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Notizie 1-15 settembre 2025


“Il bambino che ho salvato è diventato uno shahid”

La rivelazione straziante di Idan Raichel

di Samuel Capelluto

Un racconto che gela il sangue, un paradosso che rivela tutta la crudeltà della realtà che si vive in Israele, combattendo un nemico avido e atroce: aiutare a salvare una vita, per poi scoprire che quella stessa vita è stata sacrificata sull’altare dell’odio. Il celebre musicista israeliano Idan Raichel ha condiviso in lacrime un ricordo personale che si è trasformato in un incubo.
Durante un’intervista con Dany Kushmaro a N12, Raichel ha raccontato di aver ricevuto da un soldato israeliano una fotografia trovata in una casa di Khan Younis, accanto al poster di un “shahid” (martire) di Hamas. Nella foto, datata 2008, si vede Raichel ancora con le treccine, in piedi accanto a un padre palestinese vicino al letto del figlio neonato. In quel periodo il cantautore collaborava con l’organizzazione umanitaria Save a Child’s Heart, che portava bambini da tutto il mondo in Israele per interventi salvavita di cardiochirurgia.
“Ho ricevuto una foto da Khan Younis, da un soldato che l’ha trovata su un comodino”, ha raccontato. “Nella foto io ho ancora le treccine e sono accanto a un padre, vicino al letto del neonato. In quegli anni facevo parte dell’organizzazione Save a Child’s Heart… a un certo punto hanno iniziato a portare anche molti bambini palestinesi”.
Il ritorno al presente è stato devastante. “Il soldato mi dice: ‘Ascolta, questo padre è un membro di Hamas e quel bambino è diventato uno shahid. Abbiamo il suo poster e la tua foto accanto’”, ha detto Raichel. Sullo schermo dell’intervista è apparsa l’immagine di quel bambino salvato grazie a Israele, oggi ritratto con la fascia verde di Hamas, celebrato come “martire”.
“È agghiacciante. Terribile”, ha proseguito con voce rotta. “Alla fine ho aiutato questa famiglia e quello che ne è venuto fuori è terrorismo e omicidio. È terribile, terribile”. Poi, guardando in camera con gli occhi pieni di lacrime, ha aggiunto: “Fino ad oggi non è stato trovato un “Giusto tra le Nazioni” a Gaza”.
La sua testimonianza ha scosso l’opinione pubblica in Israele. Non si tratta solo di un racconto personale, ma di un simbolo della tragica distorsione che l’odio di Hamas impone anche a chi un tempo ha ricevuto cure, accoglienza e compassione da parte dello Stato e del popolo ebraico.
Mentre a Gaza i terroristi trasformano i propri figli in strumenti di morte, in Israele si difendono e salvano vite. Tornano allora alla mente le parole di Golda Meir, che sembrano scritte proprio per storie come questa: “Avremo la pace con gli arabi soltanto quando ameranno i loro figli più di quanto odiano noi”.

(Shalom, 15 settembre 2025)

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Gece 2025. La cultura dell’odio: Israele e Occidente tra disinformazione e crisi culturale

di Sofia Tranchina

Domenica 14 settembre, nella cornice della Giornata Europea della Cultura Ebraica, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano ha ospitato l’incontro “La cultura dell’odio”, dedicato alla riflessione sull’attuale crescita dell’antiebraismo a livello internazionale.
In collegamento video da Gerusalemme è intervenuta la giornalista e scrittrice Fiamma Nirenstein, Senior Fellow al Jerusalem Center for Public Affairs; a dialogare con lei c’era Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica e da anni voce attenta alle trasformazioni della memoria della Shoah e alle nuove forme di ostilità contro Israele.
L’appuntamento ha offerto una panoramica su un fenomeno che, dopo il 7 ottobre 2023, si è imposto con forza inattesa: il ritorno di un antiebraismo esplicito, diretto, sempre più normalizzato nei media, nelle università e nella cultura popolare.
Fin dalle parole di apertura, è emerso con chiarezza che parlare oggi di antiebraismo non è un esercizio commemorativo, ma una necessità urgente. Le manifestazioni degli ultimi due anni hanno mostrato quanto fragile sia il terreno della democrazia e quanto permeabili siano le società occidentali alla disinformazione.
Romano ha ricordato come, quando il tema delle fake news esplose durante la campagna di Donald Trump nel 2016, i media svilupparono protocolli di fact-checking per arginare la diffusione di falsità. Con la guerra a Gaza, però, quei protocolli sono sembrati abbandonati: molte notizie sono circolate senza alcuna verifica e, quando le smentite sono arrivate, non sono riuscite a smussare l’odio già sedimentato.
Nirenstein ha sottolineato che le nostre società vivono una vulnerabilità culturale gigantesca: non conta più la veridicità dei fatti, ma la loro presentabilità politica e sociale. In questo vuoto si insinua, secondo lei, un declino mentale e morale: dal boicottaggio quotidiano dei turisti israeliani, alle aggressioni a Venezia, fino alla diffusione di libri che descrivono Israele come paese colonialista o fascista.
La giornalista ha ripercorso la sequenza storica della demonizzazione degli ebrei: prima accusati di essere “assassini di Cristo”, poi dipinti come bolscevichi, capitalisti, imperialisti; oggi definiti colonialisti, razzisti, persino “genocidi”. Una catena di etichette che, a suo avviso, mostra la persistenza e l’adattabilità dell’odio.
Accanto a questo, Nirenstein ha denunciato la trasformazione dei diritti umani in “religione dei diritti umani”: non più un terreno concreto di lotta, ma una bandiera politica astratta. I loro paladini, ha osservato, finiscono spesso per contraddire i valori che proclamano, generando un fronte culturale che svuota di significato il concetto stesso di diritti.
Romano ha insistito invece sul ruolo della cultura, che da argine contro l’ignoranza è diventata veicolo di disinformazione. “Un tempo si diceva che l’ignoranza si combatte con la cultura,” ha osservato. “Oggi non è più così”. Le librerie, ha aggiunto, pullulano di testi che descrivono Israele come oppressore e raramente come democrazia da difendere. Alcune critiche sono legittime, ma il quadro complessivo è quello di una propaganda ostile.
Per Romano, l’Occidente deve prepararsi al dopoguerra di Gaza non abbandonando i palestinesi a sé stessi, bensì valorizzando quelle voci che si opponevano a Hamas già prima del 7 ottobre e che potrebbero diventare i leader di domani.
Entrambi i relatori hanno criticato una certa sinistra culturale e politica, rimasta imprigionata in un desiderio performativo di custodire il”bene morale”. Questo zelo etico, hanno affermato, finisce per aprire spazi a un’ideologia ben più aggressiva: quella di Hamas e, più in generale, di un islam politico radicale che non nasconde il proprio progetto di espansione.
Nirenstein ha aggiunto che in Occidente prevale la paura di affrontare questo nodo: “Non si vuole vedere, non si vuole sapere. È lo stesso atteggiamento di chi, durante la Shoah, voltava lo sguardo altrove”. Ha ricordato come i fondi internazionali a Gaza siano stati usati per costruire gallerie del terrore anziché infrastrutture, e come l’Autorità Palestinese paghi stipendi ai terroristi. L’odio, ha detto, passa attraverso strumenti quotidiani: libri di testo che parlano di ebrei da uccidere, cartoni animati dove Topolino viene assassinato da un soldato dell’IDF.
“Non ci si può stupire – ha aggiunto – che poi queste narrazioni arrivino anche in Italia, nei libri di Rula Jebreal o nelle dichiarazioni di Francesca Albanese, che accusano i soldati israeliani di sparare volutamente alla testa e ai genitali dei bambini. Non sono solo fake news: è una cultura violenta che dall’Oriente travolge l’Occidente”.
Uno dei passaggi più discussi ha riguardato il carattere democratico di Israele. Nirenstein ha risposto con fermezza alle accuse di chi lo definisce uno Stato fascista: in Israele la protesta è reale e tollerata. Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per due anni (ma anche prima del 7 ottobre) contro il governo, senza subire repressioni violente. È, ha osservato, la prova di una democrazia viva.
Al tempo stesso, Israele resta un paese che combatte per la propria sopravvivenza. Dall’inizio dell’anno sono stati sventati mille attentati terroristici, in gran parte provenienti dalle zone sotto l’Autorità Palestinese: un dato che racconta la pressione costante sulla società israeliana. Circondato da minacce – Iran, Hamas, Hezbollah, Houthi – Israele deve tenere insieme difesa militare e pluralità politica, dolore collettivo per i rapiti e dibattito interno, mentre in Europa crescono episodi di antisemitismo violento.
L’incontro al Museo della Scienza e della Tecnologia ha restituito l’impressione di trovarsi di fronte a una sfida epocale. L’odio antiebraico non è un residuo del passato, ma un fenomeno vivo, alimentato dalla vulnerabilità culturale dell’Occidente, dalla propaganda radicale nel mondo arabo e dalla crisi del linguaggio dei diritti umani. In un’epoca in cui la sinistra occidentale rischia di smarrirsi dietro la propria ansia di legittimazione morale, e in cui l’islam politico radicale avanza con la forza di un progetto totalizzante, la posta in gioco non riguarda solo il Medio Oriente. Riguarda l’Europa, i suoi valori e la capacità di riconoscere le minacce prima che sia troppo tardi.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2025)

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Voci cristiane per Israele

Lettera della Prof.ssa Sivia Baldi a “L’Informale”

Insieme ad alcune amiche, responsabili di associazioni cristiane filoisraeliane da anni impegnate nella lotta all’antisemitismo, lunedì 8 settembre abbiamo inviato al governo italiano una lettera aperta per sollecitare un più incisivo impegno a tutela della verità, della giustizia e della solidarietà verso Israele. Preoccupate per la crescente distorsione mediatica e approfittando delle ferie, ad agosto – il mese più caldo dell’anno – abbiamo iniziato a lavorare al documento cercando di mettere da parte le differenze e i punti di vista personali per scrivere un testo efficace e condiviso da tutte. Non è stato semplice ma alla fine ci siamo riuscite! 
Il documento richiama ad un più deciso impegno istituzionale che assicuri: «1. la tutela della verità storica e giuridica sulla nascita dello Stato d’Israele, sulle origini del conflitto araboisraeliano e conseguentemente sulla realtà contemporanea ribadendo inequivocabilmente e con la massima urgenza la necessità immediata della liberazione di tutti gli ostaggi e della resa totale e incondizionata di Hamas; 2. il mantenimento di una posizione del Governo chiara e coerente nello scacchiere geopolitico a tutela dello Stato d’Israele e del suo inalienabile diritto all’esistenza; 3. il contrasto attivo a ogni forma di antisemitismo, di distorsione mediatica e di boicottaggio contro Israele e le sue istituzioni continuando inoltre ad assicurare protezione e sicurezza per i cittadini ebrei e i turisti israeliani in Italia». 
Richiamandosi alle radici giudaico-cristiane dell’Europa, il testo prosegue con richieste specifiche al Governo come quelle di: «1. affermare con chiarezza, in tutte le sedi istituzionali e diplomatiche, il diritto di Israele alla legittima difesa contro aggressioni e terrorismo; 2. istituire una Commissione permanente contro la disinformazione filo-terroristica e antisemita, in collaborazione con enti europei e internazionali; 3. promuovere una narrazione pubblica fondata su dati storici e giuridici verificati, contrastando la distorsione mediatica del conflitto araboisraeliano in Medio Oriente; 4. condannare e contrastare ogni forma di boicottaggio verso aziende, istituzioni e iniziative israeliane ed ebraiche, anche con strumenti normativi; 4. tutelare l’incolumità dei cittadini ebrei in Italia, così come quella dei turisti israeliani ed ebrei garantendo la libertà religiosa e la sicurezza contro discriminazioni, odio e violenza; 5. difendere la libertà accademica nelle università italiane tutelando il diritto allo studio degli studenti ebrei e israeliani, e impedire boicottaggi o ideologie discriminatorie che compromettano l’integrità della didattica». 
Non poteva mancare il riferimento biblico del cuore, dal libro della Genesi 12,1-3: Il Signore disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dal tuo parentado, dalla tua casa paterna, al paese che ti indicherò. Farò di te una grande nazione, ti benedirò, renderò grande il tuo nome, sarai una benedizione. Benedirò chi ti benedice, maledirò chi ti maledice; si benediranno in te tutte le famiglie della terra». 
Adesso ci impegniamo alla divulgazione del documento e alla raccolta delle firme.  Chiunque può aderire individualmente inviando una mail ad uno dei seguenti indirizzi:  silviabaldicucchiara@gmail.com oppure firme_sostegno_israele_2025@yahoo.com  
Non possiamo rimanere in silenzio! È tempo di riscatto, innanzitutto per noi cristiani: un’occasione per dimostrare che il nome “cristiano” è qualcosa di cui andare fieri. Ma è anche tempo di riscatto per tutti gli uomini di buona volontà, chiamati a unirsi contro ogni forma di barbarie e contro l’avanzare delle tenebre. Insieme possiamo farcela, a difesa della verità, a difesa d’Israele. Shalom ‘al Israel.

(L'informale, 15 settembre 2025)

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Evangelici antisemiti

Da un fratello in fede che non conoosciamo personalmente, ma che si firma con nome e cognome, riceviamo una mail con il titolo sopra riportato. Con il consenso dello scrivente, ne riportiamo uno stralcio.

«Purtroppo di recente ho sentito tanti della comunità evangelica utilizzare la stessa terminologia adottata dai consueti canali di comunicazione che addita a Israele il genocidio e lo sterminio di massa dei Palestinesi di Gaza. Anche dai pulpiti ormai le parole usate sono quelle. Ma mi chiedo, come si possa arrivare a una tale cecità, a un tale allineamento a una informazione scadente e faziosa, che non sa misurare veramente i dati, fossero anche quelli che arrivano dalla fazione pro-pal,  e tutto quello che accade da quelle parti? Capisco l’antisemitismo come conseguenza dell’inganno e oggi, come in antichità, sempre presente nell’uomo che non vuole allinearsi alla visione di Dio, ma anche tra chi dovrebbe essere illuminato e dovrebbe saper distinguere tra bene e male, non riesco veramente a capire. Per questo non voglio dire che tutto quello che decide il governo di Israele sia adempimento del piano di Dio, anzi, ma penso che un credente abbia il dovere di non lasciarsi trasportare da vani ragionamenti e di cercare di leggere quello che accade lì sempre in ottica escatologica, anche se purtroppo le morti, da entrambe le parti sono reali e non solo profetiche. Ma lo stesso dovrebbe valere anche per le morti in Darfur, in Burkina Faso, in Pakistan, in Thailandia… ma di tutte queste non si parla mai né sui giornali né nelle chiese e non si allestisce nessuna flotilla!» G.M.
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Avvilente, ma non sorprendente. È  il primo commento che si può fare a una comunicazione come questa. È da più di vent’anni che questo sito si occupa non solo genericamente di Israele, ma anche del modo in cui questo argomento è percepito nel mondo evangelico. Avevamo segnalato espressioni di antisemitismo latente e ne avevamo temuto un aggravamento, che poi si bruscamente verificato dopo il 7 ottobre. Nel seguito riportiamo, in forma leggermente ristretta, un articolo pubblicato su “Chiamata di Mezzanotte” a seguito di una conferenza a Torino del 2014.

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Antisemitismo evangelico

di Marcello Cicchese

«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce.
   Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio.
   Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono.
   La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana.
   In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele.
   Non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele?
   La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo.
   Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito a una superiore virtù. E questo ne aumenta la gravità.
   La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.

(Notizie su Israele, 15 settembre 2025)

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La settimana di Israele: da Doha all’“ottavo fronte”

di Ugo Volli

I fattori del successo
  In questi quasi due anni di guerra le vittorie più importanti sono state assicurate a Israele da due strumenti in cui lo stato ebraico è all’avanguardia nel mondo: dal servizio segreto esterno (Mossad) e dall’aviazione. Ma soprattutto, dalla loro piena collaborazione. Ne sono esempi la decapitazione dell’apparato terrorista di Hezbollah con i “cercapersone” esplosivi e i bombardamenti che ne hanno eliminato i vertici compreso il leader carismatico Nasrallah; la “guerra dei dodici giorni” in cui Israele ha colpito pesantemente il programma nucleare dell’Iran e la leadership militare e scientifica che lo stava attuando; i precisi colpi su Siria e Iran che hanno distrutto tanta parte dell’arsenale segreto di Hezbollah e del regime siriano; l’eliminazione di buona parte dei capi Houthi due settimane fa. In tutti questi casi si sono unite l’infiltrazione delle reti di comunicazione, la capacità di individuare con estrema precisione le posizioni e le attività di bersagli molto segreti e protetti, la sorveglianza da vicino e magari l’eliminazione diretta sul terreno. Le abilità tecniche straordinarie dell’aviazione per portare gli aerei israeliani a portata di tiro di obiettivi assai lontani, la precisione e la forza dei colpi, sparati spesso a grande distanza.

L’operazione a Doha
  Secondo indiscrezioni del Washington Post, proprio questa collaborazione sarebbe mancata nell’ultima audace incursione di questa serie, quella della settimana scorsa sulla capitale del Qatar, Doha, che si proponeva di eliminare la cupola dei capi di Hamas riunita a distruggere delle strategie del gruppo. Il Mossad si sarebbe rifiutato di partecipare all’operazione “per non rovinare i rapporti col Qatar” e la mancata guida locale (e l’impossibilità di un successivo attacco da terra in caso di successo incompleto) avrebbe fatto sì che almeno alcuni fra gli obiettivi più importanti si sarebbero sottratti al bombardamento. Questa assenza sarebbe la causa dell’omissione del nome del servizio segreto esterno nei comunicati dopo il bombardamento e la sua anomala sostituzione con quello interno, lo Shin Bet, anche se certamente il Qatar è fuori dalla sua area normale di attività. Si tratta comunque di un segno allarmante della difficoltà di coordinamento delle istituzioni israeliane. In realtà sulla sopravvivenza dei suoi capi per ora abbiamo solo la parola di Hamas, che è sempre propagandistica. Sui giornali si è aggiunta anche l’ipotesi che le bombe usate fossero piuttosto deboli, per non fare danni collaterali, e che per questa ragione non abbiano centrato chi si era allontanato dalla sala di riunione. Inoltre si è molto parlato dell’ipotesi che Trump, attraverso il suo negoziatore Witkoff abbia inoltrato la notizia dell’attacco al governo del Qatar che avrebbe fatto in tempo ad avvertire Hamas. Notizia smentita da più parti, ma non per questo inattendibile: ci sono diversi precedenti di operazioni israeliane non realizzate per questa ragione. Bisogna infine dire che, anche se Israele non è riuscito a eliminare capi terroristi, ha dato un segno concreto di voler dare loro la caccia, come aveva annunciato e ha messo in rilievo la complicità che lega loro il Qatar, oltre a mostrare di nuovo una straordinaria competenza militare: il precisissimo bombardamento sarebbe stato compiuto con missili lanciati dal Mar Rosso, in modo da non invadere lo spazio aereo dell’Arabia Saudita, a una distanza quindi di 1500 chilometri.

La situazione a Gaza
  Se Mossad e aviazione sono stati certamente finora i maggiori fattori di forza di Israele, questa guerra ha mostrato anche di nuovo che solo fanteria e reparti corazzati possono conquistare il territorio e dunque concludere la battaglia. In questo momento infatti il fronte più attivo è ancora Gaza City, quella decina di chilometri quadrati che l’esercito deve finalmente occupare per smantellare le forze terroriste. Per il momento siamo ancora nella fase preliminare: lo sforzo principale è quello di allontanare dall’area urbana gli abitanti civili per non danneggiarli; seguendo le indicazioni israeliane e contro la violenta opposizione di Hamas se ne sono andati per il momento in 250 mila, circa la metà delle persone coinvolte. Per evitare le trappole, bisogna allo stesso tempo distruggere i punti di arroccamento, osservazione e cecchinaggio dei terroristi, in sostanza soprattutto gli edifici più alti. Ne sono stati abbattuti finora una sessantina. Le truppe israeliane avanzano con molta cautela per evitare di subire troppi danni e nei limiti del possibile di colpire gli scudi umani di Hamas. Se le cose procederanno come ora, è probabile che per la data simbolica del secondo anniversario della guerra, fra tre settimane, questa fase di battaglia possa essere chiusa e resti solo da consolidare la vittoria, catturando o eliminando le bande superstiti di Hamas. Si spera che, come sta in parte già accadendo, l’evidenza della sconfitta porti a defezioni da Hamas, permettendo la liberazione dei rapiti.

L’ottavo fronte
  Se Israele continua ad essere in chiaro vantaggio sui sette fronti di guerra (anzi appare “invincibile in questa fase, come ha dichiarato un politico islamista iracheno, insolitamente esplicito), esiste un ottavo fronte, quello della politica internazionale, dei media, dell’opinione pubblica occidentale, su cui invece oggi appare perdente. C’è stato in questa settimana un voto del Parlamento Europeo e uno dell’Assemblea Generale dell’Onu, entrambi solo politici e non esecutivi, ma largamente a favore del “riconoscimento” dell’inesistente “stato di Palestina”, una misura che ha senso solo come rappresaglia contro Israele. C’è stato il boicottaggio annunciato dalla Spagna, decine di atti antisemiti più o meno gravi, per esempio solo in Italia negli ultimi giorni lo striscione contro Israele appeso sulla cancellata della sinagoga di Livorno, le svastiche davanti alla casa di un regista ebreo, la querela e la minacce contro il lavoro di controinformazione svolto dal quotidiano “Il Tempo”, la vera e propria violenza fisica contro una coppia identificata come di origine ebraica a Venezia, eccetera. C’è la sfilata propagandistica della “flottiglia” destinata presto a essere bloccata dalla Marina militare israeliana, che al di là di ogni considerazione politica non può fare eccezioni nella tenuta del blocco di Gaza, perché questo ai termini del diritto marittimo internazionale gli toglierebbe validità giuridica. Non è difficile immaginare che quest’operazione provocherà altre violenze e altra propaganda antisemita a cascata. Israele da solo o solo col mondo ebraico non ha la forza di contrastare questa ondata, la più grave dai tempi della Shoah. Ci vorrebbe un’opinione pubblica davvero democratica, che si rendesse conto della situazione e denunciasse il progetto illiberale, antieuropeo, millenarista, sostanzialmente fascista che motiva questa ondata ancor più fra le masse occidentali che fra quelle musulmane. Ma purtroppo questa coscienza è rara e si può pensare che l’ottavo fronte si calmerà solo quando saranno vinti con chiarezza tutti gli altri sette e in particolare Gaza.

(Shalom, 14 settembre 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 14

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Scontro fra sponsor

    “L’Eterno disse a Mosè: “Vedi, io ti ho stabilito come Dio per Faraone, e Aaronne tuo fratello sarà il tuo profeta. Tu dirai tutto quello che ti ordinerò, e Aaronne tuo fratello parlerà al Faraone, perché lasci partire i figli d'Israele dal suo paese. E io indurirò il cuore del Faraone, e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nel paese d'Egitto. E Faraone non vi darà ascolto; e io metterò la mia mano sull'Egitto, e farò uscire dal paese d'Egitto le mie schiere, il mio popolo, i figli d'Israele, mediante grandi giudizi. E gli Egiziani conosceranno che io sono l'Eterno, quando avrò steso la mia mano sull'Egitto e avrò fatto uscire di mezzo a loro i figli d'Israele”. E Mosè e Aaronne fecero così; fecero come l'Eterno aveva loro ordinato” (Esodo 7:1-6).

Il clamoroso fallimento del primo invio di Mosè al Faraone avrebbe potuto far cambiare idea al Signore: indurlo a rinviare ad altra data l’inizio dell’operazione, o destituire il condottiero incaricato e cercarne un altro. Al contrario, Mosè ebbe una promozione, dovuta non al merito, ma a necessità di guerra. Dal compito di ministro incaricato di trasmettere alla parte avversa una dichiarazione di guerra dell’Ente Supremo, Mosè passò alla carica di rappresentante plenipotenziario dello Stesso nei rapporti col nemico. La formula dell’investitura è contenuta nelle solenni parole di Dio a Mosè: “Io ti ho stabilito come Dio per Faraone”.
  Nella sua prima missione Mosè aveva presentato al Faraone un ordine di Dio, perentorio nel contenuto, ma privo di un ultimatum minaccioso. Il Faraone l’aveva respinto e non ne aveva avuto alcun male. Il male invece era ricaduto tutto sul popolo del Dio che era stato presentato come l’Iddio di Israele e l’Iddio degli ebrei. La deduzione che avrebbe potuto trarne il Faraone è che questo Dio degli ebrei a cui Mosè si riferisce non può sottomettere alla sua volontà gli dei degli egiziani. E con questa convinzione ne aveva respinto con fermezza l’ordine; aveva anzi preso ad opprimere ancora più fortemente il popolo e aveva respinto irosamente le lagnanze dei sorveglianti ebrei. E probabilmente era sicuro di aver risolto il problema e di essersi tolto dai piedi i due sfacciati ebrei che avevano osato importunarlo.
  Dio invece aveva deciso diversamente, e ordinò a Mosè e ad Aaronne di ripresentarsi al Faraone.
  Per i due era un ordine, ma il ritrovarsi di nuovo davanti al Faraone dopo uno scontro nettamente perso, per loro era molto imbarazzante, perché avrebbe significato dover parlare da una posizione di debolezza. Sul piano orizzontale infatti, cioè nel confronto tra umane forze politico-militari, le parti in lotta cercano sempre di trattare da una posizione di forza: e fino a questo punto il più forte si era mostrato essere il Faraone.
  La guerra in corso tra Mosè e il Faraone però non è come tutte le altre, perché è un’espressione della guerra cosmica fra Dio e Satana. E su questo piano il più forte era indubbiamente Mosè. La cosa in qualche modo doveva venir fuori.
  Vedendosi davanti ancora una volta Mosè, il Faraone potrebbe aver pensato che se il perdente ardisce ripresentarsi davanti al vincente, significa che vuole impressionare con la sua sicurezza e indurre a credere che il suo Dio, l’Iddio degli ebrei che lo invia a dare ordini, è più forte del dio degli egiziani che sostiene il Faraone. Come in una partita a poker, se è un bluff, la cosa si vedrà. Dallo scontro che avviene sulla terra si vedrà qual è il più forte tra gli sponsor che operano nel cielo. E alla mossa di Mosè, il Faraone risponde: vedo.
  Il Signore però sapeva che il Faraone avrebbe chiesto una verifica di questo tipo, e allora, prima ancora che i due inviati partano,

    “L’Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, dicendo: “Quando Faraone vi parlerà e vi dirà: 'Fate un prodigio!' tu dirai ad Aaronne: 'Prendi il tuo bastone, gettalo davanti al Faraone, e diventerà un serpente'” (Esodo 7:8-9).

Come previsto, il Faraone chiede un segno.
  I due mettono in tavola la loro carta: Aaronne getta il suo il bastone, che si trasforma subito in un serpente.
  Il Faraone rilancia:

    “Il Faraone a sua volta chiamò i sapienti e gli incantatori; e anche i maghi d'Egitto fecero lo stesso, con le loro arti occulte. Ognuno di essi gettò il suo bastone, e i bastoni diventarono serpenti” (Esodo 7:11-12).

Un solo bastone contro molti bastoni: sembrava proprio che ancora una volta avesse vinto il Faraone. E invece no:

    “il bastone di Aaronne inghiottì il bastone di quelli” (7:12).

Fine della partita.

    “E il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come aveva detto l'Eterno” (7:13).

Significati del preludio magico
  Nei racconti biblici di grande portata, i preludi hanno sempre molta importanza. Spesso contengono segni retroattivi, o anticipatori, o comunque esplicativi di fatti riportati nella Bibbia. Vediamone alcuni per questo caso.

  1. Compare il serpente, cioè l’animale nella cui forma Satana aveva sfidato Dio nella creazione dell’uomo. Adesso vuole sfidare Dio nella creazione del suo popolo. Il serpente di Aaronne che divora i serpenti dei maghi è un segno anticipatorio della finale vittoria di Dio sulle potenze di Satana.
  2. In questa occasione, e anche dopo, nelle due prime piaghe, i maghi egiziani dimostrano di poter fare autentici miracoli. Da qui si vede che Satana ha un potere reale sugli elementi naturali della creazione, anche se limitato dalla volontà di Dio.
  3. Le nazioni pagane, come in questo caso l’Egitto, sono sotto il controllo di potenze demoniache. Ma il popolo che Dio si è formato da Dio, e agisce sotto la Sua autorità, risulta alla fine vittorioso.

C’è un altro fatto in questo preludio che ha un significato importante: la reazione del Faraone.

    “Il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come aveva detto l'Eterno” (7:13).

Il cuore si indurì, o fu l’Eterno a indurirlo? La domanda è lecita, perché più avanti il testo dice:E l'Eterno indurì il cuore del Faraone, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne come l'Eterno aveva detto a Mosè” (Esodo 9:12).
  Va detto però che questo riguarda soltanto la sesta piaga, perché in tutte le precedenti sta scritto che "il cuore di Faraone si indurì" (Esodo 7:22, 8:15, 8:19, 8:32, 9:7). È vero che nel viaggio verso l’Egitto Dio aveva avvertito Mosè:

    “L’Eterno disse a Mosè: “Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al Faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere; ma io gli indurirò il cuore, ed egli non lascerà partire il popolo” (Esodo 4:21),

ma questo avverrà solo dopo che il Faraone avrà visto fare davanti a lui molti prodigi, e nonostante ciò avrà indurito il suo cuore. A un certo punto allora sarà Dio stesso a prendere la decisione di indurire irrevocabilmente il cuore del Faraone.
  Qui c’è per tutti una lezione: nei rapporti con Dio l'uomo deve stare ben attento, perché chi continua a dire NO al Signore che gli parla può raggiungere il punto di non ritorno. Oggi, se udite la sua voce, non indurite il vostro cuore” (Salmo 95:8, Ebrei 3:15).
  In questo preludio si scorge anche un’opera di misericordia di Dio verso il Faraone, perché senza colpirlo e senza fare alcuna minaccia, Dio gli dà una dimostrazione della sua potenza, come per indurlo a non irrigidirsi contro quello che gli viene richiesto di fare, cioè lasciar andare il suo popolo. Ma il Faraone non volle cedere.

Il popolo si sfila, poi si ricrede
  È evidente che in quest’opera di liberazione il regista di tutto è Dio. Tuttavia, nei momenti cruciali la parte umana ha collaborato in forma di ubbidienza.
  All’inizio, dopo il fallimento della prima missione, quando Dio ordinò a Mosè e ad Aaronne di andare di nuovo dal Faraone, “Mosè e Aaronne fecero così; fecero come l'Eterno aveva loro ordinato” (Ebrei 7:6).
  E alla fine, nella notte che precedette l’uscita dal paese, quando Mosè e Aaronne diedero ordini tassativi alla comunità d’Israele su quello che dovevano fare per non essere colpiti dall’angelo e su come avrebbero dovuto ricordare quella notte, la reazione del popolo fu:

    Il popolo si inchinò e adorò. E i figli d'Israele andarono, e fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 12:28).

E anche dopo che furono usciti, quando Mosè e Aaronne diedero al popolo istruzioni su come avrebbero dovuto celebrare la Pasqua, la reazione fu la stessa:

    “Tutti i figli d'Israele fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 12:50).

Questa corale ubbidienza a Dio dei figli d’Israele è il fondamentale “sì” che Israele come popolo presenta a Dio in risposta alla sua offerta di farli “uscire dall'Egitto, dalla casa di schiavitù” (Esodo 13:14). Ed è proprio questo iniziale, sofferto “sì” del popolo che consente a Dio di fargli fare il primo passo nel viaggio che doveva portarlo nella terra destinata alla nazione promessa ad Abraamo.
  Infatti subito dopo si dice:

    “E avvenne che in quello stesso giorno l'Eterno trasse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto, secondo le loro schiere” (Esodo 12:51).

Fu dunque l’Eterno che trasse fuori gli ebrei dall’Egitto. Niente lotte di liberazione, niente leader carismatici: è Dio che fa tutto. E lo fa per i suoi scopi. Ma è parte essenziale dei suoi scopi e dei suoi metodi il coinvolgere gli uomini nella sua azione, senza trascinarli, ma anzi rispettando la sfera della loro libertà, nell’ambito della sua indiscutibile sovranità.
  E per lasciare libertà al popolo, Dio dovette anche accettare che per un certo tempo, dopo il fallimento del primo tentativo di approccio al Faraone, il popolo decidesse di ritirarsi dall’impresa iniziata, rifiutandosi di seguire Mosè.
  Da questo segue un fatto importante. Dopo il fallimento, Mosè dovrà presentarsi di nuovo davanti al Faraone, ma questa volta non potrà più farlo a nome dei figli d’Israele: non potrà dire che li rappresenta, perché da loro non ha ricevuto alcun mandato. Si presenta al Faraone soltanto a nome di Dio. Il mandato per questo però l’ha ricevuto, con le parole stesse del Signore: “Io ti ho stabilito come Dio per Faraone” (7:1).
  Ma il popolo no, i figli d’Israele non hanno rinnovato la loro fiducia in Mosè. E si può capirli. Si può immaginare infatti con quale terrore avranno appreso la notizia che “quei due” vogliono tornare un’altra volta dal Faraone. Se la prima volta era andata così, figuriamoci la seconda! E non avevano tutti i torti. Perché le prime tre piaghe che si abbatterono sull’Egitto colpirono tutti: non solo gli egiziani, ma anche gli ebrei. Solo a partire dalla quarta piaga, quella delle mosche, il Signore decise di fare una distinzione tra ebrei e egiziani:

    “Ma in quel giorno io farò eccezione nel paese di Goscen, dove abita il mio popolo; e lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo” (Esodo 8:22-23).

Chissà quali pensieri avranno avuto allora gli ebrei, sapendo che Mosè e Aaronne stavano litigando col Faraone mentre loro scavavano fosse vicino al fiume per trovare acqua da bere, dal momento che tutte le acque in Egitto erano state cambiate in sangue. E poi hanno visto arrivare rane da tutte le parti, entrare in casa, nelle camere, posarsi sui letti. E poi hanno sentito arrivare le zanzare, che mordono uomini e animali senza possibilità di scampo. Certo, questo accadeva a tutti, anche agli egiziani, ma era una consolazione? Né si poteva pensare che in questa situazione il Faraone avrebbe diminuito il loro il lavoro. Se questa doveva essere la liberazione! Bel risultato: stavano peggio di prima.
  Sarebbero tornati volentieri indietro, se avessero potuto, come avevano tentato di fare i sorveglianti quando erano andati a lagnarsi dal Faraone, non per far uscire il popolo dall’Egitto, come avevano chiesto Mosè ed Aaronne, ma per poter tornare a lavorare come prima, cioè senza che gli ebrei dovessero andare a cercarsi la paglia. Ma anche questo non fu loro concesso. E maledissero Mosè e Aaronne. Se dunque la rottura tra Dio e Mosè si era presto sanata, quella tra Mosè e popolo si era in un primo tempo aggravata.
  Le cose cominciarono a cambiare a partire dalla quarta piaga, quando gli ebrei si accorsero che le loro case, a differenza di quelle degli egiziani, non erano attaccate dalle mosche; e, poco dopo, che tutto il bestiame d'Egitto moriva; ma del bestiame dei figli d'Israele neppure un capo morì” (Esodo 9:6). Era questo il modo in cui Dio si faceva conoscere, sia dagli egiziani, sia dagli ebrei. I figli d’Israele cominciarono a capire qualcosa, il Faraone invece continuava a non voler capire niente.
  Il tremendo ultimatum che Mosè avrebbe dovuto consegnare al Faraone nella sua prima missione, la minaccia di uccidere il suo primogenito se non avesse lasciato andare il suo popolo, non fu più ripetuto nei successivi contrasti. Se non l’ultima volta, e non in forma di ultimatum. Nell’ultimo, drammatico scontro, Mosè non minaccia, ma in veste d’araldo comunica una sentenza:

    “Così dice l'Eterno: ‘Verso mezzanotte, io passerò in mezzo all'Egitto;  e ogni primogenito nel paese d'Egitto morirà: dal primogenito del Faraone che siede sul suo trono, al primogenito della serva che sta dietro la macina, e a ogni primogenito del bestiame. E vi sarà per tutto il paese d'Egitto un grande grido, come non ci fu mai prima, né ci sarà poi. Ma fra tutti i figli d'Israele, tanto fra gli uomini quanto fra gli animali, neppure un cane muoverà la lingua, affinché conosciate la distinzione che l'Eterno fa tra gli Egiziani e Israele. E tutti questi tuoi servitori scenderanno da me, e si inchineranno davanti a me, dicendo: Parti, tu e tutto il popolo che è al tuo seguito!’. E, dopo questo, io partirò’. E Mosè uscì dalla presenza del Faraone, acceso d'ira” (Esodo 11:4-8).

E così fu. Fine di una storia, inizio di un’altra.

(14. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 14 settembre 2025)


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Forze di Israele: "Oltre 250 mila persone hanno lasciato Gaza City"

Colpito un grattacielo

Oltre 250 mila persone hanno lasciato Gaza City, nel nord della Striscia, per rifugiarsi in altre zone del territorio da quando le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno intensificato gli attacchi nel centro urbano più grande dell’enclave. Lo ha fatto sapere il portavoce delle Idf in arabo, Avichay Adraee, in un messaggio su X.
“Vi esorto, per la vostra sicurezza, a prendere la strada Al Rashid e a trasferirvi immediatamente nella zona umanitaria di Al Mawasi e nelle zone libere dei campi profughi centrali (…) dove potrete godere di una risposta umanitaria molto più efficiente, compresi i servizi sanitari”, ha affermato Adraee, rivolgendosi ai civili di Gaza City. Le Idf sono “determinate a sconfiggere (il movimento islamista palestinese) Hamas a Gaza City e stanno quindi intensificando gli attacchi. I tentativi di Hamas di diffondere menzogne e impedirvi di lasciare la città dimostrano la sua disponibilità a mettere a rischio la vostra vita per garantire la propria sopravvivenza”, ha aggiunto il portavoce.
Le Forze di difesa israeliane, guidate dal Comando Sud, hanno colpito un grattacielo “utilizzato” da Hamas nella zona di Gaza City. Lo riferiscono le stesse Idf in una nota su Telegram. “All’interno dell’edificio, Hamas aveva installato infrastrutture militari utilizzate per pianificare ed eseguire attacchi terroristici contro le truppe delle Idf nella zona. Prima dell’attacco sono state prese misure per ridurre i danni ai civili, tra cui avvertimenti alla popolazione, uso di munizioni di precisione, sorveglianza aerea e ulteriori informazioni di intelligence. Le organizzazioni terroristiche nella Striscia di Gaza violano sistematicamente il diritto internazionale e fanno uso militare delle istituzioni civili, utilizzando la popolazione di Gaza come copertura. Le Idf continueranno a operare contro le organizzazioni terroristiche nella Striscia”, si legge nella nota.
Circa mezz’ora prima, le Idf avevano chiesto ai civili “l’evacuazione immediata” del grattacielo Al Noor e delle tende vicine, situate in via Safad, a Gaza City. “Per la vostra sicurezza, siete tenuti a evacuare immediatamente l’edificio dirigendovi a sud verso la zona umanitaria di Al Mawasi”, aveva spiegato il portavoce Adraee in un post su X.

(Nova News, 13 settembre 2025)

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La risoluzione UE su Gaza è uno schiaffo a qualsiasi verità

di Iuri Maria Prado

Ad alcuni la risoluzione del Parlamento europeo intitolata “Gaza al punto di rottura” non è piaciuta perché troppo morbida con Israele. Ad altri non è piaciuta per il motivo opposto, e cioè perché la giudicavano troppo orientata contro lo Stato ebraico. A molti è invece sembrata una buona soluzione di compromesso perché richiamava Israele ai propri doveri, ma senza dimenticare di condannare le forze terroristiche che governano Gaza e, soprattutto, senza accantonare l’esigenza che siano escluse da ogni futuro scenario di ricostruzione della Striscia.

La risoluzione UE su Gaza è uno schiaffo a qualsiasi verità
  Ma tutti – e cioè sia i soddisfatti, sia i delusi per ragioni diverse e opposte – dimostrano di trascurare le ragioni per cui quella risoluzione non dovrebbe piacere proprio a nessuno, perché è uno schiaffo a qualsiasi verità anche quando cerca di affermarne una che piaccia a destra e a manca.
Già l’esordio, riferito alla “carestia”, dovrebbe lasciare perplesso anche chi, giustamente, ha a cuore la situazione umanitaria dei palestinesi. La carestia, infatti, c’è stata nei fogli di propaganda, non nella realtà di Gaza. E i problemi di scarsità alimentare che ci sono stati vanno addebitati a Hamas e alle Nazioni Unite, che hanno boicottato (Hamas anche con le armi) il sistema di distribuzione degli aiuti che aveva fatto fuori il loro monopolio.
La risoluzione è poi priva di senso quando chiede “un cessate il fuoco immediato e permanente”: perché di permanente, oggi, ci sarebbe solo il potere di Hamas (per il cui disarmo difficilmente ci si potrebbe affidare ai buoni propositi dei parlamentari europei).

Tutto da dimostrare
  La risoluzione potrà poi piacere a qualche curva pro-Pal quando deplora la “azione militare indiscriminata” di Israele, ma non è serio che in un documento simile si dia per assunto ciò che è tutto da dimostrare. La morte dei civili costituisce una tragedia, ma non è risarcita sottacendo che Hamas se ne fa scudo né addebitando a Israele di averla voluta. Per non parlare di quando la risoluzione si avventura in ambito giudiziario, esortando gli Stati membri a “ribadire il loro sostegno politico e finanziario” alla Corte Penale Internazionale che si sta occupando di eventuali crimini commessi a Gaza. Nessuno può chiedere agli Stati di sostenerla “politicamente”, salvo credere che il Parlamento europeo promuova l’organizzazione di girotondi stile Mani Pulite per reclamare che i giudici dell’Aia facciano sognare il popolo della causa palestinese.

Quando la risoluzione prende il mare
  Ma il peggio è quando la risoluzione prende il mare spiegando che “sostiene le azioni e le campagne condotte dalle organizzazioni e dagli attivisti della società civile allo scopo di promuovere sforzi concreti per eliminare la carestia a Gaza e porre fine ai crimini ivi commessi”. Ogni riferimento alla “Flotilla” – allegramente composta anche da gente che inneggiava con Hamas alla distruzione di Israele – è ovviamente casuale. Ma anche il boicottaggio degli agrumi israeliani, anche la cacciata degli studiosi ebrei dalle università rappresentano, per gli “attivisti” che vi si impegnano, “sforzi concreti” a favore di Gaza. Va anche a questi il “sostegno” del parlamento europeo?

(Il Riformista, 13 settembre 2025)

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Da Gand a Parigi, cultura e libertà sotto attacco

Non si placa l’eco sul caso di cui è stato suo malgrado protagonista Lahav Shani, il direttore della Filarmonica di Monaco escluso dal Festival delle Fiandre in programma nella città belga di Gand perché israeliano. Tra gli altri Olaf Zimmermann, il direttore esecutivo del Consiglio culturale tedesco, la definisce una decisione «del tutto sbagliata» e condanna chi pretende che gli artisti «si schierino a favore o contro lo Stato in cui vivono o da cui provengono». Frana quindi davanti alla realtà la speranza che «tempi simili fossero finiti». Per l’ambasciatore israeliano a Berlino, Ron Prosor, si tratta di «puro antisemitismo». Il diplomatico ha accusato gli organizzatori della rassegna di aver compiuto un «attacco frontale alla libertà artistica» ed esplicitato con la loro azione il concetto che «gli ebrei non sono benvenuti». Ferma anche la posizione dell’ambasciata tedesca in Belgio, che ha annunciato la fine della sua collaborazione con il festival. Il logo dell’ambasciata è stato così rimosso dal sito web della manifestazione e contestualmente i riferimenti ai concerti sono stati rimossi dai canali social dell’ambasciata.
   È di queste ore anche un’altra allarmante vicenda, denunciata dal Museo d’Arte e Storia del Giudaismo di Parigi (MahJ): cinque ricercatori basati in Francia hanno annullato la loro partecipazione a una conferenza intitolata “Storie ebraiche di Parigi”, in programma il 15 settembre nei locali del museo, perché un programma di ricerca dell’Università Ebraica di Gerusalemme stava finanziando il viaggio di uno studente di dottorato. «Alcuni hanno sostenuto che la loro partecipazione equivaleva a sostenere il governo israeliano», accusa il MahJ in un comunicato. «Altri hanno semplicemente fatto riferimento alla guerra a Gaza per mettere in discussione l’organizzazione della conferenza». Sul caso è tra gli altri intervenuta Rachida Dati, la ministra della Cultura uscente: «Questi ripetuti appelli al boicottaggio di artisti, spettacoli, conferenze e blocchi di locali stanno diventando pretesti per un antisemitismo palese». Secondo Dati, «non è più una questione di opinioni, ma di giustizia e di politica penale».

(moked, 12 settembre 2025)

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L’istigazione all’odio nei libri scolastici palestinesi

di Nathan Greppi

Nel suo libro La Palestina nei testi scolastici di Israele, la filologa e attivista di estrema sinistra israeliana Nurit Peled-Elhanan sostiene che i testi destinati alle scuole in Israele abbiano veicolato un’immagine “disumanizzante” dei palestinesi, sedimentando in tal modo nell’opinione pubblica la legittimità di determinate decisioni dei governi israeliani.
Più di recente, il quotidiano Il Manifesto ha sostenuto che nei libri scolastici italiani viene minimizzata l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Nel sostenere ciò, si contesta il fatto che Gerusalemme venga riconosciuta come capitale d’Israele, dimenticando che questa è la realtà dei fatti: a Gerusalemme hanno sede il governo, la Knesset (il parlamento) e la Corte Suprema. Anche se la maggior parte dei paesi riconosce Tel Aviv come capitale, Gerusalemme lo è “de facto”, in quanto ospita le sedi di tutti i principali organi amministrativi, legislativi e giudiziari del paese.

Libri di testo palestinesi
  La tesi secondo cui siano gli israeliani a disumanizzare i palestinesi per giustificare i soprusi nei loro confronti non tiene conto del fatto che, dall’altra parte, i testi scolastici utilizzati nelle scuole palestinesi disumanizzano costantemente non solo gli israeliani, ma anche gli ebrei come popolo.
Per fare un esempio di questo fenomeno, già nel settembre 2019 uno studio condotto dall’organizzazione no-profit israeliana IMPACT-SE, che si occupa di monitorare i libri di testo usati in Medio Oriente, ha rivelato che i materiali di studio utilizzati nei territori palestinesi e previsti per l’anno scolastico 2019-2020 contenevano propaganda antisionista e, in alcuni casi, anche antisemita, oltre ad inneggiare alla jihad e al martirio.
In un libro di matematica compariva questo esercizio: “Il numero di martiri della Prima Intifada è di 2026 martiri, e il numero di martiri dell’Intifada di Al-Aqsa è di 5050. Il numero di martiri delle due Intifade è di ____ martiri.” In un altro testo, invece, si tessevano le lodi del terrorista Dalal Al-Mughrabi, responsabile del Massacro della Strada Costiera, avvenuto nel 1978 a Tel Aviv e che provocò la morte di 38 persone, inclusi 13 bambini.
Lo studio di IMPACT-SE ha anche fornito dei dati: su 1509 riferimenti a Israele nel curriculum scolastico, il 93,5% non si riferivano ad esso con il suo vero nome, ma con termini dispregiativi quali “occupazione sionista”, “occupazione”, “sionisti” ed “entità sionista”. Israele veniva chiamata per nome solo nel restante 6,5% dei casi.
Proprio al terrorista Al-Mughrabi, negli anni 2010 era stata intitolata una scuola elementare a Hebron, finanziata tramite donazioni provenienti dal Belgio. Anche per questo e altri episodi analoghi, nel 2018 il governo belga aveva deciso di interrompere i finanziamenti destinati alle scuole palestinesi. Mentre nel maggio 2025, il Parlamento Europeo ha congelato i fondi destinati all’Autorità Nazionale Palestinese per l’istigazione all’odio nei suoi libri di testo per le scuole.

Insegnanti fanatici
  Talvolta non sono solo i libri di testo ad incitare l’odio tra i bambini palestinesi, ma anche gli insegnanti: stando ad un rapporto pubblicato nell’agosto 2021 da UN Watch, associazione no-profit con sede a Ginevra, nelle scuole palestinesi gestite dall’UNRWA erano più di 100 gli insegnanti che istigavano alla violenza e all’odio sia contro gli israeliani che contro gli ebrei in generale.
Nello specifico, erano state raccolte 113 immagini di post pubblicati sui social da vari membri del personale UNRWA, che in alcuni casi incitavano all’uso della violenza anche tra i bambini. UN Watch aveva analizzato solo quelli che si identificavano pubblicamente come membri del personale dell’agenzia, e pertanto ipotizzava che il numero reale dei dipendenti con atteggiamenti apertamente violenti fosse molto più alto.
Per fare un esempio, Nahed Sharawi, insegnante di matematica in una scuola UNRWA a Gaza, sui social aveva condiviso un video che riprendeva Adolf Hitler, dicendo che lo faceva “per arricchire e illuminare le vostre menti e pensieri”. Mentre Husni Masri, che insegnava in una scuola in Cisgiordania, diffondeva teorie secondo le quali gli ebrei avrebbero creato il Covid-19, e avevano intenzione di distruggere l’Islam e dominare il mondo. Nei suoi post, se la prendeva con i cosiddetti “massoni sionisti”, sostenendo che “possiedono il 90% di tutto l’oro del mondo” e “controllano la Banca Mondiale”.
È curioso che Sharawi accusasse i sionisti di controllare la Banca Mondiale, quando questa annovera tra i suoi dipendenti Massimiliano Calì, marito dell’inviata speciale dell’ONU Francesca Albanese e già consulente del Ministero dell’Economia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Nei suoi post sui social, anch’essi analizzati da UN Watch, Calì dimostra di avere posizioni non meno estreme della moglie, piene di odio nei confronti d’Israele e di giustificazione dei terroristi palestinesi.

(InOltre, 12 settembre 2025)

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Chiamami col tuo nome: quando l’antisionismo getta la maschera e attacca tutti gli ebrei

Dalle aggressioni fisiche agli ebrei riconoscibili per strada fino ai divieti negli alberghi, dai graffiti con svastiche ai social che amplificano odio e slogan importati dal conflitto mediorientale: in Italia l’antiebraismo non si nasconde più dietro l’antisionismo, ma si esprime apertamente come colpa collettiva.

di Sofia Tranchina

Per misurare quanto l’antisemitismo in Italia stia superando i freni del dopoguerra e trasformandosi sempre più in attacchi e discriminazioni concrete, basta un dato: per raccontare gli episodi registrati durante l’estate ho dovuto restringere il campo a quelli accaduti da metà luglio in poi — e neppure tutti. Altrimenti, l’elenco sarebbe diventato interminabile. È questa, oggi, la gravità della situazione.
Scorrendo le cronache delle ultime settimane, emerge una verità semplice e inquietante: agli ebrei viene attribuita una colpa collettiva. Poco importa quale, poco importa l’individuo. E non si tratta di “antisionismo”.
A dimostrarlo ci sono i due episodi gemelli di Venezia, l’ultimo avvenuto appena qualche giorno fa. In entrambi i casi, una coppia di turisti ebrei si godeva la notte salmastra passeggiando per le calli, senza nascondere kippah o altri simboli identitari. La normalità di una serata veneziana si è trasformata in paura nel momento in cui gruppi di aggressori hanno deciso di colpirli, soltanto perché riconoscibili come ebrei.
La prima aggressione risale all’8 agosto: due turisti americani sono stati insultati, spintonati, colpiti con sputi e bevande, minacciati di morte e persino attaccati con un cane aizzato contro di loro. Il marito è finito a terra, il telefono distrutto dai denti dell’animale; la moglie, incinta di cinque mesi, si proteggeva la pancia terrorizzata.
Il 7 settembre è accaduto di nuovo. Un’altra coppia, anch’essa chiaramente ebrea, è stata inseguita e accerchiata da una decina di uomini di origine magrebina al grido di “Free Palestine” e insulti antisemiti. Anche qui, dalle parole si è passati subito ai fatti: schiaffi, un cane aizzato contro di loro, una bottiglia di vetro che ha ferito la donna a una caviglia. Tra gli aggressori identificati, un tunisino residente a Modena e due uomini ora destinati al rimpatrio.
E non è solo Venezia. Il 27 luglio, in un autogrill vicino Milano, un padre e un figlio ebrei francesi sono stati presi di mira. Dalle offese filmate con un telefonino — “assassini, tornatevene al vostro paese, qui non siamo a Gaza” — si è rapidamente passati ai calci e agli spintoni. Il padre è stato scaraventato a terra, sotto lo sguardo spaventato del bambino.
Questi episodi non sono schegge isolate, ma tasselli di deriva che corre veloce. Una deriva alimentata da dichiarazioni pubbliche che finiscono per legittimare la logica della colpa collettiva. C’è chi, come Giuseppe Conte, ha chiesto agli ebrei italiani di dissociarsi da Israele, come se dovessero guadagnarsi l’innocenza. E c’è chi va oltre, vedendoli colpevoli a prescindere.
Tra questi Luca Nivarra, docente universitario di giurisprudenza che a fine agosto, in un post su Facebook, ha mostrato con chiarezza la china del dibattito pubblico: invitava a togliere l’amicizia a tutti gli ebrei — anche quelli “buoni”, ovvero quelli che si dichiarano disgustati dalle azioni del governo israeliano e dell’Idf, perché certamente “mentono”. La colpa ebraica non può essere lavata da comportamenti o opinioni personali. Sei ebreo e morirai ebreo, e in quanto tale, persona non grata.
Un messaggio dello stesso tenore è arrivato, in privato, al consigliere comunale di Milano Daniele Nahum. «I vostri genitori sono colpevoli di avervi messi al mondo perché siete dei parassiti», gli ha scritto qualcuno.
È il segno di uno sdoganamento del linguaggio: slogan e cornici belliche importati dal conflitto in Medio Oriente diventano passepartout identitari, trasformando il lessico della protesta in stigmatizzazione dell’ebreo in quanto tale, non della politica israeliana.
C’è chi ancora si nasconde dietro la maschera dell’antisionismo, come dimostrano i poster comparsi a Milano in estate con la scritta “Israeli not welcome”, o i cartelli che vietavano l’ingresso a “israeliani e sionisti” esposti a Milano fino a quello del bar a Termoli che recitava “in questo locale è vietato l’ingresso agli israeliani”. Ma c’è anche chi non si preoccupa più di fingere: il 25 agosto ad Alghero è apparsa la scritta “ebreo razza bastarda”, mentre a Montigo un architetto ha denunciato la comparsa ripetuta di graffiti come “ebrei di merda”.
Quando l’attacco diventa personale, l’escalation è ancora più grave. Il 5 agosto a Milano, sulla porta di casa di una famiglia ebraica è stata incisa la frase “ebrei bastardi”, accompagnata da due svastiche.
Le svastiche hanno colpito anche a Roma la sede del Keren Kayemeth LeIsrael, mentre a Milano graffiti che equiparavano la stella di David alla svastica sono apparsi in varie vie e davanti agli uffici di Forma International, casa di produzione indipendente di Ruggero Gabbai che realizza documentari spesso legati a temi ebraici.
Gli attacchi non risparmiano nemmeno chi si limita a parlare di Israele. Il 22 agosto, cinque giornalisti de Il Tempo hanno ricevuto una lettera di minacce di morte firmata da un gruppo di anarchici: «servi del potere, morirete». A Caserta, sulla montagna di San Michele, accanto a una lapide commemorativa, qualcuno ha appeso un cartello dal macabro italiano: «Hitler ne ha rimasti molti di ebrei».

Libertà di espressione? O violenza e minacce?
  La domanda torna sempre: dove finisce la libertà di espressione? Permettere che si diffondano pubblicamente messaggi che colpiscono gli israeliani come popolo, e ancor più gli ebrei in quanto colpevoli di una “colpa atavica”, significa rendere sempre più pensabile — e quindi sempre più praticabile — l’attacco contro chi è identificato o identificabile come ebreo. Un fenomeno alimentato dagli intolleranti, ma che si allarga anche ai conformisti e agli opportunisti, con il silenzio distratto di chi osserva senza reagire.
Come nota Pasqualino Trubia su Osservatorio Antisemitismo, la strumentalizzazione del conflitto mediorientale dà sfogo ai “rigurgiti di odio in Europa”, rimasti repressi dopo la Seconda guerra mondiale. Un odio che gli algoritmi dei social non fanno che amplificare, perché «premiano le urla, non le ragioni. E l’odio urla sempre più forte».
E dagli algoritmi si passa facilmente alle “performance” dell’idiozia premiata: in agosto due operatrici sanitarie hanno diffuso un video in cui gettavano nel cestino farmaci Teva, prodotti da un’azienda israeliana, invitando al boicottaggio. Un gesto tanto clamoroso quanto insensato, visto che si trattava di beni sanitari pubblici. Come ha ricordato l’esperto farmaceutico Levy de Rothschild, Israele rappresenta solo lo 0,2% della popolazione mondiale ma contribuisce a circa il 10% della ricerca medica globale: «chi propone un boicottaggio scientifico o industriale verso Israele lo fa a discapito della salute di tutti». Le due, travolte dalle polemiche, hanno poi diffuso un secondo video in cui mostravano i farmaci ancora intatti e chiedevano scusa.
L’odio, dunque, non resta confinato alla strada. Lo si ritrova nei boicottaggi grotteschi che non risparmiano neanche turismo e cultura.
Alberghi in Sicilia e Sardegna hanno respinto turisti israeliani, imponendo loro di “condannare il governo” per poter soggiornare. A Porto Pino, un residence lo ha persino scritto sul sito: chi si presenterà con documenti israeliani dovrà dichiarare di ripudiare il proprio governo e l’esercito. A Ragusa, una struttura ha chiesto a una turista israeliana di cancellare la prenotazione se non avesse condannato Israele. Il titolare, Andrea Leanza, si è difeso sostenendo che non si tratti di razzismo, ma di un’opposizione “a tutte le guerre”. Eppure difficilmente manderebbe la stessa richiesta a visitatori provenienti da altri Paesi in conflitto.
Il clima si ripete altrove: a Chia, un cartello in ebraico in spiaggia scoraggiava l’arrivo dei turisti israeliani indicati come “criminali di guerra”. Il 5 settembre, un’azienda di taxi per disabili ha negato il servizio a una turista israeliana in sedia a rotelle, “per prendere posizione contro Israele”.
Nel frattempo, il gruppo Venice4Palestine tentava di ostacolare la presenza di artisti israeliani alla Mostra del Cinema di Venezia.
Così, mentre molti dichiarano la propria solidarietà ai palestinesi — spesso in un legittimo sforzo morale di attenzione verso un popolo che ha sofferto e soffre — non mancano gli eccessi speculari: c’è chi inneggia a un nuovo genocidio ebraico o auspica un attacco nucleare su Israele. Del resto, da due anni nelle piazze italiane si lasciano risuonare slogan come “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, una formula violenta che richiama un Levante judenfrei e l’annientamento di Israele. Lo stesso slogan è stato adottato a fine agosto da tre alpinisti, che hanno aperto una nuova via battezzandola “Dal fiume al mare” (ovvero il territorio di Israele dove oggi vivono due milioni di arabi israeliani e sette milioni di ebrei israeliani) e dedicandola “ai palestinesi che combattono contro i sionisti”, una dedica dai toni violenti che inneggia alla lotta armata.
Un grido che, dalle strade ai cortei, dai bar ai manifesti affissi a Milano, fino alle insegne di locali e mercerie, viene ripetuto senza troppa cognizione di causa. Quello che sta emergendo è un clima che normalizza la discriminazione e trasforma slogan e simboli in atti concreti di esclusione, intimidazione e violenza. È un antisemitismo che non ha più bisogno di travestimenti, che non distingue individui e opinioni, e che si alimenta di silenzi e complicità. Per questo, più ancora delle svastiche sui muri o delle scritte sui social, il pericolo maggiore è la rassegnazione: l’idea che tutto questo possa essere tollerato come parte del paesaggio.

(Bet Magazine Mosaico, 12 settembre 2025)

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Riconoscere lo Stato palestinese: troppo presto?

di Gabriel Venezia e Daniele Steinhaus

Storia di uno Stato palestinese mancato
  Il tema del riconoscimento di uno Stato palestinese è di interesse pubblico già dal 1947, anno della decisione da parte delle Nazioni Unite di spartire il territorio dell’ex Palestina britannica in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo e la Città di Gerusalemme. Mentre le autorità ebraiche riconoscevano di buon grado la spartizione proposta dalle Nazioni Unite, nota come Risoluzione 181, costituendosi il 14 maggio 1948 nello Stato d’Israele, le potenze arabe della zona rigettarono tale decisione, dichiarando guerra al neonato Stato ebraico. Con la conseguente sconfitta, per i palestinesi che vivevano nel territorio è venuta meno anche la possibilità di ottenere una propria nazione.
Tale impedimento si era venuto a creare dopo il 1949 a causa della conquista israeliana di alcuni territori, ma anche per effetto dell’occupazione militare egiziana a Gaza e dell’occupazione giordana nella West Bank e a Gerusalemme Est. Infatti, le autorità del Cairo e di Amman, annettendo i suddetti territori alle rispettive entità territoriali, amministrarono direttamente le zone occupate, non consentendo la fondazione dello Stato palestinese.
Nel maggio 1964 numerose personalità politiche del mondo arabo si radunarono a Gerusalemme Est per fondare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il suo organo legislativo, il Consiglio Nazionale Palestinese (PNC). Il PNC e l’OLP decisero di adottare come Costituzione la Convenzione Nazionale Palestinese, modificata nel 1968 e nel 1996. La Carta riconosceva come confini dello Stato palestinese quelli del mandato britannico (Art. 2), negando il diritto degli ebrei di essere nazione (Art.6) e legittimando la lotta armata (Artt. 9, 10, 12, 15).
La guerra dei Sei Giorni nel 1967, terminata con la vittoria d’Israele, ha comportato l’estromissione dell’Egitto e della Giordania da Gaza e dalla West Bank, decretando la conquista israeliana della totalità della Palestina storica, con anche le alture del Golan siriano e il Sinai egiziano, e la creazione di insediamenti in tutto il territorio.
Successivamente alla Guerra dello Yom Kippur del 1973, nel 1979 Israele ed Egitto resero pubblico il loro primo accordo di pace, favorito dagli USA e frutto degli accordi segreti di Camp David dell’anno precedente. Di fatto, l’accordo del 1979 segnò il primo atto di riconoscimento d’Israele da parte del mondo arabo, a cui seguirono l’accordo del 1994 con la Giordania e gli accordi di Abramo nel 2020 con Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, poi estesi a Marocco e Sudan.

Accordi di Oslo e le problematiche dell’assetto politico
  Solo nel 1988, quarantuno anni dopo la risoluzione ONU per la spartizione della Palestina mandataria e un anno dopo l’inizio dell’Intifada, il Consiglio Nazionale Palestinese ad Algeri proclamò l’indipendenza dello Stato di Palestina. I politici israeliani e i rappresentanti dell’OLP decisero di cercare un’intesa, la quale fu raggiunta provvisoriamente con la firma degli accordi di Oslo del 1993 e 1995. Il processo di pace prevedeva clausole come il riconoscimento reciproco, la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), il ritiro parziale delle forze israeliane e l’organizzazione di elezioni democratiche palestinesi.
Nel 1995 furono aggiunte altre clausole in materia di sicurezza e di spartizione territoriale, attraverso la divisione della West Bank in 3 aree:
-Area A: territorio sotto il pieno controllo palestinese;
-Area B: territorio sotto il controllo civile palestinese e gestione della sicurezza congiunta con Israele;
-Area C: territorio sotto il pieno controllo israeliano.
Le elezioni all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese sono state proclamate in due sole occasioni dalla stipulazione degli accordi di Oslo ad oggi, nel 1996 e nel 2006. In quegli anni si sono susseguiti governi israeliani di diverso schieramento politico, i quali hanno restituito territori all’ANP allo scopo di adempiere agli obblighi previsti dagli accordi di pace. Nel 2005 Israele si ritirò unilateralmente dalla striscia di Gaza, affidandone il controllo ai palestinesi, che nelle elezioni del 2006 votarono in massa per Hamas. Tendenza diversa per la West Bank, dove i palestinesi si affidarono ad Al Fatah, il partito più rappresentativo dell’OLP.
Nonostante l’ascesa del movimento integralista a Gaza e l’aumento delle tensioni, Israele tentò di rilanciare gli accordi di Oslo in due fasi distinte: nel 1999-2000 e nel 2006-2008. Nella prima fase la parte israeliana presentò una proposta che prevedeva il ritiro di Israele da gran parte della Cisgiordania e di Gaza, la creazione di uno Stato palestinese e una limitata autonomia per alcune aree di Gerusalemme Est. Tuttavia, la proposta escludeva il controllo palestinese sulla Città Vecchia di Gerusalemme e non contemplava il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. L’ANP rifiutò l’offerta, giudicandola insufficiente e sbilanciata. Il vertice si concluse senza accordi e poche settimane dopo, nel settembre del 2000, esplose la Seconda Intifada, segnando una grave escalation del conflitto.
La seconda fase vide la proposta israeliana di una bozza di accordo nota come “Piano Olmert”. La proposta prevedeva:
-La creazione di uno Stato palestinese sulla quasi totalità della Cisgiordania;
-Una divisione di Gerusalemme, con la Città Vecchia affidata a un’amministrazione internazionale;
-Il riconoscimento simbolico del diritto al ritorno dei rifugiati, ma con un numero limitato di ingressi in Israele.
Tuttavia, Abbas non diede seguito alle trattative e anche quell’occasione sfumò.
Tra il 2006 e il 2007 scoppiò una guerra intestina tra Hamas e Al Fatah, che si risolse con l’estromissione dell’ANP da Gaza. In seguito, Hamas ha imposto con la forza un dominio autoritario sulla Striscia di Gaza, trasformandola in una roccaforte militare e in una base per lanciare attacchi contro Israele. In più occasioni ha fatto partire intensi lanci di missili contro il territorio israeliano, culminati nell’attacco efferato del 7 ottobre 2023, guidato direttamente dal movimento terroristico.

Lo Stato palestinese oggi
  A settembre 2025, 147 membri delle Nazioni Unite, lo Stato Vaticano e il Sahara Occidentale hanno riconosciuto la legittimità dell’Autorità Nazionale Palestinese come rappresentanza del proprio popolo. Gli ultimi membri dichiaratisi aperti al riconoscimento dello Stato palestinese sono Gran Bretagna, Canada, Francia e Malta. Il presidente francese Emmanuel Macron già a luglio aveva annunciato l’intenzione di attendere l’Assemblea Generale dell’ONU per riconoscere lo Stato palestinese, come risposta alla guerra fra Israele e Hamas.
Ma esattamente, Francia, Canada e Gran Bretagna che Stato hanno intenzione di legittimare?

La statualità nel Diritto internazionale
  La condizione di Stato (in inglese, statehood) è stata ed è tutt’ora argomento di dibattito tra gli studiosi del diritto internazionale, ossia quella branca del diritto che si occupa del rapporto tra gli Stati. A seguito della formazione degli Stati moderni, si è incominciato a riflettere su quali possano essere i requisiti che un Paese deve possedere per considerarsi tale.
È importante sottolineare che l’ottenimento della personalità giuridica di Stato, nell’attuale scenario giuridico internazionale, non è un atto puramente simbolico, scevro da conseguenze rilevanti. Uno Stato difatti, ha la capacità di sottoscrivere trattati vincolanti con uno o più Paesi, vantando diritti e adempiendo ad obblighi nei confronti della comunità internazionale.
Nel corso del tempo si sono formate due teorie circa l’esistenza degli Stati: la teoria costitutiva e la teoria dichiarativa.
I sostenitori della prima ritengono che uno Stato si possa definire tale una volta che uno o più Paesi ne riconoscano l’esistenza. Tale teoria risulta problematica poiché si rivelerebbe eccessivamente soggettiva, potendo qualunque Stato attribuire tale qualità a qualsiasi tipo di entità, con tutte le conseguenze legali a cui si è sopra accennato.
Invece, la teoria dichiarativa, attualmente maggioritaria, ritiene che il riconoscimento consista in un mero atto politico di uno Stato, con il quale lo stesso dichiara sussistenti i requisiti di legge affinché possa formarsi uno Stato. Però secondo questa teoria, è importante ribadirlo, sostenere che uno Stato esista non significa che ci sia realmente.
La principale fonte giuridica in materia di statualitá è la Convenzione di Montevideo (1933), la quale all’art. 1 afferma che uno Stato possiede congiuntamente le seguenti qualità:
– Una popolazione permanente;
– Un territorio ben definito;
– Un governo;
– La capacità di relazionarsi con altri Stati.
Di seguito si analizzeranno sinteticamente i requisiti di legge con riferimento alla possibile esistenza di uno Stato palestinese controllato dall’Autoritá Nazionale Palestinese (ANP).
- Una popolazione permanente
La nozione di popolazione è tradizionalmente definita come “insieme di individui di entrambi i sessi che vivono assieme come comunità, nonostante possano appartenere a etnie o credi differenti”. Per dotarsi del requisito di permanenza, invece, vi deve essere l’intenzione di stabilire la residenza all’interno del Paese e di essere riconosciuti come abitanti del luogo. Si ritiene che la legge non richieda che la popolazione sia indigena, ossia originaria del territorio.
Si tratta del requisito più agevole da soddisfare. La popolazione della Palestina è infatti identificata dall’attuale Statuto ANP chiaramente negli individui che ivi risiedono, così come è innegabile che almeno parte della popolazione abbia ivi stabilito la propria residenza permanente.
- Un territorio ben definito
Per soddisfare questo requisito è necessario che il territorio dell’aspirante Stato, su cui esso esercita la propria sovranità, sia delimitato da elementi fisici riconoscibili da parte di terzi. Tale criterio è stato tuttavia storicamente disatteso, essendosi verificato che uno Stato si fosse formato nonostante l’esistenza di dispute territoriali sui suoi confini.
Con riferimento allo Stato palestinese, i Paesi europei e non europei che si sono prodigati nel suo riconoscimento hanno implicitamente riconosciuto la sovranità su Gaza e sulla West Bank.
Tuttavia, vi sono incertezze circa l’esercizio della sovranità da parte dello Stato della Palestina su un territorio definito. Sebbene la delimitazione del territorio non sia un requisito necessario, è indiscutibile che maggiore è l’indeterminatezza del territorio, più l’esistenza dello Stato può essere messa in discussione. Inoltre, gli Accordi di Oslo affermano chiaramente che i confini attuali dei Territori palestinesi sono solo provvisori e saranno oggetto di future negoziazioni.
Pertanto, non solo il territorio è attualmente indeterminato, essendo la presenza palestinese a Gaza e nella West Bank frammentata e non contigua, ma non vi è neppure un solido fondamento legale per l’esercizio della sovranità sui suddetti territori.
- Un governo
Tale requisito richiede che lo Stato sia dotato di un governo efficace ed indipendente, in grado di controllare il territorio ove esercita la propria sovranità.
Tale principio legale può certamente dirsi non soddisfatto con riferimento allo Stato palestinese.
Nello scenario politico attuale, infatti, i Territori palestinesi sono controllati da due entità distinte, l’ANP e Hamas. Si tratta, infatti, di due organizzazioni che predicano teorie politiche alquanto distanti: se l’ANP sostiene che il popolo palestinese abbia il diritto di prendere decisioni che influenzino la vita quotidiana nei territori, Hamas invece afferma un tipo di società fortemente teocratico, basato sull’autorità di Dio e su una radicale interpretazione del Corano.
Ne segue che, ironicamente, il maggiore ostacolo al riconoscimento della Palestina trova la sua causa nelle dinamiche interne ai territori, ossia nell’incapacità del popolo palestinese di eleggere una compatta classe dirigente. Inoltre, l’ipotetico governo dell’ANP mancherebbe anche del requisito dell’indipendenza, essendo l’Autorità Palestinese limitata nell’esercizio dei suoi poteri dai già citati Accordi di Oslo.
- La capacità di relazionarsi con gli altri Stati
Tale criterio è forse il più importante, richiedendo che lo Stato in formazione abbia la capacità legale di sottoscrivere trattati internazionali e di tener fede alla parola data. Inoltre, lo Stato non deve essere controllato da entità o Paesi stranieri, che ne minino l’influenza e l’indipendenza. Contrariamente a quanto spesso si sostiene, il riconoscimento non è condizione sufficiente per garantire il rispetto del principio legale di cui sopra.
Nello scenario politico attuale permangono dubbi circa la capacità legale di un ipotetico Stato palestinese di relazionarsi con altri Paesi. Se, come già accennato, l’Autorità palestinese detiene poteri limitati e quindi non una piena capacità legale di sottoscrivere accordi bilaterali con altri Stati, un ipotetico Stato guidato da Hamas, solleva perplessità circa il grado di indipendenza da potenze straniere, quali l’Iran.

L’integrità territoriale di Israele
  Come più volte asserito, il riconoscimento di uno Stato ha un valore meramente politico e non legale, pertanto, esso non si qualifica come requisito necessario affinché si determini uno Stato (articolo 3 della Convenzione di Montevideo).
D’altra parte, però, merita una riflessione quanto sancito dall’art. 2 della Carta ONU, il quale afferma che tutti gli Stati Membri devono desistere dalla minaccia e dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato.
Come noto, nella società palestinese esistono frange estremiste, le cui rivendicazioni territoriali non si limitano a Gaza e alla West Bank, ma si estendono a territori appartenenti ad Israele.
Ciò premesso, il riconoscimento di uno Stato palestinese in una forma tanto indeterminata sotto il controllo di gruppi politici estremisti, potrebbe integrare una violazione dell’articolo 2 della Carta ONU, qualificandosi come una lesione dell’integrità territoriale di Israele.

In conclusione
La formazione dello Stato palestinese presuppone dunque il soddisfacimento di determinati requisiti, che non si possono dire integrati. Pertanto, appare ad oggi prematuro parlare di uno Stato. L’eventuale formazione di un Paese dipenderà dal futuro scenario politico internazionale, in cui giocherà un ruolo importante il popolo palestinese e la sua capacità di generare una classe politica competente e preparata per intraprendere un percorso di pace e progresso.

(Shalom, 12 settembre 2025)

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Voci da Israele, oggi: Guerra e normalità o normalità della guerra? Occupazione o ostaggi?

di Anna Balestrieri

L’incontro organizzato dall’Associazione Italia Israele di Milano il 9 settembre 2025 ha offerto uno spaccato intenso e sfaccettato della realtà israeliana odierna, segnata da una guerra che sembra non conoscere tregua e da una società che si interroga sulla propria tenuta morale e politica. Guidati dalla moderazione di Davide Assael, Rav Michael Ascoli e Jonathan Sierra hanno intrecciato due registri differenti ma complementari: quello etico-filosofico e quello pragmatico-politico.

La voce di Rav Michael Ascoli
Rav Ascoli ha posto al centro del suo intervento il peso morale che grava su Israele: la sofferenza dei civili palestinesi e la corrosione dell’anima israeliana sono, a suo avviso, due facce della stessa realtà. Il rabbino ha ricordato l’esistenza di un codice etico elevatissimo all’interno delle Forze di Difesa Israeliane, sottolineando tuttavia la difficoltà di mantenerlo in un contesto come Gaza, dove l’asimmetria del conflitto logora anche la coscienza.
Un punto forte della sua analisi è stata la denuncia della “normalizzazione” di fenomeni che fino a poco tempo fa sarebbero stati considerati inaccettabili: dal terrorismo dei coloni in Cisgiordania, sempre più tollerato e persino incoraggiato, all’attacco alle istituzioni democratiche israeliane – giustizia, stampa, società civile, scuola. Per Ascoli, Israele ha senso solo se resta fedele a diritto e giustizia: perdere questo ancoraggio significherebbe svuotare di senso l’intero progetto sionista.

La voce di Jonathan Sierra
  Se Rav Ascoli ha parlato in termini di principi, Sierra ha portato il terreno dell’analisi nella concretezza delle piazze, delle famiglie, delle cifre. Il suo intervento si è concentrato sulla questione degli ostaggi, cuore pulsante della società israeliana da quasi un anno.
Sierra ha ricordato i numeri – quante persone sono state liberate, quante uccise, quante rimangono in mano a Hamas – e ha descritto con forza la lacerazione che attraversa la società israeliana: da un lato chi sostiene la continuazione della guerra fino alla caduta di Hamas, dall’altro chi chiede un cessate il fuoco per salvare almeno chi è ancora vivo. Entrambe le opzioni, ha osservato, sono “lose-lose”: la vittoria militare rischia di coincidere con la morte degli ostaggi, mentre il negoziato può indebolire Israele sul piano strategico.
Sierra ha parlato anche delle manifestazioni antigovernative, molto più partecipate di quanto dicano i dati ufficiali, e delle divisioni interne alle famiglie degli ostaggi. Ha poi allargato lo sguardo ai rapporti con il mondo arabo e all’occasione mancata rappresentata da figure moderate come Salam Fayyad, rapidamente marginalizzate dalla scena politica palestinese.

Punti di convergenza
  Entrambi i relatori hanno insistito sul rischio di una deriva autoritaria e di una “guerra normalizzata”: uno Stato che perde i suoi principi etici o che misura la propria vittoria sul sacrificio dei più vulnerabili (gli ostaggi) è uno Stato che rischia di consumarsi dall’interno.
Non è mancata l’attenzione alle responsabilità esterne: la propaganda di Hamas che trova terreno fertile in Europa, l’influenza del Qatar nei media e nelle università, la difficoltà dell’Occidente a cogliere la minaccia iraniana. Allo stesso tempo, è stata sottolineata la necessità di guardare anche oltre l’Occidente, verso un dialogo con quei Paesi arabi che hanno già mostrato disponibilità al confronto pragmatico.
L’incontro ha restituito un’immagine complessa di Israele: un Paese che vive “tra guerra e normalità”, con cittadini che continuano a discutere, a manifestare, a cercare soluzioni mentre i missili cadono e gli ostaggi attendono. La domanda che ha attraversato la serata – occupazione o ostaggi? guerra o pace? – non ha trovato risposte definitive, ma ha messo a nudo l’urgenza di scelte che non possono essere rimandate.
Più che fornire soluzioni, Rav Ascoli e Jonathan Sierra hanno mostrato l’essenza stessa del dibattito israeliano: un intreccio di dolore, pragmatismo, memoria e speranza.

(Bet Magazine Mosaico, 12 settembre 2025)

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Omicidio Kirk, proiettili con “dedica” e balletti sui social per festeggiare il cecchinaggio

Sui social, sotto i post che ne parlano, è facile imbattersi anche in chi festeggia con balletti e musichette la sua morte. Dopo il ritrovamento del fucile il movente è sempre più chiaro.

di Pasquale Ferraro

Morire a trentuno anni in un campus universitario con la sola colpa di esercitare il proprio diritto alla libertà di espressione, dovrebbe accendere un campanello d’allarme in una società come quella americana dove la violenza politica non è una novità, e neanche un prodotto dell’attuale radicale contrapposizione che dal 2016 gli Stati Uniti vivono.
La storia politica americana è in parte una storia violenta, fatta di sangue, e di vittime spesso innocenti. Basta elencare tutti i presidenti caduti durante i loro mandato, la violenza della campagna elettorale del 1968 dove caddero Martin Luther King e Robert Kennedy, l’attentato a Reagan e la miriade di attentati sventati dal secret service e dalla FBI di cui forse non sapremo mai nulla. Del resto non è un mistero svelato da Hollywood quello della squadra dei servizi segreti chiamata a indagare e discernere le migliaia di minacce che ogni presidente riceve e capire quali siano il frutto di menti ottenebrate ma innocue e quali invece provengono da soggetti con l’indole di passare dalla semplice minaccia ai fatti. Non è un dettaglio che il sangue, quello di Abramo Lincoln abbia macchiato gli Stati Uniti dopo la fine del confitto interno che dilaniò la giovane nazione, segnando con il sangue l’unità ritrovata.
Il sangue che bagna le strade d’America non è una invenzione del cinema western, ma l’immagine priva di architettare romantiche e moderne di una nazione estrema nella sua più profonda interiorità. Per questo un certo stupore per l’emergere della violenza, se intimamente e umanamente legittimato, appare storicamente alquanto forzato. Se a questo si aggiunge il clima d’odio che da tempo promana da quegli stessi ambienti pronti ad inginocchiarsi per chiunque purché non corrisponda al profilo della vecchia America Wasp e neanche della giovane America latina, la spiegazione di come possa accadere quello che ieri è avvenuto alla Utah Valley University è evidente e purtroppo tristemente lontano dall’esaurirsi con questo ennesimo atto violento dall’epilogo drammatico.
E sbirciando i social alla notizia della morte di Charlie Kirk era facile imbattersi anche in chi festeggiava con balletti e musichette la morte di un uomo, di un padre di famiglia, bianco, cristiano, conservatore e etero sessuale. Il movente del delitto è sempre più chiaro, dopo il ritrovamento nella boscaglia intorno al campus del fucile – utilizzato per colpire a morte Kirk – e delle munizioni su cui erano incisi slogan antifascisti e di ideologia transgender.
Nessuno si inginocchierà per Charlie Kirk nei salotti televisivi, negli stadi e nelle competizioni olimpiche. E forse è giusto così, perché Charlie Kirk era figlio di una cultura che non ama inginocchiarsi se non davanti a Dio e che per le proprie idee è pronta a morire, ma in piedi, e cosi del resto Charlie è morto, non zittendo qualcuno, o impedendo la libertà di altri, ma dialogando, esercitando quella libertà che oggi è merce rara e diritto vietato a chi non si piega o inginocchia ad un pensiero unico che ha finito per annichilire anche quelle università un tempo – anche nei momenti più cupi e grami – isole di libertà. Morire cosi, per esercitare la propria libertà nel cuore di un’università è forse nella sua tremenda drammaticità il ritratto vivo, come fosse un Goya, dell’epoca che viviamo e come sosteneva il celebre artista spagnolo: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.

(Il Riformista, 12 settembre 2025)

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Netanyahu rende omaggio a Trump con una nuova passeggiata sul lungomare a Bat Yam

La città sulla costa mediterranea riceve la “Trump Promenade”, un chiaro segnale politico.

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Il 10 settembre, a Bat Yam, è stata posata con una cerimonia solenne la prima pietra di una nuova passeggiata sul lungomare, che in futuro porterà il nome di “Trump Promenade”. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha definito il presidente degli Stati Uniti Donald Trump “il miglior amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”.
Netanyahu ha ricordato che Trump ha sottolineato più volte l'importanza delle regioni costiere di Israele. In particolare, la Striscia di Gaza, situata a sud, dovrebbe essere, secondo Netanyahu, alludendo alle parole dell'ex presidente degli Stati Uniti, un luogo di pace, prosperità e buona vita, e non un luogo di terrore.
Alla cerimonia erano presenti anche l'ambasciatore statunitense Mike Huckabee, il sindaco di Bat Yam Tzvika Brot e i membri del consiglio comunale. Netanyahu ha invitato il sindaco a intitolare ufficialmente il lungomare a Trump.
Nel suo discorso, il primo ministro ha elogiato diverse decisioni di Trump che, a suo avviso, hanno rafforzato l'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti: il trasferimento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme e il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan, il ritiro degli Stati Uniti dall'accordo nucleare con l'Iran e il deciso sostegno a Israele nella lotta contro l'Iran e Hamas. Netanyahu ha anche sottolineato l'impegno di Trump per il rilascio degli ostaggi israeliani.
La nuova passeggiata a Bat Yam fa parte di un più ampio piano di sviluppo costiero volto ad aumentare l'attrattiva della regione. Con la scelta del nome, la città vuole anche lanciare un segnale politico: ricorda un presidente americano che, agli occhi di molti israeliani, ha preso decisioni storiche a favore dello Stato ebraico. Netanyahu ha approfittato della cerimonia per sottolineare ancora una volta che queste misure hanno rafforzato in modo duraturo l'amicizia tra Israele e gli Stati Uniti.

(Israel Heute, 12 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Aggressione antisemita (con rottweiler) al grido di “Free Palestine”

VENEZIA - Nella notte tra 7 e l’8 settembre una coppia di ebrei – lui americano, lei israeliana – è stata aggredita a Venezia da una decina di cittadini nordafricani al grido di “Free Palestine”. Nel gruppo di aggressori, subito fermati dalle forze dell’ordine e in parte identificati, c’è chi avrebbe aizzato contro la coppia il proprio rottweiler privo di museruola e lanciato una bottiglia di vetro. Tra le ipotesi di reato, mentre sono scattate le prime denunce, ci sono minaccia aggravata dall’istigazione o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. L’episodio è avvenuto nelle vicinanze di un chiosco in Strada Nuova.
Già ad agosto una coppia di ebrei americani aveva denunciato un’aggressione con modalità simili. Per la Comunità ebraica veneziana, che in una nota definisce l’atto “vile” e “ignobile”, fatti come questo «ci interrogano sul ruolo di Venezia città dell’accoglienza, mentre emerge un clima di intolleranza che oggi colpisce tutta la collettività». Allo stesso tempo la Comunità riconosce «il ruolo fondamentale delle istituzioni» e l’impegno delle forze dell’ordine «nella tutela di ogni libertà contro ogni forma di discriminazione».

(moked, 11 settembre 2025)

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Israele piange Charlie Kirk

Il commentatore cristiano conservatore era una voce decisa a favore di Israele. Netanyahu: Abbiamo perso un “amico coraggioso”.

di Ryan Jones

Il commentatore e attivista cristiano evangelico americano Charlie Kirk è stato assassinato mercoledì durante un discorso in un evento pubblico, provocando immediatamente un'ondata di cordoglio in Israele e nella comunità ebraica americana.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito Kirk un “coraggioso amico di Israele” che “ha combattuto le menzogne e ha difeso con fermezza la civiltà giudaico-cristiana”. Bibi ha detto di aver parlato con Kirk solo poche settimane fa e di averlo invitato a visitare Israele. “Purtroppo questa visita non avrà luogo”.
Pochi minuti dopo la sparatoria alla Utah Valley University, mentre le équipe mediche lottavano ancora per salvare la vita di Kirk, Netanyahu ha twittato che pregava per il cristiano, così come molti altri membri del suo gabinetto.
L'ambasciatore israeliano all'ONU Danny Danon ha pianto la perdita di un “amico e leader straordinario. La sua voce unica ha influenzato molti giovani negli Stati Uniti e ha lasciato un segno indelebile su un'intera generazione”.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha osservato che Kirk era stato uno dei pochi ad avere il coraggio di mettere pubblicamente in guardia dalla pericolosa “collaborazione tra la sinistra globale e l'Islam radicale”. Ben-Gvir ha ringraziato Kirk “per il tuo sostegno a Israele e per aver lottato per un mondo migliore”.
Charlie Kirk era diventato molto famoso in Israele negli ultimi anni per aver affrontato pubblicamente e discusso con attivisti filopalestinesi e sostenitori di Hamas.
Anche la comunità ebraica americana ha pianto la perdita di una voce cristiana così forte.
L'American Jewish Committee ha dichiarato di essere “profondamente sconvolto e indignato per l'omicidio di Charlie Kirk”.
La Republican Jewish Coalition ha descritto Kirk come un “caro amico” del popolo ebraico e “una luce splendente in questi tempi difficili per la comunità ebraica americana”.
La Coalition for Jewish Values ha sottolineato che l'omicidio non è stato un atto insensato, ma un “omicidio calcolato per mettere a tacere una delle voci più potenti d'America a favore della moralità e della verità”.
StandWithUS ha scritto di essere “profondamente grato per il sostegno impegnato di Charlie a Israele e al popolo ebraico, nonché per la sua chiara opposizione all'antisemitismo”.

(Israel Heute, 11 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Graffiti e feci, ulteriori attacchi alle sinagoghe nel mondo

In un quartiere di Londra con una vasta comunità ebraica, ignoti hanno spalmato escrementi sui muri e sul citofono di una sinagoga. Mentre in un sobborgo di Chicago un individuo non identificato ha imbrattato il parcheggio di una sinagoga con un simbolo fallico e la scritta “hate jews” su una parete dell’edificio.

di David Fiorentini

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La crescente ondata di antisemitismo che sta colpendo l’Europa e il mondo occidentale non accenna a fermarsi. Dalla violenza verbale online agli episodi di vandalismo contro luoghi di culto ebraici, si moltiplicano i segnali di un clima di odio che desta forte preoccupazione nelle comunità e nelle istituzioni.
A Golders Green, un quartiere di Londra con una vasta comunità ebraica, ignoti hanno spalmato escrementi sui muri e sul citofono di una sinagoga. La polizia metropolitana ha confermato l’apertura di un’indagine per “danno criminale aggravato da motivazioni religiose”, ma senza ancora aver rintracciato i responsabili.
Nello stesso periodo, sull’altra sponda dell’Atlantico, la polizia di un sobborgo di Chicago sta cercando l’autore di un altro atto vandalico di matrice antisemita compiuto il 31 agosto presso la sinagoga Or Shalom di Vernon Hills. Intorno alle 20:30, un individuo non identificato ha imbrattato il parcheggio con un simbolo fallico e la scritta “hate jews” (“odio gli ebrei”) su una parete dell’edificio.
 Ciò nonostante, dalle Comunità colpite traspare ancora resilienza e speranza, a partire dalle parole del rabbino americano Ari Margolis.
“L’atto codardo di chi ha imbrattato le nostre mura per farci sentire soli e impauriti sta avendo l’effetto opposto”, ha commentato su Facebook. “Sto ricevendo messaggi da tante persone, da leader religiosi, membri della comunità, polizia locale e politici: tutti ci dicono che quelle scritte non parlano a loro nome, che restano al nostro fianco e difendono il nostro diritto a essere noi stessi e a radunarci in sicurezza. Questo gesto, che voleva essere una maledizione, si sta trasformando in una benedizione grazie all’amore che ci state dimostrando”.

(Bet Magazine Mosaico, 11 settembre 2025)

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L’Europa sanziona Israele, ma non può fare a meno delle sue armi

di Sarah G. Frankl

Tra scene di distruzione e fame a Gaza e il bombardamento di questa settimana in Qatar, i leader europei minacciano sanzioni contro Israele e stanno riconsiderando i legami con il loro miglior alleato in Medio Oriente.
Ma nonostante tutta la loro indignazione – compresa la spinta alla creazione di uno Stato palestinese e alcune limitate restrizioni alla vendita di armi – un settore che non hanno toccato è quello dell’industria della difesa israeliana, che vale miliardi di dollari. Gli eserciti europei sono i maggiori acquirenti di armi e sistemi di difesa di fabbricazione israeliana, con un valore di 8 miliardi di dollari (6,8 miliardi di euro) lo scorso anno, pari a poco più della metà delle esportazioni, e la domanda è destinata a crescere.
Sotto la spinta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i membri della NATO in Europa si sono impegnati ad aumentare la spesa per la difesa al 5% del PIL annuo entro il 2035, rispetto al requisito del 2% in vigore dal 2014, un obiettivo che ha assunto maggiore urgenza dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Questo obiettivo potrebbe essere difficile da raggiungere senza Israele, le cui tre maggiori aziende del settore della difesa sono profondamente integrate nelle loro economie e nelle catene di approvvigionamento militare.
“Il sentimento nei confronti di Israele può essere negativo, ma i clienti in Europa e altrove cercano di acquistare i migliori prodotti possibili e non si può ignorare il fatto che i sistemi israeliani sono collaudati in combattimento”, ha affermato Elad Kraus, responsabile della ricerca presso la Meitav Brokerage Services Ltd. con sede a Tel Aviv. “Sarebbe difficile esercitare pressioni su Israele attraverso le sue industrie della difesa, vista la domanda globale alle stelle”.
I tre giganti della difesa israeliani – Elbit Systems Ltd., Rafael Advanced Defense Systems Ltd. e Israel Aerospace Industries – non vendono solo in Europa, ma operano sul territorio attraverso filiali e partnership con aziende locali. Secondo due alti funzionari della difesa israeliani che hanno parlato a condizione di rimanere anonimi, indipendentemente dall’opinione pubblica contraria a Israele, il vecchio continente continuerà probabilmente ad acquistare i prodotti da Israele.
Questa dipendenza complica gli sforzi europei per persuadere Israele a porre fine o almeno a sospendere la sua campagna a Gaza, iniziata dopo la sanguinosa invasione dei terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. Da allora l’offensiva israeliana ha distrutto gran parte della Striscia, sfollando quasi tutti i suoi 2 milioni di abitanti.
In tutto l’Occidente si sono svolte manifestazioni contro la condotta di Israele nella guerra, con alcuni che hanno specificatamente chiamato in causa gli appaltatori della difesa del Paese. Gli stabilimenti europei di proprietà delle aziende di difesa israeliane sono stati vandalizzati, compreso lo stabilimento di Elbit a Ulm, in Germania.
Gli incidenti verificatisi presso gli stabilimenti Elbit nel Regno Unito sono stati attribuiti al gruppo di protesta Palestinian Action, che il governo del primo ministro Keir Starmer ha etichettato come organizzazione terroristica nel mese di luglio. Ciò ha portato l’azienda israeliana a mantenere segrete alcune delle sue sedi nell’Unione Europea.
Elbit gestisce 40 filiali in tutto il mondo, di cui almeno la metà in Europa, secondo un portavoce. Gli stabilimenti nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e in Romania sono stati recentemente ampliati a causa della crescente domanda. L’azienda con sede ad Haifa impiega circa 2.000 lavoratori in tutto il continente, pari a circa il 10% della sua forza lavoro, e gestisce una scuola di volo in Grecia che forma cadetti provenienti da diversi paesi dell’Unione Europea.
L’anno scorso, le vendite di Elbit in Europa sono raddoppiate rispetto al 2021, raggiungendo 1,8 miliardi di dollari. Ad agosto, l’azienda ha annunciato il più grande accordo della sua storia: un contratto da 1,6 miliardi di dollari con un paese europeo non specificato per un periodo di cinque anni.
L’azienda statale israeliana Rafael, nota per i suoi sistemi di difesa missilistica Iron Dome e Iron Beam basato su laser, vende e produce missili attraverso la joint venture tedesca Euro Spike GmbH, in collaborazione con Diehl Defense e Rheinmetall Group. Lo scorso anno, i ricavi di Rafael sono stati equamente suddivisi tra il mercato interno e quello globale, con l’Europa che ha rappresentato il 45% delle sue vendite internazionali.
Rafael sta lavorando per costituire altre joint venture in Germania: Euro Dome, per il sistema di difesa missilistica Iron Dome, ed Euro Spyder, per il suo sistema di difesa aerea mobile a corto e lungo raggio.
La decisione del cancelliere tedesco Friedrich Merz del mese scorso di vietare la spedizione di armi che potrebbero essere utilizzate a Gaza ha dimostrato quanto stia crescendo l’opposizione europea alla condotta di Israele. Tuttavia, le restrizioni, che riguardavano i pezzi di ricambio per i carri armati e altri beni legati alla difesa, si applicavano solo alle esportazioni e non alle importazioni o ad altre collaborazioni.
L’impatto è stato ulteriormente attenuato questa settimana con l’emergere dei piani tedeschi di acquistare tre droni Heron da Israele per quasi 1 miliardo di euro.
Tuttavia, c’è stata una certa opposizione al boom del commercio di armi. Due funzionari israeliani hanno riferito a Bloomberg che recentemente alcuni ministeri degli Esteri europei hanno chiesto ai responsabili degli acquisti di sospendere gli acquisti da Israele fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco a Gaza.
Un funzionario del ministero della Difesa israeliano, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto che i suoi omologhi in Europa gli stanno dicendo di porre fine alla guerra in modo che sia più facile continuare gli affari.
Un alto dirigente di una delle più grandi aziende israeliane nel settore della difesa, parlando anch’egli in forma anonima, ha affermato che un numero crescente di clienti europei sta chiedendo che i colloqui sui futuri ordini siano tenuti segreti. Ma un secondo alto dirigente ha sostenuto che i processi di approvvigionamento sono lunghi e non saranno influenzati da quello che ha definito un problema temporaneo.
Un’altra azienda di proprietà del governo israeliano, la IAI, co-sviluppatrice e produttrice del sistema di difesa aerea Arrow, ha ricavato i due terzi dei ricavi dello scorso anno dalle vendite all’estero. L’affare più grande mai concluso dall’azienda è stata la vendita del sistema Arrow 3 alla Germania nel 2023 per circa 4,3 miliardi di dollari.
Come Elbit e Rafael, anche IAI sta cercando di espandere le proprie operazioni sul territorio europeo. Lo scorso anno ha acquisito la greca Intracom Defense “per rafforzare le proprie capacità commerciali in Grecia e in Europa”, secondo una dichiarazione della società.
“Nonostante il clamore globale contro Israele, il ritmo degli ordini da Rafael è aumentato di anno in anno”, ha dichiarato l’amministratore delegato Yedidia Yaari al quotidiano economico israeliano Calcalist il 28 agosto. “Non è stato cancellato nemmeno un progetto o un ordine. Anche se alcuni progetti hanno subito un leggero rallentamento, ritengo che, una volta terminata la guerra a Gaza, torneremo molto rapidamente alla normalità”.

(Rights Reporter, 11 settembre 2025)

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Lo Sheba Medical Center è tra gli ospedali più ‘smart’ al mondo

di Jacqueline Sermoneta

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Lo Sheba Medical Center

Tecnologie all’avanguardia, imaging digitale, telemedicina, robotica e Intelligenza Artificiale nel settore sanitario. Lo Sheba Medical Center di Tel HaShomer si posiziona al nono posto nella prestigiosa classifica degli ospedali più ‘intelligenti’ al mondo, ‘World’s Best Smart Hospitals 2026’, sottolineando la leadership d’Israele anche nel campo dell’assistenza sanitaria. A stilare l’elenco, il settimanale statunitense ‘Newsweek’ in collaborazione con Statista.
   Il ranking si basa sulla valutazione di 350 eccellenze ospedaliere in tutto il mondo in base a criteri come l’implementazione di tecnologie mediche avanzate. La Mayo Clinic a Rochester, Minnesota, è al primo posto, seguita da altri sette ospedali statunitensi. Solo altri due centri sono riusciti a entrare nella top 10: lo Sheba Medical Center in Israele e il Charité – Universitätsmedizin Berlin in Germania.
   Presenti nella lista anche altre quattro eccellenze ospedaliere israeliane, oltre allo Sheba: Tel Aviv Sourasky Medical Center (125mo posto), Hadassah Ein Kerem (171), Rambam Health Care Campus (254) e Rabin Medical Center (270).
   “Il riconoscimento della rivista Newsweek sottolinea il ruolo del sistema sanitario come forza creativa, guida ed esempio – ha affermato il Prof. Yitshak Kreiss, direttore dello Sheba Medical Center. – L’innovazione medica di Sheba e la rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale che stiamo guidando nel settore sanitario, non sono solo una risorsa nazionale, ma anche potenti motori di crescita per la società e l’economia israeliane e la prova che il futuro di Israele risiede nella sua creatività e nella sua eccellenza”
   Lo Sheba ha recentemente collaborato con Paradigm Health per sviluppare una piattaforma basata sull’Intelligenza Artificiale per la gestione degli studi clinici. L’iniziativa mira a snellire il processo di fattibilità dei trial, semplificare l’arruolamento dei pazienti, monitorando i dati clinici, e aumentare l’accesso a trattamenti sperimentali all’avanguardia. Sheba prevede che entro due anni la piattaforma aumenterà le sperimentazioni cliniche internazionali di oltre il 50%, attirando significativi investimenti globali e offrendo ai pazienti un accesso più rapido a terapie personalizzate.

(Shalom, 11 settembre 2025)

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La resa dei conti a Doha

di Gregg Roman

Le esplosioni che hanno infranto la calma mattutina nel distretto di Katara a Doha il 9 settembre 2025 hanno segnato il ripristino della chiarezza morale nella guerra. Per quasi due anni, dai massacri del 7 ottobre, la leadership di Hamas aveva orchestrato il genocidio dalla comodità dei lussuosi hotel del Qatar, protetta dalla finzione dell’immunità diplomatica e dallo scudo di un presunto alleato americano. L’attacco preciso di Israele contro questi architetti del terrore rappresenta l’applicazione di un principio antico quanto la giustizia stessa: chi pianifica un omicidio di massa non può rivendicare asilo in nessuna parte del mondo.
L’operazione è stata pulita. Professionale. Necessaria. E avrebbe dovuto essere portata a compimento anni fa.
Le guerre finiscono quando una delle due parti perde la volontà o la capacità di continuare a combattere. Per Hamas, questo calcolo è stato distorto dalla concessione da parte del Qatar di un santuario extraterritoriale dove la sua leadership poteva dirigere le operazioni, gestire le finanze e pianificare attacchi rimanendo fisicamente lontana dalle conseguenze. Questo vantaggio – in base al quale Khalil al-Hayya, Khaled Mashal e i loro luogotenenti hanno potuto assistere allo svolgersi del 7 ottobre in televisione dagli attici di Doha, mentre le famiglie israeliane bruciavano vive nelle loro case – rappresenta una perversione sia della guerra che della diplomazia che nessuna nazione civile dovrebbe tollerare.
Il principio in gioco trascende le immediate preoccupazioni di Israele in materia di sicurezza. Quando il Qatar si è trasformato in un centro di comando a cinque stelle per il terrorismo, ha sfidato l’architettura fondamentale dell’ordine internazionale. Il sistema post-westfaliano presuppone che gli Stati non forniscano sedi operative a gruppi dediti alla distruzione genocida di altri Stati. L’accoglienza di Hamas da parte del Qatar dal 2012 ha infranto questo presupposto, creando un precedente in base al quale le nazioni ricche potevano sponsorizzare il terrorismo mantenendo rispettabilità diplomatica attraverso ambiguità strategiche e leva energetica.
Si consideri la grottesca asimmetria: mentre i combattenti di Hamas usavano i civili di Gaza come scudi umani nei tunnel sotto gli ospedali, la loro leadership politica godeva della protezione della sicurezza dello Stato del Qatar. Mentre i riservisti israeliani abbandonavano le loro famiglie per mesi di guerriglia urbana, i decisori di Hamas tenevano conferenze stampa da sale da ballo climatizzate di hotel. Mentre i civili palestinesi a Gaza soffrivano sotto il brutale governo di Hamas e la risposta militare di Israele, i principali responsabili di questa sofferenza rimanevano intoccabili nelle loro case sicure di Doha.
Questa biforcazione di responsabilità – in cui coloro che ordinano atrocità rimangono immuni dalle loro conseguenze – corrompe il concetto stesso di guerra. Incentiva la massima violenza con il minimo rischio personale, creando rischi morali su scala di civiltà. L’attacco di Israele ha ripristinato il principio secondo cui la leadership implica vulnerabilità, e che coloro che scelgono la guerra devono condividerne i pericoli.
Da una prospettiva puramente militare, il quartier generale di Hamas a Doha rappresentava quello che Carl von Clausewitz avrebbe definito un “centro di gravità”: una fonte di forza la cui eliminazione altera radicalmente le dinamiche del conflitto. L’ufficio svolgeva molteplici funzioni cruciali che hanno sostenuto la capacità bellica di Hamas molto tempo dopo che la sua infrastruttura militare a Gaza era stata decimata.
In primo luogo, forniva capacità di comando e controllo impossibili da mantenere nelle condizioni di assedio a Gaza. Comunicazioni sicure, trasferimenti finanziari criptati, coordinamento diplomatico con i delegati iraniani: tutto ciò richiedeva l’infrastruttura tecnologica e la protezione politica che solo uno Stato sponsor poteva fornire. Ogni razzo lanciato da Gaza, ogni tunnel scavato sotto il Corridoio di Filadelfia, ogni video di ostaggi diffuso per tormentare le famiglie israeliane risaliva a decisioni prese e a risorse stanziate da Doha.
In secondo luogo, l’ufficio di Doha ha permesso a Hamas di mantenere la finzione della legittimità politica pur perseguendo obiettivi genocidi. Trattando i funzionari di Hamas come rappresentanti diplomatici piuttosto che come comandanti terroristi, il Qatar ha permesso loro di interagire con utili idioti nelle capitali occidentali, organi di stampa favorevoli e organizzazioni internazionali che altrimenti li avrebbero evitati. Questa legittimità si è tradotta direttamente in vantaggi operativi: approvvigionamento di armi sotto copertura diplomatica, reclutamento attraverso reti “umanitarie” e diffusione di propaganda attraverso canali rispettabili.
In terzo luogo, e forse il punto più critico, la protezione del Qatar ha permesso a Hamas di preservare la sua leadership dall’attrito che tipicamente degrada le organizzazioni terroristiche nel tempo. Mentre Israele eliminava sistematicamente i comandanti di Hamas a Gaza – da Mohammed Deif a Marwan Issa – il cervello strategico dell’organizzazione è rimasto intatto a Doha, garantendo la continuità della pianificazione e della memoria istituzionale. Questo accordo ha reso funzionalmente impossibile sconfiggere Hamas solo con mezzi militari, poiché l’organizzazione poteva semplicemente recuperare le perdite tattiche, mentre la sua leadership strategica rimaneva intoccabile.
L’attacco del 9 settembre ha infranto questa garanzia di protezione. Dimostrando che i leader di Hamas sono vulnerabili persino nel cuore di una ricca capitale del Golfo, Israele ha ripristinato l’elemento di rischio personale che limita il comportamento estremista. Il messaggio è inequivocabile: scegli il terrore e scegli di vivere come un bersaglio, indipendentemente dal governo che ti offre rifugio.
La finzione secondo cui il Qatar svolgerebbe il ruolo di mediatore neutrale nel conflitto israelo-palestinese si è completamente dissolta dopo il 7 ottobre. Le prove della trasformazione di Doha da facilitatore diplomatico a promotore attivo del terrorismo sono debordanti e schiaccianti.
Iniziamo dalla dimensione finanziaria. Dal 2012, il Qatar ha trasferito circa 1,8 miliardi di dollari a Gaza, con pagamenti mensili in contanti di 30 milioni di dollari che sono proseguiti fino alla vigilia del 7 ottobre. I funzionari del Qatar hanno insistito sul fatto che questi fondi servissero a scopi umanitari: pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici, fornire aiuti alle famiglie povere, acquistare carburante per la produzione di energia. Eppure, l’intelligence israeliana ha documentato il dirottamento sistematico di questi fondi verso l’ala militare di Hamas, con valutazioni dello Shin Bet che indicano che milioni di dollari sono andati direttamente alle Brigate Qassam per l’acquisto di armi e la costruzione di tunnel.
L’accordo funzionava con un cinismo sbalorditivo. Valige letteralmente piene di denaro contante arrivavano ai valichi di Erez e Kerem Shalom, dove i funzionari israeliani le ispezionavano prima di autorizzarne il trasferimento a Gaza. Questo teatro kabuki – dove Israele facilitava il finanziamento dei propri nemici per mantenere una separazione strategica tra Gaza e la Cisgiordania – rappresentava un catastrofico fallimento dell’intelligence che il 7 ottobre ha smascherato col sangue.
Ma il sostegno del Qatar si è esteso ben oltre il mero finanziamento. L’emirato ha fornito a Hamas sofisticate infrastrutture tecnologiche che ne hanno potenziato le capacità militari. Esperti israeliani di sicurezza informatica hanno documentato gli investimenti del Qatar nei sistemi di comunicazione criptati utilizzati nelle reti di tunnel di Hamas, consentendo operazioni di comando e controllo che sarebbero impossibili in condizioni di blocco. Hamas ha utilizzato il sistema bancario del Qatar per riciclare fondi attraverso transazioni in criptovaluta, i suoi aeroporti per coordinarsi con i fornitori di armi iraniani e i suoi hotel per condurre attività di reclutamento e raccolta fondi da donatori solidali in tutto il mondo.
Ancora più perniciosamente, la rete qatariota Al Jazeera ha svolto il ruolo di braccio propagandistico globale di Hamas. Documenti sequestrati dalle forze israeliane hanno rivelato comunicazioni dirette tra i comandanti di Hamas e i produttori di Al Jazeera, con la rete che impiegava diversi agenti di Hamas e della Jihad islamica palestinese come “giornalisti”. Durante il 7 ottobre e nei giorni successivi, Al Jazeera Arabic ha glorificato gli attacchi definendoli “resistenza”, ha definito i civili assassinati “coloni” e ha sistematicamente soppresso i filmati delle atrocità di Hamas, amplificando al contempo le accuse di violazioni israeliane. Questa infrastruttura mediatica si è rivelata preziosa nel plasmare l’opinione pubblica internazionale, in particolare nel mondo arabo, dove la portata di Al Jazeera supera quella di qualsiasi canale occidentale.
La risposta del governo del Qatar al 7 ottobre ha rivelato le sue vere alleanze. Mentre il mondo guardava le immagini dei terroristi di Hamas che davano la caccia alle famiglie al festival musicale Nova, il Ministero degli Esteri del Qatar ha incolpato Israele per l’escalation. Il portavoce Majed Al-Ansari ha elogiato il “lancio di 3.000 razzi in 10 giorni” da parte di Hamas e ha descritto Gaza come “il primo territorio palestinese liberato dall’occupante”. Anche mentre aumentavano le prove dell’uso sistematico dello stupro da parte di Hamas come arma di guerra, di bambini bruciati vivi nei loro letti, di sopravvissuti all’Olocausto giustiziati nelle loro case, il Qatar si è rifiutato di condannare gli attacchi o di prendere in considerazione l’espulsione dei leader di Hamas.
Questa non era neutralità. Era complicità.
I dettagli operativi dell’attacco del 9 settembre rimangono secretati, ma un’analisi approfondita suggerisce un capolavoro di coordinamento dell’intelligence ed esecuzione tattica. La sfida era ardua: eliminare obiettivi di alto valore nel centro di una capitale ostile, protetta dai servizi di sicurezza statali, senza creare una crisi diplomatica più ampia o vittime civili che avrebbero minato la legittimità dell’operazione.
La costruzione della base di intelligence ha richiesto probabilmente mesi. Le reti di intelligence umane del Mossad avrebbero reclutato risorse all’interno della comunità di espatriati palestinesi del Qatar, nei settori dei servizi che supportano i leader di Hamas e potenzialmente all’interno dello stesso apparato di sicurezza del Qatar. Ogni schema di movimento, protocollo di sicurezza e programma di riunioni è stato mappato con meticolosa precisione.
La raccolta di informazioni tecniche ha integrato le fonti umane. Le intercettazioni dei segnali delle comunicazioni dei leader di Hamas, nonostante la crittografia fornita dal Qatar, hanno rivelato i piani di raduno. La sorveglianza satellitare ha monitorato i veicoli e identificato i luoghi di raduno. Le operazioni informatiche potrebbero aver penetrato i sistemi di pianificazione o le reti di comunicazione per confermare la presenza di obiettivi in luoghi e orari specifici.
L’attacco in sé sembra avere applicato la dottrina israeliana della “prevenzione mirata”: l’eliminazione chirurgica della leadership terroristica con danni collaterali minimi. I sistemi d’arma utilizzati – probabilmente munizioni a guida di precisione lanciati da aerei stealth o piattaforme navali nel Golfo – sarebbero stati selezionati per la loro capacità di neutralizzare obiettivi in ambienti urbani, limitando al contempo il raggio d’azione dell’esplosione. La tempistica, metà pomeriggio nel distretto di Katara, suggerisce uno sforzo deliberato per ridurre al minimo la presenza civile.
Ma la vera complessità non risiede nell’operazione cinetica, bensì nella preparazione strategica. Israele ha previsto la risposta del Qatar, la condanna internazionale e la potenziale ritorsione iraniana. Un lavoro diplomatico con gli stati arabi favorevoli, in particolare quelli che considerano i gruppi affiliati ai Fratelli Musulmani come Hamas una minaccia esistenziale, ha garantito il sostegno regionale o almeno l’acquiescenza. Sono state preparate e diffuse giustificazioni legali basate sul principio di autodifesa del diritto internazionale. Ancora più critico, la tempistica – dopo quasi due anni di negoziati falliti e la continua intransigenza di Hamas – ha creato uno spazio politico per un’azione che sarebbe stata impossibile subito dopo il 7 ottobre.
Il successo dell’operazione invia un messaggio cruciale all’Iran e alla sua rete di delegati: l’era della leadership terroristica intoccabile è finita. Proprio come Israele ha eliminato la struttura di comando di Hezbollah in Libano e gli scienziati nucleari iraniani a Teheran, ora ha dimostrato la capacità e la volontà di colpire Hamas ovunque si riuniscano i suoi leader.
L’attacco di Doha accelera i riallineamenti fondamentali già in corso in Medio Oriente dal 7 ottobre. Il più significativo è il crollo della posizione attentamente costruita dal Qatar come mediatore indispensabile della regione. Per oltre un decennio, Doha ha sfruttato il suo rapporto con Hamas per inserirsi in ogni crisi, posizionandosi come l’unico attore in grado di portare tutte le parti al tavolo dei negoziati. Questo monopolio sulla mediazione ha creato una struttura di incentivi perversa: più Hamas provocava conflitti, più il Qatar diventava essenziale per la loro risoluzione.
L’attacco infrange questa dinamica. Dimostrando che ospitare Hamas comporta costi inaccettabili, Israele ha costretto gli attori regionali a riconsiderare i propri rapporti con le organizzazioni terroristiche. Già vediamo segni di questo ripensamento. La Turchia, che si era posizionata come un rifugio alternativo per la leadership di Hamas, ora comprende che offrire rifugio significa accettare la vulnerabilità. L’Iran, che assiste al sistematico smantellamento della sua architettura per procura dal Libano alla Siria a Gaza, deve rivalutare se il rifiuto palestinese di Israele valga ancora l’investimento.
Ancora più significativo, l’attacco rafforza la posizione degli stati arabi che hanno scelto la normalizzazione al posto del nichilismo. I paesi firmatari degli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan – vedono convalidata la loro scommessa strategica. L’Arabia Saudita, che sta ancora calibrando il suo approccio nei confronti di Israele, riceve la conferma che il massimalismo palestinese non deve necessariamente dettare la diplomazia regionale. Egitto e Giordania, stremati da decenni di rifiuto palestinese, ottengono la leva per chiedere la completa capitolazione di Hamas come prerequisito per la ricostruzione.
L’Autorità Nazionale Palestinese, paradossalmente, ne esce rafforzata. Per anni, la leadership esterna di Hamas ha minato i tentativi dell’Autorità Nazionale Palestinese di una diplomazia pragmatica, offrendo un’alternativa di rifiuto, sostenuta dalla ricchezza del Qatar e dalle armi iraniane. Con la struttura di comando di Hamas decimata e i suoi rifugi sicuri eliminati, l’Autorità Nazionale Palestinese diventa l’unico interlocutore palestinese valido, costringendo a un consolidamento della rappresentanza palestinese a lungo atteso.
All’interno di Gaza, la presa di Hamas si indebolisce ogni giorno di più. La promessa dell’organizzazione – che la fermezza e la resistenza avrebbero portato alla vittoria – giace sepolta sotto le macerie di un territorio devastato. Con la sua leadership esterna eliminata o dispersa, la sua rete di tunnel distrutta, le sue armi esaurite e il suo sostegno popolare eroso sotto il peso di perdite catastrofiche, Hamas si confronta con la realtà che la sua guerra di estinzione contro Israele è diventata un percorso verso la sua stessa eliminazione.
I critici si chiederanno inevitabilmente: perché ora? Perché non subito dopo il 7 ottobre, quando la solidarietà internazionale per Israele era al suo apice? O perché non aspettare una risoluzione negoziata che avrebbe potuto garantire il rilascio degli ostaggi? La risposta rivela la pazienza strategica che ha sempre caratterizzato le operazioni di maggior successo di Israele.
Una rappresaglia immediata dopo il 7 ottobre sarebbe apparsa emotiva, potenzialmente minando la legittimità della risposta di Israele. Il mondo aveva bisogno di tempo per digerire la piena portata delle atrocità di Hamas, per capire che non si trattava di un altro round di conflitto limitato, ma di un tentativo di genocidio. Israele aveva bisogno di tempo per presentare la sua tesi, per dimostrare buona fede accettando pause umanitarie e tentativi di negoziazione, per dimostrare che l’azione militare non era la sua prima scelta, ma l’ultima risorsa.
I due anni trascorsi dal 7 ottobre hanno rappresentato un periodo cruciale per lo sviluppo dell’intelligence. I leader di Hamas, inizialmente cauti, hanno gradualmente ripreso i normali schemi di movimento e di incontro. È subentrata la compiacenza. I protocolli di sicurezza sono stati allentati. La convinzione che la protezione del Qatar fosse inviolabile ha creato vulnerabilità che un paziente lavoro di intelligence avrebbe potuto sfruttare.
Ma soprattutto, l’intransigenza di Hamas ha creato lo spazio politico per l’azione. Ogni proposta di cessate il fuoco respinta, ogni richiesta impossibile di un ritiro completo da parte di Israele, ogni video di propaganda di ostaggi in cattività hanno rafforzato la tesi dell’inutilità dei negoziati. Persino i sostenitori apparenti di Hamas si sono stancati del suo massimalismo. Quando la Lega Araba ha rilasciato la sua dichiarazione senza precedenti nel luglio 2025, chiedendo ad Hamas di disarmarsi e abbandonare il potere – firmata dallo stesso Qatar – l’isolamento dell’organizzazione è stato totale.
La tempistica riflette anche dinamiche regionali più ampie. Con l’Iran indebolito dagli attacchi israeliani al suo programma nucleare, la leadership di Hezbollah decimata e Assad in Siria rovesciato, Hamas ha perso la sua profondità strategica. L'”asse di resistenza” che avrebbe potuto reagire all’attacco di Doha non esiste più come forza coerente. La Russia, preoccupata per l’Ucraina, non può fornire protezione diplomatica. La Cina, concentrata su Taiwan, non spenderà capitali per difendere il rifiuto palestinese di Israele.
In questo contesto, il 9 settembre 2025 non era solo un momento accettabile, ma anche ottimale.
L’attacco di Doha impone un dibattito, da tempo atteso, sulla sovranità nell’era del terrorismo. Il principio westfaliano di sovranità assoluta entro i confini presuppone che gli Stati non utilizzino il proprio territorio per muovere guerra ad altri Stati. Quando una nazione fornisce quartier generale, finanziamenti e protezione a un’organizzazione dedita alla distruzione di un’altra nazione, rinuncia al suo diritto all’inviolabilità.
Il Qatar vuole avere entrambe le cose: ospitare la più grande base militare americana in Medio Oriente e allo stesso tempo dare rifugio a coloro che vorrebbero distruggere gli alleati degli Stati Uniti; partecipare alle istituzioni internazionali agevolando coloro che rifiutano il diritto internazionale; e rivendicare l’immunità diplomatica, favorendo coloro che prendono di mira i diplomatici. Questo approccio schizofrenico alla sovranità – in cui la protezione è assoluta quando conveniente e permeabile quando redditizia – non può reggere.
Il diritto internazionale riconosce questo principio. La Risoluzione 1373 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, vincolante per tutti gli Stati membri, incluso il Qatar, impone ai paesi di “negare rifugio sicuro a coloro che finanziano, pianificano, sostengono o commettono atti terroristici”. La Convenzione Internazionale per la Repressione del Finanziamento del Terrorismo obbliga gli Stati a impedire che il loro territorio venga utilizzato per scopi terroristici. Secondo qualsiasi ragionevole interpretazione di questi obblighi, l’accoglienza di Hamas da parte del Qatar ha costituito una violazione sostanziale che richiedeva misure coercitive.
Gli Stati Uniti, che mantengono 11.000 soldati nella base aerea di Al Udeid in Qatar, si trovano ad affrontare un rischio morale particolare. Le forze americane garantiscono la sicurezza di un regime che ospita coloro che uccidono cittadini americani: sei americani sono morti il 7 ottobre e altri rimangono in ostaggio. Questo accordo non è semplicemente ipocrita; è strategicamente incoerente. Nessuna quantità di ricchezza di gas naturale o posizionamento regionale giustifica un compromesso di principi così fondamentale.
L’attacco di Doha chiarisce queste contraddizioni. Gli Stati devono scegliere: possono essere membri della comunità internazionale o sponsor del terrorismo, ma non entrambe le cose. Possono ospitare basi americane o quartieri generali di Hamas, ma non entrambe le cose. Possono rivendicare la protezione sovrana o consentire attacchi contro altri stati sovrani, ma non entrambe le cose.
Per troppo tempo, il Medio Oriente ha operato partendo dal presupposto che il terrorismo pagasse, che la violenza portasse concessioni, che il massimalismo attraesse mediazione, che il rifiuto portasse ricompense. La leadership di Hamas, avvolta nel lusso qatariota, incarnava questa perversa struttura di incentivi. Potevano ordinare atrocità senza subirne le conseguenze, negoziare in malafede senza correre rischi personali e mantenere la presa su Gaza dalla comodità del Four Seasons Hotel di Doha.
L’attacco del 9 settembre pone fine a quest’era di impunità. Ripristina il principio che le scelte hanno conseguenze, che dichiarare guerra significa accettarne i rischi, che prendere di mira i civili significa rinunciare a qualsiasi diritto alla protezione. Questa non è un’escalation, ma un ripristino della deterrenza, della responsabilità, del principio fondamentale per cui chi pianifica un genocidio non può rivendicare asilo.
Hamas sta imparando ciò che Hezbollah ha imparato in Libano, ciò che la Jihad islamica palestinese ha imparato a Damasco, ciò che l’OLP ha imparato a Tunisi: il braccio di Israele è lungo, la sua memoria è più lunga e il suo impegno a proteggere i suoi cittadini è assoluto. Non ci sono rifugi sicuri per chi sceglie il terrore. Nessuna immunità diplomatica per chi orchestra massacri. Nessun rifugio per chi tiene in ostaggio innocenti.
La strada da seguire è chiara. Hamas deve arrendersi incondizionatamente, rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi e accettare lo scioglimento del suo apparato militare. La sua leadership, dispersa e vulnerabile, deve scegliere tra la capitolazione e l’eliminazione. Il Qatar deve espellere tutti i rimanenti agenti di Hamas e cessare ogni sostegno finanziario, oppure accettare la sua designazione come Stato sponsor del terrorismo, con tutte le conseguenze che ne conseguono. La comunità internazionale deve fare rispettare gli obblighi antiterrorismo esistenti, anziché sacrificarli per comode finzioni di mediazione e dialogo.
Alcuni condanneranno l’azione di Israele come una violazione della sovranità, un’escalation di violenza, un ostacolo alla pace. A questi critici bisognerebbe porre una semplice domanda: quale pace è possibile con coloro che cercano il vostro annientamento? Quale sovranità protegge coloro che conducono una guerra genocida? Quale escalation va oltre il bruciare vive le famiglie nelle loro case?
Le esplosioni di Doha non sono state il rumore di una guerra in espansione, ma di una giustizia compiuta.
Non sono state un ostacolo alla pace, ma un prerequisito per essa. Perché la vera pace richiede la sconfitta di coloro che la rifiutano, l’eliminazione di coloro che la rendono impossibile e la dimostrazione che scegliere la violenza non porta alla vittoria, ma alla distruzione.
Israele ha inviato questo messaggio con chiarezza cristallina. L’era del terrorismo senza conseguenze è finita. Il santuario di Doha è andato in frantumi. I leader di Hamas, ovunque si nascondano, ora comprendono una verità fondamentale: si può scappare, ma non ci si può nascondere per sempre. E quando la giustizia ti troverà, che sia in un tunnel di Gaza o in un hotel del Qatar, il risultato sarà lo stesso.
Questa non è stata semplicemente la mossa giusta. È stata l’unica mossa possibile. E avrebbe dovuto essere fatta molto tempo fa.

(L'informale, 10 settembre 2025)

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Crisi Israele-Spagna: sanzioni incrociate e accuse di antisemitismo

di Davide Cucciati

L’8 settembre 2025 ha segnato un punto di rottura drammatico nelle relazioni tra Israele e Spagna. In una durissima dichiarazione rilanciata ufficialmente dall’ambasciata israeliana a Madrid, il ministro degli Esteri Gidon Sa’ar ha accusato il governo guidato da Pedro Sanchez di antisemitismo istituzionale, annunciando sanzioni personali contro due ministre spagnole: Yolanda Diaz, vicepresidente del governo e ministra del Lavoro, e Sira Rego, ministra dell’Infanzia e della Gioventù, entrambe esponenti del partito di sinistra radicale Sumar.
Secondo l’inchiesta di El Pais, Diaz è accusata di aver invocato il boicottaggio di Israele, definito lo Stato ebraico “genocida” e rilanciato lo slogan “dal fiume al mare”, considerato da Israele come un invito alla sua cancellazione. Rego, riferisce Israel National News, avrebbe invece giustificato pubblicamente la strage del 7 ottobre 2023, e sostenuto la rottura totale delle relazioni con Israele. Entrambe sono ora ufficialmente bandite dal territorio israeliano e non potranno più intrattenere rapporti con le autorità dello Stato ebraico. A sua volta, Yolanda Díaz ha dichiarato di essere “orgogliosa” di essere stata esclusa da “uno Stato che perpetra un genocidio”.
Il contesto è segnato da un’escalation diplomatica e ideologica. Da un lato, Israele denuncia una “carica d’odio” da parte dell’esecutivo spagnolo; dall’altro, Madrid ha annunciato lo stesso giorno un pacchetto di nove misure che include il varo di un embargo totale di armi verso Israele nonché restrizioni all’uso di porti e spazio aereo spagnoli per movimenti collegati a materiale bellico diretto a Israele.
Un precedente concreto aveva già dato forma a questa linea d’azione: nel novembre 2024, la Spagna ha negato l’accesso al porto di Algeciras alla nave Maersk Denver e, successivamente, anche alla Maersk Seletar, poiché sospettate di trasportare armamenti statunitensi destinati a Israele. Secondo El Pais, entrambe le navi furono dirottate verso Tangeri, in Marocco. Pur avendo negato la presenza di carichi militari, Maersk non riuscì a ottenere l’autorizzazione allo scalo spagnolo. L’episodio portò gli Stati Uniti ad aprire un’indagine formale attraverso la Federal Maritime Commission, segnalando che le restrizioni spagnole non erano semplici prese di posizione simboliche, ma azioni operative con impatto internazionale.
La linea del governo Sanchez non nasce oggi. Infatti, dopo aver riconosciuto formalmente la Palestina nel mese di maggio 2024, il 28 giugno dello stesso anno la Spagna è diventata il primo Paese dell’Unione Europea a schierarsi apertamente contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, aderendo al procedimento avviato dal Sudafrica con l’accusa di genocidio. Nei mesi successivi, solo l’Irlanda ha seguito lo stesso percorso. Nessun altro Stato membro dell’UE ha, finora, deciso di unirsi.
La risposta israeliana è arrivata con tempismo e toni durissimi. Gidon Sa’ar ha dichiarato che il governo Sanchez sfrutta l’attacco a Israele per distogliere l’attenzione da scandali di corruzione interna e ha accusato i suoi ministri di essersi schierati con Hamas. Secondo quanto riportato da Israel National News, il ministro ha sottolineato la coincidenza tra le accuse di genocidio mosse da Sanchez e l’attentato terroristico avvenuto a Gerusalemme proprio l’8 settembre, in cui sono stati uccisi sei civili israeliani. Tra le vittime, riferisce il Jerusalem Post, c’era anche Yaakov Pinto, un oleh chadash, cioè un nuovo immigrato in Israele, originario della Spagna.
Nel medesimo comunicato, Sa’ar ha annunciato l’intenzione di portare la questione dell’antisemitismo istituzionale del governo spagnolo all’assemblea plenaria dell’IHRA, l’organismo internazionale che definisce i criteri per riconoscere l’antisemitismo contemporaneo. Sa’ar sostiene che le dichiarazioni e le politiche dell’esecutivo spagnolo rientrano a pieno titolo nella definizione dell’IHRA, per via della delegittimazione sistematica e dei doppi standard applicati a Israele.
La tensione si è ulteriormente aggravata. Il 9 settembre, riferisce Ynet, il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha annunciato che la Spagna proibirà l’ingresso nel proprio territorio al ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e al ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, inserendoli nella lista delle personalità sanzionate da Madrid.
La Spagna si sta così trasformando, suo malgrado, da Paese guidato da un amico di Israele come il popolare José Maria Aznar a terreno d’avanguardia per la nuova postura ideologica della sinistra europea incarnata dal governo Sanchez.

(Bet Magazine Mosaico, 10 settembre 2025)

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“Addio Europa”

Il crescente sentimento anti-israeliano e le decisioni politiche in Europa mi spingono a congedarmi.

di Dov Eilon

Come il crescente sentimento anti-israeliano e le decisioni politiche in Europa mi spingono a congedarmi.
Qualche giorno fa ho scritto su Facebook le parole “Addio Europa”. Due piccole parole che pesano molto su di me. Le ho scritte in modo del tutto spontaneo, senza averlo pianificato in anticipo. Forse è stato a causa delle continue notizie negative provenienti dall'Europa che si sono accumulate nelle ultime settimane e negli ultimi mesi.
Si riferiscono a tutto questo: il crescente sentimento anti-israeliano in molti paesi europei, gli annunci di diversi governi di riconoscere la Palestina, le minacce della Spagna di non far più entrare nel paese i soldati israeliani che hanno prestato servizio nella Striscia di Gaza, le sanzioni economiche da parte del Belgio o della Gran Bretagna. Tutto questo avviene in un momento in cui Israele, dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre, non ha fatto altro che difendersi.
Eppure Israele viene messo alla gogna. È incredibile la rapidità con cui in Europa si esprimono giudizi morali, mentre la realtà qui è difficilmente comprensibile. Che ne è degli ostaggi che sono ancora detenuti nella Striscia di Gaza e che Hamas sta deliberatamente lasciando morire di fame? Come è possibile che Israele sia accusato di genocidio, mentre Hamas glorifica il terrorismo e celebra i suoi assassini come eroi? Questa distorsione mi fa star male.
Anche la Norvegia, il paese di mio padre, di cui ho avuto la cittadinanza nei miei primi dodici anni di vita, ha riconosciuto la Palestina e ha criticato aspramente Israele. Per me personalmente è uno schiaffo in faccia. La Spagna, dal canto suo, cerca di distinguersi con particolare durezza: un embargo totale sulle armi contro Israele, il divieto di ingresso per il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, dichiarati persona non grata, e recentemente persino piani per negare l'ingresso a tutti gli israeliani che hanno prestato servizio come soldati nella Striscia di Gaza. Il governo di Madrid lo presenta come una vittoria morale, ma per me non è altro che una politica simbolica che divide piuttosto che risolvere.
La Francia sta seguendo una strada diversa, ma non meno pericolosa. Emmanuel Macron ha annunciato che riconoscerà la Palestina all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Parla di pace e stabilità, ma in realtà sta premiando il terrorismo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito chiaramente e il ministro degli Esteri Gideon Sa'ar ha dichiarato Macron “non benvenuto” fintanto che persisterà in questo piano. Una visita programmata di Macron in Israele è stata annullata. Le relazioni tra Parigi e Gerusalemme sono pessime come raramente in passato.
E la Germania? Qui la situazione è particolarmente dolorosa. Per anni si è detto che la sicurezza di Israele era una questione di ragion di Stato tedesca, una frase che il cancelliere e il presidente hanno ripetuto così spesso da farla sembrare quasi un dogma. Ma quando la situazione si fa seria, quando Israele ha davvero bisogno di questa solidarietà, a Berlino si discute improvvisamente di embargo, di restrizioni alle forniture di armi, di accuse reciproche. Che ne è rimasto della “ragion di Stato”? A me oggi sembra piuttosto una frase fatta. E proprio nel momento in cui ne avremmo avuto bisogno, Israele è rimasto solo.
Ma non è solo una questione di politica. È anche l'andamento demografico che influenza tutto. In molti paesi europei la presenza musulmana sta crescendo rapidamente. In Francia i musulmani costituiscono già quasi il 9% della popolazione, in Belgio circa il 6%, in Germania e Gran Bretagna oltre il 6%. Interi quartieri di Bruxelles, Londra o Parigi sono ormai a maggioranza musulmana. Questa realtà ha un'influenza diretta sull'opinione pubblica nei confronti di Israele e influenza la politica e i media. Chi ascolta ciò che si dice in Belgio o in Francia se ne accorge subito: molte persone vedono nella narrativa palestinese il proprio riflesso. A ciò si aggiunge il fatto che l'antisemitismo è aumentato massicciamente negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Belgio, con un triplicarsi degli episodi antisemiti solo nel 2023.
E nel Regno Unito si mette ufficialmente in guardia contro la crescente radicalizzazione dei giovani musulmani che si sentono emarginati dalla società. Tutto ciò influisce sul clima in Europa e spiega perché Israele sia sempre più emarginato dall'opinione pubblica.
Quando vedo tutto questo, il mio “Addio Europa” non è una frase provocatoria, ma l'espressione di una profonda delusione. L'Europa ama parlare di valori e morale, ma quando si tratta di agire, manca completamente la comprensione della realtà. Israele non combatte per conquistare. Israele combatte per sopravvivere. Chi non vuole vederlo può continuare ad approvare risoluzioni e fare bella figura nei talk show, ma per noi qui è una questione di vita o di morte.
Il mio addio all'Europa non è odio. È un grido. Un grido contro l'ingenuità, contro l'arroganza, contro l'oblio. Un grido per la giustizia, per gli ostaggi, per il diritto di un popolo di non essere emarginato, ma rispettato nella sua esistenza. “Addio Europa” significa: ho smesso di contare su di voi.

(Israel Heute, 10 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Shira Haelion, la prima donna coach della Nazionale femminile israeliana di basket

di Jacqueline Sermoneta

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Shira Haelion

“E’ un onore incredibile. Un sogno che si avvera”. Queste le parole di Shira Haelion, una delle più titolate allenatrici israeliane nonché la prima donna a guidare la Nazionale femminile di basket. “È un enorme privilegio aver guadagnato la fiducia necessaria per guidare la Nazionale, soprattutto in un momento così cruciale. – ha detto Haelion, come riporta Ynet – Abbiamo giocatrici israeliane eccezionali e sono entusiasta di iniziare a lavorare con loro in vista della nostra prima sfida a novembre”.
   Haelion avrà accanto come assistente Limor Peleg, che ha allenato l’Hapoel Lev Jerusalem guidandola a due finali consecutive della State Cup, con la vittoria storica nella scorsa stagione. Entrambe formano il primo staff tecnico interamente al femminile nella storia della Nazionale israeliana.
   “Shira è stata scelta per le sue capacità professionali, la sua vasta esperienza e la visione condivisa per il futuro della pallacanestro femminile israeliana – ha affermato Liron Cohen, presidente del Comitato di basket femminile – Questo è un importante passo avanti nella promozione del ruolo delle donne meritevoli nello sport israeliano. Shira è la prima donna in assoluto ad essere nominata allenatrice della Nazionale senior e siamo orgogliosi di scrivere la storia con lei”.
   Haelion ha iniziato la sua carriera di allenatrice con l’Hapoel Tel Aviv prima di trasferirsi all’Hapoel Rishon Le’zion, guidando la squadra a un’ottima corsa ai playoff. Ha allenato club di alto livello, tra cui l’Elitzur Ramla, il Maccabi Ramat Gan e la squadra maschile dell’Hapoel Tel Aviv.
   La scorsa stagione ha guidato il Maccabi Ashdod a una storica tripletta, vincendo la Winner Cup, la State Cup e il campionato. Ha, inoltre, allenato a tutti i livelli del programma nazionale femminile, incluse le squadre giovanili e cadette, e in precedenza ha ricoperto il ruolo di assistente dell’ex coach Eli Rabi.
   Nel girone di qualificazione all’EuroBasket 2027 Israele è stato inserito insieme a Lussemburgo, Irlanda e Bosnia. La prima sessione, che si svolgerà a novembre 2025, prevede tre partite, con altre tre in programma a febbraio 2026.

(Shalom, 10 settembre 2025)

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Le bugie e i falsi storici di Wikipedia impossibili da correggere: “Così hanno cancellato la storia ebraica”

A colloquio con il giovane gruppo di volontari informatici anglosassoni che da anni opera per combattere la disinformazione e la propaganda ingannevole della famosa enciclopedia digitale. Ed è costretto a farlo mantenendo segrete le identità degli attivisti per evitare ritorsioni pericolose

di Andrea B. Nardi

Wikipedia non è un’enciclopedia scientifica con voci studiate da analisti competenti e verificate con cura e metodi accademici. È solo un blog che negli anni è diventato la fucina dei falsi storici per ciò che vuole propagandare, e della censura per le verità che invece vuole oscurare.
L’holding è governata da una lobby con un potere enorme di epurazione delle voci contrarie alla sua politica: se si corregge una falsificazione sulle sue pagine, non solo in poche ore essa torna come prima, ma chi ha compiuto la correzione rischia stalking informatico sui suoi account e anche negli altri social. A ciò contribuisce soprattutto, da un lato, la condiscendenza di Google che permette solo a W. di apparire sulla prima pagina delle ricerche, e dall’altro l’abdicazione delle enciclopedie autentiche che sono scomparse dal web o vi stanno nascoste con pagine insulse. Il massimo delle falsificazioni Wikipedia lo raggiunge nelle pagine su Israele e la cosiddetta “Palestina” araba. Diventando un’importante causa dell’enorme incremento di odio sociale, razziale e antisemita che sta attraversando tutti i Paesi. Alla voce Ramallah, per esempio, sfodera una serie infinita di notizie faziose e menzognere, mentre la Treccani si limita a due righe striminzite. Abbiamo provato a intervistare il dott. Bray direttore Treccani ma non ha mai avuto tempo per noi. In compenso siamo riusciti a rintracciare il giovane gruppo di volontari informatici anglosassoni che da anni opera per combattere la disinformazione e la propaganda ingannevole di Wikipedia, ed è costretto a farlo mantenendo segrete le identità degli attivisti per evitare ritorsioni pericolose. Non possiamo svelare il nome del coordinatore del gruppo.

- Quanta responsabilità ha W. nella diffusione di fake news?
  «Tantissima, ed è data dal fatto che si tratta di una piattaforma social open source, e non è per nulla una vera enciclopedia. Essi sostengono che le vere enciclopedie per le voci accurate esistono già, ma questa non è una ragione per diffondere falsità».
  
  - Come fanno questi operatori di W. a inserire la propria propaganda in modo così sistematico?
  «Gli attori anti-israeliani hanno lavorato duramente per diffondere la loro propaganda nelle voci di W. per oltre 20 anni. Sono organizzati e pagati, spesso dall’Iran, Qatar e altri Paesi e organizzazioni, seguendo un’agenda precisa. Gli ebrei non sono le uniche vittime della guerra dell’informazione su W.: anche gli indù, i curdi, gli ucraini e così via».

- Perché le bugie e i falsi storici pubblicati su W. non possono essere corretti?
  «In teoria si possono correggere, il problema è la quantità di cattivi autori su W. che rende molto difficile per persone competenti diventare redattori affermati. Occorre anche essere rappresentati negli organi di governo di W., cosa che al momento nessuna voce autorevole e imparziale è. Sarà necessario che persone competenti si impegnino, altrimenti W. diventerà sempre peggio».

- A chi rispondono questi gruppi di controllo di W.? C’è una lobby islamista al suo interno che fomenta l’antisemitismo e le fake news su Israele?
  «Ci sono diversi gruppi che lavorano professionalmente con W. per fomentare la propaganda islamista, ma i dettagli delle organizzazioni di pressione dietro questi redattori sono molto celati. Noi monitoriamo costantemente i redattori estremisti e li segnaliamo. C’è pure un rapporto dell’ADL (Anti-Defamation League, un’organizzazione non governativa internazionale statunitense dedita a difendere i diritti civili e umani, combattere l’antisemitismo e tutte le forme di pregiudizio, difendere gli ideali democratici) che ha denunciato questo sistema di autori organizzati anti-israeliani».

- Come vedi il futuro di questa piattaforma? C’è la possibilità che cambi e diventi affidabile?
  «Vedo un futuro molto buio senza serie contromisure. Possiamo lasciare che il mondo accademico e tutte le informazioni online siano ostaggio degli estremisti che modificano la nostra storia e il nostro futuro, oppure possiamo contribuire a rendere W. quanto più corretta possibile. Per fare ciò e invertire la tendenza servirebbero meno di mille nuovi redattori con buone intenzioni, competenza e parzialità! Insegnate ai vostri figli il pensiero critico, a studiare su documenti seri, a trovare la verità e modificare W».

- Cosa vorresti aggiungere sull’argomento?
  «Vengono sempre prima per gli ebrei, ma non finisce mai lì. Se diventa normale cancellare la storia ebraica e aggiungere al suo posto qualsiasi idea odiosa, ciò verrà fatto a qualunque altro popolo».

(Il Riformista, 10 settembre 2025)

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Spari a bordo di un autobus: sei vittime a Gerusalemme. Hamas esulta: “Atto eroico”

Uccisi i due attentatori: venivano dalla Cisgiordania. Il ministro Smotrich: «Sciogliere l'Anp», Netanyahu va sul luogo della strage: annullata l'udienza del suo processo

di Stefano Piazza

Usata mitraglietta modello «Carlo»: imprecisa, però potente e economica I miliziani rifiutano ancora un rilascio totale immediato degli ostaggi

Un nuovo attacco ha insanguinato Gerusalemme: sei persone hanno perso la vita e altre undici sono rimaste ferite, sei delle quali in condizioni critiche, durante una sparatoria avvenuta su un autobus nei pressi di Ramot Junction, all'ingresso nord della città. Secondo ricostruzioni fornite dai media locali e da testimoni oculari, due uomini si sono avvicinati a un autobus, riuscendo a salire a bordo, e hanno fatto fuoco contro i passeggeri. La polizia ha confermato che entrambi gli attentatori sono stati uccisi: ad abbatterli sono stati un soldato e un giovane ebreo ultra-ortodosso della Brigata Hashmonaim che si trovava sul posto armato. Le autorità hanno diffuso i nomi di quattro delle sei persone rimaste uccise: il rabbino Levi Yitzhak Fash, figura legata alla scuola Kol Torah di Gerusalemme; Yaakov Pinto, 25 anni, residente in città ma originario dell'enclave spagnola di Melilla in Marocco; il rabbino Israel Menatzer, 28 anni, del quartiere Ramot; e il rabbino Yosef David, 43 anni. Tra le altre vittime ci sono anche un uomo e una donna di circa cinquant'anni e tre giovani sulla trentina.
   L'attacco è avvenuto in un punto particolarmente trafficato, lungo la strada che collega Gerusalemme agli insediamenti ebraici situati a est della città. Una passeggera ha raccontato a Channel 12: «L'autobus era strapieno. Quando l'autista ha aperto le porte sono arrivati i terroristi. Io ero vicino all'uscita posteriore, sono caduta su altre persone e sono corsa via. Mi sono salvata per miracolo». I due assalitori Muthanna Naji Amro e Muhammad Bassam Taha erano palestinesi poco più che ventenni, provenienti dai villaggi di al-Qubeida e Qatanna, nell'area di Ramallah e hanno sparato alla testa delle vittime.
   L'esercito israeliano ha circondato la zona per rintracciare eventuali complici. Lo Shin Bet ha intanto arrestato un residente di Gerusalemme Est sospettato di aver accompagnato i due attentatori fino al luogo della sparatoria. Sul posto è stata recuperata un'arma artigianale, una mitraglietta modello «Carlo», già usata in precedenti attacchi.
   Il «Carlo» è, dopo il coltello, l'arma più usata dai terroristi palestinesi in Israele e Cisgiordania. Si tratta di una mitraglietta artigianale ispirata al Cari Gustav svedese: rudimentale, poco precisa e con gittata limitata, ma economica, potente e facile da produrre con strumenti di base e progetti reperibili online. Il nome deriva dal Carl Gustav m/45, adottato dall'esercito svedese nel 1945 e poi fabbricato anche in Egitto. Il meccanismo è semplice: il rinculo espelle il bossolo e carica automaticamente il colpo successivo. Ogni modello può adattarsi a munizioni diverse e presenta varianti che richiamano Uzi, MP5 o Kalashnikov. Proprio per la sua semplicità e il basso costo, il «Carlo» ha superato i confini mediorientali: esemplari sono stati rinvenuti in Europa, America Latina, Australia e perfino in Italia, rendendo difficile il loro tracciamento una volta circolanti.
   I jihadisti di Hamas, pur non rivendicando direttamente l'azione, hanno definito l'assalto «un atto eroico» e «la risposta naturale ai crimini dell'occupazione», invitando la popolazione palestinese della Cisgiordania a «intensificare la resistenza».
   Il primo ministro Benjamin Netanyahu, che avrebbe dovuto presenziare a un'udienza del processo per corruzione a Tel Aviv poi rinviata, ha convocato una riunione d'emergenza sulla sicurezza e successivamente si è recato sul luogo dell'attacco insieme al ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. «Stiamo conducendo una dura guerra contro il terrorismo su più fronti», ha dichiarato Netanyahu. Bezalel Smotrieh, ministro delle Finanze e leader della destra religiosa, ha colto l'occasione per ribadire la richiesta di scioglimento dell'Autorità nazionale palestinese, rilanciando il piano che prevede l'estensione del controllo israeliano su gran parte della Cisgiordania.
   L'episodio si inserisce in una serie di attacchi che hanno colpito Israele negli ultimi mesi. L'ultima sparatoria di massa risaliva all'ottobre 2024, quando due palestinesi della Cisgiordania aprirono il fuoco a Jaffa contro passanti e viaggiatori della metropolitana leggera, uccidendo sette persone. In quell'occasione la rivendicazione arrivò dall'ala militare di Hamas.
   Sempre nella giornata di ieri, le Forze di Difesa israeliane hanno colpito un grattacielo a Gaza City utilizzato da Hamas. Secondo l'Idf, l'edificio ospitava postazioni di osservazione, sistemi di raccolta informazioni e ordigni esplosivi impiegati dai miliziani per pianificare e condurre attacchi durante il conflitto. Prima del raid, l'esercito ha dichiarato di aver adottato misure per ridurre i rischi ai civili, con allerte preventive, uso di munizioni di precisione, sorveglianza aerea e supporto di intelligence. «Hamas e le altre organizzazioni terroristiche nella Striscia continuano a violare il diritto internazionale, sfruttando infrastrutture civili e popolazione come scudi umani», ha affermato l'Idf.
   In questo contesto a poche ore dalla proposta del presidente statunitense Donald Trump, che chiedeva la liberazione immediata di tutti i 48 ostaggi al primo giorno del cessate il fuoco, Hamas ha replicato che un rilascio totale non è possibile. In un'intervista ad Asharq Al-Awsat, fonti del movimento hanno spiegato che «alcuni ostaggi sono morti e i corpi si trovano sotto le macerie o in zone che possono essere raggiunte solo dopo l'avvio della tregua». Si conferma, per l'ennesima volta, come Hamas non mostri alcuna reale volontà di giungere a un'intesa.

(La Verità, 9 settembre 2025)

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Pioggia di droni Houthi: l’IDF intercetta molteplici attacchi dei proxies iraniani

di Anna Balestrieri

Tre droni lanciati dai ribelli Houthi dallo Yemen sono stati abbattuti dall’aeronautica israeliana nella giornata di lunedì 8 settembre, nel giro di mezz’ora. I velivoli senza pilota puntavano al sud del Paese, ma non hanno causato né feriti né danni. L’episodio è avvenuto a poche ore dall’attacco che, domenica, aveva colpito il terminal passeggeri dell’aeroporto Ramon di Eilat.

L’attacco di lunedì 8 settembre: droni abbattuti in volo
  Secondo l’IDF, uno dei droni si stava dirigendo verso l’aeroporto Ramon, dove già il giorno precedente si era verificata un’esplosione. Le sirene sono risuonate nell’area di Eilat e diversi missili intercettori sono stati lanciati con successo.
Un altro velivolo ha fatto scattare gli allarmi a Dimona e nei dintorni, ma anche in questo caso è stato distrutto prima che potesse causare danni. Il terzo drone, intercettato senza far scattare sirene, è stato neutralizzato “secondo protocollo”, ovvero prima che diventasse una minaccia per i centri abitati.

La rivendicazione Houthi
  Gli Houthi, sostenuti dall’Iran, hanno rivendicato l’attacco, sostenendo di aver preso di mira l’aeroporto Ben Gurion a Tel Aviv, l’aeroporto Ramon e un “obiettivo sensibile” a Dimona.
Gli stessi ribelli continuano a colpire Israele con droni e missili a partire da novembre 2023, nel contesto del conflitto seguito al 7 ottobre. Il loro slogan politico rimane inequivocabile: “Morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei.”

L’attacco di domenica: il bilancio delle vittime
  Il giorno precedente, domenica 7 settembre, un drone era riuscito a eludere i sistemi di difesa israeliani e si era schiantato contro il terminal passeggeri dell’aeroporto Ramon. L’impatto ha provocato il ferimento di alcune persone.

Le vittime civili
  Un uomo di 63 anni è rimasto ferito da schegge ed è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Yoseftal di Eilat, dove le sue condizioni sono state dichiarate stabili.
Una donna è caduta mentre cercava riparo dall’esplosione, riportando ferite lievi e venendo anch’essa ricoverata a Yoseftal.
Diversi passeggeri e operatori presenti nell’aeroporto hanno accusato attacchi di panico e forte ansia, ricevendo assistenza immediata da parte del Magen David Adom.

Errori di valutazione nella difesa aerea
  Un’inchiesta interna dell’aeronautica israeliana ha stabilito che il drone era stato individuato dai radar, ma non correttamente classificato come minaccia. Per questo motivo non erano stati attivati gli allarmi né tentativi di intercettazione. L’episodio ha destato forti critiche e preoccupazioni, soprattutto considerando che Ramon rappresenta uno snodo vitale per i voli interni e per l’evacuazione di pazienti palestinesi verso l’estero per cure mediche.

Un’escalation che non si arresta
  Dall’inizio del 2025, in particolare dopo l’uccisione del premier Houthi Ahmed Ghaleb Nasser al-Rahawi in un raid israeliano in Yemen, gli attacchi dei ribelli si sono moltiplicati: solo negli ultimi mesi sono stati lanciati almeno 80 missili balistici e 31 droni contro Israele.
L’attacco all’aeroporto Ramon evidenzia la vulnerabilità del fronte interno israeliano, mentre le intercettazioni di lunedì dimostrano l’efficienza, ma anche la pressione costante a cui è sottoposto il sistema di difesa aerea.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2025)

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"Un Miracolo di Popolo" – Mostra a Torino

Inaugurazione della mostra "Un Miracolo di Popolo" dell’artista Nazario Melchionda.
14 – 18 settembre 2025 | Torino, Sala Associazione Camis De Fonseca, Via Pietro Micca 15

In occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica, domenica 14 settembre 2025 a Torino sarà inaugurata la mostra "Un Miracolo di Popolo" dell’artista Nazario Melchionda, ospitata presso la Sala dell’Associazione Camis De Fonseca (Via Pietro Micca 15).
La mostra propone un viaggio visivo attraverso quattromila anni di storia del popolo ebraico: dalla chiamata di Abramo, alla nascita dello Stato di Israele, fino alle moderne innovazioni in agricoltura e tecnologia.
Per la realizzazione delle opere sono state utilizzate tecniche miste di intelligenza artificiale ed elaborazione grafica digitale tradizionale. Attraverso queste tecnologie sono state create delle istantanee che restituiscono i volti e gli eventi rappresentativi della storia ebraica, trasformando la memoria in immagini capaci di dialogare con il presente.
L’iniziativa è ospitata e organizzata dall’Associazione Italia Israele di Torino, presieduta da Marco Zanetti.
Interverrà Corrado Maggia, vicepresidente dell’Associazione Evangelici d’Italia per Israele.

Dettagli evento
  • Inaugurazione: 14 settembre 2025, ore 15:00
  • Apertura nei giorni successivi: dal 15 al 18 settembre 2025, dalle ore 16:00 alle 18:00
  • Luogo: Sala Associazione Camis De Fonseca, Via Pietro Micca 15 – Torino
  • Ulteriori informazioni: www.unmiracolodipopolo.it
(Associazione Italia Israele - Torino, 9 settembre 2025)

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Attacco contro un'azienda israeliana produttrice di armi a Ulm

Attivisti in parte mascherati con foulard palestinesi attaccano una filiale tedesca di un'azienda israeliana produttrice di armi. La polizia sta indagando.

ULM – Lunedì mattina presto, verso le 3:30, diversi attivisti mascherati hanno attaccato un edificio a Ulm. Lì si trova una filiale dell'azienda israeliana produttrice di armi Elbit Systems.
Gli attivisti di “Palestine Action” si sono filmati durante l'azione e i video sono visibili sui social media. L'organizzazione è considerata un gruppo terroristico nel Regno Unito ed è vietata dall'inizio di luglio. I rivoltosi hanno lanciato sacchetti di vernice contro l'edificio e sono entrati all'interno rompendo le finestre. Una volta dentro, hanno devastato gli uffici e lanciato bombe fumogene. Anche i server dell'azienda sono stati danneggiati dai rivoltosi. Le scritte “Babykiller” (assassini di bambini) sui muri suggeriscono che l'atto fosse motivato politicamente.
Attivisti di Palestine Action Germany hanno fatto irruzione nella fabbrica di armi Elbit Systems a Ulm per smantellare gli strumenti utilizzati per commettere il genocidio a Gaza.
La polizia ha arrestato cinque sospetti sul posto. Si erano barricati al piano superiore dell'azienda e cantavano in coro “Libertà per la Palestina”. La polizia criminale dello Stato (LKA) sta indagando. Lunedì, la portavoce della LKA Lisa Schröder ha dichiarato alla Südwestrundfunk (SWR) che molti indizi suggeriscono che l'atto fosse motivato dall'estremismo di sinistra. Il danno ammonta a una cifra a sei zeri.
L'ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor ha scritto su X: “Questi attacchi sono atti terroristici: devono essere chiaramente definiti come tali e puniti con severità”.

Produzione a Ulm esclusivamente per l'esercito tedesco
  Elbit Systems è un gruppo industriale israeliano che produce, tra l'altro, droni, sistemi di comunicazione e dispositivi per la visione notturna. Un portavoce tedesco dell'azienda ha chiarito in un'intervista con un giornalista della SWR che lo stabilimento di Ulm produce esclusivamente apparecchi radio portatili per l'esercito tedesco.
In passato ci sono state diverse proteste contro l'azienda produttrice di armi. Alla fine di luglio, alcuni sconosciuti hanno appeso alla cattedrale di Ulm uno striscione lungo 30 metri con la scritta: “Elbit fuori da Ulm – Fermate il genocidio”. Un altro stabilimento dell'azienda israeliana a Heidenheim è stato messo sotto protezione dalla polizia dopo l'attacco di lunedì.

(Israelnetz, 9 settembre 2025)

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Israele-Italia, la doppia faccia della serata: vincono gli Azzurri ma perde il tifo italiano

di Luca Spizzichino

Quello che avrebbe dovuto essere un momento di sport e rispetto si è trasformato in una brutta pagina per il tifo italiano. Al Nagyerdei Stadion di Debrecen, in Ungheria, prima del fischio d’inizio della sfida di qualificazione ai Mondiali tra Israele e Italia – partita poi vinta dagli Azzurri per 5-4 nei minuti di recupero – circa duecento tifosi italiani hanno voltato le spalle durante l’esecuzione dell’inno israeliano, esponendo successivamente cartelli con la scritta “stop” e accompagnando il gesto con fischi e cori.
Israele è scesa in campo con il lutto al braccio per ricordare le sei vittime dell’attentato terroristico di Gerusalemme, mentre sugli spalti erano presenti 35 ragazzi sopravvissuti alla strage di Majdal Shams, dove dodici giovani drusi furono uccisi da un missile di Hezbollah mentre giocavano a calcio. Di fronte a ferite ancora aperte, i tifosi arrivati a Debrecen per supportare la Nazionale hanno scelto di trasformare quel momento in un atto vergognoso, lontano dai valori dello sport.
L’episodio richiama quello avvenuto un anno fa a Budapest e si ripete come un copione triste. Non si è trattato di una protesta generica o di un appello alla pace, ma di un gesto mirato a colpire un momento solenne: l’inno nazionale, simbolo di identità e di rispetto reciproco nello sport. Voltare le spalle non significa dialogo, ma insulto gratuito.
Esiste una netta differenza tra critica politica e mancanza di rispetto: la prima può avere senso se argomentata e contestualizzata; la seconda resta solo maleducazione e superficialità. Voltare le spalle a un inno significa voltare le spalle allo sport stesso e al rispetto che lo sostiene. E per chi dice di amare la Nazionale e seguirla ovunque, questo gesto rappresenta il fallimento più grande.
Alla vigilia, il c.t. Gattuso aveva ricordato come “c’è tanto rispetto e tanto dolore”, cercando di riportare l’attenzione sul terreno del gioco e sulla dignità umana. Parole rimaste inascoltate da chi, in nome di una presunta protesta, ha scelto di macchiare la serata con una manifestazione sterile e offensiva.

(Shalom, 9 settembre 2025)

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Attentato a Gerusalemme, 5 morti e diversi feriti: «I terroristi hanno aperto il fuoco alla fermata dell'autobus». Hamas: «Azione eroica»

Attentato a Gerusalemme Est: i due terroristi, palestinesi di Cisgiordania, sono stati uccisi da due passanti. Il premier Netanyahu convoca la sicurezza nazionale

di Francesco Battistini

GERUSALEMME - Una mitraglietta è ancora per terra, vicino a un jersey di cemento. Davanti all’autobus, tra i vetri polverizzati, un haredim è immobile: arriva una moto arancione, il servizio d’emergenza 101 del Magen David, e il medico salta giù e si butta a praticare un massaggio cardiaco. 
È un lunedì di sangue a Ramot, vecchia colonia di Gerusalemme est, dove si viene a fare spesa nel secondo centro commerciale più grande della città. Alle 10 del mattino, poco lontano dalla bandiera americana di bronzo che ricorda l’11 Settembre, due armati spuntano all’incrocio che a quell’ora è affollato di settler, di religiosi, di gente che va al lavoro. C’è il pullman della linea 62 che ha appena fatto la sua fermata. Gli spari sono veloci, ripetuti. Qualcuno prova a buttarsi fuori dal bus: viene eliminato. 
I terroristi sparano anche sulle macchine di passaggio, finché due passanti – un ultraortodosso e un soldato - non riescono a rispondere al fuoco e ad eliminarli: sono due palestinesi di Kubiba e di Kutna, due villaggi della Cisgiordania, per uscire dai quali è necessario un permesso speciale (che non era stato concesso). Hamas, che pure non sembra direttamente responsabile, elogia «l'azione eroica» del commando.
Dice Nadav Taib, portantino d’una delle tante ambulanze che si sono precipitate su Ramot: «C’era il panico dappertutto, chi ancora scappava a piedi lungo la tangenziale». 
I feriti sono stati portati all’Hadassah Hospital e allo Shaare Zedek, da Ramla sono arrivati i flaconi di sangue per le trasfusioni.
I 5 morti, i 6 feriti gravi, gli altri 15 sono il bilancio più pesante degli attacchi terroristici degli ultimi mesi, in Israele. 
Pochi minuti dopo l’ennesimo proclama del ministro della Difesa, Israel Katz - che aveva preannunciato «oggi, un potente uragano di fuoco s’abbatterà su Gaza City» -, ecco l’attentato. 
Domenica sera, scrutando la luna rossa che in queste notti domina Gerusalemme, qualcuno aveva addirittura postato sul web una fosca profezia, «Luna di sangue», riferendosi ai cinquanta palestinesi che ogni giorno muoiono a Gaza e alla vendetta sotto forma d’attacco terroristico, che tutti s’aspettavano. 
Ogni ingresso e ogni via d’uscita a Gerusalemme, com’è d’abitudine rimarranno bloccati fino a nuovo ordine. 
Il premier israeliano, Bibi Netanyahu, ha riconvocato il gabinetto di sicurezza per decidere il da farsi: solo ieri sera, sul suo tavolo era arrivata l’ultima proposta di tregua nella Striscia, avanzata dall’amministrazione Usa. È probabile che il nuovo attacco congeli di nuovo tutto. Di sicuro, ha bloccato il processo per corruzione che proprio oggi doveva riprendere a carico del primo ministro. 
L’ultima volta, era stata quasi due anni fa: la prima sparatoria in Israele dopo il 7 ottobre, un mese e mezzo dopo l’inizio della guerra a Gaza. Era successo a Trampark, dove una coppia di terroristi aveva assaltato a colpi di mitra, usando anche una pistola. A terra, ammazzati, erano rimasti un rabbino e due donne. Nella concitazione del primo intervento, per sbaglio, i soldati avevano ucciso pure un israeliano che in realtà stava tentando di neutralizzare il commando. Anche allora, un autobus: l’obbiettivo più facile.

(Corriere della Sera, 8 settembre 2025)

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Proposta Trump: ultima opportunità per Hamas

di Samuel Capelluto

Donald Trump ha lanciato un’iniziativa senza precedenti: liberare tutti i 48 ostaggi, vivi e caduti, già nel primo giorno dell’accordo. In cambio, Israele dovrebbe scarcerare centinaia di terroristi condannati e migliaia di detenuti palestinesi. L’operazione “Merkavot Gidon B”, volta alla conquista di Gaza City, verrebbe interrotta e si aprirebbe un negoziato diretto, guidato personalmente dal presidente americano, con l’obiettivo di porre fine alla guerra. Durante le trattative, sottolinea il piano, non riprenderebbero i combattimenti.
   A Gerusalemme la proposta viene valutata con estrema attenzione: «Israele la prende molto sul serio, ma Hamas probabilmente continuerà nella sua ostinazione», hanno fatto sapere fonti governative. Netanyahu, pur mantenendo prudenza pubblica, sa che il piano offre a Israele una legittimità strategica: se Hamas rifiutasse, il via libera a un’operazione massiccia dentro Gaza city diventerebbe inevitabile e giustificato agli occhi del mondo.
   Trump stesso ha avvertito Hamas: «Questa è la mia ultima avvertenza. Non ce ne sarà un’altra». Non è la prima volta che il presidente minaccia l’organizzazione, ma questa volta l’ultimatum è accompagnato da una proposta concreta, definita dal coordinamento delle famiglie degli ostaggi «un’opportunità storica per riportare a casa tutti».
   Hamas, però, resta diviso. In una dichiarazione ufficiale il movimento islamista ha affermato di «accogliere con favore ogni passo verso un cessate il fuoco» e di essere disposto a sedersi al tavolo, ma ha rilanciato le sue condizioni massime: liberazione di tutti i detenuti, ritiro totale di Israele e creazione immediata di un comitato palestinese indipendente. Una posizione che appare ben lontana dalle richieste israeliane, incentrate sul disarmo della Striscia, del mantenimento del controllo di sicurezza israeliano sulla striscia e la creazione di un’amministrazione civile alternativa .
   Sul terreno, intanto, Israele continua a colpire con forza i grattacieli usati da Hamas nel cuore di Gaza City, preparando le condizioni per l’ingresso via terra. L’alternativa è ormai chiara: o Hamas accetta la proposta americana e consegna gli ostaggi, o si troverà ad affrontare la caduta della sua roccaforte e la sconfitta totale.
   Mentre il movimento terroristico trasforma i prigionieri in merce di scambio, Israele ribadisce il proprio obiettivo: riportare a casa i suoi cittadini e garantire che il 7 ottobre non si ripeta mai più. L’ “ultima opportunità” è nelle mani di Hamas. Se sceglierà ancora la strada del rifiuto, dovrà assumersi la responsabilità delle conseguenze.

(Shalom, 8 settembre 2025)

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Israele: il partito ortodosso Agudat Israel mette per la prima volta in discussione la sua alleanza con la destra

Per la prima volta dalla formazione dell'attuale coalizione, il partito ortodosso Agudat Israel lascia intendere che potrebbe riconsiderare la sua partnership con i partiti di destra. Questa presa di posizione arriva dopo la decisione del governo israeliano, annunciata domenica, di avviare una procedura di pianificazione per lo sfruttamento dei giacimenti di fosfati a Sdé Barir, vicino alla città di Arad, nel Negev.
L'area interessata ospita centinaia di famiglie appartenenti alla comunità chassidica di Gur, vicina ad Agudat Israel, che si oppone fermamente al progetto a causa dei rischi sanitari e ambientali.
Nel suo editoriale pubblicato lunedì, Hamodia, il giornale ufficiale del partito, ha criticato aspramente il governo, definendo la decisione un “colpo di forza”. Secondo il quotidiano, l'esecutivo avrebbe approfittato dell'attuale assenza di ministri ortodossi all'interno del gabinetto, conseguenza, secondo il giornale, di “una campagna di persecuzione contro il mondo della Torah”, per portare avanti un progetto che “ignora gli interessi di coloro che il governo pretende di considerare suoi ‘partner naturali’”.
Il giornale invita quindi i responsabili di Agudat Israel a “ridefinire le loro alleanze”: “È ora che il pubblico ortodosso capisca chi sono i suoi veri partner, quelli che cercano davvero il suo bene e quelli che lo riconoscono solo quando vi trovano un interesse politico”, si legge nell'editoriale.
“Il bilancio della partecipazione a un ‘governo al 100% di destra’ è estremamente scarso”, prosegue il testo, ricordando che questa alleanza non ha offerto al mondo ortodosso altro che “attacchi incessanti alla Torah”.
Questa dichiarazione segna una svolta politica importante: è la prima volta che Agudat Israel mette pubblicamente in discussione la sua partnership con la destra. È degno di nota il fatto che l'attuale crisi non sia legata alla spinosa questione della legge sul servizio militare obbligatorio per gli ortodossi, che aveva tuttavia provocato forti tensioni negli ultimi mesi, ma piuttosto a una decisione del governo ritenuta minacciosa per la comunità di Gur nel Negev.

(i24, 8 settembre 2025)

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Ebrei fuori da bar, università e red carpet: i nuovi boicottaggi sanno di leggi razziali

Le discriminazioni subite da studenti, professori e artisti somigliano ai provvedimenti antisemiti del ‘38. Il clima di intolleranza limita le libertà fondamentali.

di  Giuliano Cazzola

Il concetto di “Costituzione materiale” fu teorizzato da un grande giurista come Costantino Mortati per definire un insieme dei comportamenti, delle interpretazioni e della prassi effettiva che dà vita, integra e modifica la “costituzione formale” (ovvero il testo scritto della Costituzione) senza però contraddirla, a dimostrazione di come l’attuazione concreta e le dinamiche del potere politico influenzino il significato e l’efficacia della Costituzione stessa, talvolta creando un disallineamento o una tensione con il testo scritto. Ovviamente questo concetto può essere esteso anche ad altri regimi normativi, fino a individuare il manifestarsi di comportamenti di fatto (“materiali”) che regolano situazioni in assenza di una legge.
  Le leggi razziali del 1938 in Italia furono un insieme di decreti e leggi discriminatorie emanate dal regime fascista, principalmente dirette contro la comunità ebraica allo scopo di emarginare gli ebrei dalla società italiana, privandoli di diritti civili e politici. Questa legislazione del disonore fu abrogata in Italia con i decreti legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emanati nel territorio liberato dagli Alleati e dalla Resistenza, con l’obiettivo di reintegrare i cittadini perseguitati nei loro diritti civili e politici. La legislazione antisemita comprendeva il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei; il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana; il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei; il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri; la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1º gennaio 1919; il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali; il divieto per le scuole di adottare come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo.
  Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Furono 96 i professori universitari italiani di ruolo identificati come ebrei e sospesi dal servizio a decorrere dal 16 ottobre 1938, a cui vanno aggiunti gli oltre 200 ricercatori e studiosi ebrei che esercitavano la libera docenza. Insomma, oltre 300 docenti epurati dall’università italiana in seguito all’introduzione delle leggi razziali, senza contare i professori di liceo, gli accademici, gli autori di libri di testo messi all’indice e i tanti giovani laureati e ricercatori la cui carriera fu stroncata sul nascere. Si arrivò così a numeri molto più elevati.
  Le perdite furono particolarmente significative nei campi della medicina, delle discipline giuridico-economiche, delle scienze e delle materie umanistiche. Quanto agli studenti di religione ebraica, non era permessa l’iscrizione alle scuole di ogni ordine e grado, decretando così – come ha ricordato per la sua esperienza personale Liliana Segre – la fine dell’esperienza scolastica per migliaia di ragazzi che avevano condiviso fino a quel momento i banchi con i loro coetanei. Anche ai magistrati fu richiesta una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica.
  Senza accorgersene, stiamo strisciando – in via di fatto – in un contesto che presenta molte similitudini. Certo, nessuno sospende dal servizio i docenti ebrei e gli studenti, ma le “guardie rosse” pro-Pal limitano loro l’accesso negli atenei e nelle scuole, minacciando la loro sicurezza e impedendo lo svolgimento del loro lavoro. Sulla tragedia di Gaza c’è un “pensiero unico” che non può essere messo in discussione. Agli ebrei può essere precluso l’ingresso in locali pubblici (in sostanza, un barista può permettersi di non servire un caffè a un ebreo) e impedito l’esercizio della libertà di opinione (conferenze, manifestazioni, celebrazioni, ecc.). Persino la Giornata della Memoria è stata requisita.
  Le proibizioni delle leggi razziali vengono convertite in boicottaggi, ma l’effetto non cambia. Quanto ai libri, vi è un controllo politico sui loro contenuti. Fior di scrittori rifiutano la traduzione in ebraico delle loro opere. Le fiere rifiutano gli espositori israeliani; persino la Mostra del Cinema di Venezia, prodiga di premi e riconoscimenti per noiosissimi film iraniani, ha bandito dal red carpet due artisti israeliani. Ma il fatto più assurdo è la spinta alla rottura dei rapporti istituzionali, culturali e scientifici con Israele, dove i nostri atenei e le nostre amministrazioni hanno solo da perdere.

(Il Riformista, 8 settembre 2025)

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Ora salvate Carrai, l'amico di Israele messo al muro come "sionista genocida"

Va tutelato l'imprenditore fiorentino linciato dai fanatici pro Palestina

di Fiamma Nirenstein

Adesso, si tratta di salvare Marco Carrai. Un cristiano che ama Israele, per questo coperto di offese e minacce mortali. Perseguitato fino alla porta di casa da anni, e adesso indicato come "agente sionista genocida" sui muri della sua città, che è anche la mia, Firenze, perché è il console onorario d'Israele. La Toscana ultimamente eccelle in questa vergogna. È l'ora di scusarsi! Si devono scusare Giani presidente della Regione Toscana che ha chiesto a Carrai di dimettersi dall'ospedale Mayer; la città di Firenze che ha votato in consiglio comunale la rottura di tutti i rapporti con Israele sulla base di un documento che, fuori da questo mondo, parla dell'utilizzazione da parte di Israele degli stupri come arma da guerra! Dopo lo stupro di massa di Hamas il 7 di ottobre!
  Firenze e la Toscana si devono scusare per aver buttato alla spazzatura le magnifiche medicine israeliane; la coop per cancellare i prodotti di questa terra che ha fatto fiorire il deserto; la gente che ignora i fatti e si accoda alla antica fiumana di odio per gli ebrei addirittura in Piazza Signoria. Devono tutti salvare Carrai e il suo ruolo con un passo indietro, la polemica politica non deve travalicare il muro dell'incitamento all'omicidio, come invece sta succedendo. Sul manifesto per Carrai c' è la foto dell'imprenditore, l'anno di nascita, la scritta "wanted", l'elenco dei suoi titoli e la dicitura "agente sionista, complice del genocidio". In questo caso firma un centro sociale di estrema sinistra, marxista leninista con infiltrazioni jihadiste, ma è solo l'ultima delle persecuzioni contro Marco Carrai console in Toscana e Lombardia.
  Chi conosce Carrai sa che la passione per Israele è, in un carattere puntuto, deciso, scherzoso, da fiorentino, una roccia inamovibile infitta dentro la sua altra passione maggiore: il cattolicesimo nella sua versione scoutistica, quella del volontariato, in cui per altro è innestata la sua amicizia millenaria con Renzi. Dentro a questo involucro ideale, che conosce il senso dell'aggettivo "giudaico-cristiano" e sa che sta alle origini della democrazia, c'è molto senso pratico, di uno che non la confonde con stupidaggini fanatiche su falsi diritti umani che poi diventano apprezzamento della violenza: il suo affetto per Israele rispetta l'ebraismo, il suo restare democratico in mezzo a un mondo di terroristi aggressivi, ammira la capacità di mantenere alta la sicurezza. Carrai sa che il domani uno se lo deve conquistare, ma adesso è aggredito troppo da vicino. Ha tre bambini, una moglie di grande cultura, una salute che deve essere sempre salvaguardata con attenzione.
  Qui c'è un problema che riguarda tutta l'Italia: essere dalla parte di Israele in una regione rossa è ormai, che tu sia ebreo o meno molto, molto pericoloso. Sei sull'orlo del pogrom ogni giorno, le folle sono ormai scatenate, le parole e i gesti non si misurano più. Carrai è uno dei più visibili esempi di un problema molto largo. La violenza è dietro l'angolo. Sindacati, Anpi, centri sociali, movimenti per la pace, Ucoi possono diventare feroci macchine di guerra e compiere azioni di persecuzione personale anche se come ha fatto Carrai, hai portato fra i primi i bambini di Gaza all'ospedale contro ogni senso di realtà, hai mandato aiuti alimentari a Gaza tramite il porto di Ashod. Non importa. Basta dire Israele e il web e la piazza si scatenano. Ci sono valorosi oppositori: un gruppo di 100 intellettuali e giornalisti ha firmato una lettera in sostegno di Carrai che spiega la folle logica della persecuzione "sei amico di ebrei, o ebreo, non puoi ambire a cariche pubbliche". L'opportunismo della politica legittima pompose ufficialità: i cosiddetti governatori della Puglia Michele Emiliano, dell'Emilia Romagna Michele De Pascale, seguiti dal sindaco di Bologna Matteo Lepore e ora da Firenze hanno agito come se l'Italia fosse uno Stato federale rompendo i rapporti con Israele.
  È solo un richiamo della foresta per la folla che non sa che viene turlupinata continuamente sul numero dei morti, sul cibo non recapitato, sulle ragioni del conflitto. Dalla bugia continua, nasce la minaccia contro Carrai e un dilagante razzismo di massa.

(il Giornale, 8 settembre 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 13

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

L’inganno della mezza verità

    “Allora Dio parlò a Mosè, e gli disse: ‘Io sono l'Eterno, e apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come l'Iddio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro sotto il mio nome di Eterno. Stabilii pure il mio patto con loro, promettendo di dare loro il paese di Canaan, il paese dei loro pellegrinaggi, nel quale soggiornavano. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù, e mi sono ricordato del mio patto. Perciò di' ai figli d'Israele: 'Io sono l'Eterno, vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi emanciperò dalla loro schiavitù, e vi redimerò con braccio steso e con grandi giudizi. Vi prenderò per mio popolo, e sarò vostro Dio; e voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani. E vi introdurrò nel paese che giurai di dare ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe; e ve lo darò come possesso ereditario: io sono l'Eterno'’” (Esodo 6:2-8).

Una traduzione italiana riporta questo passaggio con il titolo “L’Eterno rinnova la promessa della liberazione”. Ma in che senso sarebbe un rinnovo? Non certo come doppione, non solo per la diversità con cui è formulata, ma anche, come vedremo, per il cambiamento di contesto in cui è avvenuta. Sarebbe allora una seconda edizione corretta e perfezionata? Ma perché ci dovrebbe essere una seconda edizione della promessa? Non bastava la prima? No, evidentemente non bastava, perché la prima appare essere una promessa non mantenuta. Mosè, cioè lo strumento che Dio aveva scelto per portare agli ebrei in Egitto la “buona notizia” di una loro prossima liberazione, si è sentito sconfessato dal suo Mandante, che gli aveva ordinato di annunciare la prossima liberazione agli schiavi e il risultato è stato che gli schiavi si sono visti raddoppiate le loro catene, e lui è stato maledetto da loro.
   La promessa dunque doveva essere ripetuta, non per inadempienza del Mandante, ma perché l’incaricato Mosè, come abbiamo già visto e vedremo ancora, non ha eseguito con fedeltà il suo mandato.
   Questa volta allora il contesto in cui sarebbe avvenuta la promessa era radicalmente cambiato in peggio. Il primo insuccesso aveva prodotto una serie impressionante di gravi crisi:
   1) tra il Faraone e Mosè;
   2) tra il Faraone e gli ebrei;
   3) tra gli ebrei e Mosè;
   4) tra Mosè e Dio.
Era questo che il Signore voleva?
   La spiegazione di tutto si trova in Esodo 5:3. Lì si vede un Mosè che al Faraone non dice quello che Dio gli aveva ordinato di dire (Esodo 4:22-23), e attribuisce a Lui un’intenzione che si era inventata sul momento.
   Riesaminiamo attentamente la cosa. L’ordine di Dio a Mosè era:

    Tu dirai al Faraone: ' Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, affinché mi serva; e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito’” (Esodo 4:22-23).

È ripetuto il verbo dire: “Tu dirai dice l’Eterno … io ti dico. Questo è un linguaggio politico-militare: l’Iddio degli ebrei incarica il suo ministro Mosè di consegnare nelle mani della massima autorità d’Egitto una dichiarazione di guerra in forma di ultimatum. In dichiarazioni di questo tipo le parole pesano come quintali, non possono essere tolte, o aggiunte, o scambiate: parlano alla ragione affinché la volontà sia diretta nella voluta direzione.
   Che fanno invece Mosè e Aaronne? Parlano al cuore affinché i sentimenti siano mossi a pietà:

    “Ed essi dissero: ‘L’Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrire sacrifici all'Eterno, che è il nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada’ (Esodo 5:3).

Figuriamoci quanto potesse commuovere il Faraone il pensiero che gli ebrei avrebbero dovuto soffrire per le punizioni ricevute dal loro Dio!
   Eppure è proprio questo che sottolinea un commentario biblico (Walwoord-Zuck, Casa della Bibbia):
   “Il Faraone fu insensibile riguardo alla possibilità che agli Israeliti potesse venire qualche danno”, come se invece avrebbe dovuto esserlo.
   Anche il commentario biblico di John MacArthur dice qualcosa dello stesso tipo:
   “Dopo il rifiuto del Faraone, i portavoce formulano la loro richiesta in modo più concreto e mettono in guardia dal possibile giudizio di Dio che potrebbe abbattersi su Israele se non obbedisse al proprio Dio”, anche se non sta scritto che Dio abbia fatto qualche minaccia agli ebrei, né lo farà mai fino all’uscita dall’Egitto.
   Il commentario biblico di William MacDonald dice invece:
   “Quando Mosè e Aaronne presentarono al Faraone il loro primo ultimatum, egli li accusò di voler distrarre il popolo dai suoi lavori”. Parla di “ultimatum”, perché questo era effettivamente ciò che Dio voleva, ma non è vero che Mosè e Aaronne lo “presentarono al faraone”, perché nelle loro parole non c’è alcun ultimatum, alcuna minaccia, neanche di altro tipo.
   Nessuno dei commentatori ha fatto invece notare che Mosè non solo non aveva riportato le esatte parole di Dio, ma ne aveva addirittura capovolto il significato. Le parole messe in bocca a Mosè dal Signore avevano un significato politico intimidatorio; il fatto di capovolgerle ne ha capovolto il risultato: ad essere intimiditi sono stati gli ebrei, non il Faraone.
   Una spiegazione un po’ diversa ci viene da fonte ebraica, e precisamente dal commentario “Esodo - ספר שמות“, edito da Mamash Edizioni Ebraiche:
   “Non ci colpisca: Moshè parlò a Par’ò nei termini a cui questo era abituato, citando un Dio vendicativo che punisce coloro che non Gli offrono sacrifici (Dà’at Mikrà). Rashì spiega che la minaccia di morte espressa da Moshè in realtà era rivolta all’Egitto ma, per rispetto alla corona, Moshè non parlò in seconda persona. È comunque molto probabile che Par’ò avesse colto il messaggio”.
   A differenza dei commentatori cristiani, Rashì si è almeno accorto che Mosè non ha riportato le esatte parole ricevute da Dio, anche se poi ne dà una spiegazione che appare anch’essa molto poco convincente.
   Va detto infine che se non fosse stato Mosè ad aver sbagliato, allora bisognerebbe dire che Mosè ha ragione nell’accusare Dio. Perché Dio aveva sì annunciato che il Faraone non avrebbe concesso di sua spontanea volontà l’uscita dal paese, ma aveva anche aggiunto che vi sarebbe stato costretto dalla “potente mano” di Dio che si sarebbe abbattuta sull’Egitto con segni e miracoli fino al punto di costringerlo a lasciarli partire. Non aveva detto invece che il Faraone avrebbe reagito con quella ferocia devastante che poi si è vista, moltiplicando fino all’impossibile il loro lavoro e riempiendo di botte i sorveglianti.
   Questo è avvenuto come precisa conseguenza delle parole di Mosè, che aveva scambiato l’intimidazione di Dio al Faraone: “se rifiuti… io ucciderò tuo figlio” con le parole: “affinché … Egli non colpisca noi”. Accettare l’intimidazione nella forma presentata da Mosè, per il Faraone avrebbe significato:
   1) riconoscere l’autorità del Dio degli ebrei;
   2) riconoscere il dovere da parte sua di preoccuparsi dello star bene degli ebrei.
Con la sua mezza verità, che è doppia menzogna, Mosè aveva alterato la parola di Dio, dunque non c’è da meravigliarsi se il diavolo, che quando dice il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna” (Giovanni 8:44), abbia immediatamente strumentalizzato questa menzogna per fare la sua politica: istigare l’autorità pagana sotto la sua giurisdizione a dare un segno di significato opposto: il Faraone avrebbe colpito ancora più duramente gli ebrei per far capire che:
   1) lui non conosce l’Eterno, quindi non gli attribuisce alcuna autorità;
   2) a lui non importa niente della salute degli ebrei.
Ciò che in realtà è accaduto, è che Mosè, come prima di lui Abraamo, sentendosi in pericolo davanti al Faraone ha pensato bene di cavarsela con una mezza verità. In quel caso, come ora in questo, Abraamo non fu pubblicamente rimproverato, ma per "il superiore interesse" del suo progetto, il Signore fu costretto a metterci una pezza. Cosa che fa anche in questo caso, ripetendo in sostanza il discorso fatto a Mosè intorno al roveto ardente, con qualche aggiunta e sottolineatura.
   Torniamo allora al passo di Esodo 6:2-8 riportato sopra.

Conoscere l’Eterno
   Dopo il tremendo “incidente diplomatico” col Faraone, e senza rispondere alle accuse di Mosè, il Signore gli rivolge la parola una seconda volta dopo il colloquio intorno al roveto ardente. Si riferisce ancora ai tre patriarchi Abraamo, Isacco e Giacobbe, precisando che pur essendo apparso a loro come “Iddio onnipotente” (אל שדי) non era stato conosciuto da loro sotto il nome di Eterno (tetragramma). In realtà, questo nome era stato pronunciato dai patriarchi qualche volta, ma qui non si tratta di conoscere lessicalmente un termine, ma di conoscere Dio sotto questo nome. Perché d’ora in poi il nome di Eterno sarà sempre collegato a qualcosa di specifico: il popolo che Dio ora si sta formando .
   Nel discorso del roveto ardente il Signore ha usato per la prima volta l’espressione “mio popolo” (Esodo 3:7-10); qui la ripete dicendo: “vi prenderò per mio popolo , aggiungendovi: “e sarò vostro Dio”, espressione usata anch'essa per la prima volta nella Bibbia. Il piano redentivo prevede dunque che Israele sia il popolo di Dio, e l’Eterno sia il Dio di Israele. Il programma è questo, ma il processo per far sì che Israele arrivi a conoscerlo in senso pieno sarà molto lungo. Ma il Signore è intenzionato a non demordere.
   Dio costringe Mosè a parlare una seconda volta ai figli d’Israele, dicendo loro: “Voi conoscerete che io sono l’Eterno, il vostro Dio”, ma dovrà anche ripetere quanto detto la prima volta: “il sono l’Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani”, e questo, gli ebrei gementi sotto un peso raddoppiato di lavoro, non se lo vogliono sentir dire da Mosè. Risultato:

    “Mosè parlò in quel modo ai figli d'Israele; ma essi non diedero ascolto a Mosè, a causa dell'angoscia del loro spirito e della loro dura schiavitù” (Esodo 6:9).

All’inizio avevano creduto a Mosè, ora non più. Eppure a Mosè Dio aveva detto che “essi ubbidiranno alla tua voce” (3:18). Poiché non è Dio che non mantiene la sua parola, bisogna dire che la voce di Mosè aveva perso l’autorità che Dio gli aveva data per rivolgersi al popolo.
   Il Signore comunque va avanti nell’esecuzione del suo progetto, e continua a usare Mosè come suo strumento; ma è chiaro che ora qualcosa deve essere aggiornato nel programma.
   Dal Faraone inizialmente avrebbe dovuto andare Mosè con una delegazione di anziani in rappresentanza della comunità ebraica. Dopo l’esito disastroso del primo incontro, i figli di Israele, che non credono più a Mosè, “si sfilano”. La relazione Mosè-popolo si è rotta. Il Signore allora ripete l’ordine di andare dal Faraone, ma questa volta è rivolto soltanto a Mosè:

    “E l'Eterno parlò a Mosè, dicendo: “Va', parla al Faraone re d'Egitto, affinché egli lasci uscire i figli d'Israele dal suo paese” (6:10-11).

Mosè ha capito che dovrà andarci da solo, e allora ancora una volta obietta:

    “Ma Mosè parlò alla presenza dell'Eterno, dicendo: “Ecco, i figli d'Israele non mi hanno ascoltato; come vorrà darmi ascolto il Faraone che sono impacciato con la parola?” (6:12).

L’obiezione è seria, perché da solo, a titolo personale, presentandosi al Faraone che ha dato in escandescenze la prima volta, che speranze ci sono di poter avere successo una seconda volta? E di nuovo tira fuori l’argomento di essere poco sciolto di lingua. Il Signore tiene conto solo di questa seconda obiezione e gli mantiene l’accompagnatore, ma poi emette un secco ordine :

    “Allora l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, e comandò loro di andare dai figli d'Israele e dal Faraone re d'Egitto, per trarre fuori i figli d'Israele dal paese d'Egitto” (6:13).

“Andate, e tirateli fuori!” Questo è il succo dell’ordine.

Politica interna e politica estera di Dio
   A questo punto si può cominciare ad usare in modo sistematico i concetti di politica interna e politica estera di Dio nella Sua guerra in corso contro Satana, il suo Avversario.
   Non è che parlando di guerra fra Dio e Satana si fa uso di un antropomorfismo: è vero il contrario. È dall’esistenza di questa guerra celeste che nasce il concetto che poi sarà applicato a tutti i conflitti terrestri.
   In ogni guerra si parla di politica interna e politica estera. Nella guerra contro Satana per la “riconquista del creato”, Dio ha scelto di formarsi la Sua nazione facendo un patto con Abraamo. Questo stabilisce una differenza eterna fra “la nazione” scelta da Dio (Israele), e “le nazioni” (tutte le altre). Detta così, la cosa è molto, molto irritante. Ma corrisponde all’uso che ne fa la Bibbia. Prendere o lasciare.
   Per politica interna di Dio s’intendono tutte le parole e azioni che Dio compie verso Israele per formare, educare, disciplinare il popolo della Sua nazione per il compito che dovrà svolgere nel mondo.
   Per politica estera di Dio s’intendono tutte le parole e azioni che Dio compie verso le nazioni, mettendole in relazione con Israele.
   L’uso di questo linguaggio serve a sottolineare che la Bibbia non è un’antologia di racconti su personaggi interessanti come Abramo, Mosè, Davide o Gesù, con paragrafi moralmente istruttivi o spiritualmente edificanti o artisticamente sublimi o miticamente fondanti, ma è storia dell’agire di Dio nel rapporto da Lui voluto con la terra abitata da uomini creati a sua immagine e somiglianza. È parola di Dio non solo nel senso lato che è Dio che parla, ma nel senso specifico che Dio parla di Sé, cioè rivela Se stesso, si fa conoscere attraverso parole e fatti. Infatti agli ebrei dice:

    Voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori che vi impongono gli Egiziani(6:7),

e degli altri dice:

    E gli Egiziani conosceranno che io sono l'Eterno, quando avrò steso la mia mano sull'Egitto e avrò fatto uscire di mezzo a loro i figli d'Israele” (7:5).

È ovvio concluderne che il personaggio principale della Bibbia è Dio stesso. Chi leggendola non trova Dio, ha perso il suo tempo. O forse qualcosa di peggio.
   Con linguaggio politico si possono indicare per esempio tutte le azioni di Dio dal patto di Abraamo in poi, classificandole come operazioni di politica interna o estera.
   Parlando molto in generale, in tutto il libro della Genesi l’azione di Dio nella gestione della tribù familiare abramitica è politica interna, con poche relazioni con figure politiche come Abimelec, re di Gherar, e poi, attraverso Giuseppe, con il Faraone d’Egitto e la sua corte.
   Nel libro dell’Esodo ha inizio la vera politica estera di Dio. In Egitto, nel periodo di tempo indicato da quel libro, si trova il popolo che dovrà formare la nazione promessa ad Abraamo. Il compito che ora compete a Dio è di trarre fuori il suo popolo dalla terra pagana in cui è cresciuto per portarlo nella terra che, secondo i patti, sarebbe stata donata alla nazione come suo possesso: cioè la terra di Canaan. Non si tratta dunque soltanto di liberare gli ebrei dalla schiavitù, in ossequio a un ideale universale di libertà per tutti gli uomini, ma di farlo uscire dalla terra di una nazione pagana per farlo andare a formare una “nazione santa” (Esodo 19:5-6) in un’altra terra.
   Per arrivare a questo dovranno essere compiuti atti di politica estera, necessariamente preceduti da atti di politica interna.
   La politica interna di Dio comincia con la nomina di un condottiero come capo politico e militare: Mosè. Continua con l’opera di convinzione del popolo che formerà la nuova nazione. Diventa politica estera quando al capo politico viene assegnato il compito di portare una dichiarazione ultimativa al capo della nazione avversa. E sappiamo come andò a finire.
   La missiva che doveva portare Mosè al Faraone è una dichiarazione ultimativa che è un atto politico della guerra in corso fra Dio e Satana per il possesso della terra e dei suoi abitanti. Mosè è l’uomo di Dio, il Faraone è l’uomo di Satana.
   È certamente una guerra asimmetrica, perché le armi con cui i due contendenti combattono sono infinitamente diverse tra loro: verità e giustizia da una parte, menzogna e ingiustizia dall’altra.
   È una guerra a risultato sicuro, perché si sa già chi è il Vincitore. Ma è proprio nel coinvolgimento degli uomini in questa guerra vittoriosa che si svolge il progetto redentivo di Dio.
   Bisogna dire allora che, fino a questo punto, mentre il Faraone, capo dell’esercito di Satana, ha svolto perfettamente il suo compito, Mosè, capo dell’esercito di Dio, non ha fatto altrettanto. Ha commesso un gravissimo errore “diplomatico” nella consegna della dichiarazione di guerra e, di conseguenza, ha mostrato di essere incapace di convincere il popolo a seguirlo nell’azione voluta da Dio.
   Alla fine, la volontà del Faraone sarà vanificata: il popolo uscirà dall’Egitto e si metterà in marcia verso la terra promessa. Ma nessun uomo, neppure Mosè, potrà vantarsi di questa vittoria. Il popolo potrà gioirne, come avverrà poi nel canto trionfale di Israele dopo il passaggio del Mar Rosso (Esodo cap.15), ma ne loderà l’Eterno. Perché solo a Lui appartiene la gloria.

(13. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 7 settembre 2025)


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Avvocato di Gaza rivolge un appello all’Albanese sui crimini di Hamas

Durante il convegno del Consiglio Nazionale Forense svoltosi oggi in streaming sul  tema “Guerra e diritti umani: Gaza, Cisgiordania e Israele” con la partecipazione di Francesca  Albanese, relatrice speciale ONU per i territori palestinesi occupati, l’avvocato astigiano Luigi Florio,  che era nel panel dei relatori, ha reso nota la lettera-appello fattagli pervenire da un avvocato di Gaza  perché fosse resa nota alla relatrice speciale. 
   L’avvocato, di cui Florio non ha reso noto il nome per non esporlo a gravi rischi personali,  lamenta come la popolazione gazawa sia vittima sia dell’occupazione israeliana conseguente alla  guerra scaturita dal massacro del 7 ottobre 2023, sia della “repressione sistematica imposta da  Hamas contro ogni voce che osi rivendicare dignità, libertà e giustizia”.
   Ho conosciuto questa persona tramite una collega di Lodi, Alessandra Casula, che già  aveva contatti con lui”, ha detto Florio. “Ci siamo parlati in videochiamata. Si sta cercando di  organizzare un convegno tra avvocati israeliani e palestinesi. Quando ha saputo che oggi avrei  avuto un incontro con la relatrice speciale Albanese mi ha pregato di metterla al corrente del suo  appello, con cui chiede che l’Onu apra gli occhi sui crimini quotidiani di Hamas, di cui nessuno parla e di cui egli stesso è stato più volte vittima con imprigionamenti arbitrari, torture, saccheggi  della sua casa. Ora teme per la sua vita”. 
   Florio ha comunicato che trasmetterà la lettera al presidente del Consiglio Nazionale  Forense, Francesco Greco, presente anch’egli al convegno, che ha al tempo stesso pregato di  impegnare l’avvocatura italiana per salvare la vita di questo e di numerosi altri avvocati gazawi  minacciati dal regime di Hamas oltre che dalla guerra che si combatte nella striscia. 

(il Giornale, 6 settembre 2025)

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Il Processo

di Angelica Edna Calò Livne e Francesco Lucrezi 

In tutto il mondo, da quasi due anni, si sta svolgendo, com'è noto, un gigantesco processo contro una parte del popolo ebraico (spesso tutto quanto), celebrato in tutte le sedi immaginabili: aule di tribunale, certo, ma anche giornali, televisioni, Università, scuole, piazze, festival, fiere, ristoranti, alberghi ... L'accusa è chiarissima: genocidio. Le condanne sono varie, alcune già applicate, altre di futura esecuzione: imputati cacciati, banditi, picchiati, uccisi, destinati (là dove stanno tutti insieme) alla completa eliminazione (dal fiume al mare). 
Si può forse discutere sul fatto se queste condanne siano più o meno appropriate, ma sul fatto che una qualche condanna ci debba essere sembra inutile discutere: possibile che l'intero mondo stia prendendo una gigantesca cantonata? 
Ma è la prima volta che ciò succede? Direi proprio di no. Ripercorriamo un po' di storia. 
Per quasi duemila anni gli ebrei (tutti gli ebrei del mondo) sono stati processati e condannati per avere (tutti quanti) ucciso Gesù. Ma poi, con grande tempismo, nel 1965, la Chiesa ha detto, in un comunicato di quattro righe, che non era vero. Piccolo errore giudiziario, scusate. 
Dopo hanno detto che usavano il sangue dei bambini cristiani per fare il pane azzimo. Molte condanne sono state emanate per questa ragione. Ma poi, qualche secolo dopo, hanno riconosciuto che non era vero. Piccolo errore giudiziario, scusate. 
Dopo hanno detto che erano tutti usurai. 
Poi, molto tempo dopo, hanno riconosciuto che non era vero. Qualcuno sì, tutti no. Piccolo errore giudiziario, scusate. 
Dopo hanno detto che erano tutti comunisti rivoluzionari e pericolosi sovversivi. Ma, nello stesso tempo, hanno detto che erano tutti ricchi banchieri capitalisti, affamatori del popolo. 
Poi si sono accorti che era difficile che fossero tutti entrambe le cose insieme. Hanno riconosciuto che c'era stata un po' di confusione. Due piccoli errori giudiziari uguali e opposti, scusate. 
Dopo hanno detto che appartenevano tutti a una razza inferiore. In questo caso, non bisognava dimostrare che si fosse fatto qualcosa di male. La colpa era genetica. Bastava avere uno solo dei quattro nonni ebreo, e il destino era segnato. Il bello è che, prima, nessuno sapeva che esistesse una razza ebraica, nessuno ne aveva mai parlato. Ma, improvvisamente, questa razza ebraica è comparsa, e quasi tutti ci hanno creduto, al punto da impegnare enormi energie per procedere alla dovuta opera di disinfestazione. 
Poi, però, gli stati impegnati a ripulire il mondo da questa razza, purtroppo per loro, hanno perso la guerra. E, improvvisamente, come un palloncino che scoppia, le razze, tutte le razze sono scomparse, compresa quella ebraica. Qualche milione di persone è stato condannato a morte per questo, ma pazienza. Nessun errore giudiziario, è solo il codice penale che è cambiato. Cose che capitano. 
Ora c'è questo nuovo processo (e questa nuova condanna) per genocidio. 
Domani certamente si riconoscerà che il solo fatto di averlo pensato è stato, oltre che una menzogna infamante, un'assurdità assoluta. Si riconoscerà che non c'è mai stato un solo caso, nella storia, in cui, in una guerra di difesa, tanti soldati abbiano preferito rischiare, e spesso perdere, la propria vita, pur di non mettere a repentaglio quella di civili innocenti. E si riconoscerà che l'unico responsabile di quelle morti era un altro. Si ammetterà che quella condanna è stata un altro, piccolo errore giudiziario. 
Magari avverrà tra qualche secolo, ma avverrà. Tanto, che fretta c'è? 

(Il Riformista, 6 settembre 2025)

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Deficit, audio falsi e decisioni degli Usa: ora l’Anp vacilla

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Un file audio diffuso anonimamente sui social media ha generato nei giorni scorsi un’ondata di preoccupazione in Cisgiordania. «Tra la gente, ma più di tutto nel quartier generale (la Muqata) del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen)», precisa Anwar, un anziano militante di Fatah a Ramallah che ci ha chiesto di non usare il suo vero nome. «Quelle registrazioni sono arrivate nel momento meno indicato – aggiunge – mentre l’Autorità nazionale palestinese (Anp) affronta una fase molto delicata». Abu Mazen e il suo vice Hussein Sheikh, ci spiega Anwar, si erano convinti che i riconoscimenti annunciati dello Stato di Palestina da parte della Francia e di altri Paesi occidentali avrebbero rilanciato il loro ruolo sulla scena diplomatica, anche in vista della gestione futura di Gaza.
   «Gli Stati Uniti li hanno gelati con la decisione annunciata da Rubio», afferma Anwar, riferendosi alla revoca dei visti d’ingresso comunicata dal Segretario di Stato Usa, che impedirà al presidente e ad altri funzionari dell’Anp e dell’Olp di partecipare all’Assemblea generale dell’Onu. «Poi – conclude – sono arrivati i file audio che annunciano il crollo dell’Anp. Nella Muqata regna la depressione».
   Gli autori degli audio restano sconosciuti, anche se la polizia dell’Anp ha arrestato tre persone accusate di aver diffuso i file. Nella registrazione, due uomini discutono del presunto imminente scioglimento dell’Anp e della situazione nei Territori occupati. Per il governo palestinese si tratta di «pura disinformazione». La registrazione, afferma, è «falsa». Allo stesso tempo la rapidità con cui la voce si è propagata e l’allarme che ha generato raccontano molto sullo stato d’animo della popolazione palestinese, che da lungo tempo percepisce l’Anp come piegata ai voleri di Israele e degli Usa, fragile e paralizzata politicamente.
   Del resto, la «discussione» tra i due palestinesi non identificati tocca questioni che da mesi animano le conversazioni nei bar, nei mercati e nei campi profughi: stipendi pagati a intermittenza, anno scolastico di fatto fermo, mancanza di risorse nei servizi di base e timori concreti di annessione della Cisgiordania a Israele. «Certo, qualcuno ha avuto interesse a realizzare e a diffondere sui social quelle registrazioni. Però non sono storie inventate, la gente parla di questo ogni giorno», sottolinea Anwar.
   È d’accordo l’analista Ghassan Al Khatib, docente di scienze politiche all’università di Bir Zeit. «Non stupisce che una voce anonima, priva di fondamento, sia riuscita a scatenare un’ansia collettiva», afferma. «L’Anp non gode di consenso – aggiunge – questo è noto da tempo, ma fornisce servizi importanti, dall’istruzione all’assistenza sanitaria, impiega decine di migliaia di palestinesi, rappresenta l’unico reddito per migliaia di famiglie. Il suo crollo improvviso, senza un’alternativa, avrebbe effetti catastrofici».
   Alla crescente incapacità della leadership dell’Anp di incidere sui processi politici si è aggiunta la preoccupazione del collasso senza orizzonte che, temono in tanti, potrebbe portare caos e instabilità nelle città palestinesi, destinate a diventare bantustan a tutti gli effetti se Israele, come prevede il piano presentato dal ministro Bezalel Smotrich, procederà all’annessione di gran parte della Cisgiordania senza assorbire la popolazione palestinese. L’ipotesi di un crollo dell’Anp si è rafforzata dopo la decisione di Trump, sotto la pressione di Israele, di prendere di mira Abu Mazen, che pure è l’esponente palestinese più moderato e pronto al dialogo con Tel Aviv e Washington. Pesa anche la crisi finanziaria prodotta dal blocco israeliano dei trasferimenti fiscali: oltre otto miliardi di shekel (più di due miliardi di euro) trattenuti che privano l’Anp di risorse vitali. Insegnanti, infermieri, agenti di polizia ricevono stipendi parziali o in ritardo, mentre ospedali e scuole sono in grande affanno.
   Al Khatib non sminuisce l’impatto e il significato politico della revoca dei visti d’ingresso negli Usa – un colpo basso non ancora assorbito dalla Muqata, al punto che la presidenza palestinese non ha chiesto che la sessione dell’Onu sia trasferita dagli Usa in Svizzera, come vorrebbero alcuni –, ma ritiene che il rischio di un’implosione dell’Anp e delle sue conseguenze sia la vera priorità al momento. «Se l’Autorità dovesse cedere – avverte – molti temono che il vuoto potrebbe essere occupato da milizie locali o da formule ibride e pericolose».

(il manifesto, 6 settembre 2025)

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Fabrizio Corona a Gerusalemme: la guerra come passerella

di Stefano Piazza

Ci mancava solo Fabrizio Corona a Gerusalemme. Tra sirene antiaeree, trattative in stallo e minacce di nuove offensive, è atterrato il «re del gossip» italiano, come se la Striscia di Gaza fosse l’ultima passerella utile per rilanciare un personaggio che da vent’anni si reinventa senza sosta: dalle copertine patinate ai reality show, dalle aule di tribunale alle interviste scandalistiche.
   La sua presenza in Israele è un ossimoro vivente. Da un lato un Paese che discute di sicurezza nazionale, ostaggi, operazioni militari e scenari geopolitici complessi; dall’altro un uomo che non ha mai avuto alcuna familiarità con conflitti, diplomazia o analisi internazionale. Corona non conosce i fatti, non maneggia i nomi, non ha idea delle dinamiche regionali. Ma per il suo universo mediatico questo non è un problema. Perché ciò che conta non è sapere, ma esserci: farsi vedere, occupare la scena, trasformare ogni contesto – anche il più drammatico – in un contenuto da raccontare.
   Ed eccolo dunque, catapultato in una cornice che nulla ha a che fare con la sua biografia, pronto a trasformare tragedie epocali in materiale per storie Instagram. Per gli israeliani, abituati a generali in uniforme e analisti di strategia militare, sarà difficile comprendere se Corona sia un inviato speciale improvvisato, un turista spaesato o un esperimento sociale. Il vero paradosso è evidente: mentre inviati di guerra e reporter indipendenti rischiano la pelle per documentare la realtà, basta l’arrivo di un ex fotografo dei vip per catalizzare l’attenzione. Un uomo che, più che al conflitto, è legato a un curriculum giudiziario che sembra uscito da un manuale di criminologia: condanne per bancarotta fraudolenta, per estorsione, una lunga serie di processi e rientri mediatici orchestrati con la precisione di un marketing spregiudicato.
   Il suo arrivo, lungi dall’essere un contributo alla comprensione del conflitto, diventa invece l’ennesima dimostrazione della debolezza del sistema mediatico italiano. Un sistema che, di fronte a un evento internazionale drammatico e complesso, riesce a spostare l’attenzione dal fronte alla cronaca rosa, dal destino degli ostaggi alla biografia di un personaggio che della provocazione ha fatto mestiere. In un momento in cui l’Europa discute di mediazioni, la comunità internazionale di cessate il fuoco e Israele di strategie militari, l’Italia riesce a esportare il peggio del suo star system. La sproporzione è lampante. Da una parte i diplomatici logorati da mesi di colloqui, i leader politici impegnati a cercare vie d’uscita, le famiglie degli ostaggi appese a notizie frammentarie. Dall’altra, un uomo che ignora completamente i meccanismi della diplomazia, ma che della guerra farà comunque un contenuto social, corredato da selfie e video da condividere con i follower.
   Il risultato è surreale, ai limiti del grottesco. L’idea che Fabrizio Corona possa raccontare la guerra di Gaza ha lo stesso peso analitico di un talk show del pomeriggio. Ma la cosa più inquietante è che trova spazio, attenzione e visibilità. Invece di chiedersi quali possano essere le conseguenze di una nuova offensiva, o quale futuro attenda i negoziati sugli ostaggi, ci si interroga su come mai Corona sia atterrato a Tel Aviv. E così, mentre in Medio Oriente si consuma uno dei conflitti più complessi e pericolosi degli ultimi decenni, l’Italia conferma il suo primato in una disciplina unica: trasformare la tragedia in spettacolo, la geopolitica in pettegolezzo, la guerra in un set fotografico.
   Morale della favola? Mentre Israele prepara nuove operazioni e Hamas proclama resistenza, Fabrizio Corona prepara storie Instagram e dirette You Tube per fare «il vero giornalismo» . Il conflitto continua, i mediatori si logorano, le famiglie piangono, ma lui sorride all’obiettivo, pronto a cavalcare l’ennesima onda di visibilità. È la dimostrazione che il circo mediatico italiano non conosce limiti né confini: pianta la sua tenda ovunque, anche in mezzo a una guerra. E alla fine resta solo una domanda, amara ma inevitabile: se la tragedia diventa palcoscenico, cosa resta della dignità del giornalismo? Forse nulla. Ma almeno avremo un nuovo selfie da commentare.

(L'informale, 6 settembre 2025)

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Il conformismo pro-Pal domina la Mostra di Venezia: The Voice of Hind Rajab ha già vinto

di Alessandro Agostinelli

Fin dal suo annuncio, il film della regista tunisina Kawthar ibn Haniyya era dato come probabile vincitore. Poi ci sono stati la proiezione con le bandiere palestinesi al Palazzo del Cinema e gli oltre 20 minuti di applausi. Nel mezzo si sono avvicendati l’appello Venice4Palestine, con firmatari più o meno convinti di aver aderito, e il corteo acqueo dei pro-Pal. Qui al Lido si intuisce che non ci sono mai state alternative. The Voice of Hind Rajab ha già vinto la 82esima Mostra del Cinema. Ha vinto comunque, a prescindere se riceverà o meno il Leone d’oro. È una storia vera. Viene da Gaza. È diretto da una bravissima regista donna. È un film ben orchestrato, che racconta la storia di Hind Rami Iyad Rajab, bambina palestinese di sei anni che il 29 gennaio 2024 fu fatta morire durante un’operazione dell’esercito israeliano nel nord della Striscia di Gaza. L’auto dove viaggiava con i parenti fu colpita da un carro armato. Si salvò solo lei, che rimase al telefono con la Mezzaluna Rossa. Ma, in attesa dei soccorsi, Hind Rami morì.
   Il film è basato sull’audio vero della bambina, mentre i soccorritori sono attori sul set. Così è stata pensata e montata questa pellicola, che avrà una buona distribuzione anche nelle sale europee e americane. Non c’è alcuna giustificazione per cui una bambina debba morire in auto, dopo aver visto uccidere i propri familiari. Non c’è giustificazione che tenga al confronto di questo strazio andato in scena a Gaza a gennaio 2024. Eppure è proprio sui corpi delle persone che si fa la guerra. E questo film, mettendo palesemente in scena pezzi di reale, agisce anche sui nostri corpi. È sui corpi che si gioca la politica, quelli dei poveracci e dei potenti, delle vittime e dei carnefici, degli informati e dei disinformati.
   Sui corpi lavora il cinema, e in questo caso su una porzione di corpo: la voce. Sul corpo di Marah Abu Zuhri ha agito il comune di San Giuliano Terme, sotterrandola nel proprio territorio (per questo il sindaco ha subìto una minaccia anonima giunta dagli Stati Uniti). Sono i corpi a entrare in gioco, anche nell’uso strumentale che di questi ne fa la politica, l’informazione, il doppio fine. E tuttavia c’è sempre una guerra concreta, sul campo. Ed è quella su cui è sempre difficile esprimersi, non conoscendone fino in fondo i rilievi. E c’è sempre una rappresentazione della guerra, che in questo caso è quella del film.
   Ma se lo strazio è vero e non è una rappresentazione? Ecco, pare che se si usa un lacerto di vita vera, allora siamo di fronte a un pezzo di verità. E va bene. Ma se l’immediatezza si sostituisce alla rappresentazione, come faremo a porre una distanza emotiva e quindi razionale sulle cose? Per molti è proprio questo che il cinema deve fare: porre porzioni di reale di fronte a un pubblico con la pancia piena. E infine c’è pure una guerra dell’informazione. Ed è esclusivamente su questa che si gioca la costruzione delle nostre opinioni, dei nostri giudizi, dei nostri stati d’animo. Oggi si chiuderà la 82esima Mostra d’Arte cinematografica di Venezia. L’omaggio alla Palestina ha dominato la scena: la storica rassegna di film conferma di adeguarsi al sentimento comune della maggioranza del Paese. E quest’anno ha deciso di sposare il conformismo pro-Pal.

(Il Riformista, 6 settembre 2025)

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Un sondaggio mostra ampio consenso alla conquista della città di Gaza

La guerra è iniziata con orrore e l'opinione pubblica non ha alcun interesse a che finisca con mezze misure.

GERUSALEMME - Mentre i commentatori internazionali si tormentano sulla guerra a Gaza, gli israeliani stessi sono consapevoli che la battaglia non è finita e deve essere vinta.
Un nuovo sondaggio pubblicato mercoledì sera mostra che una netta maggioranza del 65% degli israeliani sostiene la conquista della città di Gaza e dei campi profughi centrali, aree che sono ancora in gran parte sotto il controllo di Hamas. Il 32% si è detto contrario. Solo il 3% ha dichiarato di non avere un'opinione in merito.
Il sondaggio è stato condotto dal Direct Polls Institute e pubblicato dall'emittente israeliana i24. Il 3 settembre sono stati intervistati 513 adulti utilizzando un sistema digitale combinato e un panel di ricerca. Il margine di errore statistico è del ±4,4%.
I risultati appaiono sullo sfondo di un acceso dibattito all'interno della leadership israeliana. I decisori politici stanno spingendo per l'attuazione dell'operazione “Gideon's Chariot 2”, una manovra decisiva per conquistare le ultime roccaforti di Hamas. Al contrario, alti funzionari della difesa – tra cui il capo di Stato Maggiore, il tenente generale Eyal Zamir – sono stati citati dai media con l'intenzione di concludere prima un accordo parziale sugli ostaggi prima di approvare un'offensiva più profonda.
Tuttavia, il sondaggio chiarisce la posizione dell'opinione pubblica: determinata a portare a termine la missione. Per gli israeliani, il 7 ottobre non è un ricordo che può essere cancellato con la diplomazia. E come l'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, oggi la maggior parte delle persone crede che gli ultimi 20 ostaggi ancora in vita non possano essere liberati solo attraverso i negoziati.
Mentre i critici all'estero descrivono la guerra come una situazione di stallo o una crisi umanitaria, gli israeliani sanno bene che non è così. Una netta maggioranza non considera la conquista di Gaza City un'escalation, ma il necessario completamento della missione.
Gli israeliani rimangono divisi su questioni di tempistica e tattica, ma l'obiettivo è chiaro: Hamas non deve essere lasciato armato e al controllo della Striscia di Gaza. La guerra è iniziata con orrore e l'opinione pubblica non ha alcun interesse a che finisca con mezze misure.

(Israel Heute, 5 settembre 2025)

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Come Hamas cerca di dividere la società israeliana e il supporto a Israele

La proposta di Hamas è inaccettabile perché permetterebbe al gruppo terrorista di sopravvivere, cosa che Israele vuole evitare ad ogni costo. I terroristi lo sanno ma pensano di far leva sulla società israeliana divisa sull'attacco a Gaza city

di Paola P. Goldberger

Ieri sera Hamas ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui afferma di essere ancora in attesa della risposta di Israele alla proposta dei mediatori del 18 agosto, secondo cui dieci dei 20 ostaggi ancora in vita sarebbero stati rilasciati. L’organizzazione terroristica afferma di essere pronta a un “accordo globale”, che includerebbe “il rilascio di tutti i prigionieri israeliani in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi, come parte di un accordo che porterà alla fine dei combattimenti, al ritiro delle IDF da Gaza, all’apertura dei valichi e all’inizio del processo di ricostruzione”.
Fonti di sicurezza di alto livello affermano che Hamas sta cercando di impedire l’occupazione di Gaza City da parte delle forze di difesa israeliane e, pertanto, sta nuovamente diffondendo propaganda mediatica volta a promuovere la ripresa dei negoziati sull’accordo per gli ostaggi e un lungo cessate il fuoco, che ritarderanno l’occupazione di Gaza e le consentiranno di tergiversare per qualche altro mese. Secondo loro, attraverso l’annuncio, Hamas sta cercando di ampliare la frattura interna nella società israeliana e di mobilitare l’opinione pubblica contro le decisioni del governo.
Un alto funzionario di Hamas all’estero, Izzat al-Rashq, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Stiamo dicendo al presidente degli Stati Uniti Trump che Hamas ha accettato il 18 agosto la proposta dei mediatori, basata sulla proposta di Witkoff, e Netanyahu non ha ancora risposto. Abbiamo espresso la nostra disponibilità a un accordo globale, ma Netanyahu è il vero ostacolo agli accordi e vuole una guerra senza fine”.
Il mediatore palestinese-americano Bishara Bahabah, che funge da collegamento tra l’organizzazione terroristica e gli Stati Uniti, ha dichiarato ieri sera al canale saudita Al-Arabiya che “Hamas ha offerto tutto ciò che poteva, e in passato ha sempre rimandato. La risposta di Hamas all’offerta odierna è razionale e responsabile. Trump farà pressione su tutti affinché pongano fine alla guerra di Gaza, che può concludersi entro due settimane se c’è una reale intenzione. Ci sono più segnali positivi che mai verso una soluzione permanente per Gaza”.
Israele ha respinto categoricamente la proposta di Hamas. L’ufficio del Primo Ministro ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava: “Purtroppo, questa è l’ennesima versione di Hamas che non ha nulla di nuovo. La guerra può finire immediatamente alle condizioni stabilite dal governo: il rilascio di tutti gli ostaggi, il disarmo di Hamas, la smilitarizzazione della Striscia, il controllo di sicurezza israeliano su Gaza e l’istituzione di un governo civile alternativo che non fomenti terrorismo, non invii terrore e non minacci Israele. Solo queste condizioni impediranno ad Hamas di riarmarsi e ripetere il massacro del 7 ottobre più e più volte, come promette”.
Anche il Ministro della Difesa Israel Katz ha risposto all’annuncio di Hamas. In una dichiarazione, ha affermato che “Hamas continua a chiudere gli occhi e a pronunciare parole vuote, ma presto si renderà conto che deve scegliere tra due opzioni: accettare le condizioni israeliane per porre fine alla guerra, in primo luogo il rilascio di tutti gli ostaggi e il disarmo, oppure Gaza diventerà equivalente a Rafah e Beit Hanoun. Le Forze di Difesa israeliane si stanno preparando a pieno regime”.
Diverse ore prima dell’annuncio di Hamas, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha scritto su Truth Social: “Dite ad Hamas di rilasciare tutti i 20 ostaggi, non 2, 5 o 7, e poi le cose cambieranno rapidamente. Sarà finita!”
Alti funzionari politici a Gerusalemme affermano che non vi è alcun cambiamento nella decisione del gabinetto di sicurezza di occupare Gaza City e che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è determinato a implementare la decisione. Secondo loro, le IDF continuano a combattere nell’area di Gaza City e presto amplieranno notevolmente la loro attività. Il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha dichiarato che “l’Operazione Gideon Chariots II è stata lanciata”.
L’ala militare di Hamas ha annunciato tramite Al Jazeera di aver lanciato una serie di operazioni denominate “Quartier Generale di Mosè” per sventare il piano “Gideon Chariots II”.

(Rights Reporter, 5 settembre 2025)

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A Gaza non ci sono genocidio e carestia, lo studio empirico smonta le accuse: Israele attacca i terroristi e fornisce cibo

L’analisi del Centro Begin-Sadat parla chiaro: non esiste un disegno di sterminio della Striscia. I dati calorici pro capite restano sopra la soglia minima di sopravvivenza. E l’Idf è prudente

di Luca Sablone

C’è un termine che, più di ogni altro, fa tremare le coscienze: genocidio. È la parola che definisce la Shoah, i massacri in Ruanda, i campi di sterminio in Bosnia. È la parola che segna l’abisso morale dell’umanità. Proprio per questo viene usata a sproposito come arma devastante, per calpestare la memoria storica e strumentalizzare il diritto internazionale. Accusare Israele di genocidio significa accusare lo Stato ebraico – nato dalle ceneri dell’Olocausto – di ripetere lo stesso crimine di cui fu vittima. Una menzogna che trova terreno fertile nelle piazze, nelle Università e perfino nella comunità internazionale. Ma la verità è un’altra: nessun dato empirico dimostra un disegno di sterminio.
La tesi del genocidio viene smontata pezzo per pezzo dallo studio del Centro Begin-Sadat per gli Studi Strategici (BESA), Università Bar-Ilan, firmato da Danny Orbach, Jonathan Boxman, Yagil Henkin, Jonathan Braverman. «Le accuse di genocidio non sono corroborate dai dati empirici», scrivono nero su bianco gli esperti. Non è un dettaglio: è il cuore della questione. Anzi, subito dopo affermano che le dinamiche sul terreno (come evacuazioni, corridoi umanitari, pause operative) «suggeriscono piuttosto un tentativo, pur imperfetto, di limitare i danni collaterali».

Lo studio del BESA: i fatti abbattono la propaganda
  Il documento non è uno scritto polemico, ma una ricerca storica e quantitativa che prende in esame la guerra tra Israele e Hamas dal 7 ottobre 2023 all’1 giugno 2025. Il metodo è semplice ma rigoroso: confrontare dati ufficiali israeliani, comunicati ufficiali di Cogat (Coordinatore delle attività governative nei territori), rapporti dell’Onu, stime di Ong, indagini giornalistiche e fonti militari. Non opinioni o slogan, ma numeri e verifiche. Fatti. L’obiettivo è capire se davvero esistano le prove di un piano genocidiario. Il responso è netto, inequivocabile: non ci sono. Esistono invece migliaia di vittime civili, distruzioni immani, sofferenze senza fine. Ma la responsabilità è dei terroristi, che utilizzano la popolazione come scudo umano e che costruiscono le proprie basi militari operative sotto le infrastrutture sensibili, come scuole e ospedali.

Il contesto: tutto è partito dal 7 ottobre 2023
  Per capire tutto bisogna partire dall’inizio. Ovvero dal 7 ottobre 2023, quando Hamas lancia l’attacco più sanguinoso mai subìto da Israele: circa 1.200 morti, in gran parte civili, e oltre 250 ostaggi rapiti. Un pogrom bestiale. La risposta israeliana è inevitabile: un conflitto su larga scala, con operazioni di terra e un’offensiva aerea senza precedenti. Da quel momento, però, Hamas e i suoi alleati costruiscono la narrazione del «genocidio a Gaza», presentando lo Stato ebraico come carnefice e facendo cadere nel dimenticatoio il Sabato Nero. E l’Occidente fa da sponda alla macchina del fango. Le accuse sono sempre le solite: Israele affama deliberatamente la popolazione di Gaza; le forze di terra israeliane massacrano intenzionalmente civili; l’aviazione bombarda indiscriminatamente, senza distinguere tra combattenti e civili, colpendo in maniera sproporzionata.

(Il Riformista, 5 settembre 2025)

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La vera immagine del Messia

di Benjamin Shel Haseh Berger*

Sono passati quasi 2000 anni da quando il nostro Messia, Yeshua, il vero figlio di Davide, erede al trono di Davide e allo stesso tempo unico figlio di Dio, insegnava e compiva miracoli in terra d'Israele. L'incarnazione del Figlio dell'uomo, di cui parla il profeta Daniele, pose molti interrogativi ai primi Padri della Chiesa: è Dio? È uomo? È Dio-uomo? È Dio e uomo allo stesso tempo con due nature? Alla fine si comprese che era entrambe le cose – Dio e uomo – in una natura completamente indivisa.
   Tuttavia, con il passare del tempo, con la distruzione del tempio, la dispersione definitiva della maggior parte degli ebrei tra le nazioni e lo sviluppo della Chiesa di Gesù tra i pagani, l'identità ebraica del Messia fu completamente dimenticata. Molti leader ecclesiastici la sostituirono addirittura con un'identità non ebraica.
   Su ogni crocifisso c'è la scritta “Gesù di Nazareth, Re dei Giudei” (INRI), e lo stesso valeva per sua madre, che era ebrea e discendeva dalla stirpe di Davide. Tutti gli apostoli erano ebrei. Ricordo quando incontrai Papa Giovanni Paolo II; le sue ultime parole per noi furono: “Io sono il successore di Pietro, e Pietro era ebreo”. Egli non aveva dimenticato ciò che molti altri avevano negato in passato.
   Pilato scrisse un'iscrizione e la mise sulla croce; e c'era scritto: Gesù di Nazareth, re dei Giudei (Giovanni 19,19).
   Con lo sviluppo della teologia della sostituzione, l'identità del Messia e quella della Chiesa divennero completamente pagane, e ci si separò completamente dalle loro radici ebraiche. Il popolo d'Israele divenne il grande nemico della Chiesa, e la Chiesa divenne nemica del popolo ebraico. Un altro grande problema è che l'ebraismo rabbinico ha completamente escluso Yeshua dal campo d'Israele, presentandolo addirittura come nemico d'Israele.

Guardare indietro e andare avanti
  A causa di questa triste storia, si pone la domanda: come viviamo ora come ebrei messianici? Dobbiamo guardare indietro e allo stesso tempo andare avanti, trovare il modo di esprimere e vivere la nostra fede qui ed ora. Fare in modo che la nostra fede non sia una costruzione umana, ma un’autentica, rivelata opera dello Spirito Santo, è una delle sfide più grandi. Certamente, dobbiamo condurre una vita santa e giusta; dobbiamo camminare nella luce – davanti al Signore e gli uni davanti agli altri. Dobbiamo – come gli apostoli – riconoscere che i credenti pagani sono stati innestati nel nobile ulivo dell'Israele messianico e ora sono uno con noi.
   Solo ciò che è veramente nato dallo Spirito di Dio, vissuto in santità e giustizia e compiuto in obbedienza al nostro Messia, convincerà il popolo ebraico che Yeshua è l'erede del trono di Davide e convincerà anche il mondo che Yeshua di Nazareth è, come disse Pietro, «il Figlio del Dio vivente».
   Non lasciamoci sedurre, sia noi ebrei che i non ebrei, da insegnamenti che dipingono un'immagine falsa del nostro grande Signore. C'è il pericolo di trasformarlo in un rabbino ortodosso. Ma Lui è molto di più. È sì ebreo, della stirpe di Davide, ma è anche il Figlio di Dio e Dio stesso, che si è fatto uomo. Egli è innanzitutto il re e il Messia di Israele. È il re dei Giudei e allo stesso tempo il re di tutti i re.
   Come primogeniti nella famiglia di Dio – come ebrei che hanno riconosciuto il Messia – abbiamo la responsabilità di non imporre al Messia un'identità che abbiamo creato noi stessi. Siamo chiamati ad essere il popolo d'Israele che grida al Signore Yeshua HaMaschiach – vero figlio di Davide e figlio di Dio –: «Benedetto sei tu che vieni nel nome del Signore».
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* Benjamin Shel Haseh Berger è nato nel 1941 a New York, figlio di profughi ebrei. È pastore di una comunità messianica nella città vecchia di Gerusalemme.

(Israelnetz, 5 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il sistema segreto che Hamas usa per pagare gli stipendi di governo: saccheggiare gli aiuti umanitari e rivenderli, mentre il mondo incolpa Israele di affamare Gaza

La BBC afferma d’aver parlato con tre dipendenti di Hamas, ognuno dei quali ha riferito d’aver ricevuto trecento dollari nell’ultima settimana: soldi che servono per pagare 30.000 stipendi dei dipendenti pubblici per un totale di 7 milioni di dollari (5,3 milioni di sterline). Mentre Giulio Meotti sul Foglio denuncia, dati alla mano: “su 3.167 camion di aiuti umanitari entrati a Gaza tra il 19 maggio e l’11 agosto, solo 351 hanno raggiunto le destinazioni, gli altri sono stati saccheggiati”.

di Nina Prenda

Una delle accuse che vengono mosse contro Israele, al centro della pressione internazionale, è quella secondo la quale lo Stato ebraico starebbe utilizzando la fame come arma su Gaza. L’accusa viene riportata anche nelle sedi istituzionali italiane, dove, da ultima, nella giornata del 3 settembre 2025 al Senato della Repubblica italiana, è stata ospitata la conferenza stampa per la Global Sumud Flotilla, l’operazione mediatica e pubblicitaria che vede al centro decine di imbarcazioni dirette verso Gaza partite da più porti d’Europa nei primi giorni di settembre. In Senato, nel cuore istituzionale italiano, l’attivista Maria Elena Delia ha affermato: “È uno sterminio indiscriminato, sadico […] un laboratorio di sterminio. Quella di Gaza non è una fame dovuta a una carestia naturale, è una fame indotta da una carestia scientemente voluta dal governo israeliano”.
Eppure le gravi carenze alimentari a Gaza che le organizzazioni umanitarie continuano ad attribuire alla responsabilità di Israele non trovano coerenza con la realtà sul campo, ovvero con l’operazione di saccheggio degli aiuti umanitari attuata da Hamas al fine di rivendere la merce ad un prezzo maggiorato. La televisione inglese BBC, che ha ampi contatti a Gaza, rivela: “Un chilogrammo di farina nelle ultime settimane è costato fino a 80 dollari – un massimo storico”. Ancora: “Al fine di generare entrate durante la guerra, Hamas ha anche continuato a imporre tasse sui commercianti e ha venduto grandi quantità di sigarette a prezzi gonfiati fino a 100 volte il loro costo originale. Prima della guerra, un pacchetto di 20 sigarette costava 5 dollari – che ora è salito a più di 170 dollari”. La tv pubblica inglese afferma d’aver parlato con tre dipendenti di Hamas, ognuno dei quali ha riferito d’aver ricevuto trecento dollari nell’ultima settimana. “Durante tutta la guerra Hamas è riuscita a continuare a utilizzare un sistema di pagamento segreto basato sul contante per pagare 30.000 stipendi dei dipendenti pubblici per un totale di 7 milioni di dollari (5,3 milioni di sterline)” scrive la testata.
I dipendenti, dagli agenti di polizia ai funzionari fiscali, spesso ricevono un messaggio crittografato sui propri telefoni o dai loro coniugi che li istruisce ad andare in un luogo specifico in un momento specifico per “incontrare un amico per il tè”, ovvero ricevere lo stipendio. Al punto d’incontro, il dipendente viene avvicinato da un uomo – o occasionalmente da una donna – che consegna discretamente una busta sigillata contenente i soldi prima di scomparire senza ulteriori interazioni.
Rivela la BBC: “Oltre ai pagamenti in contanti, Hamas ha distribuito pacchi alimentari ai suoi membri e alle loro famiglie tramite comitati di emergenza locali la cui leadership è spesso a rotazione a causa dei ripetuti attacchi israeliani. Ciò ha alimentato la rabbia pubblica, con molti residenti a Gaza che accusano Hamas di distribuire aiuti solo ai suoi sostenitori ed escludere la popolazione più ampia. Israele ha accusato Hamas di aver rubato aiuti che sono entrati a Gaza durante il cessate il fuoco all’inizio di quest’anno, cosa che Hamas nega. Tuttavia, fonti della BBC a Gaza hanno affermato che quantità significative di aiuti sono state prese da Hamas durante questo periodo”.
Giulio Meotti, storica firma per il Medio Oriente, in un articolo di agosto per Il Foglio, scrive: “I dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i servizi ai progetti (Unops), il braccio operativo dell’Onu che contribuisce all’attuazione dei progetti umanitari, sul proprio sito web ha rivelato che, tra il 19 maggio e l’11 agosto, 3.167 camion carichi di aiuti umanitari hanno lasciato il territorio di Israele per raggiungere Gaza. Tuttavia, solo 351 di questi camion hanno raggiunto le destinazioni previste a Gaza, mentre 2.816 camion sono stati “intercettati” e saccheggiati lungo le rotte. I dati mostrano un numero record di 90 camion carichi di 1.695 tonnellate di aiuti saccheggiati solo il 31 maggio. Non è Israele a bloccare l’ingresso degli aiuti, come sostenuto dalla retorica dominante: i problemi iniziano dentro Gaza, dove le fazioni armate impediscono la distribuzione dei beni. I dati dell’Unops non fanno distinzioni tra i responsabili delle intercettazioni. Il 98,6 per cento degli aiuti rubati è costituito da cibo, il resto è classificato come “combustibile solido”, “nutrimento” e “medicine”. Il 90,3 per cento degli aiuti rubati apparteneva al Programma Alimentare Mondiale. Il resto a World Central Kitchen, all’Unicef, alla Croce Rossa e all’International Medical Corps Gaza. Hamas ha creato una rete di distribuzione parallela, che vende gli aiuti confiscati a prezzi dal 300 al 500 per cento superiori al valore di mercato, tassando i venditori e utilizzando il controllo alimentare come strumento politico. Da questo mercato nero Hamas riesce a ricavare decine di milioni di dollari”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2025)

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Al via l’anno scolastico delle scuole ebraiche di Torino con i disegni degli allievi

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Con l’apertura dell’anno scolastico le scuole ebraiche di Torino hanno presentato una nuova iniziativa: il diario-agenda che i ragazzi trovano sui banchi il primo giorno di scuola e che li accompagnerà fino a giugno 2026.
Dal 31 Dicembre 1913, con la circolare ministeriale n°6, che ha sancito l’obbligo del diario nella scuola italiana, fino ai giorni nostri, il diario scolastico si è evoluto: da semplice strumento di comunicazione durante il Regno d’Italia, a mezzo di propaganda del regime fascista per indottrinare i bambini e gli adolescenti delle scuole, a raccoglitore di compiti, avvisi, talvolta note, ma anche di dediche, segreti e pensieri di ogni alunno. Il diario è l’emblema degli anni che passano e dell’età che avanza: dai sei anni del primo giorno di scuola ai diciotto del diploma, è l’oggetto più desiderato e atteso tra il materiale scolastico.
Shalom ha chiesto alla professoressa Irene Cottura, coordinatore delle attività educative e didattiche delle scuole ebraiche di Torino di raccontare il progetto.
Cosa rende speciale questo diario?
Il progetto è un fiore all’occhiello della nostra Scuola che ha indetto un concorso a premi, molto atteso e partecipato dai ragazzi, dai più piccoli ai più grandi. In questo modo i ragazzi approfondiscono i diversi aspetti delle feste, a seconda dell’età. Il primo giorno di scuola cresce l’attesa per scoprire la copertina e i simboli vincitori.
Oltre alle parti istituzionali, alle comunicazioni tra scuola e famiglie ogni festa ha il simbolo disegnato da un alunno. La veste grafica è certamente originale, accattivante e vivace, abbiamo prestato grande attenzione al lunario ebraico e agli approfondimenti sulle feste.
Come sono state scelte le illustrazioni?
Gli allievi delle scuole hanno proposto i loro disegni per la copertina e per le immagini interne, una commissione composta da designer, grafici, professori e presieduta da me ha scelto il vincitore. È sempre molto difficile. Le copertine per la primaria e secondaria di Torino sono differenti ma tutte molto significative. Raccontano con colori e chiaro scuri, come solo i bambini e i ragazzi sanno fare, la situazione in cui sta vivendo il popolo ebraico e le speranze di pace per Israele.
Come si concretizzano le collaborazioni con le altre scuole ebraiche italiane?
Sono dieci anni che la Scuola di Torino realizza il diario. Ma la vera novità è stata che, in occasione degli incontri periodici con le scuole della Comunità ebraica di Trieste abbiamo avuto la possibilità di mostrarlo alle docenti che, colpiti ed entusiasti del nostro progetto, ne hanno apprezzato il valore educativo e artistico. Se l’anno scorso dati i tempi per organizzare il medesimo concorso con gli studenti di Trieste erano stati stretti quest’anno lo stesso concorso è stato indetto a Trieste: una dimostrazione dell’importanza del dialogo con i colleghi: è sempre una occasione di crescita e di confronto cui attribuisco grande importanza.
Come in passato abbiamo organizzato un apprezzatissimo viaggio di istruzione a Roma, un’occasione per i nostri alunni per conoscere i loro coetanei romani, visitare il museo, la sinagoga e il quartiere ebraico. Per le altre classi le mete del viaggio di istruzione sono state Firenze e Casale Monferrato dove, non essendoci scuole ebraiche, il supporto delle locali comunità ebraiche è stato fondamentale.

(Shalom, 5 settembre 2025)

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L’altro Sudafrica che sostiene Israele

di Nathan Greppi

Quando il Sudafrica ha deciso di intentare causa a Israele con l’accusa di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, diversi osservatori vi hanno visto una conferma dei loro pregiudizi, tali per cui equiparano Israele al regime di apartheid. Una tesi che non tiene conto del fatto nello Stato Ebraico i cittadini arabi godano da sempre del diritto di voto e di essere eletti a cariche pubbliche, mentre i sudafricani neri non avevano questi diritti quando vigeva la segregazione razziale.
Sono altre le ragioni per cui l’ANC (African National Congress) ha portato avanti la sua crociata contro Israele. Già sostenuto dai sovietici durante la Guerra Fredda, questo partito è fortemente vicino sul piano internazionale alle potenze antioccidentali come la Russia e la Cina. Tanto che Naledi Pandor, ex-Ministro degli Esteri sudafricano dal 2019 al 2024, durante un incontro tenutosi nel maggio 2024 in una moschea di Città del Capo ha confermato la sua speranza che lo Stato Ebraico fosse stato processato, dopo il loro prossimo obiettivo sarebbe stato quello di far processare anche gli Stati Uniti e “tutti quei paesi che armano e foraggiano la macchina da guerra d’Israele”.
Quello che spesso non traspare, è che l’opinione pubblica sudafricana è molto più eterogenea di quanto i media nostrani diano a vedere. Non solo tra i bianchi, ma anche tra i neri ci sono sostenitori d’Israele che si oppongono categoricamente ai falsi paragoni con l’apartheid.
Nel dicembre 2024, mentre il partito di governo ANC  portava avanti le sue posizioni filopalestinesi tradottesi nella causa intentata contro Israele all’Aja, una delegazione sudafricana si è recata in Israele, per visitare la Knesset e il luogo del massacro al Nova Music Festival, nonché per incontrare le famiglie degli ostaggi rapiti da Hamas. La visita, organizzata dall’organizzazione israeliana DiploAct in collaborazione con l’associazione SAFI (South African Friends of Israel), intendeva dare voce a quei sudafricani che prendevano le distanze dalle posizioni antisraeliane del loro governo.
Uno dei membri della delegazione, Bhelekazi Mabandla, ha dichiarato al sito di notizie israeliano Ynetnews: “Come sudafricano, non appoggio la decisione del mio governo. È molto triste che il governo sudafricano abbia intrapreso questa strada invece di sceglierne una di dialogo, riconciliazione e pace”.
Marie Sukers, all’epoca deputata dell’ACDP (African Christian Democratic Party), ha raccontato: “La narrativa dell’apartheid e del genocidio adottata dall’African National Congress ignora completamente la popolazione cristiana del Sudafrica – che ha forti legami con Israele – e il significato della nostra storia in questo conflitto. È molto triste vedere che la leadership sudafricana ha dimenticato ciò che ha impedito una guerra civile nel nostro paese”.
Bafana Modise, conduttore radiofonico e portavoce del SAFI, ha parlato al sito del Nova Music Festival. “Trovo difficile capire come il mio governo difenda coloro che hanno ucciso 400 giovani a una festa senza motivo. Facciamo feste in Sudafrica. Non voglio pensare che ci possa succedere qualcosa di così orribile. Mi vergogno che questa sia una decisione del mio governo”.
Un partito sudafricano che si è contraddistinto per le sue posizioni filoisraeliane è il PA (Patriotic Alliance). Nell’estate 2023, pochi mesi prima del 7 ottobre, una sua delegazione si è recata in visita in Israele, attirandosi aspre critiche da parte dei sudafricani filopalestinesi.
Nel difendere la decisione del suo partito, il vicepresidente di PA Kenny Kunene ha spiegato all’emittente televisiva Newzroom Afrika che “abbiamo un problema idrico in questo paese, e Israele ha buone tecnologie di desalinizzazione per trasformare l’acqua di mare in acqua potabile”. Ha aggiunto che “definire Israele uno Stato di apartheid è un insulto nei confronti di noi sudafricani. […] In Israele, ho incontrato deputati che sono palestinesi, giudici palestinesi che siedono nella Corte Suprema d’Israele […] In Israele, israeliani e palestinesi condividono la stessa toilette che ho usato anch’io. Durante l’apartheid, non avevamo la stessa toilette. Durante l’apartheid, non avevamo neri in parlamento. Durante l’apartheid, venivamo trattati diversamente”.
Se su Israele i partiti sudafricani a maggioranza nera si dividono tra quelli ostili (ANC, EFF) e quelli favorevoli (PA, ACDP), per i partiti di riferimento della minoranza bianca il discorso è diverso: se l’FF+ (Freedom Front Plus), che rappresenta la destra afrikaner, dopo il 7 ottobre si è dichiarato dalla parte d’Israele e contro il sostegno dell’ANC a Hamas, il centrista DA (Democratic Alliance) si è mostrato più cauto: il suo leader John Steenhuisen (attuale Ministro dell’Agricoltura del Sudafrica), in un’intervista del marzo 2024 ha detto sulla causa intentata alla Corte Internazionale di Giustizia: “Ho detto molto chiaramente fin dall’inizio che dobbiamo rispettare i processi della Corte Internazionale di Giustizia. Dobbiamo rispettare il risultato perché questo è il diritto internazionale. E come partito che sostiene il diritto internazionale, ci atterremo a qualunque sia il risultato”.
Alcuni politici non si sono limitati a difendere le ragioni dello Stato Ebraico, ma hanno persino giustificato l’occupazione israeliana in Cisgiordania: nell’aprile 2025 una delegazione di 15 parlamentari sudafricani, affiliati ai partiti PA, ACDP e DA, si è recata in visita nella West Bank, per sostenere la sovranità israeliana sul territorio.
In un sondaggio condotto dal Pew Research Center nella primavera del 2025, è emerso che talvolta in Africa la percentuale di coloro che simpatizzano per lo Stato Ebraico è superiore a quella in Europa: se in Italia il 29 per cento degli intervistati aveva un’opinione positiva d’Israele e il 66 per cento un’opinione negativa, in Sudafrica il 34 per cento aveva un’opinione positiva e il 52 per cento negativa. In altri paesi africani, il dato era ancora più favorevole: in Kenya, il 50 per cento aveva un’opinione positiva d’Israele e il 42 per cento un’opinione negativa, mentre in Nigeria per il 59 per cento era positiva e il 32 per cento negativa.

(InOltre, 4 settembre 2025)

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Gerusalemme, scoperta un’imponente diga di 2.800 anni fa

di Jacqueline Sermoneta

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Una diga monumentale, risalente a 2.800 anni fa, è stata portata alla luce dagli archeologi dell’Autorità israeliana per le Antichità (IAA) all’interno del Parco Nazionale della città di David, a Gerusalemme.
Secondo l’esperto Nahshon Szanton questa imponente struttura “dimostra che Gerusalemme era, già all’epoca, una città potente, tecnologicamente avanzata e in grado di realizzare importanti progetti ingegneristici”.
Lo studio condotto dagli archeologi dell’IAA e da studiosi del Weizmann Institute of Science rivela che la costruzione risale al regno dei Re di Giuda, Ioas e Amaziah, tra l’805 e il 795 a.e.v.
La posizione, i materiali e le prove raccolte da questa antica struttura dimostrano lo stile di vita degli abitanti di Gerusalemme e le necessità idriche del periodo, poiché la diga faceva parte della Piscina di Siloe, la più grande riserva della città che raccoglieva le acque della sorgente di Gihon.
Gli esperti hanno scoperto che la diga fu costruita strategicamente per far fronte alla carenza di acqua e alle inondazioni improvvise. La datazione, ottenuta grazie al metodo del radiocarbonio di altissima precisione, fornisce una prova tangibile della potenza del Regno di Giuda. La diga di Siloe è la più grande mai rinvenuta prima in Israele: è alta circa 12 metri, larga 8, per una lunghezza finora scoperta di 21 metri.
La diga “è una delle più significative testimonianze del periodo del Primo Tempio, straordinariamente conservata” ha spiegato Eli Escusido, direttore dell’IAA. Secondo il Ministro del Patrimonio, Rabbi Amichai Eliahu, l’opera dimostra come gli ebrei, già 2.800 anni fa, riuscirono a realizzare soluzioni ingegneristiche sofisticate e creative per affrontare le sfide climatiche.

(Shalom, 4 settembre 2025)

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IDF: oltre 1.100 soldati colpiti dal disturbo da stress post-traumatico

di Nathan Greppi

Dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, più di 1.100 soldati dell’IDF sono stati dimessi dal servizio poiché affetti da disturbo da stress post-traumatico (noto anche come PTSD). A riportarlo, i dati militari ottenuti dal sito d’informazione israeliano Walla.

Un problema in crescita
  I dati rivelano che 1.135 soldati in servizio attivo, riservisti e soldati di carriera sono stati rimossi dai loro incarichi tra il 7 ottobre 2023 e il luglio 2025 a causa di traumi psicologici riportati in combattimento.
Con i preparativi in corso per l’operazione di terra a Gaza City e la continua mobilitazione dei riservisti, i comandanti dell’IDF mettono in guardia su un peggioramento del bilancio della salute mentale delle truppe.
In risposta, il Corpo medico e la Direzione tecnologica e logistica dell’IDF hanno ampliato i servizi psicologici. Al Ministro della Difesa Israel Katz sono stati presentati dati che indicano che circa l’85% dei soldati trattati precocemente per sintomi acuti di stress da combattimento sono potuti tornare in servizio.
“Una delle questioni più difficili relative al disturbo da stress post-traumatico è la vergogna”, ha detto un ufficiale riservista che ha prestato servizio in più fasi di combattimenti dal 7 ottobre in avanti. “Combattenti e comandanti manifestano sintomi a vari livelli, ma hanno paura di chiedere aiuto”. Ha invitato l’IDF e il Ministero della Difesa ad aprire più strutture terapeutiche e canali di comunicazione per contrastare lo stigma sociale e fornire supporto a lungo termine.

Trovare delle soluzioni
  I comandanti delle forze di terra hanno affermato che il ramo dell’IDF che si occupa di salute mentale ha apportato miglioramenti significativi nella prontezza, nel trattamento e nel monitoraggio prima, durante e dopo il combattimento. “Siamo costantemente sorpresi dalla disponibilità e dalla qualità”, ha detto un ufficiale. “Ma non importa quanto viene fatto, dobbiamo continuare a pensare ai soldati ancora in prima linea”.
Tra le iniziative introdotte dall’inizio della guerra c’è la creazione di cliniche Ta’atzumot, dedicate al trattamento dei soldati in servizio attivo esposti a traumi durante il combattimento. Una hotline per la salute mentale è attiva 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, per i soldati e le loro famiglie. I soldati in congedo possono contattare l’Unità di risposta allo stress da combattimento mentre i membri del servizio di carriera al terzo anno o successivi possono raggiungere il Family Institute for Career Soldiers.
Anche l’Unità di risposta allo stress da combattimento, gestita congiuntamente dall’IDF e dal Ministero della Difesa, è in fase di ampliamento. Ulteriori filiali dovrebbero essere aperte nel nord e nel sud, assieme ad un nuovo centro nazionale per i soldati di carriera e le loro famiglie, che offre assistenza psicologica e medica completa.

Una questione urgente
  La crescente crisi che ha colpito la salute mentale dei soldati dell’IDF è diventata una delle sfide più urgenti che l’esercito e il governo devono affrontare. Il numero di riservisti in cerca di assistenza psicologica è aumentato da circa 270 all’anno prima della guerra a circa 3.000 all’anno, diventando più di dieci volte superiore. Coloro che si occupano della loro salute mentale affermano che ciò riflette non solo l’intensificazione dei combattimenti, ma anche una lenta erosione dello stigma che colpisce chi cerca aiuto.
Questo picco della domanda va di pari passo con un preoccupante aumento dei suicidi tra i militari. L’IDF ha riferito che 21 soldati si sono tolti la vita nel 2024, il numero più alto in oltre un decennio. Quest’anno sono già stati registrati almeno altri 17 suicidi, con la maggior parte delle vittime identificate come riservisti tornati dalle zone di combattimento. Il caso di Daniel Edri, un soldato morto dopo mesi di lotta contro traumi legati alla guerra, ha riacceso le richieste di riforme urgenti per le cure dei veterani.
In risposta alla crescente crisi, il governo ha formato un comitato speciale guidato dal Maggior Generale Moti Almoz, al fine di valutare e rivedere l’attuale sistema di supporto alla salute mentale per i soldati in congedo e in servizio attivo. Il comitato comprende psicologi militari, esperti legali e funzionari del Ministero della Difesa. Uno dei suoi principali obiettivi è quello di semplificare il riconoscimento dei segni dello stress da combattimento e migliorare l’accesso a cure tempestive.
Dal punto di vista operativo, l’IDF ha implementato protocolli di risposta più rapidi per garantire un intervento precoce. I soldati ora ricevono assistenza sanitaria mentale entro 24 ore dalla presentazione di sintomi come ansia, insonnia o disconnessione emotiva.

(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2025)

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Ciclismo - Direttore Vuelta per ritiro Israel Premier Tech da competizione

La replica: «Creerebbe pericoloso precedente»

«Dobbiamo trovare una soluzione tutti insieme. Per me al momento è solo una: che la squadra israeliana si renda conto che la sua presenza qui non facilita la sicurezza di tutti gli altri. Ma non possiamo prendere questa decisione, devono prenderla loro».
   Dopo l’ennesima violenza propal sulle strade della Vuelta, con la tappa di mercoledì “neutralizzata” ai tre chilometri dal traguardo di Bilbao per via della presenza massiccia di attivisti sulla linea d’arrivo e il concreto rischio di incidenti, il direttore tecnico della corsa a tappe spagnola Kiko García sembra aver trovato la soluzione giusta per svelenire il clima: mettere alla porta la Israel Premier Tech, la squadra israeliana più volte oggetto di “attenzioni” in questi giorni.
  Ipotesi neanche lontanamente contemplata dal team, che ha risposto in serata con una nota ufficiale in cui si afferma che un eventuale ritiro costituirebbe «un pericoloso precedente nel ciclismo non solo per Israel Premier Tech, ma per tutte le squadre». Nella nota il team dell’imprenditore e filantropo Sylvan Adams, da qualche mese alla guida della sezione israeliana del World Jewish Congress, ribadisce «il suo rispetto per il diritto di tutti a protestare, purché tali proteste rimangano pacifiche e non compromettano la sicurezza del gruppo». In questo senso, il comportamento degli attivisti in azione a Bilbao «non è stato solo pericoloso, ma anche controproducente per la loro causa e ha privato i tifosi baschi, tra i migliori al mondo, del traguardo di tappa che meritavano» .
   In classifica, dopo undici tappe, la Israel Premier Tech resta al decimo posto della generale grazie alle ottime prove finora dello statunitense Matthew Riccitello. Subito davanti a lui ci sono due italiani, Giulio Ciccone e Giulio Pellizzari. Mentre alle spalle Riccitello è tallonato a pochi secondi dal colombiano Egan Bernal, già vincitore di Giro e Tour de France, in cerca di rilancio dopo anni difficili. a.s.

(moked, 4 settembre 2025)

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La maschera dell’antisemitismo

Lettera a “L’informale”.

Gentile Redazione de L’Informale
Vi scrivo per condividere alcune riflessioni a partire dall’ignobile redazionale apparso su L’Internazionale (n. 1531, 28 agosto 2025), dedicato al saggio di Valentina Pisanty, Antisemita. Una parola in ostaggio (Bompiani). 
Trovo sconcertante che una casa editrice prestigiosa come Bompiani accolga un testo che, dietro la patina di rigore semiologico, finisce per normalizzare una distorsione pericolosa: quella che mette sullo stesso piano la legittimità di esistere di Israele e le critiche contingenti alle sue politiche, fingendo che la confusione nasca soltanto da un abuso linguistico. 
A rendere ancora più grave l’operazione culturale c’è il titolo stesso scelto da Internazionale per la nota di Giuliano Milani: Ostaggio. Non so se sia stato pensato in chiave ironica o metaforica, ma in un tempo in cui decine di ostaggi veri e propri sono ancora nelle mani di Hamas, usare quella parola come chiave di lettura per un libro che relativizza l’antisemitismo è un gesto doppiamente inaccettabile. La retorica linguistica qui scivola nella rimozione del reale: mentre ostaggi vivi attendono di essere liberati, la parola “ostaggio” viene piegata a un gioco semiologico che ignora il dolore, la paura, la carne della storia. 
In realtà, il problema è esattamente l’opposto di quello che sostiene Pisanty.
Il termine antisionismo è ormai costruito come schermo rispettabile dell’antisemitismo, una sorta di “codice aggiornato” che permette di odiare l’ebreo senza dichiararlo apertamente.
Non è un caso se lo slogan “Palestina libera dal fiume al mare”, che di fatto invoca la cancellazione di Israele, sia diventato parola d’ordine non solo nelle piazze mediorientali, ma anche nei campus occidentali e nei cortei europei. Non è “critica politica”: è negazione dell’esistenza di un popolo come soggetto nazionale.
Il ragionamento di Pisanty è subdolo in due punti fondamentali: 
Sposta il fuoco. Non si tratta più di stabilire se l’antisionismo sia davvero la nuova forma dell’antisemitismo, ma di accusare chi lo denuncia di “strumentalizzare” le parole. 
Ribalta la responsabilità. Non è antisemita chi nega a Israele il diritto di esistere, bensì chi smaschera questa negazione come antisemitismo.  
Così l’antisionismo viene presentato come legittima opinione critica, mentre chi ne rivela la vera natura – quella di maschera dell’antisemitismo – viene accusato di abuso linguistico. È un cortocircuito logico e morale che svuota di senso la lotta contro l’odio antiebraico e lascia campo libero a chi, oggi come ieri, delegittima l’esistenza stessa degli ebrei come soggetto politico e nazionale. 
Guido Turco

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Gent. Sig. Turco,
I tempi che viviamo sono sufficientemente atroci da giustificare un motivato disgusto. Atroci, perché, quando il vero e il falso non solo vengono scientificamente confusi, ma il secondo viene spacciato al posto del primo, si perde la bussola del nostro orientamento morale. La guerra ancora in corso a Gaza, a breve da quasi due anni, e causata dall’eccidio di Hamas perpetrato in Israele il 7 ottobre 2023, ne è la rappresentazione massima. Ha portato all’apice la menzogna diffondendo in modo massiccio la propaganda di Hamas che ha permesso la mostrificazione di Israele e un rigurgito ormai esondante di antisemitismo.
Lei coglie perfettamente nel segno là dove scrive, “Il termine antisionismo è ormai costruito come schermo rispettabile dell’antisemitismo, una sorta di ‘codice aggiornato’ che permette di odiare l’ebreo senza dichiararlo apertamente”. Valentina Pisanty ribalta la verità e si presta al gioco facile di coloro, e tra loro anche ebrei, i quali si sentono legittimati nel negare a Israele la sua piena legittimità e di considerare gli israeliani ebrei satanici, mentre, al contempo, si autoassolvono dall’accusa di essere antisemiti. Ma mentre storicamente è esistita in ambito ebraico anche se fortemente minoritaria, una opposizione ideologica al sionismo,  la quale poteva avere le sue ragioni prima della nascita di Israele, oggi, l’antisionismo rappresenta solo ed unicamente il desiderio che Israele cessi di esistere come Stato ebraico, ovvero chiede per esso la soluzione finale. Non sono certo deboli sofiste come la Pisanty a poterci convincere che questo non sia antisemitismo.  

(L'informale, 4 settembre 2025)

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Teshuvà: dallo spillo al sigillo

di Rav Adolfo Locci

I maestri del Midrash, nel commentare un verso del Canto dei Cantici, per insegnarci come intraprendere il percorso della Teshuvah (sincero pentimento e ritorno sulla giusta via), affermano che il Signore misericordioso ci chiede: “Apritemi un’apertura come il foro di uno spillo”. Questa richiesta, non sarebbe altro che una prova, necessaria per testare il nostro impegno a voler intraprendere questo percorso di Teshuvah. Se viene superata, nell’aprire quel piccolo pertugio, poi sarà il Signore ad espanderla in una apertura più ampia.
   Il messaggio è che una volta compiuto il primo piccolo passo, anche delle dimensioni di un “foro di spillo”, Dio verrà ad aiutarci ad andare molto più lontano e a compiere grandi passi avanti nel miglioramento e nella crescita. Non dobbiamo, e non dovremmo, cercare subito di apportare cambiamenti drastici e di diventare notevolmente migliori in modo repentino. La nostra sfida è creare una piccola “apertura”, avanzare lentamente, e sarà poi Dio che ci aiuterà ad andare ancora oltre. Ma perché i maestri hanno usato specificamente la metafora di un foro di spillo? Ci sono infiniti esempi con cui esprimere la metafora di una piccola apertura. Perché hanno scelto l’immagine di un ago che perfora una superficie? La risposta sta nel tipo di foro che produce l’ago: un foro minuscolo, ma permanente.
   Questo è dunque il messaggio che i nostri maestri desideravano trasmettere.
   Un serio percorso di Teshuva richiede di assumere piccoli e modesti impegni, con l’intenzione però di mantenere in modo permanente, per sempre. L’impegno, per ben iniziare, non deve essere enorme, ma sostenibile e per essere duraturo nel tempo, deve essere soprattutto onesto.
   Accade molto spesso che le persone che hanno apportato cambiamenti radicali al proprio stile di vita, lo mantengano per poco tempo e poi, prima di nascosto e poi in modo manifesto, ritornano al modo di fare che avevano prima. Questa non è Teshuvah. Si tratta di fare un buco molto grande nella sabbia, che produce un cambiamento significativo in superficie, ma che viene annullato molto presto, all’infrangersi della prima onda del mare.
   La Teshuvah è un foro di spillo, che apporta quei piccoli cambiamenti che rimangono permanenti e durano per produrre sempre più crescita e miglioramento spirituale.
   Questo è un messaggio essenziale su cui riflettere fin da oggi, primo giorno del mese di Elul.
Elul è il mese che momento propizio per prepararci spiritualmente alle grandi feste di Tishrì, Rosh Hashanah, Kippur. Le Selichot, le preghiere di supplica e perdono che da domani si inizieranno a recitare il mattino prima dell’alba e la sera prima del tramonto, sono uno dei mezzi per intraprendere questo processo. Ma per dare un senso a questi 40 giorni, non dobbiamo pensare in termini grandiosi ai cambiamenti che idealmente vorremmo apportare nelle nostre vite, perché tali pensieri non ci porteranno da nessuna parte.
   Il percorso che inizia con il mese di Elul, consiste nel riuscire a fare uso della qualità della Binah / discernimento che, in questo periodo, è molto favorevole (Binah e Elul hanno lo stesso valore numerico, 67). La Binah è essenziale proprio per creare “un’apertura come un foro di spillo”.
   Se impareremo ad agire secondo l’insegnamento dei maestri del Midrash, proponendo quei piccoli e realistici cambiamenti che si possano poi mantenere in modo permanente, Dio poi farà la Sua parte, ed espanderà quel “foro di spillo” in traguardi ancora più grandi e significativi per il nostro sviluppo spirituale, individuale e collettivo, Chodesh Tov!

(Kolòt - Morashà, 4 settembre 2025)
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Ottimo. L'azione del Signore che apre il pertugio piccolo come il foro di uno spillo e ci "aiuta ad andare molto più lontano e a compiere grandi passi avanti nel miglioramento e nella crescita" i credenti in Gesù la chiamano "grazia". L'apostolo Paolo infatti ricorda che: "è Dio che opera in voi il volere e l'agire, per la sua benevolenza" (Filippesi 2:13). Per far entrare in noi questa benevolenza, sarà bene allora tener presente quello chiede il Signore misericordioso secondo i maestri del Midrash: "Apritemi un’apertura come il foro di uno spillo". M.C.

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L'intervista a Dror Eydar: “La propaganda anti Israele esiste grazie ai miliardi di governi e ong”

di Giulia Sorrentino

«La campagna mediatica contro Israele orchestrata da RSF? Gli do un consiglio, dovrebbero pubblicare lo Statuto di Hamas in tutte le lingue. Come storico, conosco solo un documento simile, il Mein Kampf». A dircelo è Dror Eydar, precedente ambasciatore di Israele in Italia, oggi studioso e opinionista del più importante giornale israeliano, Israel Hayom.

- 250 testate giornalistiche di oltre 70 paesi per andare contro la narrazione filoisraeliana. Dietro che disegno c’è? E quanto incidono gli investimenti economici?
  «Come altre ONG, RSF fa parte di un'industria che fattura miliardi, sponsorizzata da governi e organizzazioni antisraeliane e persino antisemite, e naturalmente con l'aiuto di donazioni da parte di utili idioti benintenzionati. Non c'è davvero alcun controllo su queste organizzazioni, i governi non controllano cosa viene fatto con i loro soldi e trattano le loro donazioni come un compenso per proteggere la loro immagine. I politici vogliono apparire come persone illuminate, e cosa c'è di più illuminato della libertà di stampa, che è la base di ogni democrazia occidentale?».

- Si dice che l’attuale campagna sia finalizzata a difendere i giornalisti a Gaza…
  «Abbiamo visto con i nostri occhi come questi "giornalisti" operano come parte dell'organizzazione terroristica Hamas. Per anni hanno usato il titolo "Press" per mascherare l'attività terroristica. Gli esempi sono molteplici. Gli obiettivi del progetto e i documenti trapelati portano a concludere che il denaro del governo francese (tra le altre cose) abbia finanziato questa guerra di coscienza. Questa è un'ulteriore prova del collegamento distorto tra le organizzazioni per i "diritti umani" e i media, e il denaro dei governi europei. Immaginate quante volte ciò è accaduto senza che avessimo il privilegio di visionare i documenti trapelati, e quante accuse di omicidio sono state promosse e hanno avvelenato l'opinione pubblica mondiale. RSF può fare campagna per i giornalisti in Corea del Nord, dato che il livello di libertà di stampa lì e a Gaza è simile. Anche il livello di ipocrisia dei giornalisti che fanno campagna contro lo Stato ebraico, che lotta per la propria vita contro criminali che si sono prefissati l'obiettivo di distruggere Israele e uccidere quanti più ebrei possibile. Forse sarebbe bene che RSF facesse qualcosa per il bene dell'umanità, per una volta, pubblicando lo Statuto di Hamas in tutte le lingue. Come storico, conosco solo un documento simile pubblicato circa cento anni fa in tedesco: Mein Kampf».

- ⁠⁠Il bersaglio è l’Occidente, ma chi parla di islamizzazione viene tacciato di islamofobia. Quanto c’è di reale?
  «Esatto. L'obiettivo è la conquista dell'Occidente e la sottomissione della civiltà giudaico-cristiana sotto le ali dell'Islam. Questa non è fantasia, ma una semplice osservazione di ciò che i leader musulmani stanno pubblicando dall'interno dell'Occidente e sotto gli auspici di paesi come il Qatar, che acquista tutto ciò che può. Il leader supremo dei Fratelli Musulmani, Yusuf al-Qaradawi, scomparso tre anni fa, emise una fatwa nel 2003 per incoraggiare i suoi seguaci nell'Europa infedele: "I molti segni di salvezza sono cristallini e decisivi, secondo cui il futuro appartiene all'Islam e che questa religione di Allah trionferà... su tutte le religioni". Si basava su una tradizione, secondo la quale uno dei segni della redenzione sarebbe stata la conquista della città di Costantinopoli (Istanbul) e poi la conquista di Roma: "Costantinopoli fu conquistata nel 1453 dall'ottomano Muhammad Ibn Murad... e ora rimane la conquista dell'altra città - Roma, e questo è ciò che speriamo e in questo crediamo. Il significato di queste parole: l'Islam tornerà in Europa ancora una volta come conquistatore e vincitore dopo esserne stato espulso due volte... Credo che questa volta la conquista dell'Europa non avverrà con la spada, ma con la predicazione e la diffusione dell'ideologia islamica... fino a includere l'Oriente e l'Occidente (il mondo intero)”. Ma l'Occidente dorme, come negli anni '30. L'Europa si rifiuta di vedere il grande pericolo che la attende. Chiunque cerchi di risvegliare i popoli europei dal loro pericoloso sonno si scontra con un muro di accuse: questo è un meccanismo di silenziamento progettato per controllare il linguaggio attraverso il politicamente corretto. Ma è un meccanismo a senso unico: mentre è proibito parlare contro l'Islam radicale e i Fratelli Musulmani, a loro e ai loro sostenitori è permesso dire le cose più terribili contro Israele e contro gli ebrei. Viviamo in un periodo di oscurità intellettuale, in cui la verità è assente e occultata. Abbiamo bisogno di leader coraggiosi che si facciano avanti e si rifiutino di collaborare con la menzogna. Solo così l'Occidente potrà essere salvato».

- ⁠⁠Iran dà le armi e il Qatar i soldi ad Hamas: Israele non ha un solo nemico ma ne ha almeno tre…
  «L'elenco dei nemici di Israele è lungo. Iran, Qatar e Hamas ne sono solo una parte. Israele è l'avamposto di tutto l'Occidente. Non per niente i nemici dell'Occidente lo attaccano per primi: sanno che la caduta di Israele, Dio non voglia, sarà il preludio al crollo dell'intero Occidente. La nostra guerra contro Hamas, Hezbollah, l'Iran e altri nemici è la guerra di tutto il mondo libero. Il problema è che ci sono persone in Occidente che comprendono il quadro generale, ma è difficile per loro superare i sentimenti antisemiti che li pervadono. È difficile eliminare duemila anni di lavaggio del cervello antisemita. E così, invece di collaborare con Israele contro i nemici dell'Occidente, stanno lavorando per impedire a Israele di combattere i suoi nemici, che sono anche i loro nemici. L'Iran ha sviluppato armi nucleari e missili con una gittata che raggiunge l'Europa. Anche il Qatar sta operando dietro le quinte in Italia. I Fratelli Musulmani sono stati messi fuori legge in molti paesi arabi e classificati come organizzazione terroristica. Perché continuano a operare in Italia senza interferenze? Stanno sfruttando la democrazia occidentale per diffondere e agire contro i valori liberali della società italiana.  La tragedia è questa: Israele riconosce e conosce i suoi nemici, e quindi li combatte. Ma l'Occidente, e l'Italia al suo interno, non riconosce ancora l'enorme pericolo che lo minaccia. Ci sono alcuni leader irresponsabili in Europa che credono che sacrificando Israele otterranno la pace nelle loro strade. Questo è un terribile errore. Israele non è il problema, ma la soluzione per salvare l'Occidente. Ma come alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, lo stesso errore si ripete sotto i nostri occhi, come disse Churchill: "Avete scelto il disonore per paura della guerra; avete disonore e guerra insieme"».

- Eppure, c’è chi come la relatrice speciale ONU Francesca Albanese nega che Hamas sia un’organizzazione terroristica.
  
«Francesca Albanese non è l'unica a essere al servizio delle forze del male nel mondo. Ce ne sono stati molti prima di lei e ce ne saranno molti dopo di lei. Il problema è che i media la trattano come una figura legittima, mentre in realtà lavora per insabbiare i terribili crimini di Hamas. Persone come lei stanno minando l'esistenza stessa dell'Occidente, si stanno battendo contro la semplice verità che qualsiasi bambino può discernere. Albanese non si batte solo contro Israele, ma contro l'Italia e l'Occidente. Hamas è nemico dell'umanità come i nazisti prima di loro. Per quanto riguarda gli errori commessi, sono molti. Israele è impegnato in una guerra esistenziale su sette fronti. È difficile per Israele operare contro l'ulteriore fronte della propaganda globale contro di noi. Per fare questo, abbiamo bisogno di persone coraggiose e di una stampa coraggiosa che non abbia paura di lottare per la verità e per l'intero Occidente».

(Tempo, 3 settembre 2025)

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Dietro le navi "solidali" un assedio via mare con la regia di Hamas

La missione è propaganda in vista del voto Onu sullo Stato palestinese.

di Fiamma Nirenstein

Ieri una parte della Flottiglia internazionale diretta a Gaza si è mossa da Genova. Dovrebbe arrivare alle 70 imbarcazioni. Il 30 maggio del 2010 una flottiglia di 6 navi lasciò le coste di Cipro con 718 persone di 37 paesi. Israele non consentì l'approdo, peraltro illegale. Lo scontro fu durissimo e portò a sei morti, oltre che alla rottura con la Turchia. I pretesi aiuti erano il mero travestimento di una campagna politica, i naviganti in gran parte membri dell'IHH. Nel 2011 un altro tentativo ha portato centinaia di attivisti a tentare di entrare su voli commerciali. Poi è stata la volta di Greta Thunberg. Le Flottiglie sono uno sperimentato mezzo di propaganda, ma adesso siamo alla guerra aperta, a un assedio fisico e politico condotto con 70 imbarcazioni grandi, medie e piccole, super attrezzate o elementari, cariche di casse-regalo per Hamas che si avventurano da Genova, dalla Spagna dalla Tunisia, dalla Grecia, dalla Turchia per l' appuntamento davanti alla coste di Gaza con la scusa della consegna di aiuti alimentari. Se fosse vero, i naviganti e chi li organizza con molti mezzi saprebbero che il porto di Ashod, fornirebbe una strada semplice e garantita per consegnare il cibo, le bevande, le medicine: "fino all'ultimo yogurt" come ha detto il capo del movimento Genovese, che ha tenuto un discorso alla partenza davanti a una grande folla di portuali mobilitati nell'inconsueta evenienza. È la folla che deve essere mossa, è l'odio di massa che si cerca ormai: un'ondata popolare (che cosa lo è di più dei lavoratori genovesi, con la CGIL alle spalle) che minaccia la violenza: "Se verrà torto un capello ai nostri ragazzi bloccheremo il commercio in tutti i porti che controlliamo, tutto il Mediterraneo".
   Acque territoriali, divieti internazionali... che importa quando si tratta di colpire Israele. Non è un atteggiamento lontano dal pogrom, e certo riflette un cieco sostegno alla jihad e una ricerca di scontro sociale e politico in tutta Europa basato sulla parola d'ordine facile per tutti, attaccare Israele. C'è un risvolto strategico importante: alla fine del mese, quando si voterà all'ONU per lo stato palestinese, la flottiglia di fronte a Gaza, necessariamente bloccata da Israele in qualche modo, dovrà dimostrare a tutti che il consenso europeo antisraeliano è totale, dovrà ribadire sul campo lo slogan che l'IDF affama e compie genocidio. Questo, anche se è ben noto che centinaia di camion di aiuti entrano ogni giorno, distribuiti alla gente quando Hamas non li sequestra con le armi. Ma in questi giorni con la Flottiglia si torna allo slogan della fame e lo si rende uno slogan popolare europeo, di cui non a caso i sostenitori italiani sono Conte, Fratoianni, Bonelli e, come no, Schlein. Questo è lo scopo: mentre la spuma marina sui fianchi dei battelli umanitari accompagna l'Europa a Gaza, si avvicinano i cattivi militari a impedirlo. Sarà così chiaro come sia indispensabile stare con Macron e gli altri che voteranno alle Nazioni Unite per lo Stato palestinese, un premio a Hamas. Da dove esca tanto denaro da finanziare una flottiglia come questa è difficile dire: ma dato che Hamas e i proxy dell'Iran hanno potuto sempre contare sui miliardi sia sciiti che sunniti, anche stavolta si può pensare che siamo sulla stessa strada, quella del terrorismo finanziato. A Barcellona, si è imbarcato dice il Jerusalem Post, Jaidia Abubakra, fondatore di "Sentiero Rivoluzionario Masar Badil", coordinatore della struttura madrilena del Network di solidarietà con i prigionieri di Samidoun. Samidoun, fondata nel 2011 con uno sciopero della fame guidato dai prigionieri di sicurezza del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, è un ramo dell'organizzazione marxista leninista designata come terrorista nel 2021. La Germania ha bandito Samidoun nel 2023, e nel 2024 il loro esempio è stato seguito da USA e Canada. Khaled Barak uno dei suoi leader, descritto come uno dei leader del PFLP è nella lista americana per le sue connessioni terroristiche, ed è il fondatore con Abubakra nel 2021 di Masa Badil. Un altro personaggio molto noto è l'onnipresente attivista palestinese Saif Abu Kish, certo non un promotore di pace.
   Questo significa che tutta la Flottiglia è composta di jihadisti? Che gli aiuti alimentari sono forniti in mala fede? No, sulle navi certo troviamo persone generose e in buona fede. Forse non sanno quanto ormai il nesso fra Hamas, il terrorismo, la jihad sia indistricabile e pericoloso per loro stessi.

(il Giornale, 3 settembre 2025)

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Le Ong pro-Pal arruolano i giornali, ecco il piano anti-Israele: fake e propaganda su oltre 200 testate

di Andrea B. Nardi

Attenzione: oltre 200 testate giornalistiche preparano una campagna anti-Israele coordinata da due Ong (Reporters Without Borders e Avaaz). La campagna mediatica internazionale è orchestrata appositamente per diffamare Israele, inondando l’opinione pubblica di fake news, e coinvolge almeno 50 Paesi. L’operazione si chiama Global Media Join Forces in a World-First for Press Freedom in Gaza, è sponsorizzata dal Palestinian Information Center di Hamas; e continua la meticolosa strategia di propaganda jihadista di menzogne cui abboccano gli utili idioti occidentali. Alle testate giornalistiche viene richiesto di diffondere un messaggio unificato che affermi: “Al ritmo con cui i giornalisti vengono uccisi a Gaza dall’esercito israeliano, presto non resterà più nessuno a tenervi informati”.
  Il falso presupposto della campagna è che “a Gaza sono stati uccisi dall’Idf almeno 210 giornalisti”. Questo dato, in realtà, è completamente inventato, come acclarato da numerose indagini indipendenti, sia di istituzioni sia di autorevoli redazioni private. Il Wall Street Journal, per esempio, il 21 agosto scorso ha scritto: “Dei 192 presunti giornalisti nell’elenco del Cpj, Committee to Protect Journalists, 26 erano collaboratori di Al-Aqsa Tv, struttura di Hamas; 19 appartenevano ad Al-Quds Al-Youm, in forza alla Jihad islamica; 7 erano di Palestine Today, che lo stesso Cpj inquadra nella Jihad; 6 stavano con Al Mayadeen o Al-Manar (che appartengono a Hezbollah); altri 23 erano per pseudo testate inquadrate in vari gruppi terroristici che vanno da Hamas al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e agli Houthi, come confermato anche dal Dipartimento di Stato Usa”.
  E ancora: Anas al-Sharif, reporter di Al Jazeera, era a tutti gli effetti arruolato in Hamas; idem Abdullah Al-Jamal, spacciatosi per corrispondente di Palestine Chronicle, era il terrorista che teneva prigionieri in casa sua tre israeliani rapiti il 7 ottobre. Quindi, a parte i numeri di morti gonfiati ad arte, e non essendoci a Gaza giornalisti embedded, le uccisioni mirate dell’Idf colpiscono terroristi veri semplicemente travestiti da giornalisti, come quelli in azione nell’ex ospedale Nasser a Khan Yunis: Jum’a Khaled, Hisham Tayseer, Imad Abd al-Hakim, Muhammad Ahmad, Salah Yusuf, Omar Kamal. Tutti appartenenti ad Hamas e perfino coinvolti nel massacro del Sabato Nero.
  Eppure, le due Ong stanno bombardando di istruzioni precise le redazioni internazionali per calunniare Israele con accuse infondate. Queste prevedono: prime pagine di stampa interamente o parzialmente nere con messaggi unificati; per le news online, banner neri con scritte coordinate e link ai comunicati stampa di Rsf; dichiarazioni prescritte per le emittenti televisive su schermi neri; materiali uniformati tradotti in nove lingue. Le testate partecipanti a questa operazione ricevono copioni e messaggi già scritti; materiali visivi e modelli standardizzati; tempistiche coordinate attraverso i fusi orari globali; campagne di hashtag unificati.
  In tutto ciò non c’è proprio nulla del giornalismo indipendente e della protezione dei diritti. D’altra parte, Rsf non è nuova alle critiche di essere un gruppo fazioso terzomondista, mentre Avaaz appartiene allo spettro della sinistra-liberale, con appelli e azioni sempre diretti contro politici e gruppi di opposta compagine politica. Tutto ben lontano dalla libertà di stampa e dalla verità; molto più corretto definirlo raffinata guerra mediatica del neo-terrorismo jihadista.

(Il Riformista, 3 settembre 2025)

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L’ombra dell’odio sulle università italiane

di Nathan Greppi

Hanno fatto scandalo le esternazioni di Luca Nivarra, docente di giurisprudenza dell’Università di Palermo che ha invitato i suoi follower a “ritirare l’amicizia su FB ai vostri ‘amici’ ebrei, anche a quelli ‘buoni’”, e a “farli sentire soli, faccia a faccia con la mostruosità di cui sono complici”. Nivarra, che in passato è stato arrestato per peculato, aveva definito su Facebook gli israeliani “solo macchine di morte votate allo sterminio dei palestinesi”, che “con il sangue dei palestinesi” vorrebbero “lavare quello degli ebrei vittime della Shoah”.

Deriva drammatica
Quello di Nivarra non è un caso isolato: da quando è scoppiata la guerra tra Israele e Hamas, non sono stati sdoganati solo l’antisionismo e i boicottaggi d’Israele, ma anche l’odio nei confronti degli ebrei come popolo. Un odio che sta diventando sempre più evidente nel mondo universitario, che in teoria dovrebbe aprire le menti e contrastare i pregiudizi. Non si contano le censure nei confronti di ebrei e filoisraeliani: da Maurizio Molinari, contestato prima all’Università Federico II di Napoli e poi all’Università di Parma, a David Parenzo, che non ha potuto parlare all’Università La Sapienza di Roma. Senza contare gli atenei che hanno adottato posizioni ostili a Israele: come l’Università di Pisa, che ha deciso di interrompere gli accordi con gli atenei israeliani; o come l’Università di Urbino, che ha pubblicato un documento di condanna della guerra a Gaza, ma senza mai menzionare le vittime del 7 ottobre o i crimini di Hamas.
L’ostracismo dei collettivi propal non prende di mira solo gli studenti israeliani, ma anche ebrei italiani e non ebrei che si oppongono all’antisemitismo. È ciò che è successo a maggio all’Università di Torino, quando i manifestanti hanno impedito lo svolgersi dell’incontro Per le Università come luogo di democrazia e di contrasto all’antisemitismo.

Conformismo dilagante
Se le posizioni antisraeliane si impongono negli atenei non è solo per l’atteggiamento aggressivo degli attivisti, ma anche perché dall’altra parte vi è un conformismo che spinge in molti a stare in silenzio o a giustificare gli intolleranti per paura o per opportunismo.
“Quando si è iniziato a discutere della possibile interruzione dei rapporti con le università israeliane, devo dire che anche i miei colleghi ebrei in ateneo, o perché antisionisti o perché codardi, mi hanno lasciata totalmente sola”, ci racconta Alessandra Veronese, docente di Storia Medievale all’Università di Pisa e già direttrice del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici. “Al Senato Accademico, mi sono presentata con una mia mozione contro l’interruzione degli accordi, firmata da pochi colleghi, tra cui il docente di Scienze Politiche Rino Casella”.
Purtroppo, “alla fine è arrivata la mozione del Senato Accademico per rescindere i rapporti, anche se in realtà non hanno sospeso l’Erasmus con l’Università Ebraica di Gerusalemme, che in teoria rimane in vigore. Questa è una mozione ipocrita: colpisce Israele ma non tocca gli accordi che abbiamo con le università iraniane, turche e cinesi, nonostante quello che la Cina fa ai tibetani e agli uiguri”.
La Veronese racconta che “un altro episodio grave è avvenuto nel dicembre 2023; dovevamo invitare uno storico italiano che vive in Israele, Samuele Rocca, per presentare il suo libro In the Shadow of the Caesars: Jewish Life in Roman Italy. Ma in quell’occasione, due docenti hanno contestato l’invito perché l’Università di Ariel, dove insegna Rocca, si trova nei Territori occupati”.
Non è solo a Pisa che si verificano certi episodi: “All’Università di Firenze ci sono almeno cinque dipartimenti che hanno chiesto di recedere dagli accordi con le università israeliane”, spiega Benedetto Allotta, che nell’ateneo fiorentino insegna Robotica Industriale. “Anche nel mio dipartimento, nei prossimi giorni, si svolgerà un’assemblea di tutto il personale finalizzata a promuovere ‘azioni sulla pace.’ È presumibile però che queste assemblee si rivelino occasioni per illustrare mozioni, da presentare successivamente nei rispettivi consigli di dipartimento, che chiedono di uscire dagli accordi. Alla fine, credo che l’università sceglierà di mantenere gli accordi in corso ma di non rinnovare quelli in via di scadenza, almeno finché non si saranno calmate le acque”.

Israeliani discriminati
Quando Alessandra Veronese ha proposto la sua mozione a Pisa contro l’interruzione degli accordi, “gli studenti israeliani erano talmente terrorizzati che hanno chiesto di non esporre le loro singole firme sulla mozione, ma di firmarla come un gruppo per non essere identificati. Questo perché avevano paura e non si sentivano protetti da nessuno”.
A subire l’ostilità non sono solo gli studenti, ma anche i docenti, come ci racconta Sara Britti, dottoranda in Studi Religiosi presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. “Nel settembre 2024, eravamo ad uno dei seminari della nostra Summer School, che facciamo alla fine di ogni anno accademico per presentare i risultati delle nostre ricerche. Tra i relatori c’era la storica israeliana Tamar Herzog, che si occupa di tematiche di genere e storia della schiavitù”.
La Britti spiega che “dato che la lezione trattava il tema della prigionia, la Herzog decise di fare un parallelismo con l’attualità mostrando le immagini delle proteste contro il governo Netanyahu per il rilascio degli ostaggi. In quell’occasione, quasi tutti i colleghi dei curricula sull’Islam si sono alzati e se ne sono andati, assieme ad una collega dei curricula sul cristianesimo. Al termine della lezione, un mio professore si è alzato dicendo che la professoressa non rappresenta il governo Netanyahu, e che non è concepibile che i ragazzi si alzino e se ne vadano in un contesto come quello accademico, che fa del confronto la sua bandiera. Perché, se non si può avere un confronto nel mondo accademico, dove lo si può avere?”.

Contesti diversi
La situazione negli atenei italiani non è uguale dappertutto, come spiega Francesco Lucrezi, docente di Diritto Romano all’Università di Salerno. “Devo dire che la mia università beneficia di due circostanze favorevoli. La prima è che non serve un’utenza di grandi città, ma di una città di media grandezza come Salerno, una piuttosto piccola come Avellino, e minuscole altre cittadine e paesi, sparsi su un vasto territorio. E, com’è noto, in genere i movimenti organizzati antisistema si coagulano sempre nelle grandi metropoli. È difficile vedere una manifestazione propal in un paesino di campagna, perché sono fenomeni che richiedono vasti bacini di riferimento”.
La seconda circostanza è “che si tratta di un campus, nel quale occorre arrivare con mezzi di trasporto pubblici o privati. Ciò significa che gli studenti che vengono a frequentare le lezioni e partecipano alla vita universitaria sono solo studenti ‘veri’, che vogliono studiare, e non perdigiorno. Io ho insegnato per cinque anni anche all’Orientale di Napoli, nota per essere un ricettacolo di attivisti. Posso testimoniare che anche là la stragrande maggioranza degli studenti sono bravi ragazzi, ma ci sono dei gruppetti di facinorosi che non sono neanche studenti, e che vanno là a bivaccare, occupando le aule e dormendoci la notte solo perché non hanno niente da fare. Il tutto nella generale ignavia non tanto delle autorità accademiche, quanto delle istituzioni pubbliche che, anzi, spesso li incoraggiano”.

Passare al contrattacco
Nonostante le diverse iniziative emerse per contrastare il pregiudizio antiebraico e antisraeliano nelle università, come gli incontri già citati e la nascita di collettivi come “Studenti per Israele”, c’è ancora tanto lavoro da fare per tenere testa agli estremisti.
A tal proposito, Lucrezi afferma che “la nostra unica arma è la parola, il pensiero: dobbiamo perciò parlare, spiegare, fare ragionare, fare capire, ricordare la storia, instillare dei dubbi, aprire gli occhi, soprattutto a coloro che non sono antisemiti, ma solo disinformati. Certo, si potrebbe fare di più ma, nel nostro piccolo, qualche risultato lo otteniamo”.

(Bet Magazine Mosaico, 3 settembre 2025)

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Israele elimina il terrorista che aveva tenuto in ostaggio Emily Damari, Romi Gonen e Naama Levy

di Samuel Capelluto 

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Israele ha colpito ancora al cuore dell’infrastruttura terroristica di Hamas. In un’operazione congiunta guidata dal Comando Sud, le forze dell’IDF e dello Shin Bet hanno eliminato a Gaza il terrorista Hazem Oni Naim, responsabile della prigionia di tre delle più note sopravvissute israeliane: Emily Damari, Romi Gonen e la soldatessa Naama Levy, liberate nei primi mesi del 2025 nell’ambito delle operazioni di scambio ostaggi.
Secondo il portavoce militare, Naim ricopriva ruoli di alto livello nella brigata di Gaza di Hamas e durante la guerra era divenuto un elemento di spicco dell’intelligence militare dell’organizzazione. La sua vicinanza al comandante della brigata di Gaza, Az al-Din Haddad, oggi considerato leader operativo di Hamas nella Striscia, ne faceva una figura chiave della catena di comando.
La notizia della sua eliminazione ha scosso positivamente soprattutto le ex prigioniere. Emily Damari, in particolare, ha condiviso sui social e nei media israeliani la sua emozione:
“Ho urlato di gioia. Era un uomo malvagio, spietato. Sono travolta dalla felicità. Ringrazio chi ha reso possibile questo momento.”
Emily ha raccontato come quel terrorista fosse stato uno dei carcerieri più crudeli durante i suoi lunghi mesi nelle mani di Hamas. “La gente non può capire chi era questo mostro per me e per Romi”.
Già in passato, Damari aveva ricordato i volti dei suoi rapitori, descrivendo il sadismo psicologico con cui cercavano di illuderla con false promesse di liberazione. Le sue parole testimoniano oggi la forza di chi, nonostante il dolore e l’angoscia della schiavitù nei tunnel sotterranei di Hamas, sceglie di trasformare il proprio ricordo in determinazione e speranza.
Naama Levy, in un discorso pubblico dopo la liberazione, aveva raccontato i 477 giorni di prigionia come un “inferno di paura”, ma anche la consapevolezza che Israele non smette mai di lottare per i propri figli. Le immagini di quelle dichiarazioni si intrecciano oggi con la notizia della giustizia compiuta.
L’operazione rappresenta non solo un colpo significativo contro Hamas, ma anche un messaggio netto: Israele non dimentica e non lascia impunito nessun responsabile dei crimini del 7 ottobre e dei mesi di guerra successivi.
Il portavoce dell’IDF ha ribadito: “Continueremo a colpire con forza le infrastrutture terroristiche nella Striscia e a eliminare ogni minaccia contro i cittadini di Israele”.
Il sorriso liberato di Emily, oggi condiviso da migliaia di israeliani, diventa il simbolo della vittoria morale di Israele: la vita che trionfa sul terrore, la giustizia che prevale sull’oscurità.
Ma la stessa Damari, pur esprimendo gioia per l’eliminazione del terrorista, ha voluto ricordare gli ostaggi che sono ancora nella Striscia:
“Il cuore, per quanto gioisca per questa notizia, è ancora terrorizzato pensando agli altri ostaggi che sono ancora lì.”
E ha concluso con un messaggio di speranza e determinazione: “Il vero trionfo sarà il ritorno di tutti gli ostaggi”.

(Shalom, 3 settembre 2025)

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Una narrazione pericolosa

di Kishore Bombaci

FIRENZE - Ieri a Palazzo Vecchio si è definitivamente cristallizzata l’inversione della realtà, ha trionfato il pregiudizio sulla verità e l’ideologica travestita da politica ha preso il sopravvento contro una forza razionale che purtroppo sta progressivamente venendo meno.
L’assise fiorentina, invece di pensare allo stato (pietoso) della città, non ultima la vicenda dell’ex teatro Comunale, hanno preferito concentrarsi sul tema del conflitto israelo-palestinese
Tema che evidentemente esula dalle competenze dell’organo comunale, ma che comunque è una bella vetrina per la propaganda sinistra in servizio permanente.
Complice anche l’uscita dall’aula dell’opposizione, il Consiglio Comunale si è trasformato in un festival della faziosità e dell’ipocrisia con ben tre mozioni a firma Sinistra Progetto Comune/Movimento Cinque Stelle che impegnano la GIunta a interrompere ogni rapporto con il Governo israeliano, a cessare ogni rapporto di collaborazione economica con aziende che hanno sede in Israele (sic!) e a far parte di organismi di coopearazione internazionale volti a combattere gli stupri delle donne palestinesi utilizzati come arma di guerra
Un tris niente male per l’ala sinistra del Consiglio che evidenemente condiziona gli equilibri delle istituzioni fiorentine le quali ormai hanno perso ogniqualsivoglia forma di raziocinio per sposare integralmente la propaganda pro pal.
Gli effetti delle mozioni sono e saranno probabilmente nulle e del tutto prive di efficacia dal momento che non risulta nè che vi siano rapporti fra Firenze e il governo israeliano, tantomeno di natura economica.

Fuffa ideologica e niente di più
  Sarebbe opportuno che il Consiglio Comunale si occupasse di cose serie e soprattutto di propria competenza.
Ma quello che fa più specie è adombrare il dubbio – o peggio – che lo Stato Ebraico utilizzi la violenza sessuale come arma di guerra contro le donne palestinesi. Una circostanza assolutamente priva di fondamento e certamente mai provata ma che serve a gettare ulteriore fango nei confronti di Israele.
Quello che invece risulta certo – e persino riconosciuto dall’ONU – è lo stupro sistematico delle donne israeliane avvenuto il 7 Ottobre e le violenze sessuali cui sono state e sono sottoposte le donne ostaggio di Hamas
Ebbene, di fronte a tali disumanità certificate e persino rivendicate dai terroristi palestinesi, non risultano mozioni di condanna, non pare esservi stata alcuna indignazione dei progressisti, indignati in servizio permanente, ma in modo alternato evidentemente.
Anzi, quando durante una manifestazione in occasione dell’otto marzo una ragazza ha esposto un cartellone che ricordava quegli stupri di donne ebree, questa è stata cacciata in malomodo dai collettivi femministi di sinistra intenti a contrastare il patriarcato in patria
Una dopppia morale che ieri ha trovato consacrazione persino in Consiglio Comunale. Nessuna voce sulle donne israeliane. Niente di niente! Completamente finite nel dimenticatoio di una propaganda per nulla interessata a difendere i diritti umani (che come tali dovrebbero valere per tutti), ma esclusivamente direzionata a offrire una ricostruzione perenemmente faziosa.
Ebbene, questa narrazione unilaterale soprattutto nell’ultimo anno ha interessato in maniera sempre più preponderante le istituzioni di vari comuni, i quali, sono del tutto privi di competenza in materia di politica estera
Dai riconoscimenti dello Stato di Palestina, all’esposizione di bandiere palestinese in presunta solidarietà al popolo, a suon di mozioni ideologiche praticamente tutte uguali e “spammate” nei vari consigli comunali e regionali, la sinistra estrema ha conquistato il campo culturale del centrosinistra annichilendo le voci critiche, ormai divenute sempre più impotenti rispetto a questa narrazione martellante.
È la Caporetto della sinistra riformista, di quella sinistra che almeno un tempo provava ad affrontare la complessità delle vicende cercando di evitare il tifo da stadio. Questa sinistra è completamente sparita, non pervenuta
Encefalogramma piatto! Ma, attenzione. Non v’è giustificazione dal momento che questa inversione dei rapporti di forza è avvenuta col pieno consenso di chi doveva fare da argine al massimalismo ideologico della sinistra estrema. E invece vi si è genuflesso senza colpo ferire.
Eugenio Giani ne è la prova vivente.
L’attuale Presidente di Regione Toscana è passato dalla lotta all’antisemitismo (adozione in Consiglio Regionale della definizione IHRA) al riconoscimento della Palestina, allo sventolare della bandiera palestinese, a cianciare di genocidio facendo propri gli slogan dei più estremisti della sinistra
Sbaglia tuttavia chi pensa che tutto questo sia solo opportunismo politico (che pure c’è). Sbaglia anche chi pensa che le mobilitazioni pro pal siano frutto estempornaeo di una visione ingenua o buonista dei fatti.
Senza che nessuno vi presti attenzione, questi movimenti stanno alzando il tiro non solo a Firenze ma un po’ ovunque. Siamo passati dal tradizionale terzomondismo a un attacco frontale a Israele e a chiunque lo sostenga.

Prendiamo il caso della Flottilia che sta navigando verso Israele in queste ore
  Chi finanzia l’operazione? Non deve essere semplice trovare risorse per la flotta civile che sta solcando i mari. Chi paga?
Prendiamo la denuncia presentata a Vicenza contro l’On. Donazzan per il solo fatto di aver detto che i bambini palestinesi sono usati come scudi umani da Hamas.
Prendiamo l’iniziativa del CNF (Consiglio Nazionale Forense) di organizzare un convegno formativo (con crediti) sui diritti umani a Gaza con ospiti esclusivamente schierati verso le tesi mainstream del genocidio; con tanto di invito di Francesca Albanese le cui posizioni faziose sono evidenti e conclamata
E allora basta unire i punti. Il tentativo di colonizzazione dell’immaginario collettivo che da tempo ha infettato l’opinione pubblica trova sponda nelle istituzioni, anche quelle più alte.
Possibile che non ci sia nessuno che voglia schierarsi contro questo tipo di narrazione?
Possibile che siamo già così sotto ricatto delle minoranze (che presto saranno maggioranze) islamiche?

(AdHoc ANews, 3 settembre 2025)

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Israele, primo giorno di scuola tra emozione e speranza

di Samuel Capelluto

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Dall’Alta Galilea fino all’area del confine di Gaza, 2,58 milioni di studenti hanno varcato ieri l’ingresso delle scuole.
Il 1° settembre 2025 non è stato un giorno come gli altri: è stato il ritorno sui banchi per 2,58 milioni di bambini e ragazzi israeliani, di cui 180.600 in prima elementare e quasi 150.000 hanno iniziato l’ultimo anno delle scuole superiori. È il giorno in cui ogni famiglia sente la continuità della vita, nonostante le difficoltà di un Paese in guerra da quasi due anni.
Eppure, tra cartelle nuove, lavagne e sorrisi, la giornata ha trasmesso soprattutto ottimismo e voglia di normalità. Le immagini arrivate da nord a sud raccontano lo stesso filo conduttore: scuole che riaprono, comunità che si stringono attorno ai bambini, leader politici che parlano non solo di educazione ma anche di futuro.
A Kiryat Shmona, città che più di altre ha sofferto per la vicinanza al confine e per oltre un anno e mezzo di tensioni con Hezbollah, il suono della campanella ha avuto un valore speciale. Il presidente Isaac Herzog ha partecipato alla cerimonia inaugurale, abbracciando studenti e insegnanti. “Voi siete la nostra speranza”, ha detto agli alunni, sottolineando l’importanza di una generazione che cresce con amore per il Paese e per la comunità. Non solo parole di rito: a Kiryat Shmona, tornare sui banchi significa provare a ricostruire una quotidianità che la guerra aveva strappato.
A Nof HaGalil, il ministro dell’Istruzione Yoav Kisch e il premier Benjamin Netanyahu hanno visitato la scuola “Menachem Begin”. Netanyahu ha parlato con emozione di “bambini e insegnanti che costruiscono il futuro di Israele”, mentre Kisch ha ribadito l’impegno per una “scuola di radici e innovazione”, capace di rafforzare allo stesso tempo valori, identità e competenze tecnologiche. Quest’anno, infatti, il Ministero ha lanciato il programma “Israele Reale”, volto a rafforzare le discipline scientifiche e tecnologiche, con particolare attenzione alle materie STEM, all’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle classi e alla formazione degli insegnanti alle competenze del futuro.
Se al nord il ritorno a scuola è stato un simbolo di stabilità, al sud è stato soprattutto un atto di resilienza. Nell’area del Negev occidentale e del confine con Gaza, circa 23.700 studenti hanno iniziato l’anno scolastico – 2.000 in più rispetto allo scorso anno, segno di una crescita demografica che, in questo contesto, ha il sapore della vittoria sulla paura.
A Kfar Aza, una delle comunità più colpite il 7 ottobre, gli studenti sono tornati a studiare, anche se in scuole provvisorie allestite nei kibbutz vicini. “Non è facile, ci mancano compagni che non ci sono più – ma torniamo a studiare insieme ad altri ragazzi”, hanno raccontato due ragazzi, Maor e Amit. Le loro parole fotografano con semplicità il contrasto tra dolore e voglia di continuare a vivere.
Il deputato Almog Cohen, accompagnando i suoi figli a scuola nel sud, ha sottolineato: “Qui cresce una generazione che continuerà il cammino con valori di rispetto, responsabilità e coraggio”.
La giornata del ritorno a scuola è stata anche l’occasione per ricordare che l’istruzione non è solo trasmissione di conoscenze, ma anche ancora di stabilità, luogo di cura e comunità. Gli insegnanti e i dirigenti scolastici sanno bene che, soprattutto in anni come questi, la scuola non è solo il luogo in cui si studiano matematica o scienze. Le classi diventano spazi di condivisione, di ascolto e di sostegno reciproco. Gli educatori non trasmettono soltanto nozioni, ma accolgono emozioni, danno voce ai dubbi e alle paure, e aiutano i ragazzi a ritrovare insieme forza e normalità.
Il 1° settembre 2025 resterà come una giornata di ritorni, sorrisi e speranza. Dal nord al sud, tra difficoltà e memorie ancora vive, gli alunni hanno ricordato a tutti che la volontà di andare avanti e continuare a vivere, è la risposta più forte e luminosa alle sfide del presente.
Nonostante le ferite, Israele riparte dalla scuola, dal futuro dei suoi bambini. E il messaggio che arriva dai corridoi di Kiryat Shmona, dai banchi di Nof HaGalil e dai kibbutz del Negev è chiaro: la vita vince, e il futuro si costruisce insieme, giorno dopo giorno.

(Shalom, 2 settembre 2025)

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Flottilla da Genova a Gaza: il business milionario della solidarietà da crociera

di Stefano Piazza

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"Un misto di turismo ideologico e farsa geopolitica"

Ogni estate ha il suo spettacolo: c’è chi organizza festival musicali, chi maratone e chi, con un tocco di autocelebrazione militante, preferisce imbarcarsi in una “flottilla per Gaza”.
Piccole e grandi barche, bandiere colorate, slogan roboanti e carichi che farebbero sorridere persino la Croce Rossa: qualche scatolone di medicinali, due pacchi di pasta e tanta voglia di selfie. È la “solidarietà da crociera”, versione ONG.
Dietro questo teatrino c’è la Freedom Flotilla Coalition, un patchwork internazionale che va dagli svedesi di Ship to Gaza agli irlandesi di Irish Ship to Gaza, passando per i turchi dell’IHH – organizzazione già criticata da vari governi occidentali e oggetto di inchieste internazionali per presunti legami controversi con ambienti radicali. In Spagna troviamo Rumbo a Gaza, in Canada e negli Stati Uniti altri gruppi satellite, tutti accomunati da un obiettivo: trasformare un gommone traballante in un’arma di propaganda.
Il copione è collaudato: le navi salpano, la marina israeliana interviene, gli attivisti resistono o fanno resistenza passiva, le telecamere riprendono. Fine dell’operazione. Il carico umanitario è irrilevante, ma il bottino mediatico è assicurato. Non a caso, il caso della Mavi Marmara del 2010 – finita in tragedia – è diventato per i promotori una sorta di mito fondativo: il giorno in cui il “diritto internazionale” si sarebbe ribellato al blocco israeliano, dimenticando che quel blocco è stato ritenuto legittimo da diverse fonti giuridiche internazionali per impedire il contrabbando di armi verso Hamas.
In questo copione si è inserita anche l’Italia, con la flottilla partita dal porto di Genova. Presentata come un’iniziativa “dal basso” con il sostegno di associazioni locali e sindacati, è stata in realtà collegata a sigle della Freedom Flotilla Coalition e a reti internazionali di attivismo politico filo-palestinese. Il tutto condito da conferenze stampa, dichiarazioni roboanti sul “diritto di resistenza” e passerelle di attivisti pronti a immortalarsi sul ponte con kefiah e megafono. Un’operazione che ha garantito grande visibilità mediatica agli organizzatori e zero impatto reale per la popolazione di Gaza.
Sul piano economico, secondo varie inchieste giornalistiche e rapporti di think tank, parte dei finanziamenti che orbitano intorno a queste iniziative proviene da fondazioni islamiste in Europa e da reti di donatori del Golfo. In diversi dossier viene citata anche Qatar Charity, più volte accusata da fonti occidentali di sostenere indirettamente la causa palestinese e attività connesse. Anche realtà associative riconducibili alla galassia della Fratellanza Musulmana hanno espresso supporto politico e mediatico a queste campagne.
Israele, dal canto suo, guarda a queste “carovane del mare” come a semplici operazioni di marketing ideologico. Le IDF intercettano le navi, spesso senza colpo ferire, ma il rumore mediatico è già scritto. Non sorprende quindi che il ministro Itamar Ben-Gvir abbia annunciato un trattamento speciale: detenzione prolungata per gli attivisti nelle carceri di massima sicurezza di Ketziot e Damon e confisca delle imbarcazioni, magari da riutilizzare per la polizia israeliana.
In definitiva, la flottilla non serve a Gaza: serve a se stessa. È un’operazione perfetta per attivisti in cerca di gloria, ONG affamate di donazioni e governi come quello del Qatar desiderosi di posizionarsi come difensori della causa palestinese. Un misto di turismo ideologico e farsa geopolitica, dove la merce più preziosa non sono i medicinali o gli alimenti, ma le fotografie da postare su Instagram.
E qui arriviamo al capitolo italiano. La flottilla partita da Genova ha trasformato il porto ligure in una passerella ideologica: kefiah al vento, dichiarazioni di “resistenza”, applausi di circostanza e un carico di illusioni più che di aiuti. Un reality show marittimo dove gli attivisti nostrani recitano la parte dei rivoluzionari in vacanza, pronti a sfidare Israele con l’eroismo di chi, in realtà, non rischia nulla. Gaza, intanto, resta dov’era: stretta tra Hamas e la miseria. Ma almeno a Genova, per qualche giorno, qualcuno ha avuto il suo quarto d’ora di gloria.

(L'informale, 2 settembre 2025)

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Come l'Iran ha rafforzato – involontariamente – lo Stato ebraico

Ironia della sorte, è proprio l'antisemitismo dell'Iran – come quello di molte dittature arabe prima di esso – ad aver rafforzato Israele e reso possibile la sua sopravvivenza.

di Micha Danzig

Una delle grandi ironie della storia è che Israele – nonostante Teheran spenda miliardi di dollari per distruggere lo Stato ebraico – è oggi più sicuro proprio grazie, tra l'altro, agli ebrei che sono fuggiti dall'Iran pochi decenni fa.
I discendenti degli ebrei iraniani, le cui radici familiari si estendono per secoli a Isfahan, Shiraz e Teheran, apportano la loro conoscenza del regime alle industrie militari, di sicurezza e strategiche di Israele. Non sono “colonizzatori”, ma esiliati che sono tornati nella loro regione d'origine, dotati di memoria, competenze e una forte motivazione a garantire la sopravvivenza nel paese in cui ha avuto origine la storia ebraica.
Prendiamo ad esempio il maggiore Arye Sharuz Shalicar, portavoce delle forze di difesa israeliane di origine ebraico-persiana, fluente in farsi, che racconta la storia di Israele direttamente agli iraniani. Oppure Beni Sabti, ex portavoce del governo persiano di Israele, che fornisce consulenza a Israele in materia di comunicazione strategica con l'Iran.
Essi incarnano qualcosa che Teheran teme, perché non considerano la persecuzione iraniana come un concetto astratto, ma come un'esperienza vissuta – e utilizzano questa conoscenza per difendere lo Stato ebraico.
Le loro famiglie vivevano già in Persia molto prima che l'Islam sciita acquisisse importanza. Le comunità ebraiche della diaspora esistevano lì fin dai tempi biblici, fin dai tempi dell'impero achemenide e di Ciro il Grande, quasi 1.500 anni prima dell'ascesa dell'Islam. La presenza ebraica in Iran precede quindi di millenni i religiosi che oggi governano il Paese. Ciononostante, il regime che ha espulso gli ebrei osa definire Israele un “avamposto straniero”, cancellando la propria storia e fingendo che gli ebrei siano arrivati in Medio Oriente solo in epoca recente.
Ogni razzo lanciato da Hamas da Gaza, ogni attacco di Hezbollah o droni Houthi contro Israele, ogni razzo lanciato dall'Iran su Tel Aviv – tutto questo sottolinea una brutale verità: la guerra di Teheran contro Israele non riguarda i confini. È una lotta per la sopravvivenza.
Ma proprio i nipoti degli esiliati ebrei iraniani – così come i nipoti degli ebrei espulsi da molti altri paesi arabi – sono ora tra i soldati che difendono Israele: pilotano gli aerei da combattimento israeliani, dirigono la sua difesa cibernetica, azionano le batterie Iron Dome che intercettano questi razzi e svolgono molti altri compiti cruciali.
Ironia della sorte, è proprio l'antisemitismo dell'Iran – come quello di molte altre dittature arabe prima di esso – che ha rafforzato Israele e ha permesso alla sua popolazione di continuare a esistere.
Questa realtà smentisce la caricaturale narrazione secondo cui Israele sarebbe un progetto coloniale occidentale. Gli ebrei provenienti dall'Iran, dall'Iraq, dallo Yemen, dalla Siria, dalla Libia e dall'Algeria sono stati banditi dalle loro regioni d'origine, dove le loro comunità esistevano da secoli, molto prima che le conquiste arabe o islamiche dominassero quelle terre. Invece di occupare la terra altrui, sono venuti in Israele e sono tornati nella regione indigena degli ebrei, l'unica nazione che offriva loro rifugio e continuità.
La propaganda di Teheran dipinge gli ebrei come colonizzatori, ma la storia del regime stesso racconta il contrario. I media statali iraniani cancellano secoli di vita ebraica in Persia, una vita che ha arricchito il Paese in ogni ambito. Prima del regime clericale, la comunità ebraica in Iran contava fino a 100.000 persone. Oggi sono solo circa 8.000 a sopravvivere in condizioni repressive.
Gli ebrei espulsi dall'Iran portano con sé il segno del rifiuto, ma anche gli strumenti per difendere la continuità ebraica. Hanno trasmesso questa conoscenza ai loro figli e nipoti. L'Iran potrà anche voler distruggere Israele, ma – ironia della sorte – ha contribuito a creare israeliani che sanno esattamente cosa sono la tirannia e il colonialismo islamista, e cosa serve per combatterli.
Questo conflitto è una lotta secolare sulla questione se gli ebrei – abitanti indigeni della terra di Israele – possano vivere lì come popolo libero.
L'Iran sta cercando di cancellare la vita ebraica in Medio Oriente. Ma quando l'antisemitismo caccia gli ebrei dalle loro case, essi non scompaiono. Ricostruiscono. Ritornano. Diventano più forti. E questa rimane la confutazione più incisiva della visione barbarica del regime iraniano: la storia ebraica in Persia non è finita con l'esilio. Continua a vivere in Israele, dove la storia ebraica – una storia di sopravvivenza e di trionfo contro ogni impero e ogni colonizzatore, da Roma a Teheran – continua a scriversi.

(Israel Heute, 2 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il Regno Unito esclude il governo israeliano dall’Expo della difesa

di David Fiorentini

I funzionari del governo israeliano non potranno partecipare alla prossima edizione della Defense and Security Equipment International (DSEI) a Londra, afferma il Times of Israel.
In programma dal 9 al 12 settembre, la DSEI è la principale fiera britannica del settore della difesa. Allestita ogni due anni nei Docklands londinesi, ospita centinaia di aziende da tutto il mondo, e con il sostegno del governo britannico suole invitare anche i rispettivi esponenti politici.
Quest’anno però gli organizzatori hanno voluto dare un forte segnale politico nei confronti di Israele, in seguito al recente ampliamento delle operazioni a Gaza. Per questo, la tradizionale cortesia è stata sospesa.
“È un atto deliberato e deplorevole di discriminazione” ha tuonato il Ministero della Difesa israeliano. “In un momento in cui Israele combatte su più fronti contro estremisti islamici e organizzazioni terroristiche, che minacciano anche l’Occidente e le rotte marittime internazionali, questa decisione della Gran Bretagna favorisce gli estremisti, legittima il terrorismo e introduce considerazioni politiche del tutto inappropriate in una fiera professionale del settore difesa”.
Tuttavia, nonostante il divieto per i rappresentanti governativi, le aziende belliche israeliane saranno comunque ammesse.
Il caso segue una controversia simile dello scorso giugno, quando la Francia aveva vietato a diversi costruttori israeliani di esporre armi “offensive” al Salone aeronautico di Parigi.
Analogamente, Berlino aveva sospeso le forniture a Israele di armamenti utilizzabili a Gaza, ma poco fa l’azienda israeliana Rafael Advanced Defense Systems ha annunciato un contratto da 358 milioni di euro con l’Aeronautica tedesca per la fornitura di tecnologia di puntamento per aerei da combattimento.
Un ennesimo accordo che, per il ruolo centrale dell’industria israeliana, dimostra ancora una volta l’ipocrisia dei boicottaggi e l’inefficacia della censura. 

(Bet Magazine Mosaico, 2 settembre 2025)

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L’israeliano Solomon al Villarreal: sfiderà la Juventus in Champions

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Cambia ancora casacca Manor Solomon. Il forte centrocampista israeliano di recente accostato in Serie A alla Roma e al Bologna, sarà protagonista nella Liga spagnola. Ad annunciarle l’ingaggio in prestito, nell’ultimo giorno di calciomercato, sono stati i “sottomarini gialli” del Villarreal.
   Nato a Kfar Saba, 26 anni, Solomon è di proprietà del Tottenham Hotspur e nella passata stagione ha militato (sempre in prestito) nel Leeds, contribuendo al suo ritorno in Premier con dieci goal e dodici assist. Solomon «è un abile attaccante destro che gioca come ala sinistra, possiede un eccellente dribbling e la capacità di superare gli avversari nell’uno contro uno», sottolinea in una nota il club iberico, quinto nella scorsa Liga e nei prossimi mesi impegnato in Champions League. Nel dargli il benvenuto, il Villareal ne ha lodato anche la velocità e «il suo fantastico tiro dalla media distanza», affinato nel campionato inglese e in precedenza con gli ucraini dello Shaktar Donetsk, con i quali si è distinto anche nella massima coppa continentale andando due volte in rete contro il Real Madrid. Solomon aveva poi lasciato lo Shaktar e l’Ucraina con l’inizio dell’attacco russo nel marzo del 2022, fuggendo in modo rocambolesco in Polonia.
   Solomon si è formato calcisticamente nel Maccabi Petah Tikva e conta anche 44 presenze con la maglia della nazionale, che verosimilmente indosserà di nuovo nei prossimi giorni nella sfida contro l’Italia per la qualificazione ai mondiali del 2026 in Usa, Canada e Messico. Con il Villareal, incontrerà inoltre a ottobre la Juventus in Champions League. Intanto, come riporta Ynet, il suo acquisto ha suscitato la reazione scomposta di alcuni movimenti anti-israeliani attivi in Spagna e al rimorchio di vari tifosi online. Per Ynet, gli atleti israeliani in Europa si trovano ad affrontare «un crescente controllo politico legato alla guerra di Gaza, con proteste, accordi annullati e richieste di boicottaggio». Tale pressione, si legge, «complica trasferimenti e carriere, soprattutto perché agenti e club temono le reazioni negative dei tifosi».

(moked, 2 settembre 2025)

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Ucciso il portavoce di Hamas: così Israele combatte la propaganda

Obeida, eliminato in un raid a Gaza, ha gestito la campagna sugli ostaggi, dai video alle liberazioni.

di Fiamma Nirenstein

La comunicazione è un fronte di guerra importante come gli altri 7 con cui si confronta Israele e da cui proviene, in tutto il mondo, una minaccia sostanziale al mondo democratico. Crea odio antisemita e contro i cristiani. Gli episodi delle ultime ore, lontani per quanto possano sembrare, dell'eliminazione del portavoce di Hamas e della decisione americana di proibire l'ingresso di Abu Mazen all'Assemblea Generale dell'Onu, sono un modo di fronteggiare la forza della propaganda antioccidentale. Anche chi crede di non conoscere Abu Obeida, perché ha visto la sua faccia sempre avvolta nella kefia o issata come bandiera alle manifestazioni, lo conosce bene. Obeida, al secolo Hudayfa Abdallah al Kahlout, eliminato sabato con un'incursione aerea, era molto di più di un portavoce. È lui che ha amministrato la popolare, vittoriosa campagna di criminalizzazione di Israele che si è pasciuta dei termini genocidio e fame; quella in cui si è visto la disperazione dei rapiti, le loro ossa senza carne, le lacrime e le preghiere, così da demoralizzare e dividere l'opinione pubblica israeliana; lui che, col sostegno dei media, di Al Jazeera, coi "ministeri" di Hamas che forniscono i numeri poi ripresi senza verifiche, ha inondato l'opinione pubblica. Abu Obeida era popolare e famoso, un simbolo per il suo popolo e quello dei propagandisti affascinati dall'immagine mascherata, dalla voce nasale in arabo eccitato: quando Al Arabiya ha annunciato la sua morte, Hamas ha diffidato dal diffondere la notizia. Ma una volta verificato che lo spokesman di Izza din al Qassam dal 2004, famoso da quando annunciò nel 2006 il rapimento di Shalit, era stato colpito, lo stesso ministro della Difesa Israel Katz l'ha annunciata di persona. Il suo stile era la minaccia di morte a Israele e ai rapiti. L'ultima volta, venerdì, ha detto, che se l'esercito entrerà a Gaza "gli ostaggi saranno coi nostri guerrieri nel combattimento, soggetti agli stessi rischi".
   È una guerra senza quartiere, tutte le roulettes girano, ore decisive anche per un eventuale accordo sui rapiti, l'ingresso a Gaza, gli accordi e gli scontri coi Paesi Arabi. Gli Stati Uniti non stanno a guardare: il divieto ad Abu Mazen di entrare negli Usa per l'Assemblea generale e per la riunione collaterale voluta da Macron per approvare uno Stato Palestinese resterà, è probabile, senza conseguenze. Anche per Arafat, quando Reagan lo rifiutò nel 1988, si tenne la riunione a Ginevra e poi comunque nel 1974 parlò con la rivoltella e l'ulivo in mano anche a New York. Ma il senso della mossa è chiaro: Abu Mazen, che solo a giugno si è deciso a dire una parola, forzata, sul 7 di ottobre, ha uno storico nesso col terrorismo che alimenta con gli stipendi mensili e la deificazione degli shahid. Oggi in particolare, suggeriscono gli Usa, questo non deve essere ammesso dal consesso interazionale, deve finire l'era del terrore, fare posto a quegli Accordi di Abramo cui Abu Mazen si oppose con tutte le forze. L'America non ignora che Abu Mazen, anche se Hamas gli ha strappato il ruolo di protagonista, vuole essere nel giuoco per uno Stato che odora di premio al terrore.
   Tutto è simbolico, ma importante. La roulette gira, niente terrorismo nel mondo prossimo venturo dicono gli Usa. Una scommessa interessante, mentre Israele porta le riserve sul campo di Gaza e di conserva tiene aperto il fronte sui rapiti.

(il Giornale, 1 settembre 2025)

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La settimana di Israele. A Gaza ora bisogna finire il lavoro

di Ugo Volli

È difficile rendersene conto in un’Europa sempre più obnubilata dall’isteria anti-israeliana, motivata ormai sempre più chiaramente dal riemergere dell’antico odio antisemita. Ma a chi guardi le cose con lucidità è evidente che la guerra in Medio Oriente sta finendo con una grande vittoria di Israele, la più generale e promettente dalla fondazione dello Stato. Una vittoria non solo militare ma anche politica e diplomatica, con forti aspetti economici. Per capirlo bisogna evitare di fissare lo sguardo solo su Gaza. La Striscia è stata il punto di innesco di questa guerra, e il luogo dove il comportamento criminale e la volontà genocida dei nemici di Israele sono emersi nella forma più chiara, allo stesso dolorosa e teatrale; dove si è costruita una campagna propagandistica menzognera contro Israele e gli ebrei di dimensioni inedite nella politica mondiale. Ma strategicamente essa è solo un campo del conflitto, non certo il suo centro. Bisogna invece guardare insieme i sette fronti della guerra, considerare che il centro di comando che la dirige è l’Iran e che i suoi satelliti meglio armati sono (o meglio erano) Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Vediamo dunque uno per uno questi campi.

Iran
La “guerra dei dodici giorni” condotta da Israele e dagli Usa dal 13 al 25 giugno scorso ha fortemente danneggiato il suo progetto nucleare e anche il suo armamento aereo, missilistico e le difese antiaeree, oltre a decimare i quadri dirigenti militari e gli scienziati atomici. L’economia langue, mancano nelle città acqua, elettricità e carburante gli aiuti russi non si sono visti e quelli cinesi sono sulla carta. Il regime non crolla perché è sostenuto ancora da un’atroce repressione interna (almeno 841 esecuzioni capitali ufficialmente dichiarate dal 1º gennaio al 28 agosto 2025).
È possibile che per disperazione gli ayatollah provino a lanciare un nuovo attacco di sorpresa contro Israele, ma il risultato sarebbe quasi certamente la loro distruzione totale.

Libano
La decimazione di Hezbollah con l’operazione dei “cercapersona” e con i bombardamenti ha provocato una rivoluzione politica nel paese. La nuova dirigenza si è impegnata a disarmare quel che resta di Hezbollah e delle milizie palestiniste e a quanto pare lo sta facendo, sia pur con qualche necessario aiuto dell’aviazione israeliana. L’Onu ha deciso finalmente di abolire (fra un anno…) la sua forza locale Unifil, che era la foglia di fico dei terroristi. Israele sta progettando di ritirarsi dalle zone di intervento di qualche mese fa, per agevolare la ricostruzione di un paese che vuole liberarsi dal terrorismo.

Siria
La distruzione della capacità militare di Hezbollah ha provocato la caduta del regime di Assad. Quello di Al-Jolani che gli è succeduto ha quadri formatisi nell’Isis ed è appoggiato da una Turchia sempre più antisionista, dunque non è certo rassicurante, anche se impedisce il passaggio dei rifornimenti iraniani a Hezbollah. Israele ha distrutto gli arsenali dell’esercito siriano, ha occupato i punti dominanti del confine ottenendo libertà di intervento fino alla periferia di Damasco, ha difeso i drusi che il regime voleva distruggere, creando una zona cuscinetto preziosa alla frontiera; ora tratta con il regime per ottenere una normalizzazione alle sue condizioni di sicurezza, ma continua a garantire i drusi, e una forza speciale è intervenuta nei giorni scorsi per distruggere una centrale turca di spionaggio elettronico installata pochi chilometri a sud di Damasco.

Yemen
Dopo molti interventi aerei e navali per bloccare la linea di contrabbando di armi con l’Iran, Israele è riuscito venerdì scorso in un’altra operazione da maestro, decapitando il movimento degli Houthi con l’eliminazione del Capo del Governo, dei Ministri della Difesa e dell’Interno, del vicecapo di stato maggiore e di molti dirigenti. Questo significa non solo che il movimento terrorista è a portata delle armi di autodifesa israeliana, ma anche che è stato infiltrato dall’efficientissimo servizio di sicurezza esterno (il Mossad). Gli Houthi non sono ancora finiti, ma colpiti gravemente e costantemente sotto tiro. Con questa azione Israele ha reagito allo stillicidio di missili e droni sparati in questi mesi dallo Yemen sullo Stato ebraico, ma ha anche fatto un favore all’Arabia Saudita, da tempo minacciato da questi terroristi e anche all’Egitto, che ha subito perdite economiche pesanti a causa degli atti di pirateria marittima praticata da loro all’imbocco del Mar Rosso, scoraggiando così la navigazione attraverso il canale di Suez. Essi peraltro erano intervenuti quando avevano potuto per abbattere i proiettili contro Israele.

Patti di Abramo
Non a caso questi e gli altri paesi arabi moderati non si sono mai fatti prendere in questi due anni dall’isteria anti-israeliana, pur non mancando all’obbligo formale di chiedere la fine della guerra a Gaza: fra loro e Israele vige qualcosa di simile a un’alleanza informale contro l’Iran e i suoi satelliti. Ma per fine della guerra, come hanno detto chiaramente i paesi arabi in una dichiarazione comune emessa a New York due settimane fa, essi intendono il disarmo e l’espulsione di Hamas da Gaza, che si preparano ad amministrare. L’Egitto sta formando alcune migliaia di nuovi poliziotti palestinesi che terranno l’ordine nella Striscia e gli Emirati stanno collaborando alla gestione dei soccorsi umanitari, candidandosi a sostituire il Qatar come finanziatore di Gaza.

Gaza
Perché tutto ciò si realizzi, è necessario che Israele finisca il lavoro a Gaza, applicando anche qui il principio usato in Libano, Iran e altrove: come ha detto Netanyahu “chi prova a danneggiare Israele sarà messo nella condizione di non nuocere”. La fine della guerra con la resa di Hamas era già possibile un mese fa, prima del dannosissimo intervento di Macron e degli altri leader sprovveduti o demagoghi (Inghilterra, Australia, Canada ecc., per fortuna non l’Italia) che lo hanno seguito nella promessa di un prossimo riconoscimento dello “Stato di Palestina” all’Assemblea Generale dell’Onu che inizia a settembre. Ciò ha suggerito ai terroristi la possibilità di intestarsi un successo storico e quindi di resistere. Difficile dire se l’intervento di Macron sia stato solo stupido o dettato da odio antisemita e rivalità nei confronti del progetto dei patti di Abramo guidato dall’Amministrazione americana. Così l’ha comunque percepito Trump che nei giorni scorsi ha bloccato per rappresaglia l’ingresso dei dirigenti dell’Autorità Palestinese a New York dove si svolgerà l’Assemblea.

Un’offensiva necessaria
Il gesto di Macron ha però ha reso inevitabile per vincere la resistenza dei terroristi la conquista israeliana delle ultime roccaforti di Hamas a Gaza City, obbligando di conseguenza Israele a sgomberare gli scudi umani di cui i terroristi si sono circondati e mettendo in serio pericolo la sopravvivenza dei rapiti in mano ai terroristi. D’altro canto Israele non può certo cedere al ricatto di Hamas ora e abbandonare la guerra senza la sua resa, perché ciò sarebbe una sconfitta storica che aprirebbe la via a future ripetizioni del 7 ottobre e renderebbe inutili due anni di sacrifici e di vittorie. Anche l’opposizione in Israele, quella seria che aspira a sostituire Netanyahu e non i manifestanti più fanatici, se ne rende conto e infatti misura le parole, lasciando che il governo attuale sciolga i nodi politici e militari prima di cercare di batterlo alle elezioni che si svolgeranno comunque l’anno prossimo.

(Shalom, 31 agosto 2025)

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Il Ministro dell'Interno dell'Assia Poseck: l'antisemitismo è un attacco alla dignità umana

Durante una manifestazione a favore di Israele a Francoforte sul Meno, il ministro dell'Interno dell'Assia mette in guardia dal rischio di un'inversione dei ruoli tra carnefici e vittime. Egli definisce antisemita lo slogan «From the River to the Sea».

di Elisabeth Hausen

"Non siete soli"
FRANCOFORTE SUL MENO – Circa 650 persone hanno manifestato domenica pomeriggio a Francoforte sul Meno la loro solidarietà con Israele. I partecipanti alla manifestazione “United We Stand” (Uniti resistiamo) hanno voluto lanciare un segnale contro l'odio e a favore della vita. Hanno così reagito anche a una manifestazione filopalestinese con circa 11.000 partecipanti, durante la quale il giorno prima era stato relativizzato l'Olocausto.
Diversi oratori hanno espresso il loro rammarico non solo per le vittime del massacro di Hamas e della guerra in Israele che ne è seguita. Hanno anche parlato delle sofferenze degli innocenti palestinesi nella Striscia di Gaza. Tuttavia, è importante non confondere causa ed effetto: il gruppo terroristico Hamas ha causato la guerra.
Il ministro dell'Interno dell'Assia Roman Poseck (CDU) ha definito l'antisemitismo un “attacco alla dignità umana” e ha aggiunto: “È vergognoso quanto la vita ebraica sia attualmente minacciata nel nostro Paese”. La manifestazione in Opernplatz è stata in netto contrasto con quella di sabato: “Ieri, purtroppo, abbiamo assistito ancora una volta a episodi di discriminazione, antisemitismo, odio e incitamento all'odio per le strade di Francoforte”.
Poseck ha sottolineato: “Non dobbiamo invertire i ruoli di carnefici e vittime”. Hamas non ha ancora posto fine all'attacco del 7 ottobre 2023. Infatti, nella Striscia di Gaza continuano a essere torturati degli ostaggi. Durante la manifestazione filopalestinese non è stata evidente alcuna presa di distanza da Hamas e da altre organizzazioni terroristiche.

Due tribunali hanno revocato il divieto
  La città di Francoforte aveva vietato la manifestazione “United4Gaza – Stoppt den Völkermord jetzt” (Uniti per Gaza – Fermate subito il genocidio) anche per motivi di sicurezza. Tuttavia, il tribunale amministrativo di Francoforte ha revocato il divieto, scrivendo: “Non spetta alle autorità statali valutare le opinioni protette dall'articolo 5 della Costituzione tedesca”. Venerdì, il tribunale amministrativo dell'Assia a Kassel ha dato il via libera alla manifestazione.
Il ministro dell'Interno, tuttavia, ha definito lo slogan “From the river to the sea” (Dal fiume al mare), che è stato anche intonato durante la manifestazione, “intollerabile, perché attacca fondamentalmente il diritto all'esistenza di Israele”. Si tratta di antisemitismo, l'opposto della volontà di pace. Egli ha chiesto che il diritto all'esistenza dello Stato ebraico sia posto sotto la protezione del diritto penale.

Sindaco: il 7 ottobre ha mostrato il desiderio di distruzione dell'Iran
  Il sindaco Nargess Eskandari-Grünberg (Alleanza 90/I Verdi), originario dell'Iran, ha ricordato l'orologio di Teheran. Fino alla guerra in Iran nel mese di giugno, questo contava le ore che mancavano alla prevista distruzione dello Stato ebraico. Il desiderio iraniano di distruggere Israele si è manifestato il 7 ottobre. Il regime è la causa del massacro.
Eskandari-Grünberg ha ricordato che prima della rivoluzione islamica del 1979 l'Iran intratteneva buoni rapporti con Israele. Alla manifestazione erano visibili diverse bandiere iraniane di quel periodo, con il simbolo del leone.
La politica locale afferma di non aver sentito slogan come “Abbasso il regime iraniano” o “Abbasso Hamas”. Inoltre, non ha mai sentito nessuno dire: “Ho timori per la mia sicurezza se indosso il mio foulard palestinese”. Eskandari-Grünberg dirige il Dipartimento II di Francoforte, che comprende, tra l'altro, l'Ufficio per gli affari multiculturali. È inoltre responsabile dell'Ufficio per la discriminazione.

Il responsabile per l'antisemitismo: “Basta con l'esaltazione del terrorismo”
  Il responsabile del governo dell'Assia per la vita ebraica e la lotta contro l'antisemitismo, Uwe Becker (CDU), ha chiesto che si ponga fine all'“esaltazione del terrorismo a Francoforte”. A causa dell'aumento degli episodi di antisemitismo, gli ebrei hanno lasciato la Germania e anche Francoforte per trasferirsi in Israele.
Anche il presidente dell'Associazione regionale delle comunità ebraiche dell'Assia, Daniel Neumann, ha criticato la manifestazione di sabato. I partecipanti avrebbero finto di manifestare per il destino della popolazione di Gaza. In realtà, molti si sarebbero schierati a favore della distruzione dello Stato di Israele.
Neumann ha espresso gratitudine per le persone non ebree che sostengono gli ebrei e “li fanno sentire che non sono soli”. Ha detto: “Siamo i nuovi spartani”. Con questo si riferiva alla lotta per il diritto degli ebrei di vivere e pregare liberamente in questo Paese. Un bambino ebreo, mentre si recava a un campo estivo, alla domanda di un coetaneo se anche lì sarebbero stati recintati, ha risposto: “Siamo ebrei. Siamo sempre recintati”.
Riferendosi alla decisione del cancelliere federale Friedrich Merz (CDU) di limitare le forniture di armi a Israele, ha fatto riferimento alla guerra dello Yom Kippur del 1973. Già allora il cancelliere Willy Brandt (SPD) non aveva permesso la fornitura di armi a Israele. Per alcuni anni aveva parlato della necessità di una “politica senza complessi” nei confronti di Israele.
Il presidente della comunità ebraica di Francoforte, Marc Grünbaum, ha affermato che l'odio ha origine dai social media e dalla disinformazione: “Dobbiamo riconquistare Internet e i social media”. Questi sono infatti attualmente caratterizzati da falsità che si radicano nella mente delle persone.

Avviso di viaggio israeliano per Francoforte
  Simone Hofmann dell'iniziativa “Frankfurt Vereint Gegen Antisemitismus” (Francoforte unita contro l'antisemitismo) ha sottolineato che l'ambasciatore israeliano Ron Prosor ha emesso un avviso di viaggio per Francoforte a causa della manifestazione. Eppure Francoforte è considerata la “città più ebraica della Germania”.
Hofmann ha contestato con veemenza l'idea che gli ebrei debbano sopportare le opinioni espresse in tali manifestazioni: “Non dobbiamo sopportare di essere insultati, imbrattati di vernice o picchiati fino a finire in ospedale”. Una settimana prima, Sacha Stawski, presidente della piattaforma “Honestly Concerned”, era stato aggredito con vernice rossa mentre cercava di affiggere manifesti con le foto degli ostaggi nei pressi di un campo filopalestinese a Francoforte.
Durante la manifestazione di solidarietà sono stati letti i nomi dei 48 ostaggi ancora detenuti nella Striscia di Gaza. I rabbini di Francoforte Julian-Chaim Soussan e Avichai Apel hanno pregato per i rapiti e i dispersi. Sotto la guida del cantore Menachem Ganon, i partecipanti hanno concluso cantando “Osse Schalom” (La pace regna nei suoi cieli) e l'inno nazionale israeliano “HaTikva” (La speranza).

(Israelnetz, 1 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I responsabili della morte dei bambini a Gaza

di Davide Cavaliere

FOTO
Daniella Weiss

Ospite nel talk show di Piers Morgan, alla faziosa e moraleggiante domanda del conduttore su cosa ne pensasse dei «ventimila bambini palestinesi uccisi a Gaza dopo il 7 ottobre», Daniella Weiss, storica leader degli ebrei della Giudea e della Samaria, ha risposto nell’unico modo possibile, ossia «che i palestinesi, come gli arabi attorno, dovrebbero smettere di attaccare Israele».
Il sottinteso della sua risposta è semplice: a Gaza non ci sarebbe un solo bambino «palestinese» morto se il 7 ottobre Hamas, rompendo una tregua con Israele, non avesse commesso il più grande eccidio di ebrei dopo la Shoah; così come numerosi bambini che adesso sono morti sarebbero vivi se la milizia di feroci assassini che il 7 ottobre ha ucciso, decapitato e stuprato, non si nascondesse tra i civili, non li usasse come scudi umani e non considerasse la vita della popolazione di Gaza come carne da cannone, da esibire tra finte lacrime, finta disperazione e finta indignazione morale a uso e consumo dell’Occidente.
Morgan ha insistito con la sua domanda, incalzando l’ospite, e dicendo di volere sapere cosa provasse riguardo «ai bambini uccisi dell’IDF» (come se le forze armate israeliana avessero volontariamente ucciso i bambini «palestinesi»). La risposta della Weiss non si è fatta attendere: «Penso che i genitori dovrebbero essere molto attenti prima di insegnare ai figli a odiare gli ebrei e a ucciderli. Penso che gli arabi, i gazawi, i giordani, i siriani, chiunque, dovrebbero essere molto, molto attenti al modo in cui educano i loro figli».
Daniella Weiss tocca qui un punto fondamentale: alcuni bambini di Gaza, certamente i più piccoli, sono stati vittime collaterali delle necessarie operazioni militari israeliane (nonché del cinismo di Hamas), mentre altri sono caduti come combattenti. Il gruppo islamista, per bocca dei suoi vertici militari, Hassan Suhare e Esra Halil Juma, ha ammesso di addestrare, armare e mandare a combattere migliaia di bambini e adolescenti. Negli ultimi mesi, è stato documentato anche il caso di un bambino di quattro inviato da Hamas contro i soldati israeliani.
Inserita in un contesto più ampio, la domanda di Piers Morgan appare per quello che è: un quesito stucchevole e retorico, inutile alla comprensione dei fatti e tutto teso a mettere in difficoltà la Weiss.
Ora, come abbiamo già scritto in precedenza, a preoccuparsi dei bambini palestinesi dovrebbero essere, prima di tutto, gli adulti palestinesi, non gli israeliani. Non si capisce perché Daniella Weiss dovrebbe provare per loro più pietà di quella avuta dai loro stessi genitori. I palestinesi non si curano affatto dei loro figli: se lo facessero, come ha giustamente sottolineato la fondatrice di Nachala, non li crescerebbero come fondamentalisti religiosi e assassini di massa, né inizierebbero guerre che non possono vincere.
Piers Morgan non ha mai chiesto a un leader «palestinese» cosa provasse per i bambini israeliani uccisi, mutilati, bruciati vivi, torturati, ingabbiati… dai terroristi di Hamas, con la complicità dei «civili» palestinesi. Se lo avesse fatto, la risposta, forse, lo avrebbe sorpreso: sarebbe stata una manifestazione di giubilo e di orgoglio «nazionale».

(L'informale, 1 settembre 2025)

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