sera a mercoledì sera. Il popolo ebraico è oggi immerso in un problema, che è il frutto di un errore (o se vogliamo di un peccato, perché la parola chet che si usa per definirlo indica innanzitutto un errore). Il pericolo è la perdita di unità e di solidarietà. Vi è una parte minoritaria ma consistente del popolo ebraico, soprattutto negli Stati Uniti, ma in parte anche in Europa, che si sente alienato dai destini complessivi e in particolare da quelli dell'entità politica che raggruppa ormai la maggioranza degli ebrei del mondo e per tutti costituisce un rifugio e una garanzia, lo Stato di Israele. L'errore è doppio e consiste da un lato nel privilegiare le proprie posizioni politiche (spesso assolutizzate come scelte morali) sull'identità collettiva. Dall'altro nel pretendere di anteporre le proprie scelte personali a quelle formate collettivamente, nel rifiutare dunque la solidarietà e l'appoggio alle decisioni dello stato di Israele quando esse non coincidono con le scelte politiche del proprio partito, nel sentirsi superiori alla collettività. Talvolta esso si spinge fino all'alleanza chiara ed esplicita con i nemici di Israele e degli ebrei. Il rischio è quello della divisione, dell'indebolimento, di una dispersione morale prima che politica. L'aggravante è che un errore così grave venga compiuto con senso di superiorità e presunzione etica.
   Certamente si tratta di temi politici, che possono essere completamente analizzati solo in sede politica. Ma dato che l'ebraismo è religione di popolo e non semplice fede individuale e che Yom Kippur esalta proprio questa dimensione collettiva, vale la pena di rifletterci a fondo anche in questa giornata. A tutti i membri del mio popolo che si preparano per Kippur auguro una buona riflessione e spero che essa sia riconosciuta e accettata, "ben sigillata" dalla divinità, come si usa dire.

(Progetto Dreyfus, 18 settembre 2018)


Parma2064. Dove il parmigiano è questione di fede. Ebraica

A Zibello il primo caseificio che produce esclusivamente formaggio seguendo la Torah. Non si lavora il sabato, nei giorni di festa religiosa e per un mese l'anno, in autunno.

 
Il rabbino che certifica le forme prodotte
 
Lo staff del caseificio
Come tutto quello che riguarda la produzione del cibo in Emilia Romagna, anche il procedimento che porta alla nascita del Parmigiano Reggiano ha qualcosa di mistico, insito nella rituale ripetizione di azioni che - al netto dell'avanzamento tecnologico - sono sempre le stesse. Quando, nell'aprile del 2018, Parma2064 ha dato - è proprio il caso di dirlo - forma all'idea di tentare la strada della produzione di un Parmigiano Reggiano Kasher, questo carattere spirituale è sembrato addirittura amplificare la propria portata.
   La decisione di destinare all'impresa, in modo esclusivo, un caseificio situato a Zibello, patria del culatello, precedentemente utilizzato per la lavorazione del formaggio tradizionale, è invece suonato come il segno della volontà di integrare una concezione alternativa nella cultura della Food Valley, più che come una sfida allo stato delle cose.
   Il casaro Salvatore Sale ricorda come, il giorno del taglio del nastro, una delegazione di rabbini stranieri fosse presente a quello che assumeva i contorni di un vero e proprio evento internazionale. E di fatto lo era, perché frutto del lavoro dell'unico caseificio impegnato nella lavorazione esclusiva della variante Kasher del Parmigiano Reggiano.
   «Ho anche dovuto rimettermi sui libri - ammette il casaro - perché il rabbino che supervisiona e partecipa alle varie fasi di produzione arriva ogni settimana dalla Francia ed è necessario che ci capiamo». In effetti, vista la rigidità delle regole in materia alimentare, ispirate dalla Torah e codificate nello Shulkhan Aruk, è fondamentale che ogni passaggio avvenga nel rigoroso rispetto delle leggi ebraiche, compresa quella che impone l'inattività nel giorno di sabato e durante le più importanti festività del calendario ebraico, garantita dalla firma sul sigillo che impedisce l'ingresso del latte in stabilimento per quattro mungiture ogni settimana (da venerdì sera a domenica mattina) e per un mese intero ogni anno (tra settembre e ottobre). Questo particolare Parmigiano Reggiano prodotto da Parma2064 nel caseificio di Zibello si distingue per l'uso esclusivo del caglio di vitello liquido certificato Kasher, prodotto secondo metodi di estrazione che escludono categoricamente la contaminazione con eventuali residui di carne.
   Il sorvegliante (detto mashghiah), che non deve essere necessariamente un rabbino ma deve essere di religione ebraica, è presente lungo tutte le fasi del processo produttivo, che presidia sin dall'inizio con il carico del latte sui camion diretti dalle stalle al caseificio, seguendoli nel loro percorso quotidiano, così da garantire che il latte arrivi solo dalle stalle certificate kasher e dalla mungitura di vacche "adatte" alla produzione di latte kasher.
   L'unico intervento diretto del sorvegliante nelle fasi di produzione del formaggio è la distribuzione del caglio nelle "caldaie", in cui avviene la coagulazione del latte. Esclusi i giorni di sabato e domenica, quando la produzione si ferma, negli altri 5 giorni della settimana (da lunedì a venerdì), la procedura è la stessa seguita per il parmigiano tradizionale. Nello stabilimento di Zibello si utilizzano 20 "caldaie" per ottenere tra le 40 e le 46 forme quotidiane, tutte contrassegnate dal rabbino con una dicitura identificativa in lingua ebraica.

(Gazzetta di Parma, 18 settembre 2018)


Raid israeliano in Siria, la contraerea siriana abbatte per sbaglio aereo russo

di Giordano Stabile

I sistemi anti-aerei siriani hanno abbattuto per sbaglio questa notte un aereo da trasporto russo con a bordo 14 militari. Il velivolo, un Il-20, si trovava a circa 35 chilometri dalla costa davanti a Lattakia quando si è ritrovato in mezzo a una battaglia aerea. Quattro F-15 israeliani hanno attaccato postazioni e installazioni militari fra la provincia di Lattakia e quella di Hama, dove l'Intelligence occidentale sospetta che l'Iran sia costruendo una base per il lancio di missili terra-terra.

 Battaglia nei cieli del Mediterraneo
  I raid hanno colpito anche postazioni nell'area di Baniya, in provincia di Tartus, sempre sulla costa mediterranea. I sistemi anti-aerei siriani di fabbricazione russa - S-200 e Pantsir S2 - hanno reagito come al solito. Ma questa volta nello spazio aereo solcato dai jet e dai missili anti-aerei c'era anche il velivolo da trasporto russo.
  «I contatti con l'equipaggio di un Il-20 si sono interrotti nel Mar Mediterraneo a 35 chilometri dalle coste siriane - ha comunicato il ministero della Difesa di Mosca -. L'aereo rientrava alla base aerea di Hmeimim». La sorte dei militari «è ignota» e sono in corso ricerche.

 Scongiurato l'assalto a Idlib
  L'abbattimento è arrivato a poche ore dall'accordo fra Russia e Turchia per evitare l'attacco a Idlib e una probabile strage di civili. Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno raggiunto nel vertice di ieri a Sochi, nella Russia meridionale, un accordo per scongiurare una sanguinosa battaglia urbana, «una catastrofe» e «una crisi umanitaria» da evitare a tutti i costi, nelle parole del presidente turco. Erdogan e Putin hanno concordato di istituire invece una «fascia demilitarizzata» lungo i bordi della provincia, a partire dal 15 ottobre. La zona cuscinetto sarà profonda «15-20 chilometri», ha precisato Putin, e sarà pattugliata da militari turchi e russi. Nella aeree limitrofe sia i ribelli che l'esercito di Bashar al-Assad ritireranno le armi pesanti. Il ministro russo della Difesa Sergei Shoigu ha confermato che «non ci sarà alcuna offensiva» russo-siriana.

(La Stampa, 18 settembre 2018)


Perché in Israele la sinistra è morta?

La questione palestinese sembra scomparsa dall'agenda internazionale. Ciò non è dovuto solo alla guerra in Siria ma anche alla crisi della sinistra israeliana.

di Domenico Bilotti

Nel logo: "Meretz, la sinistra di Israele"
La questione palestinese sembra essersi eclissata dai monitor degli opinionisti internazionali. Ce n'è qualche ragione pratica (l'essersi riprodotti, nella stessa macroregione geografica, conflitti di portata ancora superiore e con ricadute visibili più immediate), ma manca in questo oblio qualsivoglia ragione giustificativa strategica. La questione palestinese è ancora oggi legata a filo doppio al tema della sicurezza internazionale: lo è all'interno dei confini israeliani, ma anche fuori da quei confini. L'islamismo politico radicale ha buon gioco a strattonare il vessillo di Gaza quando vuole creare consenso nelle proprie aree di originario radicamento e proporsi come nuova istanza panaraba dei giorni nostri. Contemporaneamente, il declino di visibilità del problema in Israele rende sempre più ignorate e mimetiche le posizioni governative, che non stanno dimostrando di avere specificamente a cuore la pacificazione, ancora una volta dentro e fuori i propri confini.
  La soluzione diplomatica preferenziale degli ultimi decenni (quella dei "due Stati") si è rivelata nei fatti inservibile: il riconoscimento internazionale della statualità per la regione palestinese è arrivato tardi e incompleto, oltre che non assistito dalla debita cooperazione nell'area. Non solo: il richiamo ai "due Stati" per "due popoli" è sempre più annacquato e proclamativo. Quali sono questi Stati? Come se ne tracciano i confini? E, una volta tracciati o tracciabili, saranno effettivamente rimosse le condizioni che hanno da così tanto tempo reso la regione una polveriera, oltre che un corridoio preferenziale per le più varie forme di propaganda politica?
  Il grande assente di questo dibattito, come ricordato posto già ai margini dell'agone politico internazionale, sembra essere il Partito laburista israeliano. Nell'effettiva storia interna e statutaria di quel partito il tema della pacificazione non era stato da poco, dando luogo per altro verso a una vivace corrente federalista democratica. I laburisti avevano anzi rappresentato per almeno tre decenni (dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta) il volto riformatore dell'élite israeliana. Attenti a politiche prudentemente redistributive, negli intendimenti non ostili alle rivendicazioni palestinesi, capaci di produrre una serie di riforme che nell'ordinamento israeliano si erano tradotte non in una costituzione formale, ma in una pluralità di "leggi generali" e "leggi fondamentali" che certamente svolgevano la funzione di costituzione in senso materiale.
  La socialdemocrazia ebraica aveva dimostrato di volersi misurare col lascito remoto della propria tradizione, anche dal punto di vista religioso, ma respingendo le interpretazioni ultra-ortodosse che sono ora ritornate in auge in molti quartieri di Gerusalemme e che orientano spesso le decisioni politiche persino nei livelli decentrati. L'ascesa di quell'ortodossia, ancora oggi minoritaria ma costituitasi in minoranza pertinace che peraltro poco si dedica al dialogo interreligioso, sembra avere ricalcato le orme della caduta dei laburisti. A lungo forza politica egemone nel Paese, sovente alleata con l'ala marxista della sinistra nazionale, il partito laburista dagli anni Duemila ad oggi ha registrato perdite di consenso a macchia d'olio, intaccando la stessa memoria collettiva di alcuni suoi storici leader di orientamento progressista (Golda Meir, Shimon Peres, Yitzhak Rabin).
  Questa emorragia elettorale non ha impedito ai deputati eletti, mano a mano in minor numero, di allearsi ora con Likud, il partito conservatore, ora con i centristi di Kadima, che sono stati assolutamente cauti o persino inoperosi sui temi dei diritti civili, politici e sociali.
  Adesso il partito sembra star tentando di ricostruire la propria narrazione e la propria identità partendo dagli ambiti in cui il suo radicamento non era del tutto venuto meno: l'accademia, il sindacato, la rappresentanza negli organismi internazionali (ivi compresi gli alleati del Partito del socialismo europeo e dell'Internazionale socialista).
  Israele sperimenta insomma i travagli di tutte le sinistre che abbiano governato nella fase espansiva delle prestazioni sociali e che, al loro impoverimento, si sono trovate progressivamente spoglie di simboli, voti e soprattutto idee. La modernizzazione liberaldemocratica perseguita dall'ala europeista dei laburisti ha lasciato il campo a forme molto più spicce di propaganda che tuttavia sono senz'altro apparse ben più legate agli interessi immediati e reali della popolazione (a prescindere se poi questi ultimi siano stati effettivamente attuati o meno).
  Per una malintesa eterogenesi dei fini, il mito dell'ebreo errante si è così proiettato sulla diaspora organizzativa e di riconoscimento sociale della sinistra storica: in un caso, però, quella fuga è stata dettata da contingenze storiche anche gravi; ai giorni nostri, l'eclissi della sinistra politica, anche in Israele, si è spesso ammantata di una volontaria abdicazione dai temi reali dell'ingiustizia civile. Non più in grado di rivendicare autorevolezza nell'abbatterli, non più capace di correggerli con l'azione governativa, non più sufficientemente forte quantomeno da orientarli attraverso la combinazione di provvedimenti legislativi e iniziative di massa. Quella stessa sinistra sul piano della pacificazione in Palestina si era fermata agli accordi di Oslo, che pure avevano fatto credere per vicinissime la pace e la prosperità; oggi, riprendere il filo della concordia passa necessariamente dal dotarsi di un programma materiale e di una carica ideale che l'intera dirigenza internazionale delle socialdemocrazie sembra sempre più in difficoltà ad incarnare.

(ilsussidiario.net, 18 settembre 2018)


Il libro di Vittorio Bendaut alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato

 
(alberto a.) - Si può leggere in tanti modi questo La stella e la mezzaluna - Breve storia degli ebrei nei domini dell'Islam (Edizione Guerini e associati), presentato domenica 16 settembre da Vittorio Bendaut alla Comunità Ebraica di Casale Monferrato.
   E' un saggio storico di straordinaria attualità, una riflessione di un fine orientalista, ebreo ma buon conoscitore della realtà collocata attorno ai confini di Israele. Eppure è soprattutto un libro godibile in cui Bendaut si "sporca le mani" con la storia raccogliendo aneddoti e curiosità capaci di affascinare qualsiasi lettore.
   "Quella dei rapporti con l'Islam è sempre stata una storia di contaminazione - premette Elio Carmi, vicepresidente della Comunità, introducendo l'ospite, per altro di casa nel cortile delle Api - in certi periodi una storia felice, in altri più problematica". Bandaut però non entra nel merito della situazione contemporanea, il suo saggio si ferma al 1917. La considerazione da cui parte però è ciò che rende interessante il libro permettendoci di leggere anche l'attualità in tutta un'altra chiave. "Per il mondo ebraico il rapporto con l'Islam è stato molto più decisivo rispetto a quello con il Cristianesimo" afferma Bendaut. Insomma pensare ad un ebraismo eurocentrico è falso, il baricentro è sempre stato spostato molto più ad Est. Un esempio: i rabbini non hanno mai usato lingue europee per i loro testi, niente latino, niente greco, persino la traduzione della Bibbia in greco detta "dei 70" è stata abbandonata dopo che questo è diventato la lingua ufficiale degli intellettuali occidentali. In compenso hanno usato molto l'arabo per scrivere della loro fede. Del resto era una lingua ospitale, prestigiosa presso gli uomini di cultura, tanto che ha fornito le basi per l'ebraismo contemporaneo. E si potrebbe continuare a lungo con altre rivelazioni che rendono prezioso questo volume a qualsiasi livello di lettura.
   Domenica 23 settembre la giornata Europea del Patrimonio 2018 ha un titolo che sembra fatto apposta per la Comunità Ebraica Casalese: l'arte di condividere. Prendendo spunto da questo Elio Carmi condurrà due visite guidate straordinarie attraverso alcune opere d'arte che fanno parte del patrimonio di vicolo Salomone Olper spiegando i lavori di Boero, Levi, Mondino, Recalcati e molti altri.

(Il Monferrato, 18 settembre 2018)


Israele accoglie mille etiopi "Falashmura»

Israele ha approvato l'immigrazione dall'Etiopia di mille membri della comunità Falashmura - etiopi con radici ebraiche ma convertiti al cristianesimo molte generazioni fa - che abbiano già nel Paese congiunti di primo grado. Lo ha annunciato il premier Benjamin Netanyahu, venendo così incontro alle richieste dei 130mila Falasha - di origine etiopica e di religione ebraica - che da tempo si sono stabiliti in Israele. I Falashmura, essendo considerati convertiti al cristianesimo, non sarebbero autorizzati ad immigrare in Israele in base alla "Legge del Ritorno". Tuttavia, molti fra di loro hanno creato nuclei familiari con i Falasha, e 1.300 Falashmura si sono già riuniti con i congiunti in Israele. «Si tratta di una decisione non semplice», ha detto Netanyahu. Che ha anche criticato un episodio di discriminazione nei confronti di ebrei origine etiopica. «Non accettiamo alcuna forma di razzismo né contro gli ebrei giunti dall'Etiopia né contro altri», ha detto in riferimento alla disposizione di un rabbino ortodosso secondo il quale le donne Falasha dovrebbero essere tenute lontane dalla confezione del cibo perché «è dubbio che siano ebree a tutti gli effetti».

(Avvenire, 18 settembre 2018)


Israele - Pubblicate foto satellitari del palazzo di Assad

In quello che sembra un tacito avvertimento il ministero israeliano della Difesa israeliano ha pubblicato l'immagine satellitare del palazzo del presidente siriano Bashar al Assad.

di Raffaello Binelli

La residenza di Bashar Assad
A trenta anni dal primo lancio nello spazio, il Ministero della Difesa israeliana pubblica alcune immagini dal suo ultimo satellite spia.
   Si vedono i carri armati siriani, l'aeroporto internazionale di Damasco e la residenza di Bashar Assad. Immagini che possono apparire una tacita minaccia. Sabato notte lo scalo è stato colpito da un attacco missilistico, che il regime siriano attribuisce ad Israele.
   Le tre foto, scattate dal satellite spia Ofek 11, ufficialmente sono state diffuse per celebrare l'anniversario del lancio orbitale. Ma come sottolinea Times of Israel aver scelto proprio quelle foto sembra una dimostrazione di forza, un messaggio molto chiaro. Di recente Israele ha fatto diversi raid militari contro obiettivi iraniani in Siria, dopo aver ribadito più di una volta che non intende tollerare la presenza di forze militari iraniane alla propria frontiera. Secondo dati forniti della Difesa israeliana, ve ne sono stati oltre 200 a partire dal 2017.
   Al momento Israele non ha rilasciato alcun commento sull'attacco di sabato scorso all'aeroporto di Damasco. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ieri però ha detto che "Israele lavora costantemente per impedire ai nostri nemici di procurarsi armi avanzate". Secondo alcune indicazioni riportate dai media, nell'attacco sarebbe è stato colpito un aereo iraniano carico di armi.
   Ma torniamo al satellite spia Ofek 11: è stato lanciato il 13 settembre 2016 usando un razzo Shavit, lo stesso modello di base utilizzato per mandare in orbita il primo satellite Ofek 30 anni prima. Si è unito ad altri satelliti (dieci o forse di più) che forniscono informazioni alle forze di sicurezza israeliane. "La qualità delle immagini e delle fotografie prodotte dai nostri diversi satelliti è incredibile e ci fornisce preziose informazioni", ha detto Amnon Harari, il capo del programma spaziale del Ministero della Difesa.

(il Giornale, 17 settembre 2018)


Una nuova base militare a Cipro Nord. Le mire di Erdogan nel Mediterraneo

Il premier Erdogan ha smentito la notizia con forza, ma la settimana scorsa la Marina turca ha chiesto l'autorizzazione al Ministero degli Esteri per impiantare una base militare a Cipro Nord.

di Marta Ottaviani

 
Non sono ancora venti di guerra, ma nel Mediterraneo orientale tira davvero una brutta aria, dove la crisi siriana sembra essere solo il preludio di tensioni ben più consistenti e rischiose, se non altro per il giro di soldi che ruota loro attorno.
   Il premier Erdogan ha smentito la notizia con forza, ma la settimana scorsa la Marina turca ha chiesto l'autorizzazione al Ministero degli Esteri per impiantare una base militare a Cipro Nord. La triste vicenda dell'isola, è nota ai più, ma gioverà ricordarla, anche perché serve per fare capire la serietà della situazione.
   Cipro è spaccata in due dall'intervento militare turco del 1974, ufficialmente effettuato per proteggere la minoranza turcofona e musulmana. Da quel momento, l'isola vive una situazione paradossale. Due terzi dell'isola, a maggioranza greca, fanno parte della Ue come Repubblica di Cipro, riconosciuta da tutta la comunità nazionale, ma non da Ankara. Particolare, questo, che rappresenta uno degli ostacoli più grossi all'ingresso della Turchia in Unione Europea. Un terzo della superficie è di fatto occupato dalle truppe turche e dal 1974 si chiama Repubblica turca di Cipro Nord, riconosciuta solo da Ankara, ma non dalla comunità internazionale.
   Di fatto, un protettorato, sul quale la Turchia ha inviato oltre 40mila persone fra militari e coloni per creare un legame indissolubile con la Mezzaluna. Da quando poi sono state scoperte in fondo al Mediterraneo ingenti riserve di gas naturale, Cipro è passata da una questione etnico-religiosa, a un'opportunità irrinunciabile per mettere le mani sopra un tesoro da miliardi di dollari e soprattutto rompere la continuità di acque territoriali e zone economiche esclusive che la parte greca e Atene potrebbero vantare.
   Per cementare le ambizioni di Ankara, in effetti, manca solo una base militare, che andrebbe a operare in un mare, il Mediterraneo Orientale, che negli ultimi anni sta diventando sempre più affollato e dove al momento circolano navi di almeno 12 Paesi, Stati Uniti e Russia in testa. Proprio Washington, nelle scorse settimane, ha aumentato la sua presenza militare in Grecia, segno che quella parte di Vecchio Continente è destinata a diventare sempre più calda.
   Il presidente Erdogan, l'ha tagliata corta. "Non abbiamo bisogno di costruire una base a Cipro - ha detto ai giornalisti -. L'isola è molto vicina, in caso di bisogno con i caccia può essere raggiunta i pochi minuti". Nessuno dei presenti, però, gli ha fatto notare che la base era per le forze marittime, non per l'aviazione e che la richiesta al ministero degli Esteri è già stata fatta.
   Fonti militari, al contrario, dicono che una base nella zona di Famagosta, nella parte orientale dell'isola, sotto il controllo turco, potrebbe facilitare e non poco, il dispiegamento di navi da guerra che impiegherebbero meno e potrebbero rimanere di più nelle zone contese.
   Insomma, Ankara si sta preparando a quello che potrebbe essere il più grande conflitto nel Mediterraneo sul medio termine e dove potrebbe vedersela con il Paese che al momento rappresenta il suo più grande alleato: la Russia. Mosca ha grossi interessi nella parte greca di Cipro e sta monitorando con attenzione le mosse di Ankara. Nell'area sono attivi anche Egitto e Israele, che stanno sondando i fondali con la Repubblica di Cipro e che non sono certo noti per i loro buoni rapporti con la Turchia. La premesse perché vada a finire male ci sono tutte.

(formiche.net, 17 settembre 2018)


Antisemitismo in Germania: "E' mezzanotte e cinque"

Sgomento per un attacco rimasto "quasi inosservato" contro un ristorante kosher a Chemnitz

di Paul De Maeyer

 
Il vecchio e il nuovo antisemitismo
Tra fine agosto e inizio settembre, la terza città del Land tedesco della Sassonia, Chemnitz, è stata a più riprese teatro di dimostrazioni di simpatizzanti dell'estrema destra, scesi in piazza per protestare contro la morte di un cittadino tedesco 35enne, accoltellato domenica 26 agosto dopo un litigio con un siriano 23enne e un iracheno 22enne.
  Come ha rivelato la Welt am Sonntag (l'edizione domenicale del quotidiano Die Welt) del 9 settembre, durante una di queste manifestazioni è passato la sera di lunedì 27 agosto "quasi inosservato" un attacco lanciato contro un ristorante ebraico da una decina di persone appartenenti alla "scena neonazista".
  Gli autori dell'attacco, che erano mascherati e vestiti di nero, hanno gettato pietre e bottiglie contro il locale, che si chiama Schalom (cioè "Pace"), e urlato "sparisci dalla Germania, tu maiale ebreo"
"Hau ab aus Deutschland, du Judensau".
Judensau significa letteralmente "scrofa" o "troia ebrea"
. Il proprietario del ristorante, Uwe Dziuballa, è rimasto ferito alla spalla destra, così riporta la Welt.
  Secondo il quotidiano, si è trattato di "uno dei più gravi attacchi di matrice antisemita degli ultimi anni". Mentre un portavoce del ministero dell'Interno ha parlato di "un atto politicamente motivato a sfondo antisemita", l'incaricato del governo federale per la vita ebraica in Germania e per la lotta contro l'antisemitismo — un incarico creato il 18 gennaio scorso dal Bundestag — , Felix Klein, si è mostrato allarmato.
  "Se le notizie risultano vere, con l'attacco contro il ristorante ebraico di Chemnitz ci troviamo davanti ad una nuova qualità di crimine antisemita. Qui vengono risvegliati i peggiori ricordi degli anni '30", così ha dichiarato l'esperto in diritto internazionale, in netto riferimento agli attacchi contro negozi ebrei sferrati in epoca nazionalsocialista, culminati nella notte tra il 9 e 10 novembre 1938 nella cosiddetta "Notte dei Cristalli" o Reichspogromnacht.

 Frizioni nella maggioranza
  I disordini di Chemnitz hanno innescato un dibattito nazionale sull'estremismo da parte di militanti della destra radicale e sulla xenofobia che ha fatto presa su alcuni strati della società tedesca e hanno fatto emergere una spaccatura tra la cancelliera Angela Merkel e i servizi per la sicurezza, osserva la Deutsche Welle (8 settembre).
  Il capo dei servizi interni, Hans-Georg Maaßen (o Maassen), è finito nella bufera dopo un suo tentativo di sminuire i fatti di Chemnitz. Maaßen aveva espresso dubbi sull'autenticità di un video il quale mostrava ciò che la stessa Merkel ha definito una "caccia all'uomo" nei confronti di un profugo, dicendo che poteva essere anche fake, cioè fasullo.
  A peggiorare la posizione di Maaßen è il fatto che ha incontrato tre volte il leader del partito xenofobo AfD (Alternative für Deutschland), Alexander Gauland, e inoltre l'ex leader Frauke Petry. Maaßen, che del resto è anche presidente del Bundesamt für Verfassungsschutz (Ufficio federale della Protezione della Costituzione) avrebbe anche anticipato dati sulla sicurezza non ancora resi pubblici ad un altro politico dell'AfD, Stephan Brandner.

 "Sono le mezzanotte e cinque"
  "Le notizie dell'attacco da parte di neonazi contro il ristorante kosher Schalom a Chemnitz mi hanno sconvolto", così ha detto il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, citato dalla Deutsche Welle (9 settembre).
  Secondo Schuster, il quale ha ammesso di non capire "i tentativi da parte di alcuni politici e rappresentanti delle autorità per la sicurezza di minimizzare la situazione a Chemnitz", la cosa è seria. "E' mezzanotte e cinque", così ha detto, per indicare che non c'è più tempo da perdere.
  Anche l'ex presidente del Consiglio, Charlotte Knobloch, si è espressa. "Un attacco contro ebrei non è mai solo un attacco contro ebrei", ma una "sfida ad una società aperta e una democrazia liberale", così ha dichiarato l'85enne.
  Per il portavoce del Jüdisches Forum für Demokratie und gegen Antisemitismus (JFDA), Levi Salomon, è invece "scandaloso che una folla mascherata a Chemnitz attacchi l'unico ristorante ebraico della città, urlando slogan antisemiti, e ne sentiamo parlare solo dopo alcuni giorni".

 Attacco nel quartiere di Prenzlauer Berg
  Già nell'aprile scorso un altro attacco a sfondo antisemita aveva sollevato un acceso dibattito in Germania. A colpire in particolare l'opinione pubblica era anche il fatto che l'aggressione si era verificata in uno dei quartieri più alla moda della capitale Berlino, quello di Prenzlauer Berg.
  Due giovani che camminavano per strada e indossavano entrambi la kippah, cioè il tradizionale copricapo ebraico, sono stati aggrediti verbalmente martedì 17 aprile da tre uomini. Uno di questi ha poi preso una cintura e ha cominciato a colpire uno dei due giovani, gridando in arabo jahudi (ebreo). Il giovane aggredito, che è riuscito a filmare l'attacco con il suo telefonino, non è ebreo, ma israeliano, cresciuto in una famiglia araba, così aveva raccontato lui stesso in un'intervista con la Deutsche Welle (18 aprile).
  "Dobbiamo ammettere che l'antisemitismo sta diventando di nuovo socialmente accettabile", aveva commentato l'accaduto la ministra federale della Giustizia, Katarina Barley, citata dalla stessa emittente (21 aprile). "È nostro compito di contrastare questo sviluppo".

 1.453 reati di matrice antisemita
  Infatti, il numero di reati di matrice antisemita non diminuisce in Germania, così ha rivelato a febbraio il quotidiano Der Tagesspiegel, basandosi su dati federali. Dalla risposta ad un'interrogazione parlamentare di Petra Pau, deputata per il partito Die Linke (La sinistra) nel Bundestag e vicepresidente della Camera Bassa, emerge che nel 2017 ci sono stati 1.453 reati di matrice antisemita nel Paese, ossia circa quattro ogni giorno. Mentre nel 2016 erano stati 1.468, ovvero pressoché la stessa cifra, nel 2015 invece 1.381.
  Mentre in 32 casi si è trattato di atti di violenza — così spiega il Tagesspiegel -, i casi di danni materiali sono stati invece 160 e quelli di incitamento 898. Nel 95% dei casi, ossia 1.377, la polizia ha attribuito i reati a militanti della destra. 25 casi invece sono stati "religiosamente motivati", inclusi quei reati attribuibili a "fanatici musulmani", sia di origine straniera che tedesca.
  Secondo la direttrice dell'American Jewish Committee (AJC), Deidre Berger, citata dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, va riveduto verso l'alto però il numero di reati di matrice antisemita da parte di persone appartenenti alla comunità musulmana o araba. Della stessa opinione è il commissario speciale Felix Klein. "L'antisemitismo musulmano è più forte di quanto non emerga dalle statistiche", così ha detto in un'intervista con la Welt.
  Secondo lo psicologo Ahmad Mansour, l'antisemitismo musulmano e specialmente anti-israeliano viene discusso "in modo incongruente e minimizzante" in Germania. In un commento pubblicato nell'aprile del 2017 sul Tagesspiegel, Mansour, che è cittadino israeliano di origini palestinesi, ricorda che "per i giovani musulmani, il conflitto mediorientale gioca un ruolo fondamentale" e "il loro antisemitismo antisionista quasi non fa distinzione tra israeliani ed ebrei".

 La situazione in Francia e negli USA
  Neppure in Francia la comunità ebraica è al sicuro da atti o violenze di stampo antisemita. Anche se secondo i dati del ministero dell'Interno, con sede a Place Beauvau a Parigi, i reati di matrice antisemita hanno fatto registrare nel 2017 un calo del 7,2% rispetto all'anno precedente, c'è stato un aumento "preoccupante" di quelli definiti "violenti", ossia quegli atti antisemiti che hanno richiesto l'intervento da parte della polizia e della gendarmeria. Nel 2017 sono stati 97, esattamente 20 in più rispetto al 2016 (77).
  Un buon "barometro" che indica l'atmosfera all'interno della comunità ebraica di Francia, sono le cifre sulla cosiddetta aliyah o aliyà (significa "salita", cioè verso Gerusalemme), vale a dire l'emigrazione verso lo Stato d'Israele. Secondo i dati dell'Agenzia Ebraica per Israele, cioè l'organismo che se ne occupa, nel corso del 2015 quasi 8.000 ebrei francesi hanno compiuto l'aliyah, cioè la cifra più alta dalla creazione dello Stato ebraico. Nel 2016 il numero è sceso a 5.000 e l'anno scorso a 3.500 circa. Un calo quindi, ma comunque superiore agli anni 2013 e 2012, con rispettivamente 3.400 e 1.920 partenze.
  Oltreoceano invece il numero degli "incidenti" di carattere antisemita ha conosciuto nel 2017 un aumento del 57% rispetto al 2016, da 1.267 a 1.986. Il dato emerge dal rapporto annuale dell'Anti-Defamation League (ADL), Audit of Anti-Semitic Incidents. Year in Review 2017. Si tratta dell'aumento più forte su base annuale dal 1979, cioè l'anno in cui l'organismo ha iniziato a raccogliere questo tipo di dati (1979).
  Il 2017 è stato anche il primo anno dal 2010 in cui c'è stato almeno un incidente del genere in ogni singolo Stato. A guidare la classifica sono New York (380), California (268), New Jersey (208), Massachusetts (177), Florida (98) e Pennsylvania (96), che insieme hanno costituito il 62%, quindi più della metà, di tutti gli incidenti.

(Aleteia, 17 settembre 2018)


Ucciso un israeliano in un attentato a Betlemme

TEL AVIV, 17 - Dopo sei mesi è tornata ieri in Cisgiordania la minaccia dei cosiddetti lupi solitari: ragazzi palestinesi armati di coltelli che attaccano cittadini israeliani o forze dell'ordine.
Ieri uno di loro - Yussef Halil Ali Jabarin, 17 anni - ha accoltellato a morte un israeliano di 45 anni, Ari Fuld, padre di quattro figli, in un affollato centro commerciale di Gush Etzion, un insediamento ebraico a pochi chilometri da Betlemme. Il suo attacco è stato subito elogiato da Hamas, dalla Jihad islamica e dalle Brigate dei martiri di Al Aqsa (considerate il braccio armato di Al Fatah).
In mattinata - raccontano i media israeliani - i familiari di Jabarin avevano avuto la sensazione che il ragazzo stesse progettando qualcosa quando hanno saputo che non si era presentato a scuola.
La madre aveva quindi allertato i servizi di sicurezza palestinesi. Tuttavia, pochi minuti dopo nel parcheggio del centro commerciale di Gush Etzion, Jabarin ha sfoderato un coltello pugnalando alla schiena Fuld. Il ragazzo si è dato alla fuga ma è stato colpito da due agenti. Fuld è morto mentre veniva trasportato in ospedale.
In alcuni siti palestinesi l'attentato è stato ricondotto alle tensioni maturate negli ultimi giorni a Gerusalemme.
In effetti in occasione del capodanno ebraico, negli ultimi giorni un numero cospicuo di israeliani sono entrati nell'area circostante la moschea di Al Aqsa, destando così l'allarme sia del presidente palestinese Abu Mazen sia di Hamas, secondo i quali esiste il timore che Israele potrebbe autorizzarvi preghiere da parte di gruppi di ebrei.

(L'Osservatore Romano, 18 settembre 2018)


Si noti lo stile distaccato con cui l'Osservatore Romano, giornale della Chiesa Cattolica Romana, espone i fatti: diciassettenne palestinese accoltella a morte un quarantacinquenne israeliano. Normale amministrazione, sembra dire l'articolista. L'unico accenno a una possibile motivazione è tratta da "alcuni siti palestinesi", secondo cui le cause potrebbero essere ricercate nelle "tensioni maturate negli ultimi giorni a Gerusalemme". Chi ha provocato queste tensioni? Risposta: "un numero cospicuo di israeliani" che negli ultimi giorni "sono entrati nell'area circostante la moschea di Al Aqsa". Conclusione: se quell’ebreo è stato accoltellato, la colpa è degli ebrei. Naturalmente questo non è scritto a chiare lettere: è soltanto lasciato all’immaginazione del lettore. Come richiede il paludato stile curiale. M.C.


La taglia sui cittadini israeliani che i media vogliono far passare per "resistenza"

I media occidentali fanno a gara per sminuire l'ennesimo omicidio di un cittadino israeliano avvenuto per mano di un terrorista palestinese. C'è una taglia su ogni cittadino israeliano e non solo non se ne parla ma a pagarla siamo proprio noi.

Ormai lamentarsi dei media occidentali per il loro astio contro Israele sembra più una operazione di routine piuttosto che una battaglia di verità. Beh, vi garantisco che non è così. Non ci si vuole lamentare dei media per partito preso ma solo perché si pretenderebbe da chi fa informazione un minimo di onesta intellettuale e morale.
Ieri un terrorista palestinese ha ucciso a coltellate un cittadino israeliano padre di quattro figli e i media italiani e occidentali nel riportare la notizia fanno a gara a chi riesce meglio nello sminuire l'attentato arrivando persino a sfiorare la giustificazione di tale aberrante atto con il termine "colono", come se uccidere un colono (termine del tutto inventato per tali occasioni) fosse quasi un atto di difesa piuttosto che un attentato terroristico....

(Rights Reporters, 17 settembre 2018)


Padre di quattro figli ucciso a coltellate da un terrorista palestinese

di Giordano Stabile

Ari Fuld aveva già programmato il suo prossimo tour di conferenze negli Stati Uniti, a novembre. Tema: Israele e la sua lotta per sopravvivere nel turbolento Medio Oriente. Ieri mattina è stato avvicinato sul retro di un centro commerciale, dove aveva parcheggiato l'auto, da un palestinese, poco più che un ragazzo. E' stato colpito con un coltello all'addome ed è morto poche ore dopo in ospedale.
  Fuld, 45 anni, era noto in Israele e in America perché uno degli attivisti più combattivi di Standing Together, una ong che appoggia le forze armate israeliane, soprattutto in Cisgiordania, e si oppone a chi nega l'esistenza dello Stato ebraico. La sua uccisione ha suscitato un'ondata di indignazione in tutta Israele. Fiumi di messaggi sono arrivati su Twitter e Facebook, dove Fuld conduceva le sue battaglie con post molto impegnati.

 L'Intifada continua
  L'attacco è avvenuto nell'intersezione di Gush Etzion, già teatro di più gravi attentati con auto lanciate sui passanti, ed è l'ultimo della cosiddetta "Intifada dei coltelli", che dall'ottobre del 2015 ha fatto oltre 40 vittime israeliane. Attorno a Gush Etzion ci sono alcuni degli insediamenti più antichi di Israele, costruiti a partire dagli anni Venti, poi distrutti dalla Legione araba nel 1948, e ricostruiti dopo l'occupazione della Cisgiordania da parte di Israele nel 1967. Oggi ospitano oltre 70 mila persone. Sono stati alcuni abitanti degli insediamenti, armati, a catturare il terrorista, il diciasettenne Khalil Yousef Ali Jabarin, di un villaggio vicino. I genitori del killer avevano avvertito l'Autorità palestinese che stava per compiere un attentato, perché era sparito di casa all'improvviso e aveva dato segnali in tal senso, ma le forze di sicurezza palestinesi non sono riuscite a intervenire in tempo.
  Hamas, con il portavoce Fawzi Barhoum, ha invece plaudito all'attacco, definendolo una «risposta naturale ai crimini commessi da Israele». Israele è stata subito attraversata da rabbia e dolore. Fuld, padre di 4 figli, ha cercato di fermare il killer, che voleva attaccare altre persone, prima di essere accoltellato a morte. Il presidente Reuven Rivlin si è unito alle condoglianze alla famiglia: «Nessuno ha lottato con così tanta forza contro il terrorismo come Ari, ha combattuto fino al suo ultimo istante, faremo tu tto quello che è in nostro potere per punire i colpevoli». L'ambasciatore americano David Friedman ha espresso il dolore «dell'America per uno dei suoi cittadini brutalmente ucciso da un terrorista palestinese».

(La Stampa, 17 settembre 2018)


Manduria fra le 87 città italiane alla Giornata europea della cultura ebraica

Manduria
E' ormai ufficiale. Manduria (TA) figura tra le 87 città italiane che parteciperanno alla Giornata europea della cultura ebraica, che vede impegnati oltre l'Italia altri 27 Paesi europei nella realizzazione di un vasto ed importante palinsesto culturale, volto ad approfondire la storia e la cultura ebraica in ogni territorio in cui gli Ebrei abbiano lasciato traccia di sé.
   Manduria può vantare nella sua storia la presenza di una fiorente comunità ebraica, di cui rimangono tracce nel quartiere ebraico, dove secondo la vulgata popolare vi sarebbe l'antica sinagoga, e nelle fonti indirette che riportano di nomi e famiglie ebree vissute nella città. Non lontana da Oria, che nel corso dell'Alto Medioevo rappresentò un punto di riferimento per gli Ebrei d'Italia e di Europa, Manduria si inseriva a pieno titolo in un'area segnatamente caratterizzata dalla presenza ebraica (si pensi a Taranto, Brindisi, Lecce).
   Alla luce di ciò, l'Associazione Città Più, di concerto con il Lions Club di Manduria e l'Associazione Popularia Onlus, ha fortemente voluto che Manduria potesse porsi su un piano nazionale, mostrando con orgoglio la consapevolezza di una storia millenaria, ancora per certi aspetti poco nota ed apprezzata. Nel corso dell'inverno, l'associazione Città Più ha dunque intessuto una proficua collaborazione con l'Associazione Italia-Israele di Bari, guidata dal prof. Guido Regina, il Jewish Medieval Museum di Lecce, il cui direttore è lo stimato studioso di cose ebraiche, il prof. Fabrizio Lelli, e il Comitato Qualità per la vita di Taranto, che nella persona del Prof. Carmine Carlucci da anni valorizza la storia della provincia. In un'operazione sinergica, gli enti culturali di cui sopra hanno presentato all'UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), il proprio programma di eventi che si terranno nel mese di ottobre all'interno di una vasta cornice che vede impegnate altre città italiane, con esperienze storico-culturali diverse ma egualmente significative.
   Invero, al di là delle singole specificità, la storia degli Ebrei in Italia costituisce una pagina unitaria, singolare e fondamentale, che si intreccia profondamente con quella di un territorio, da secoli a vocazione multiculturale e multietnica. Capire quella storia consente di arricchire la comprensione generale della storia nazionale, mettendone a nudo gli intrecci, le interrelazioni culturali, le dinamiche sociali ed economiche. La data di apertura della grande kermesse è il 14 ottobre. Nella presentazione al programma si legge che "il tema che unisce idealmente tutte le iniziative è quest'anno Storytelling. Le storie siamo noi: un richiamo alle radici stesse dell'ebraismo, che affondano nelle 'storie' narrate nella Torah, la Bibbia, patrimonio di tutta l'umanità".

(NoiNotizie, 17 settembre 2018)


"Amico di Israele", video online contro Klaus Davi

"Sionista amico degli assassini di Israele. Ebreo massone sionista". Diversi insulti antisemiti sono contenuti in un video postato su You Tube e disponibile in diverse versioni, che prende di mira Klaus Davi, giornalista e titolare di una agenzia di comunicazione e attualmente collaboratore delle reti Mediaset, definito 'ebreo sionista'. Nel video dalla durata di 5'13 (ma ne esiste una versione di 7 minuti) si fa riferimento alla candidatura del giornalista per la carica di sindaco al comune di San Luca in Aspromonte dove non si vota da 4 anni a causa delle infiltrazioni mafiose.
   Una voce fuori campo parla di "oscena buffonata del potere: mandare Klaus Davi, ebreo sionista di cittadinanza Svizzera, in Calabria, esattamente a San Luca. Per portare avanti una operazione di colonialismo ideologico e politico, dando per scontato che i sanluchesi, in quanto meridionali, e per di più calabresi e notoriamente 'ndranghetari' secondo l'assunto classicamente lombrosiano siano una razza inferiore africanoide, un popolo maledetto è 'atipicamente criminale'".
   E ancora: "Ma di quale democrazia ci vuole parlare? - di quella che i suoi compatrioti ebrei israeliani sionisti e terroristi applicano in Palestina giocando al tiro a segno e così assassinando a sangue freddo poveri giovani ragazzi, fanciulle, bambini addirittura che manifestano inermi per la nakba, e saltando e ballando scompostamente quando ne ammazzano uno. La Calabria è stata per millenni maestra di civiltà. Magna Grecia docet. La Calabria, al centro del Mediterraneo, non ha bisogno di un Klaus Davi che scende dalle montagne svizzere per portarci la sua democrazia usuraia".
   Nel video Klaus Davi viene indicato come "'amico' degli assassini israeliani di bambini che ballano quando vengono uccisi" frasi a cui vengono accompagnate scene di guerra e violenza nel conflitto mediorientale. Il video chiude con la frase "quale democrazia vuole portare in Calabria? Quella israeliana usuraia?" Il massmediologo - si apprende - ha presentato denuncia per diffamazione aggravata presso la caserma dei Carabinieri di via Fosse Ardeatine a Milano.

(Adnkronos, 17 settembre 2018)


Il passato e il futuro, questione di nascite

Un pediatra celebra la demografìa israeliana e piange la vecchia Europa.

Scrive il Wall Street Journal (12/9)

 
Mi stavo dirigendo verso il mio volo per Tel Aviv, quando è accaduto qualcosa di curioso" scrive il pediatra americano Robert Hamilton. "Mentre attraversavo l'aeroporto di Bruxelles, sono stato raggiunto da altri viaggiatori. Uomini con la kippah dalle valigette pesanti, giovani coppie con zaini ricamati con la Stella di David, anziani rabbini chassidici che assomigliavano a Mosè, famiglie con i passeggini e molti bambini sulle spalle - eravamo tutti diretti nello stesso posto. Mi sentivo come a una festa in famiglia.
   All'inizio, l'aeroporto era silenzioso e grigio, uno spazio progettato per l'efficienza, utilitaristico, se non nichilista. Al gate di partenza, ho trovato una scena vibrante e caotica, piena di colori, rumori e bambini. Mi sono rilassato. Da pediatra, ho riconosciuto il disordine; lavoro in quell'universo ogni giorno. La mia esperienza ha mostrato chiaramente come due paesi, Belgio e Israele, vedono l'infanzia. Israele la accudisce e l'alimenta.
   Secondo un rapporto del 2018 dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il tasso di fertilità per le donne israeliane si attesta su un robusto 3,1, il doppio della maggior parte delle nazioni europee. Il tasso di fertilità belga è 1,7, ben al di sotto del tasso di sostituzione di 2,1. L'alta fertilità di Israele è un fenomeno complesso e la fecondità delle donne ebree ultra-ortodosse non può spiegare l'intera storia. In effetti, l'aumento del tasso di natalità israeliano dalla fine degli anni Novanta è stato guidato dalla popolazione non ortodossa.
   Le convinzioni collettive sulla vita, la libertà e la ricerca della felicità animano le scelte personali di ogni cittadino, e inevitabilmente influenzano la demografia della nazione. Le nazioni che non riconoscono i bambini come centrali per una buona vita dovranno affrontare gravi conseguenze economiche. Questi problemi attendono non solo il Belgio, ma anche il Giappone, la Cina, la maggior parte dell'Europa e persino gli Stati Uniti.
   La mia esperienza a Bruxelles è stata un'anteprima del domani. Non ostante le sfide politiche che Israele affronta, sono ottimista sul suo futuro. Vi si celebra la vita. Il Belgio, d'altra parte, sembra vecchio e sbiadito. Come disse un saggio ebreo: 'Un bambino senza genitori è un orfano, ma una nazione senza figli è un popolo orfano'".

(Il Foglio, 17 settembre 2018)


"Sono stato una settimana senza kippah e da ebreo ne sono uscito disgustato"

Reportage dell'americano Micah. Thau: "Ho visto un cimitero della storia e gente che paragonava Israele al nazismo".

Scrive il Jerusalem Post (8/9)

Per 168 ore mi sono rifiutato di indossare una kippah", scrive Micah Thau. "Per sette giorni non ero Micha il nuovo immigrato, ma piuttosto Michea, il turista americano di Los Angeles. Per una settimana ero, agli occhi del mondo che mi circondava, non un ebreo, ma un americano. Per essere chiari, questo non era un esperimento fatto per scherzo né un esercizio educativo. E' stato fatto semplicemente per la mia sicurezza mentre un amico e io abbiamo viaggiato in Europa ad agosto. Ho apprezzato alcuni memoriali sugli ebrei d'Europa. Ho notato delle piccole targhe di bronzo costruite sui marciapiedi davanti alle case che appartenevano alle vittime dell'Olocausto. Ho visto che alcune strade, come la Ben-Gurion, prendevano il nome da eminenti leader ebraici.
   Tuttavia, con il progredire della settimana, mi sono sentito sempre più a disagio - e alla fine irritato - come ebreo in Europa, e mi sono ritirato ulteriormente nella persona esclusivamente americana che avevo creato. Il primo pungiglione di rabbia che ho sentito è stato nel quartiere ebraico di Praga, una popolare meta turistica per viaggiatori ebrei e no. Non vedevo l'ora di andare a Praga, sede di numerosi musei, sinagoghe e il presunto luogo di nascita del Golem. Mentre visitavamo la sinagoga, il museo e il cimitero, il mio cuore ribolliva di sdegno. La consapevolezza che un centro un tempo vibrante di cultura ebraica fosse ora una trappola per turisti mi ha colpito come un treno. I libri di preghiere, gli abiti da sposa e le coppette di kiddush che un tempo venivano usate da persone reali sono ora condannati a raccogliere polvere nelle teche dei musei di vetro. Mi sentivo come se il cadavere degli ebrei europei fosse esposto al pubblico, un'attrazione turistica di un popolo morto da fotografare, studiato come un animale da zoo e sfruttato da uno stato che rimase in silenzio mentre Hitler annientava gli abitanti di questo museo della città fantasma.
   La seconda puntura è arrivata dopo una visita al memoriale dell'Olocausto nel centro di Berlino. Il sito è ben fatto. Per chi non lo sapesse, il monumento si trova a due passi dalla Porta di Brandeburgo e dalle zone dello shopping. Sarebbe come mettere un memoriale al genocidio dei nativi americani o degli schiavi afroamericani nel mezzo di Times Square. Era chiaro che gli architetti intendevano ammettere apertamente che il moderno stato tedesco era letteralmente costruito sulle ceneri degli ebrei tedeschi che sistematicamente venivano sterminati. Riconoscere pubblicamente il buco lasciato dall'Olocausto nel centro della moderna Berlino è un gesto che ho apprezzato con tutto il cuore. Il memoriale stesso sembra un mare di pietre tagliate di varie forme e dimensioni costruite in una sorta di labirinto con piccoli segnali.Non ero arrabbiato per l'aspetto o la posizione del memoriale. Ma per le azioni delle persone. I bambini stavano saltando, gareggiando per vedere chi potesse raggiungere le pietre più alte.Uomini e donne sorridevano alla macchina fotografica, usando lo sfondo come un modo per raccogliere 'Mi piace' su Facebook o Instagram. L'ambivalenza era sbalorditiva e inquietante. Mentre sembrava che dovessi dire qualcosa, ho preferito rimanere in silenzio e lasciare che l'ebreo invisibile se ne andasse via silenziosamente.
   Lo sdegno finale provenne dall'uomo alla Porta di Brandeburgo che aveva un cartello che paragonava gli israeliani ai nazisti e accusava una cospirazione sionista mondiale. L'antisemitismo era in mostra nel cuore di Berlino, a pochi passi dal memoriale dell'Olocausto. Ovviamente questo era inquietante, ma il silenzio e il travestimento erano il segno distintivo della mia avventura europea di sette giorni.
   Per essere chiari, l'Europa è stata divertente. Praga è piena di storia ebraica. Berlino ha un'architettura magnifica, il Tiergarten che fa vergognare Central Park e una vita notturna irreale. In Polonia, ho imparato come i nazisti hanno compiuto il loro genocidio. Ma solo nell'Europa moderna ho visto il suo impatto a lungo termine. Ero solito considerare l'Olocausto semplicemente il culmine di duemila anni di persecuzione ebraica e, cosa più importante, come un altro tentativo fallito di distruggere il popolo ebraico. Eppure, dopo una profonda riflessione, ho riconosciuto una brutta verità: Hitler avrebbe potuto perdere la guerra ma riuscì ad eliminare il 'problema ebraico'. L'Europa era una volta il principale centro della diaspora ebraica. Ora, gli Stati Uniti e Israele sono le capitali della vita ebraica, mentre l'Europa è la patria di una piccola infarinatura di ebrei.
   In breve, questo viaggio mi ha dato un apprezzamento ancora maggiore per l'autodeterminazione ebraica di cui sono grato di essere parte. Alla fine della mia vacanza, mi sono sentito ancora più sicuro della mia decisione di non indossare una kippah in Europa. Mi sono sentito come una reliquia del passato, una specie estinta che camminava in un vecchio habitat, dove la gente si accontentava di lasciarci nei musei e nei negozi di biscotti golem".

(Il Foglio, 17 settembre 2018)


Anche Bari ha avuto il suo Mosè e la Sinagoga

di Vittorio Polito

 
Bari - Palazzo Effrem De Angelis
Mosè, un rabbino nato a Bari e morto a Cordova intorno al 1065, è considerato un «grandissimo "barese" che ha del fantastico», come scrive Sorrenti nel suo libro "I Baresi" Tipografia Mare, 1980). Egli con altri rabbini partì da Bari intorno al 1027, per recarsi in Palestina (Cognetti cita il 956 ma è improbabile, poiché se così fosse, alla sua morte avrebbe avuto oltre 100 anni, cosa improbabile), ma durante il viaggio furono abbordati dai pirati del Califfo di Cordova Abd-el-Râmani III e così la nave barese fu preda di queste fameliche orde.
   Il nostro Mosè fu venduto ed acquistato dalla comunità ebraica. Un giorno mentre rabbi Nathan, uno dei grandi sapienti di Cordova, spiegava il Talmud (una codificazione di leggi riguardante le decisioni degli studiosi sulle controversie legali con leggende, aneddoti e detti che illustrano la legge tradizionale), fu interrotto da un cencioso Mosè, il quale mise in dubbio quanto diceva Nathan e dette esaurienti spiegazioni del passo che si stava leggendo. Da quel momento Mosè divenne lui il capo della Sinagoga ed ebbe tanta fama e fortuna che non vi fu quesito che egli non risolvesse e per questo motivo Cordova divenne il massimo Centro della scienza ebraica d'Occidente.
   Alla sua morte, il figlio Enoch prese il posto del padre, con il quale collaborò nell'attuazione del grande disegno, che si compì, di trasferire in Andalusia il metodo di studio in vigore sino ad allora in Mesopotamia. Spetta loro il merito di aver istituito in Spagna, forse uno dei più grand centri dell'ebraismo del mondo.
   La storia dell'ebraismo barese (o pugliese) è ancora da scrivere, sottolinea Sorrenti, ma il nostro Mosè fu certamente uomo di primissima grandezza e la sua sapienza proverbiale è paragonabile a quella di Schiavo da Bari (1180-1266), un poeta che fu giudice. Considerata persona dotta e di buon senso, ricordato con una iscrizione sulla Trulla della Cattedrale di Bari, riuscì a far giungere il suo nome in ogni parte d'Italia, diventando così un simbolo della saggezza.
   La foto mostra l'ingresso del palazzo Effrem De Angelis di Bari (oggi sede dell'Istituto di Scienze Religiose) con accanto alcuni ebrei in preghiera. Nel secolo scorso il palazzo era considerato uno dei simboli dell'antico ghetto ebraico che sorgeva nel centro storico di Bari.
   Onofrio Gonnella, con la sua poesia "La Senagoghe", ricorda e conferma nella nostra città la presenza del tempio ebraico.
    LA SENAGOGHE
    da "Bari nostra", di O. Gonnella, Scuola Tip. Villaggio del Fanciullo, Bari 1951, pag. 18.


    Ce te ne va a la scole Corridone
    do larghe Maurjielle a Santarese,
    addò se note u core du barese
    la viste s'addolcisce e l'imbressione.

    Vite la Chiessia Maddre e u chernescione,
    la cubbua, la terrazza tesa tese,
    ormà da tanda tjiembe semme appese,
    ca parle de la vecchia costruzzione.

    U Trulle, u Cambanale e uarchetrave
    l'andica Senagoghe, cu rosone,
    la Currie, u Semmenarie e San Savine.

    Ce vene nu pettore ca jè brave
    so certe ca me pote da rascione
    pu spunde ca v'avè da stì ruine.
(Giornale di Puglia, 17 settembre 2018)


L'empatia con i malvagi

George L. Mosse, 1918-2018. Resta attuale la lezione dello storico che ha visto nel razzismo, nel nazionalismo, nell'antisemitismo movimenti di attrazione per le masse nei periodi di crisi.

di Emilio Gentile

George L. Mosse,
A Berlino, nel 1932. Un ragazzo di quattordici anni uscì da casa all'insaputa dei genitori per andare vedere un'adunata del partito nazionalsocialista. Si trovò subito immerso nello spettacolo multicolore di bandiere agitate da una folla di giovani militi in camicia bruna, che cantavano inni esaltanti la grande Germania. Poi apparve Hitler. Sessanta anni dopo, diventato storico famoso, il ragazzo di allora ricordava in una intervista: «Ancora oggi devo ammetterlo: fu un'esperienza trascinante. C'era la massa che ti coinvolgeva. Ma c'era Hitler. Il suo carisma esercitava un effetto straordinario sulla gente, che lo volesse o no. Hitler era una vera attrazione».
  Nella Germania del 1932, non era evento eccezionale un ragazzo affascinato da Hitler in una adunata nazista. Ma lo rendeva eccezionale il fatto che il ragazzo, Gerhard Lachmann Mosse, nato a Berlino il 20 settembre 1918, era il rampollo più giovane di una ricchissima e molto influente famiglia di ebrei tedeschi. Il nonno materno Rudolf Mosse era fondatore e proprietario di un'agenzia pubblicitaria internazionale e di un impero editoriale, che pubblicava i più importanti giornali liberali tedeschi. Dopo la Grande Guerra, la gestione dell'impero Mosse passò al padre di Gerhard, Hans Lachmann, marito della figlia di Rudolf. I Lachmann-Mosse erano ebrei integrati nella nazione tedesca. Come molte famiglie dell'alta borghesia ebrea, i Lachmann-Mosse erano illuministi e liberali. I giornali dell'impero editoriale Mosse osteggiarono il nazismo, pur sottovalutandolo. Nel marzo 1933, la famiglia Mosse fuggì dalla Germania, dopo essere stata costretta a cedere tutti i suoi immensi beni, riuscendo a salvare soltanto le sedi estere dell'agenzia pubblicitaria.
  Diventato apolide e profugo, Gerhard continuò gli studi in Inghilterra; poi, dal 1939, li proseguì negli Stati Uniti, dove si laureò e cambiò il nome in George L. Mosse. Sul suo passaporto tedesco, era impressa la "J" e il nome Gerhard era seguito dal nome Israel, come imponeva la legge nazista, ma lui viaggiava con un passaporto del Lussemburgo. Negli Stati Uniti, George scoprì quasi per caso l'amore per la storia, specializzandosi sul periodo medioevale e moderno. Dal 1944 al 1955, fu docente di storia moderna nell'Università di Iowa, e nel frattempo divenne cittadino americano. Dal 1956, insegnò storia della cultura europea nell'Università del Wisconsin; dall'inizio degli anni 60, svolse anche corsi regolari nell'Università di Gerusalemme.
  Quando morì, il 22 gennaio 1999, Mosse era diventato da qualche decennio uno storico di fama internazionale per la rivoluzione storiografica compiuta con i suoi studi sulla cultura e la politica di massa del nazismo, sulla interpretazione del fascismo come fenomeno rivoluzionario, sulla storia del nazionalismo, dell'antisemitismo e del razzismo, da lui considerati potenti movimenti di attrazione per le masse nei periodi di grave crisi. L'originalità del suo metodo e delle sue ricerche consisteva principalmente nella capacità di indagare storicamente «il fascino del persecutore», come lo abbiamo definito, cioè le passioni, le idee e i miti del nazismo e del nazionalismo rivoluzionario razzista e antisemita, che produssero il genocidio degli ebrei. Da storico, Mosse asseriva «la necessità dell'empatia anche con coloro che giudichiamo malvagi e pericolosi», perché solo così è possibile comprendere, con l'esercizio della mente critica, l'origine e i motivi della loro malvagità. In epoca di sconvolgimenti, è concetto fondamentale della sua analisi, la maggior parte delle persone cerca «riparo in un saldo sistema di credenze o in una concreta identità, malgrado tutta la violenza e lo spargimento di sangue che rischiano di seguirne». Fino all'Olocausto.
  Nell'autobiografia Di fronte alla storia (Laterza 2004), Mosse ha scritto di aver sempre avuto la «vivida sensazione di essere un sopravvissuto»; per questo motivo ha «costantemente cercato di capire un evento troppo mostruoso da contemplare», di «trovare la risposta al problema di come sia potuto avvenire». La catastrofe dell'Olocausto è una presenza latente in tutti gli studi di Mosse sulla cultura occidentale, campo principale delle sue ricerche, perché «in una catastrofe del genere si riflettono le tendenze principali della cultura contemporanea; essa è come un prisma, o meglio, come uno specchio deformante che restituisce, malvagiamente manipolate, molte delle molle che animano gli esseri umani»; alla fine, «ho avuto la sensazione di essermi avvicinato a una comprensione dell'Olocausto come fenomeno storico». A tale comprensione Mosse era giunto studiando anche fenomeni non collegati direttamente all'Olocausto, come le relazioni fra sessualità e nazionalismo, gli stereotipi della mascolinità, gli stereotipi contro gli outsiders, i diversi e gli estranei, capri espiatori di masse in cerca di sicurezza in una comunità chiusa nella presunta identità immutabile della nazione e della razza. Mosse aveva vissuto personalmente l'esperienza dell'outsider, costretto per anni a mascherare o a celare la condizione di ebreo e di omosessuale. La conoscenza della storia e l'esperienza personale lo resero particolarmente acuto nell'osservazione dei movimenti nazionalisti che conquistano le masse alimentando pregiudizi contro i diversi, gli estranei, gli stranieri.
  Nell'esordio del suo libro più noto e influente, La nazionalizzazione delle masse (il Mulino 1975), Mosse ha definito la sua opera «il frutto di lunghe meditazioni sulla dignità dell'individuo e su coloro che hanno attentato contro di essa riportando per lunghi periodi del nostro secolo un grande successo nel privare l'uomo di ogni controllo sul proprio destino». Se fosse vivo, a cento anni, constaterebbe che siamo già entrati in un nuovo periodo, non sappiamo se lungo o breve, di movimenti che attentano alla dignità dell'individuo, sottraendogli il controllo sul proprio destino. L'attuale tendenza era stata prevista da Mosse già negli anni So (Emilio Gentile, Fanatismi incombenti, «Domenica. Il Sole 24 ore»,18 febbraio 2018). La sua preveggenza non era dono profetico, ma capacità di analizzare con realismo la fragilità della democrazia liberale in epoche di sconvolgimenti, che provocano insicurezza e paura nelle masse.
  La fragilità della democrazia liberale è stato l'altro tema della meditazione di Mosse, latente nella storiografia ma spesso presente nella sua attività di conferenziere, come mostrano le migliaia di pagine inedite di lezioni e conferenze, che comporrebbero una decina di volumi. Negli anni 50, i temi delle sue conferenze erano: «Libertà individuale e sicurezza nazionale», «Persecuzione e libertà», «Libertà di coscienza». Nel 1954 l'agnostico Mosse dichiarò a un a uditorio protestante: «Tutte le nostre libertà sono legate insieme. Spesso noi siamo stati sul punto di sacrificare alcune libertà politiche così faticosamente conquistate alle fluttuazioni di un'opinione pubblica eccitata o agli allettamenti dell'opportunità politica. Stiamo in guardia contro un conformismo imposto; è la strada che conduce alla perdita della nostra libertà di fronte a Dio. Per essere un uomo libero bisogna accettare le differenze: la coscienza di ogni uomo è uguale all'occhio del Signore».

(Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2018)



Missili israeliani contro l'aeroporto di Damasco

La tv di Stato siriana ha accusato Israele di aver lanciato ieri notte un attacco missilistico vicino all'aeroporto internazionale di Damasco, aggiungendo che alcuni missili sono stati distrutti dalla difesa aerea. E possibile che l'obiettivo fosse un deposito di armi. Una portavoce israeliana ha dichiarato: «Non commentiamo i rapporti stranieri».
Durante sette anni di conflitto, è cresciuto l'allarme di Israele per l'influenza crescente dell'Iran, un alleato chiave del presidente siriano Bashar Al Assad. All'inizio di settembre i media siriani hanno dato notizia di un attacco aereo israeliano contro postazioni iraniane a Hama. Ad agosto un esperto di armi chimiche siriano è stato assassinato nella città di Masyaf. In alcuni casi Israele ha confermato di aver preso di mira in Siria schieramenti di Teheran o trasferimenti di armi per l'Hezbollah libanese: a maggio, per esempio, ha dichiarato di aver colpito l'infrastruttura militare iraniana in risposta al lancio di missili sul proprio territorio.

(Corriere della Sera, 16 settembre 2018)


Il "fattore Giordania" manda all'aria i piani dell'Egitto

La questione palestinese si sta ancor più complicando per i conflitti interni tra Fatah e Hamas e si profila una possibile drammatica ripresa della guerra con Israele.

di Caleb J. Wulff

L'ipotesi di una soluzione della questione palestinese attraverso la federazione del futuro Stato palestinese con la Giordania è diventata ufficiale negli scorsi giorni, anche se con paternità incerta. Il presidente dell'Autorità Palestinese (Ap), Mahmoud Abbas, ne ha parlato all'inizio di settembre con un'organizzazione israeliana, Peace Now, attribuendone la paternità all'amministrazione Trump. Precisando che si parla non di una federazione con la Giordania, ma di una confederazione tra Stati indipendenti, Abbas ha detto di non essere contrario, purché della confederazione faccia parte anche Israele.
  Dalla Giordania si è subito precisato che l'ipotesi non è attualmente in discussione e dagli Stati Uniti si è riaffermato che la questione palestinese farà parte del piano di pace per il Medio oriente che l'amministrazione Trump sta preparando. Un piano di cui si continua a parlare, ma che non si sa quando verrà reso pubblico. Anche Israele ha dichiarato di non essere all'origine della proposta e ribadito la posizione espressa da Netanyahu di un'entità statale palestinese autonoma e smilitarizzata, garantita internazionalmente ma riservando a Israele le misure di sicurezza.
  Molti palestinesi hanno criticato le dichiarazioni di Abbas, definendo l'ipotesi un artificio di Israele e degli Stati Uniti per cancellare definitivamente l'idea dei due Stati. Le riserve giordane sono motivate dal timore che la presenza palestinese divenga dominante nel Regno hascemita, anche se la prima proposta di confederazione fu lanciata, paradossalmente, nel 1972 da re Hussein, padre dell'attuale sovrano giordano.
  Dati interessanti emergono da una ricerca condotta nel 2016 dall'università palestinese An-Najah di Nablus: il 46% degli intervistati si dichiarò allora in favore della confederazione con la Giordania, percentuale che saliva al 52% in Cisgiordania. L'indagine ha messo anche in risalto i sentimenti di frustrazione dei palestinesi, il crescente scetticismo per una soluzione della questione e la richiesta di risolvere in modo pacifico e definitivo il conflitto tra Fatah e Hamas, le organizzazioni che governano rispettivamente la West Bank e la Striscia di Gaza.
  Nei due anni passati dall'inchiesta i problemi si sono apparentemente aggravati. Innanzitutto, contro le speranze degli intervistati del 2016, i rapporti tra le due organizzazioni palestinesi sono peggiorati. Nell'ottobre del 2017, con la mediazione dell'Egitto, fu firmato un accordo di riconciliazione in cui si prevedeva che l'Ap riprendesse il controllo di Gaza nel successivo dicembre. In mezzo a reciproche accuse, non se ne è fatto nulla e uno dei maggiori punti di disaccordo rimane il disarmo delle milizie di Hamas richiesto dalla Ap. L'Egitto ha continuato i suoi tentativi di mediazione e lo scorso agosto una delegazione di Hamas si è recata al Cairo per colloqui sulla possibilità di una tregua con Israele e di una riconciliazione con Fatah. La situazione della popolazione nella Striscia è sempre più grave, aggravata dalla decisione di Trump di tagliare i finanziamenti all'Unrwa, l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi.
  Un accordo con la Ap e Israele sarebbe la premessa per un allentamento del blocco israeliano e l'eliminazione delle sanzioni dell'Ap contro Gaza. La ripresa delle trattative ha però scatenato la dura reazione di Abbas, per il quale nessun accordo potrà essere raggiunto senza la partecipazione diretta della Ap. Immediata la risposta dei vertici di Hamas, che hanno accusato Abbas e Fatah di voler sabotare ogni accordo diretto a una soluzione pacifica e all'eliminazione del blocco, operando così contro gli interessi dei palestinesi. Nel contempo, se non si raggiungerà a breve una tregua, Hamas ha confermato la sua intenzione di riprendere le ostilità, nonostante la sua volontà di raggiungere un accordo.
  Israele ha posto a sua volta una pregiudiziale all'accordo, cioè la restituzione di soldati israeliani prigionieri di Hamas; quest'ultima si dice disposta a discutere uno scambio di prigionieri, ma separatamente dalle trattative sulla tregua. In questa situazione, nei giorni scorsi il Cairo ha dichiarate sospese le trattative. Si sta così prospettando la dolorosa prospettiva che i sanguinosi incidenti della scorsa primavera sui confini della Striscia siano stati solo un prologo ad avvenimenti ancor più drammatici.

(ilsussidiario.net, 16 settembre 2018)



Dio ha parlato per mezzo del Figlio

Dio, dopo aver in molte volte e in molte maniere parlato anticamente ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi mediante il suo Figlio, che Egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha anche creato i mondi. Egli, che è splendore della sua gloria e impronta della sua essenza, e che sostiene tutte le cose con la parola della sua potenza, quand'ebbe fatta la purificazione dei peccati, si pose a sedere alla destra della Maestà nei luoghi altissimi, diventato così di tanto superiore agli angeli, di quanto il nome che ha ereditato è più eccellente del loro.

Dalla lettera agli Ebrei, cap. 1

 


Leader di Hamas annuncia l'inizio della terza intifada

La terza intifada palestinese è già iniziata e il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, non sarà in grado di fermarla. Lo ha annunciato ieri il 73enne esponente della dirigenza di Hamas a Gaza, Mahmoud Al Zahar.
   "La rivolta popolare contro l'occupazione israeliana e i suoi coloni è iniziata nella Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in quella occupata - ha detto - e andrà a proteggere i beni dei palestinesi e i loro luoghi santi".
   Al Zahar, è stato uno dei fondatori di Hamas, il movimento di resistenza islamico palestinese, ed è attualmente uno dei maggiori leader della fazione terroristica e membro del Consiglio legislativo palestinese.
   In una recente intervista rilasciata ai website legati alla "resistenza palestinese", ha sottolineato che gli ultimi eventi nella Striscia di Gaza dimostrano chiaramente che lo "spirito di ribellione contro l'esercito di occupazione israeliano è ancora vivo e forte, nonostante i continui tentativi di repressione" e che le "operazioni di resistenza qualitativa portate avanti dai palestinesi dimostrano il fallimento della politica di sicurezza israeliana".
   Sempre secondo Al Zahar, Abu Mazen non sarebbe in grado di sedare questa intifada che è fiorita dal basso, dal popolo palestinese e dalla determinazione dimostrata negli ultimi mesi con le ininterrotte manifestazioni al confine con lo Stato ebraico.
   Nel frattempo, il ministero della Salute di Gaza ha comunicato che, durante gli scontri di ieri, un bambino di soli 12 anni e due giovani 21enni hanno perso la vita negli scontri con i soldati israeliani schierati a difesa della frontiera, mentre altre 50 persone risultano ferite. È lecito chiedersi se queste continue arringhe di sostegno rivolte a fomentare una inutile e sterile rivolta e alle loro funeste conseguenze, non vengano utilizzate a scopo propagandistico proprio dai vertici delle fazioni terroristiche alla disperata ricerca di un sostegno internazionale.
   La situazione in Medio Oriente sembra essere completamente sfuggita di mano al leader dell'Anp, al centro di un fuoco incrociato da parte dei fondamentalisti islamici e dei gruppi di resistenza armata di stampo laico che propendono sempre più per una ripresa di un confronto armato che sembra essere sempre più vicino.
   Segnali di guerra, quindi, che confermano la totale mancanza del controllo dell'Anp sulle frange più estremiste egemoni nella Striscia di Gaza e che, già da mesi, stanno animando le continue violente mobilitazioni contro le truppe israeliane poste a guardia dei confini.
   Ma l'attuale situazione della maggioranza dei palestinesi che vivono al di fuori della Striscia, impiegati in Israele o nelle colonie, quindi assai tiepidi nel considerare i progetti di "terza intifada", non sembra favorevole ad una chiamata alle armi generalizzata.
   Al di fuori della Striscia di Gaza, Hamas e Jihad islamica appaiono isolati e gli appelli alla ribellione sembrano destinati a cadere nel vuoto a meno di adesioni individuali che, comunque, non farebbero pendere l'ago della bilancia in favore della ripresa della lotta armata.

(ofcs.report, 15 settembre 2018)


Storica sentenza in Israele: Autorità Palestinese responsabile attentati

GERUSALEMME - E' una decisione senza precedenti quella assunta ieri dal Tribunale Distrettuale di Gerusalemme che con una sentenza storica ha ritenuto l'Autorità Palestinese (AP) direttamente responsabile della morte di Gadi e Tzipi Shemesh, uccisi in un attacco suicida avvenuto nel marzo del 2002 a Gerusalemme.
La causa contro l'Autorità Palestinese era stata intentata dai due figli rimasti orfani della coppia rimasta uccisa in un attentato suicida avvenuto in King George Street a Gerusalemme nel 2002. In quell'attentato oltre a Gadi e Tzipi Shemesh (lui sergente maggiore del IDF lei incinta di due gemelli) morì anche Yitzhak Cohen, padre di sei figli, e vi furono circa 80 feriti....

(Rights Reporters, 15 settembre 2018)


Ecco il messaggio di Israele-Cipro-Grecia a Erdogan. Gas e non solo

di Francesco De Palo

 
Da sin. Nikos Kotzias, Benjamin Netanyahu, Nikos Christodoulides
Compatti sul gas: stop al protagonismo di Ankara e al gasdotto turco. Su Cipro unita Tel Aviv sta con Nicosia. Ma il presidente turco ha in mente una nuova base navale
  I tre messaggi che il trilaterale di Gerusalemme di ieri tra Israele, Cipro e Grecia lancia a Erdogan: ampliare la cooperazione regionale sulla base del gasdotto del Mediterraneo orientale allargandola all'Egitto (dove si svolge il Cda di Eni in queste ore); blocco di tutte le ipotesi di un oleodotto verso la Turchia per cassare le aspirazioni di Ankara di controllare le fonti energetiche della regione e il transito di gas naturale; monito di Netanyahu a tutti i paesi per rispettare le acque territoriali riconosciute a livello internazionale (quindi assist a Nicosia contro Ankara nella controversa partita per la riunificazione di Cipro).

 Gerusalemme
  E' stato un trilaterale articolato e strategico quello andato in scena ieri a Gerusalemme tra il premier Benjamin Netanyahu e i ministri degli esteri di Grecia e Cipro, Nikos Kotzias e Nikos Christodoulides (reduce da una visita ufficiale a Berlino). Il tema in agenda era il gas, lo sviluppo macroregionale dei nuovi gasdotti e l'implementazione delle nuove perforazioni, come quelle previste nella Zona economica esclusiva di Cipro e agganciate ai giacimenti Leviathan e Afrodite.
  I tre players, di fatto, hanno ufficialmente aperto al quarto attore protagonista di questa nuova strategia euromediterranea sul gas, con l'ingresso del Cairo, dove si svolgerà il prossimo vertice.
  Destinatario dell'incontro è la Turchia di Erdogan, che si è messa di traverso su numerosi fronti.

 Cooperazione
  Il tema della cooperazione secondo Netanyahu è propedeutico a tutti gli altri. Tel Aviv sa benissimo che Erdogan continua a intrattenere rapporti diretti con Teheran, senza aver fatto chiarezza sul dossier Isis, come quando insiste nell'attaccare quegli stessi curdi che si sono distinti per una battaglia precisa contro gli adepti dello Stato Islamico.
  Per cui intende rafforzare la cooperazione regionale sull'asse Atene-Nicosia-Tel Aviv sulla base del gasdotto Eastmed. L'allargamento mette definitivamente in gioco l'Egitto, già new player alla voce dossier idrocarburi grazie alle nuove scoperte di Eni (Noor dopo Zohr) e bersaglio degli investimenti degli americani di Apache che hanno recentemente annunciato un aumento dei denari destinati a nuovi progetti energetici.
  E'la ragione per cui, da Gerusalemme, i ministri degli Esteri di Cipro e Grecia proseguono per Il Cairo per colloqui con la controparte egiziana. Il fatto che l'annuncio del viaggio fosse stato fatto mentre Christodoulides e Kotzias erano ancora a Gerusalemme significa verosimilmente che in precedenza avevano voluto discutere alcuni aspetti solo con il Primo Ministro israeliano.

 Ankara
  In secondo luogo hanno voluto chiarire quale sarà lo scenario futuro su cui srotolare il "papiro" di accordi e progetti sui nuovi vettori del gas. Obiettivo è l'intemperanza turca bersagliata dai tre con un no secco all'idea di un oleodotto verso la Turchia. Uno stop che implica, di conseguenza, il non gradimento sulle aspirazioni di Ankara di controllare le fonti energetiche della regione e il relativo transito di gas naturale.
  Erdogan ha in programma a breve l'inizio delle perforazioni nella parte nord di Cipro che i suoi militari hanno abusivamente occupato dal 1974 e che è gli è valso il mancato riconoscimento dell'Onu della fantomatica Repubblica turca di Cipro Nord.
  Ma non è tutto, perché dopo le perforazioni nella parte occupata, vicinissimo alla Zee cipriota, il governo turco ha da sempre rivendicato la possibilità di accedere direttamente alla Zee, che è invece è stata già divisa in blocchi con procedure internazionali e assegnata a soggetti come Total, Exxon ed Eni.
  Netanyahu inoltre non ha dimenticato le parole che gli ha rivolto lo scorso aprile Erdogan ("Israele è uno stato del terrore e Netanyahu è un terrorista") circa la situazione a Gaza, che poi riverbera tutte le frizioni con Teheran e Washington.

 Nicosia
  E'la ragione per cui anche Tel Aviv si schiera dalla parte di Cipro stato membro dell'Ue nella delicata controversa relativa al processo di riunificazione dell'isola, non fosse altro perché Ankara prosegue nell'avanzare richieste territoriali e marine senza alcun appiglio legislativo. Da qui il monito di Netanyahu a tutti i paesi perché rispettino "le acque territoriali riconosciute a livello internazionale".
  Sul punto si registra la volontà dell'Onu di promuovere un'altra conferenza internazionale, dopo lo stallo di quella andata in scena la scorsa primavera in Svizzera, a Cras Montana.
  Lo ha annunciato a margine di un evento di OGEE (la Confindustria femminile cipriota) l'ambasciatore Andreas Mavroyiannis, il negoziatore della parte greco-cipriota. Per cui il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres indicherà a breve data e luogo per il nuovo incontro, anche se le premesse non sono incoraggianti dopo l'ennesimo annuncio-provocazione di Ankara.
  Erdogan infatti è intenzionato a costruire una nuova base navale turca a Cipro nord che è un oggettivo ostacolo alle possibilità di un accordo di riunificazione.
  La mossa si colloca nella stessa direzione intrapresa da Ankara nel luglio 2017, quando i negoziati si erano interrotti perché Turchia aveva rifiutato di rinunciare ai suoi diritti di intervento a Cipro e alla presenza di truppe sull'isola, dove ha 30mila soldati.

(formiche.net, 16 settembre 2018)


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