Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio; li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono il l'Eterno, il loro Dio.
Esodo 29:44-46

Attualità



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Ma a che serve Israele?

Questo testo è stato presentato come premessa per una conferenza avente come titolo “Dio abiterà con gli uomini”. Non pretende di essere un’esposizione esauriente del posto di Israele nel piano di redenzione biblico; non è la soluzione del “problema Israele”, ma vuol essere un tentativo di rendere più biblico il modo stesso di porsi il problema.

di Marcello Cicchese

Dopo aver predicato in una chiesa evangelica, durante il pranzo comunitario, mentre stavamo a tavola piacevolmente conversando, un fratello mi rivolse a bruciapelo questa domanda: "Ma perché Dio ha voluto scegliersi un popolo particolare?" Restai un po' pensieroso, e alla fine rinviai la risposta. Non sapevo da che parte cominciare e, soprattutto, non sapevo quando avrei potuto finire. Gli argomenti non mi mancavano, solo che sarebbe stato necessario partire un po' da lontano, almeno dal capitolo 12 della Genesi, e non fermarsi prima di essere arrivati al capitolo 22 dell'Apocalisse.
  Ci pensai spesso in seguito. Il fratello, in fondo, aveva posto in modo chiaro e diretto una domanda che probabilmente molti altri non osavano fare neppure a se stessi.
  E' normale che in certi ambienti evangelici qualcuno si ponga questa semplice domanda, perché chi si avvicina alla comunità riceve un messaggio più o meno come questo: tu sei un peccatore come me e come tutti gli uomini; se muori in questo stato, sei dannato e vai a stare eternamente insieme al Diavolo; se invece ti ravvedi e credi in Gesù come tuo personale Salvatore, sei salvato e vai a stare eternamente insieme a Dio; se accetti il messaggio della salvezza e ti converti, fino a che resti sulla terra dovrai cercare di comportarti bene e annunciare anche ad altri la possibilità di essere salvato.
  Che ad un incredulo, all'inizio del suo interessamento, arrivi un messaggio come questo, può andare bene, perché corrisponde effettivamente a ciò che la Bibbia dice. I problemi sorgono quando l'insegnamento con il tempo rimane sostanzialmente questo, allargandosi soltanto di poco rispetto al nocciolo iniziale.
  Ed ecco allora la semplice domanda che qualcuno può porre: ma che c'entra Israele in tutto questo? Se la venuta di Gesù in terra, la sua morte e la sua risurrezione, servono soltanto a dare a me e a te e a tutti gli altri che credono la possibilità di scampare dalle fiamme dell'inferno, che bisogno c'era di far intervenire quel "popolo di collo duro" che ha dato un sacco di problemi a Dio e agli uomini, con tutte quelle ribellioni, quelle guerre, quelle carneficine che per secoli hanno punteggiato la sua storia? Perché non far cominciare tutto con la notte di Natale, così dolce, così poetica? Perché non attenersi al cosiddetto "Simbolo Apostolico" che dovrebbe tenere uniti tutti i cristiani: "Credo in Dio, Padre onnipotente ... e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, ecc." Qui non c'è nessun popolo. E se una volta c'era, sarebbe meglio scordarselo.

 Paganesimo religioso
  L'essenziale di ogni religione pagana può essere riassunto così. Gli uomini vivono sulla terra sotto lo sguardo indagatore della divinità. Se si comportano bene, ricevono aiuto e sostegno durante la vita terrena e alla fine, se superano l'esame, sono accolti nel cielo dalla divinità. Se invece si comportano male, ricevono castighi e correzioni durante la vita terrena e alla fine, se non superano l'esame, sono gettati nell'inferno a far compagnia al diavolo.
  La predicazione evangelica certamente si differenzia da questo schema, ma in che cosa? Quando si tratta di religioni che non siano quella cristiana o quella ebraica, la differenza è posta innanzitutto nella divinità: si tratta di un altro dio, cioè di un idolo. Quando invece si ha a che fare con ebrei o sedicenti cristiani, la differenza che si sottolinea è soprattutto quella tra opere e grazia. Non si può essere salvati osservando rigorosamente una qualche legge, sia essa mosaica o cristiana, ma soltanto per grazia mediante la fede in Gesù Cristo, "che è stato dato per le nostre offese, ed è risuscitato per la nostra giustificazione" (Romani 4:25).
  Tutto questo è vero, ma è tutto qui? Se così fosse, la domanda di partenza rimarrebbe: "Ma a che serve Israele?"
  Sentirsi spinti a fare questa domanda, anche in forma più "teologica", non significa soltanto avere idee poco chiare su una dottrina specialistica e non fondamentale del patrimonio di conoscenze di un cristiano; significa non aver capito qualcosa di essenziale della natura e dell'opera di quel Dio in cui si dice di credere per la propria salvezza personale. Considerare poco interessante una cosa di cui Dio invece si è sempre interessato e continua appassionatamente ad interessarsi, espone chi fa queste considerazioni alla domanda: ma in quale Dio hai creduto?
  Leggendo attentamente la Bibbia, tutta la Bibbia, e non soltanto parti accuratamente selezionate di essa, si potrebbe scoprire che la differenza sostanziale tra messaggio cristiano e religioni pagane non sta nelle condizioni a cui devono sottostare le singole anime per poter salire dalla terra al cielo.
  Sono innumerevoli le barzellette sulle anime che dopo la morte lasciano la terra e salgono in cielo, dove trovano un san Pietro che stabilisce, dopo aver accertato che possono entrare, quale dev'essere il posto a loro assegnato. Molti pensano che, a parte l'aspetto burlesco delle nuvolette su cui andranno a stare le anime dei buoni, ci sia in tutto questo un fondo di verità: i buoni lasceranno ad uno ad uno la terra e saliranno in cielo ad abitare eternamente con Dio. La realtà biblica invece è diversa.

 Il messaggio della Bibbia
  «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio». (Apocalisse 21:1-3)
  Nel Nuovo Testamento la traduzione "tabernacolo" compare soltanto nella lettera agli Ebrei e nell'Apocalisse, perché lì si fa riferimento all'Antico Testamento. In tutti gli altri casi in italiano il termine è tradotto con "tenda", e la sua radice è la stessa del verbo "abitare". Una traduzione più efficace dunque potrebbe essere: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro».
  Nel Nuovo Testamento il verbo greco tradotto con "abitare", che come già detto ha la stessa radice di "tabernacolo", è usato soltanto nell'Apocalisse e una sola volta nel Vangelo di Giovanni:
  "La Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità" (Giovanni 1:14).
  Dio dunque vuole venire ad abitare con gli uomini, e ha manifestato questo suo desiderio per la prima volta al popolo d'Israele, quando sul monte Sinai disse a Mosè di costruirgli un santuario. E non soltanto gli diede l'ordine di costruirlo, ma gli disse anche per quale motivo lo voleva e con quale obiettivo aveva fatto uscire il popolo dal paese d'Egitto:
  «Abiterò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio. Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono l'Eterno, il loro Dio» (Esodo 29:45-46).
  Si confrontino queste parole con quelle dell'Apocalisse riportate sopra e con la citazione del Vangelo di Giovanni: forse allora le domande su Israele, anche se continueranno ad esserci, non saranno più le stesse di prima.
  In poche parole, mentre le religioni pagane presentano un movimento di ascesa di singole anime (scorporate) verso l'abitazione in cielo della divinità, il piano di salvezza biblico presenta un Dio che scende (corporalmente) verso gli uomini per abitare sulla terra in mezzo a loro.
  Ma per poter essere in mezzo agli uomini, questi devono formare una società, un popolo.
  Il primo popolo in cui questo ha cominciato ad avvenire è il popolo d'Israele.

(Chiamata di Mezzanotte, n. 1/2 2017)


 

I cessate il fuoco che Netanyahu accettava, Hamas violava e il Controllore di stato non vede

Non è dai giuristi né dal balletto delle accuse reciproche che Israele può apprendere come migliorare la propria difesa

La striscia di Gaza è controllata da un'organizzazione terroristica con una piattaforma antisemita che prevede l'annientamento degli ebrei. La comunità internazionale ha cercato più volte di raggiungere un qualche tipo di accordo con questa organizzazione. Il tentativo più rilevante è stato fatto dal Quartetto Onu, Unione Europea, Stati Uniti e Russia, ma non è servito. Hamas ha sempre rifiutato.
Hamas infatti preferisce l'industria della morte - razzi e tunnel terroristici - rispetto allo sviluppo del benessere. Agisce esattamente come le altre organizzazioni jihadiste internazionali. Tutto ciò che producono è distruzione. Ogni tanto subisce un colpo, accumula nuove energie per oliare gli ingranaggi dell'industria della morte, e trascina Israele in un nuovo round di combattimenti....

(israele.net, 6 marzo 2017)


Dai bhutanesi ai papuani, le "occupazioni" che il mondo ossessionato da Israele ignora

Perché si organizzano "settimane dell'apartheid" soltanto contro Israele? E perché l'Onu non aiuta i profughi (veri) di altri paesi?

dal Jerusalem Post (27 /2)

Ora ho una nuova cosa di cui preoccuparmi: la povera gente di Papua Occidentale. Beh, qualcuno deve pur preoccuparsi per loro e sembra che non ci siano tante persone disposte a farlo". Inizia così il piccolo saggio di Liat Collins sul Jerusalem Post, primo quotidiano israeliano in lingua inglese. "Ammetto che non avevo nessuna idea della loro situazione prima di questa settimana, quando il Jerusalem Post ha pubblicato uno stimolante editoriale di Adam Perry sotto il titolo 'I dimenticati di Papua Occidentale'. Perry, un ebreo britannico, ha cominciato a fare ricerche sui conflitti nel mondo dopo aver visto un servizio televisivo su una manifestazione di circa 50 persone davanti all'ambasciata dello Sri Lanka che protestavano contro le torture e le uccisioni di migliaia di tamil. Il giorno dopo si è imbattuto in una manifestazione anti-israeliana nel West End di Londra dove decine di migliaia di persone si erano radunate per protestare contro un raid aereo israeliano 'che ha distrutto alcune case e ucciso tre persone'.
  'Ho iniziato a indagare gli altri conflitti nel mondo e le situazioni critiche dei diritti umani trascurate o totalmente ignorate a causa delle politiche di potenza alle Nazioni Unite e dell'ossessiva passione dei mass-media per Israele', spiega Perry, che nel corso di un periodo di lavoro in Australia si è interessato sempre più al movimento per l'autodeterminazione del popolo di Papua Occidentale. Al quale farebbe certamente comodo un po' di pubblicità. Rimando all'articolo di Perry per tutte le informazioni, ma qui provo a riassumere. Papua Occidentale è la metà ovest dell'isola di Nuova Guinea, al confine con la nazione indipendente di Papua Nuova Guinea, circa 250 chilometri a nord dell'Australia. Dopo secoli di colonizzazione olandese, nel 1961 a Papua Occidentale venne promessa l'indipendenza. Due anni più tardi, mentre il mondo occidentale guardava da un'altra parte, l'Indonesia prese con la forza il controllo dell'area, che risulta ricca di risorse naturali, tra cui l'oro. 'Dal 1963 - scrive Perry - circa 500.000 abitanti di Papua Occidentale, più di un quarto della popolazione, sono morti per mano delle brutali forze d'occupazione indonesiane: dati convalidati da diversi studi e da gruppi per i diritti umani (tra cui l'International Association of Genocide Scholars e la Yale Law School), Le uccisioni quotidiane, le torture e le detenzioni senza processo a opera dall'esercito e della polizia indonesiani proseguono senza conseguenze e con scarsissime condanne'.
  La storia degli sfortunati abitanti di Papua Occidentale mi ha ricordato il destino della perseguitata minoranza indù del Bhutan. Nel maggio 2010 ho scritto a proposito della misera condizione dei circa 100.000 profughi bhutanesi di origine nepalese, cacciati dal regno per essersi rifiutati di vivere secondo le tradizioni buddiste che lo governano. Da allora, solo di rado mi sono imbattuta in qualche fonte che dia notizie sulla loro situazione. Per qualche perversa ragione i rifugiati bhutanesi non sono considerati materia per titoli da prima pagina, e neanche da pagina interna. La loro situazione è resa ancora più sinistra dal fatto che il principale motivo di celebrità del regno himalayano del Bhutan è che ha ideato l'indice di felicità interna lorda: una misura del benessere psicologico. Come sottolineai all'epoca, perlomeno i palestinesi hanno imparato l'arte delle pubbliche relazioni: quante persone hanno mai sentito parlare di questa minoranza bhutanese? E chi prende sul serio l"oppressore' quando capita che sia buddista anziché ebreo? Accusare gli ebrei per questioni di miseria e profughi è pratica così diffusa da sembrare la norma. Ma incolpare i sorridenti e pacifici buddisti è tanto lontano dal bon ton quanto il Bhutan è lontano da Tel Aviv.
  Nel 2015 l'Alto Commissario Onu per i rifugiati ha annunciato con orgoglio che era riuscito a reinserire oltre 100.000 profughi bhutanesi dal Nepal in paesi terzi, da quando è partito il programma nel 2007. Sono cifre impressionanti per chiunque abbia dimestichezza con i dati dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite preposta a occuparsi esclusivamente di profughi palestinesi: i quali godono dello status unico al mondo di 'profughi perpetui ed ereditari'. Naturalmente le risorse che vengono spese per perpetuare all'infinito lo status di profughi dei palestinesi potrebbero essere utilmente impiegate per aiutare profughi ben più recenti, molti dei quali musulmani vittime di islamisti in luoghi come la Siria, l'Iraq, l'Afghanistan, la Somalia, il Sudan e la Nigeria, tanto per citarne alcuni. Papuani occidentali e bhutanesi non buddisti non sono soli nelle loro sofferenze, e nemmeno nell'essere ignorati da gran parte dei mass-media mondiali e degli attivisti internazionali. Secondo un rapporto della Reuters dello scorso 9 febbraio, potrebbero essere più di 1.000 i musulmani rohingya uccisi dalla repressione dell'esercito in Myanmar (Birmania, per i lettori più anziani). Il rapporto cita due alti funzionari delle Nazioni Unite, appartenenti a due diverse agenzie che operano in Bangladesh, dove negli ultimi mesi si sono rifugiati quasi 70.000 rohingya. I due funzionari erano preoccupati che il mondo esterno potesse non aver pienamente compreso la gravità della crisi in corso nello stato di Rakhine del Myanmar. Evidentemente essere una minoranza musulmana perseguitata da una maggioranza buddista genera una tale confusione che il liberal medio occidentale preferisce ignorare del tutto il problema. Molto più sicuro demonizzare Israele e considerarlo l'origine di ogni male. Dubito che nel prossimo futuro verranno organizzate nella vostra città delle 'Settimane contro l'apartheid del Myanmar'. Mi sa che anche i papuani occidentali dovranno aspettare a lungo. Le cosiddette 'Settimane contro l'apartheid d'Israele', invece, si sono diffuse in circa 225 città di tutto il mondo, e durano molto più a lungo dei sette giorni che implica il loro titolo: ma la parte del titolo che implica l'esistenza di un 'apartheid' in Israele è una menzogna molto più grande".

(Il Foglio, 6 marzo 2017)


Lanciato il primo nanosatellite israeliano per la ricerca scientifica

 
Un nuovo nanosatellite, il primo per il mondo accademico israeliano, è stato recentemente lanciato nello spazio per condurre missioni scientifiche per conto dell'Università Ben Gurion.
BGUSAT è il risultato di un progetto congiunto di cinque anni tra l'Università Ben Gurion, l'Israel Aerospace Industries Ltd. e il Ministero della Scienza, Tecnologia e Spazio.
Il satellite, è poco più grande di un cartone del latte, pesa solo cinque chilogrammi ed è dotato di telecamere innovative che possono fotografare una vasta gamma di fenomeni atmosferici e un sistema di guida che permette agli operatori di scegliere le aree di ricerca da una stazione di terra.
I ricercatori saranno in grado di posizionare il satellite per catturare una varietà di immagini da diverse angolazioni.
È la prima volta che una qualsiasi università israeliana avrà accesso ai dati provenienti da un nanosatellite per scopi di ricerca, secondo quanto diramato da una dichiarazione congiunta della BGU, IAI e dell'Agenzia spaziale israeliana. Questa missione permetterà ai ricercatori israeliani dell'Università Ben Gurion e dell'Università di Tel Aviv di studiare alcuni dei più interessanti fenomeni scientifici.
La costruzione del satellite è iniziata due anni fa presso la divisione spazio dell'IAI.
I nanosatelliti sono un nuovo strumento per la ricerca scientifica accademica, che consentono studi economicamente accessibili per il mondo accademico.
Dal momento che i nanosatelliti sono più economici, offrono un'arena più grande per l'innovazione spaziale, dice la nota.
Il colonnello Ofer Doron, capo dell'IAI's MBT Space Division, ha sottolineato che questo nuovo progetto "apre il mondo dei nanosatelliti a nuove e diverse missioni scientifiche. […] Per la prima volta, si ha un computer con una potenza simile a quelli destinati a satelliti più grandi, ma sviluppato specificamente per nanosatelliti".
Studenti e ricercatori israeliani hanno lavorato sul BGUSAT sotto una varietà di punti di vista, come l'ingegneria del software, ingegneria elettrica, scienze planetarie, ingegneria industriale e di gestione e altro ancora.
Dopo il lancio del satellite, l'Agenzia spaziale israeliana ha stanziato un ulteriore milione di shekel per finanziare la ricerca futura sulla base dei dati ricevuti dal satellite ed ha inviato gli atenei a presentare le proprie proposte. Le università di Ben Gurion e di Tel Aviv hanno già presentato una proposta congiunta per studiare l'airglow o luminescenza notturna della Terra.

(SiliconWadi, 6 marzo 2017)


La dittatura del gender. La grande lobby del pensiero unico

"Uguaglianza", come "omofobia", una parola ricattatoria usata in modo capzioso. Ci chiedono di adeguarci alle idee degli anni 60 e di deprecare quello che c'è stato prima. John Waters è un grande scrittore anticonformista e da due anni vive sotto linciaggio mediatico per essersi opposto ai matrimoni gay nella sua Irlanda. Formidabile j'accuse contro i tribunali del popolo e quel pensiero unico che ha ucciso la libertà d'espressione.

John Waters, giornalista e scrittore irlandese, "agnostico non praticante", è stato uno dei protagonisti della batta- glia contro il Sì al referendum sulle nozze gay. Columnist dell'Irish Time per 24 anni, lo ha lasciato quando ha avver- tito anche nel giornale l'ostracismo culturale nei suoi confronti.
Esprimere una visione eterodossa in certi ambiti significa rischiare la serenità e la reputazione.
Omofobia", parola truffaldina, concepita per demonizzare critici e nemici e metterli sotto silenzio.

di John Waters

Quando ho iniziato a fare il giornalista, trentacinque anni fa, la democrazia era intesa come qualcosa che aveva a che fare con la conversazione. Uno dei compiti principali dei media era quello di favorire il dialogo fra persone con idee diverse. Era una visione molto differente da quella di oggi, dove lo scopo finale è la facilitazione di un accordo fra le parti, come se lo scopo di una discussione fosse portare tutti a dire le stesse cose. Allora, la chiave di un dialogo era l'argomentare stesso: tirare fuori le forze e le debolezze delle varie opinioni per vedere se la prospettiva degli altri poteva avere una qualche influenza sui propri processi mentali. Era diffuso il senso che tutto questo fosse vitale per la democrazia, e che la gente ne avesse bisogno tanto quanto aveva bisogno dei libri e delle poesie.
   Era anche piacevole. Tutti amavano assistere agli scontri fra opinioni divergenti. Era divertente. La conversazione era la linfa vitale della comunità umana, non era un ostacolo al progresso ma la sua stessa essenza.
   Tutto questo sta cambiando. Di certo sta cambiando nel mio paese, l'Irlanda, e sta cambiando vistosamente anche negli Stati Uniti, in Inghilterra e in altri posti che conosco bene. Le conversazioni sincere sono guardate con sospetto. Molti fra quelli con le visioni più radicali circa la direzione in cui la nostra società dovrebbe andare obiettano all'idea di doversi confrontare con chi non è d'accordo con loro. Esprimere una visione eterodossa in certi ambiti significa rischiare la vita, la serenità e la reputazione. I media, che un tempo incanalavano il disaccordo democratico, sono diventati la corte suprema del politicamente corretto, dove gli imputati subiscono processi pubblici per aver infranto il marxismo culturale che ci governa.
   Ho subito il mio processo tre anni fa quando, all'approssimarsi del referendum sul matrimonio gay in Irlanda, una drag queen di nome "Panti Bliss" mi ha chiamato omofobo in televisione, dicendo che stavo
Per diverse settimane sono stato esposto al linciaggio. Mi sono figurato l'immagine di una stanza piena di attivisti gay che sputano email velenose contro i presunti nemici della loro felicità. Un'auten- tica industria del fango.
cercando di distruggere la sua felicità, senza tuttavia offrire nessuna prova a sostegno della tesi. "Omofobia", si capisce, è una parola truffaldina. Non ha un significato oggettivo chiaro se non quello che ha assunto all'interno della nostra cultura. E' stata inventata dagli attivisti lgbt come strumento di lotta, concepito per demonizzare nemici, critici e oppositori in modo da escluderli e metterli sotto silenzio. L'Oxford English Dictionary definisce "fobia" una "paura o un disprezzo estremi verso una cosa specifica". Lo stesso dizionario definisce "omofobia" una "intensa avversione per l'omosessualità e gli omosessuali". La parola ha anche la connotazione di una quasi-fobia verso gli omosessuali che può indicare il fatto che il soggetto stesso sta cercando di sopprimere l'attrazione verso il suo stesso sesso. Variazioni della parola "omofobia" sono usate dagli attivisti gay come strumento di censura, per imbrattare gli oppositori della loro opinione o delle loro richieste con una macchia che non può essere ripulita da nessuna risposta ragionata, una macchia che costringe anche gli altri al silenzio. Chiamare qualcuno omofobo non significa soltanto demonizzarlo e perciò metterlo a tacere, significa considerare le sue argomentazioni come radicate esclusivamente nell'odio o nella paura, cosa che dispensa dal rispondere ragionevolmente a ciò che dice.
   Quando ho capito che si trattava di una calunnia calcolata, ho risposto con una lettera dell'avvocato in cui chiedevo al network televisivo di ritirare le accuse e scusarsi. Si sono aperte le porte dell'inferno. Per diverse settimane sono stato esposto al linciaggio di attivisti lgbt pagati da un'organizzazione "filantropica" americana con un misterioso ma profondo interesse nelle vicende del mio paese.
   L'aspetto più immediato e notevole di questa ricaduta è la pioggia di email che sono cominciate ad arrivare, crescendo in intensità nella notte, salvo poi calare. Ogni mattina mi svegliavo con la casella piena di fango. Quella che segue è una selezione casuale che rappresenta il livello generale di veleno, analfabetismo e mancanza di immaginazione.
   "Sei un fottuto omofobo". "Sei un cretino omofobo". "Abbi la decenza di scusarti con Panti, e poi sparisci dalla faccia della terra". "Fottiti, indegno pezzo di merda. E cazzo anche tu sei brutto forte. Tagliati quei
Per due anni, fino al referendum del 2015, il mio paese è stato vittima dello stupro culturale della propaganda. Il modello irlandese delle nozze gay è il gold standard attraverso cui ogni paese sarà misurato in termini di tolleranza.
capelli unti, cretino omofobo". "John Waters è un cretino omofobo". "Prendi i tuoi capelli unti e crespi e mettiteli nel tuo culo pieno di odio, stronzo". "Lei è un fanatico. E le chiedo gentilmente di ammazzarsi". "Vai a fare in culo e muori orrendo idiota che brandisce la Bibbia, i giovani di questo paese ricorderanno per sempre il tuo odio ideologico e le tue giravolte per difendere una istituzione fanatica". "Da giovane eterosessuale mi fai venire il voltastomaco con il tuo altezzoso complesso di superiorità. Non dimenticarti che anche tu come tutti noi devi tirarti giù le mutande e cagare, testa unta".
   "Ciao John, volevo soltanto dirti che tutti in Irlanda pensano che sei un bastardo". "Sei una macchia di piscio secco". "Potresti giustificare il fatto che tu meriti più diritti di una coppia gay?". "Ho incontrato autisti di taxi che almeno avevano il coraggio di ammettere che erano razzisti. Tu non sei soltanto un bullo ma anche un codardo". "Addio omofobo professionista!". "Fai alla progressista Irlanda un favore e abbandona il giornalismo, sei uno scandalo per il mio paese". "Sono sicuro che tu e i tipi omofobi come te non freneranno i desideri della maggioranza degli irlandesi ancora per molto".
   E così via.
   Dopo alcuni giorni ho notato dei pattern. Le email di rado contenevano accuse specifiche, solitamente s'ispiravano e ricalcavano quelle già inviate. In nessuna di queste si vedeva il tentativo di aprire una discussione. Ricevo molti messaggi critici, a volte offensivi, ma di solito tendono a essere legati a qualcosa che ho scritto o detto, anche se a volte gli autori mi hanno frainteso oppure hanno sentito soltanto voci di seconda mano. Queste email, invece, erano fatte interamente da insulti. Arrivavano in ondate dopo il tramonto fino alle prime ore del mattino, a volte venti o trenta al giorno. Raramente ne ricevevo prima di mezzogiorno e talvolta l'intero malloppo della giornata arrivava dopo le dieci di sera. Poi ho notato qualcosa di ancora più strano. Alcuni giorni non ricevevo alcuna email, e pensavo che si fossero fermate. Il tardo pomeriggio successivo, però, ne ricevevo una solitaria e pensavo: non sarebbe interessante se ne ricevessi una ventina di queste prima di mezzanotte? Puntualmente succedeva. E' accaduto molte volte. Un mercoledì ricevevo venti email, il giovedì nessuna, il venerdì altre venti, anche se nel frattempo il livello di attività, commenti e interventi nel dibattito era rimasto invariato.
   Mi sono figurato l'immagine di una stanza, da qualche parte nelle viscere della città, piena di attivisti gay che sputano email velenose contro i presunti nemici della loro felicità, magari fermandosi per un attimo per scambiare qualche idea su nuove formule e insulti, un'autentica industria del fango che lavora in modo febbrile per la causa della giustizia e della pace.
   Lo tsunami sui social media è stato replicato sui media mainstream, con molti dei miei "colleghi" che ne approfittavano per regolare vecchi conti. Alla fine ho dato le dimissioni dall'Irish Times, per il quale ho lavorato per 24 anni, dopo aver scoperto che un presunto collega e amico si era unito alla festa dell'odio, twittando con uno pseudonimo, Thomas59. Quando ho avvertito il mio direttore di questa violazione dei principi fondativi della nostra azienda, mi ha ignorato.
   La cosa davvero strana è che fino a quel momento non avevo detto quasi nulla in pubblico sul matrimonio gay, a parte domandare un paio di volte perché i politici fossero così interessati a questa non-
Quello che osserviamo, anestetiz-zati, non è solo una presa di potere da parte di un movimento non rappresentativo, ma la sospensione stessa della democrazia e la distruzione dei suoi pilastri principali. Le nozze gay, ultima portata di un menù di "diritti progressisti" che hanno tentato di rovesciare la realtà.
questione mentre si rifiutavano con decisione di affrontare temi che avevo sollevato per anni, come il caos del sistema famigliare, la discriminazione dei padri nel sistema giudiziario e l'assenza di ogni riconoscimento dei diritti naturali di un padre non sposato nella legge irlandese. Non solo non ho attaccato la felicità di Panti Bliss, ma non ho nemmeno contestato il matrimonio gay in pubblico. Ero scettico sulla questione, fino a un certo punto, con certe motivazioni, con alcune riserve ed eccezioni, dunque non totalmente contrario. Ero pronto ad aspettare e a considerare qualunque proposta sarebbe stata messa sul tavolo.
   Credo di essere diventato un bersaglio per quattro ragioni.
   Si sapeva che ero cattolico, e dunque si presumeva che avessi una visione cattolica e tradizionale del matrimonio, e probabilmente anche dell'omosessualità.
   Negli ultimi anni ero stato esplicito in un paio di casi in cui avevo fatto notare l'ipocrisia di certi giornalisti liberal e altri in casi che riguardavano omosessuali famosi. In uno di questi, si era scoperto che un noto poeta aveva avuto una relazione sessuale con ragazzi minorenni in un paese straniero. In un altro, un politico gay aveva dato un'intervista in cui suggeriva che l'Irlanda era troppo chiusa sugli abusi ai minori, e avrebbe dovuto guardare con più favore all'idea della relazione fra uomo e ragazzo, come avveniva nell'antica Grecia.
   In quanto attivista dei diritti dei padri all'educazione dei figli, ho contestato un precedente referendum, nel 2012, che con la scusa di estendere i diritti dei bambini ha trasferito i diritti dai genitori allo stato. Eravamo una manciata dalla parte del No contro l'intero sistema parlamentare irlandese e i media. Siamo partiti con il consenso a cifra singola, abbiamo chiuso al 42 per cento, e probabilmente avremmo vinto se avessimo avuto un'altra settimana o giù di lì.
   Mi sono espresso in particolare in favore del diritto dei cittadini di difendere ogni elemento della Costituzione così com'era, poiché rappresentava, fino a una riforma referendaria, la volontà del popolo. Era già diventato chiaro a quel punto che coloro che volevano il matrimonio gay non intendevano esporre i loro argomenti, ma desideravano che la loro proposta fosse accolta per acclamazione.
   Per due anni, fino al referendum del maggio 2015, il mio paese è stato vittima dello stupro culturale della propaganda, foraggiata dai fondi stranieri, con l'obiettivo di condurre un raid predatorio sulla nostra definizione costituzionale del matrimonio, della famiglia e del ruolo dei genitori. Siamo stati assaliti con il bullismo emotivo e con i ricatti morali, ridotti a capri espiatori, siamo stati in parte persuasi e in parte costretti a introdurre una forma di matrimonio gay che è la più estrema di tutto il mondo. Poiché era una nazione fortemente cattolica, l'Irlanda è stata indicata dalla lobby gay internazionale come la nazione-
Il matrimonio gay, accompagnato dai diritti d'adozione e dalla legit- timazione di potenziali pretese sui figli di altri, non poteva non avere conseguenze per altre categorie di cittadini. Una lunga storia che fa capo alla diffusione del "marxismo culturale".
trofeo la cui caduta potrà essere usata nel mondo come un grimaldello per scardinare altre nazioni meno devote. Quelli che in Irlanda minacciavano di presentare qualche ostacolo per questa agenda politica sono stati presi di mira per assicurare che il trofeo potesse essere catturato con il minimo sforzo. Il modello irlandese del matrimonio gay è il gold standard attraverso cui ogni paese nel mondo sarà misurato in termini di tolleranza e progressivismo. Come risultato del passaggio dell'emendamento, abbiamo introdotto nella Costituzione un dispositivo che non soltanto permette ai gay di sposarsi, ma implicitamente afferma che non c'è differenza costituzionale fra una coppia fatta da due uomini o due donne e una coppia fatta da un uomo e una donna.
   Il caso di Panti Bliss certamente ha avuto l'effetto di espormi. Dopo aver visto il modus operandi del branco lgbt sono diventato sempre più certo che avrei dovuto oppormi in tutti i modi ai loro tentativi di costringere l'elettorato irlandese ad adeguarsi al loro pensiero. Quando ho visto l'emendamento, mi sono deciso.
   A una prima lettura, la formulazione dell'emendamento appariva relativamente innocua. Diceva: "Il matrimonio può essere contratto da due persone in conformità della legge senza distinzione di sesso". Questa stesura dimessa s'attagliava alla tattica della lobby gay di presentare la questione come legata ai "diritti umani", identica, dicevano, alla storica campagna per l'uguaglianza dei diritti dei cittadini di colore negli Stati Uniti.
   Non è forse nemmeno necessario osservare che il paragone è totalmente fasullo. L'estensione della piena cittadinanza ai neri negli Stati Uniti era un fatto di vera "uguaglianza", perché si accordava con i principi fondamentali che riguardano la dignità di ogni persona umana e possono essere rispettati senza alcuna diminuzione dei diritti di altre persone. Non c'era perciò una ragione valida per cui l'uguaglianza non fosse così definita e messa in pratica, cosa che ha messo in luce che c'era effettivamente stata in precedenza una negazione gratuita e incredibile dei diritti umani.
   Le stesse condizioni non si applicano alla richiesta della comunità lgbt sul matrimonio gay. Non contenti di un semplice decreto con cui gli omosessuali avrebbero potuto formare un'unione civile oppure accedere a una categoria dedicata del matrimonio, chiedevano che l'Irlanda riscrivesse il manuale della natura umana per soddisfare le loro richieste di "uguaglianza". L'emendamento in realtà era un colpo di mano, l'usurpazione di un istituto che è appartenuto esclusivamente a coppie che, come minimo, avevano la possibilità teorica di procreare. Inoltre, il matrimonio gay, qualora accompagnato dai diritti d'adozione e dalla legittimazione di potenziali pretese sui figli di altri, non poteva non avere conseguenze per altre categorie di cittadini. Estendendo i pieni diritti di genitori alle coppie gay, la società irlandese avrebbe accettato una radicale diluizione dei diritti concessi ai genitori. Ciò era inevitabile, perché l'emendamento era stato messo nell'articolo della nostra Costituzione che si occupa non soltanto del matrimonio ma anche della famiglia e dei diritti dei genitori. Il risultato - una bomba costituzionale - è che non ci sarebbe più stata alcuna protezione costituzionale per le funzioni procreative complementari di uomini e donne, e nessun riguardo particolare per le connessioni biologiche verso i loro figli.
   La riforma è stata venduta grazie all'uso furbo delle parole, specialmente la parola "uguaglianza", come nella formula "referendum sull'uguaglianza del matrimonio". La Costituzione irlandese stabiliva già che
Una nuova formula per la famiglia. Ma trattando allo stesso modo sotto la Costituzione una coppia di uomini o di donne, non si sarebbe potuto evitare di abolire lo status legale della connessione biologica fra un genitore e un figlio come criterio della genitorialità.
tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, ma lasciava anche spazio alla possibilità di differenze in quanto a capacità e funzioni. Un autobus è uguale a un treno? Due uomini che legalmente possono essere definiti "uguali" a un uomo e una donna con dei figli possono essere considerati una "famiglia"? "Uguaglianza", come "omofobia", è una parola ricattatoria che è stata usata in modo capzioso per costringere le persone a cambiamenti che inevitabilmente avrebbero distorto diritti che generazioni di irlandesi hanno dato per scontati.
   Dobbiamo chiarire una cosa: il matrimonio gay non è stata una spontanea manifestazione di interesse verso un "diritto umano" o un "diritto civile" trascurato. Se fosse stata una di queste due cose, uno si sarebbe potuto aspettare di trovare una lunga storia di campagne e argomenti ragionati che risalgono a decenni or sono, cosa che chi è in favore dell'emendamento cerca di farci credere. Se uno si prende il tempo per andare a spulciare gli archivi di un qualsiasi giornale progressista che in tempi recenti si è espresso con decisione in favore di questo "diritto" - e con la stessa decisione ha condannato chi non si adegua - difficilmente troverà un solo articolo sul tema fino a circa cinque anni fa. Troverà un'analoga assenza nei discorsi dei politici che di recente si sono schierati sull'argomento e si sono prodotti in condanne di chiunque non accetta la loro definizione di "illuminismo".
   Il matrimonio gay è soltanto l'ultima portata di un menù di "diritti progressisti" che hanno tentato di rovesciare la realtà. Viene dopo la "affirmative action", il diritto di scegliere e la teoria del gender nella lista delle tematiche ordinatamente allineate nelle agende politiche delle società occidentali, senza che si sentisse il bisogno di una discussione pubblica. Questi trend contemporanei hanno una lunga storia che fa capo alla diffusione del "marxismo culturale" in Germania e America ottant'anni fa. Nella versione breve, basta sottolineare che queste idee sono entrate nel mainstream della cultura occidentale negli anni Sessanta, quando si sono trasformati nell'implicita ideologia del movimento "peace and love" e dei rivoluzionari del 1968. La nostra cultura è arrivata a credere che gli anni Sessanta sono stati la Rivoluzione Finale, la prima sequenza della Fine della Storia. Da lì in avanti, niente del pensiero e dell'immaginazione umana necessita di essere cambia drasticamente. Tutto ciò che è richiesto è che sintonizziamo la nostra civiltà sulle idee e gli ideali degli anni Sessanta e deprechiamo quello che c'era prima. E' la perfetta sintesi di un'idea totalitaria: una cosa che è già stata scritta per il futuro e che non è esposta alle modifiche dell'uomo, come se il futuro fosse una città che è già stata costruita e non ci resta che trasferirci con tutti i nostri averi.
   Le ideologie degli anni Sessanta ci hanno fornito un altro codice per il controllo e l'oppressione dello spirito umano, altro che controcultura. Gli obiettivi degli "idealisti" degli anni Sessanta sono la materia oscura della società consumistica moderna, alimentano una concezione dei diritti e della uguaglianza che in cambio spinge il sistema economico in avanti verso qualunque cosa pensa di andare. Matrimonio gay,
L'idea che esiste una categoria fondamentale del matrimonio, definito come un esclusivo impegno fra un uomo e una donna, aperto a una nuova vita e impegnato nella cura e protezione dei figli, è stata deposta in una tomba giuridica.
utero in affitto, cambiamento dei valori della vita famigliare, identità frammentate: tutte queste sindromi generano attività che devono essere monetizzate, mentre coloro che ne sono soggetti diventano più docili alla distrazione e all'anestesia. Il fatto che la lista di richieste sia intrinsecamente contraddittoria non è per loro un'obiezione: chiedere, per esempio, le quote rosa e allo stesso tempo invocare l'eliminazione delle oppressive identità di genere. In realtà, i guru del marxismo culturale insegnavano che creare confusione e contraddizioni era una cosa buona e necessaria.
   Per via della persistente ripetizione, ci siamo abituati all'idea che tutti questi concetti sono sintomi della libertà. La lista di queste richieste "liberali" è tenuta insieme non da un impegno per i diritti umani o per gli interessi di un gruppo, e nemmeno dalla preoccupazione per qualunque impulso umano, ma dal desiderio di conformarsi a un'agenda sociale radicale piena di obiettivi "cool", e che perciò hanno il beneficio di dipingere coloro che li appoggiano in modo virtuoso, mentre i critici sono retrogradi e reazionari. La rivoluzione degli anni Sessanta è precipitata nella quasi totale assurdità, eppure rimane in gran parte accettata senza critiche in una cultura che è stata persuasa che è possibile eludere la stessa natura umana.
   Questo illumina alcune delle molte surreali dimensioni dello pseudodibattito che ha preceduto il voto in Irlanda. A livello superficiale, la gente ha trattato il referendum come una cosa serissima e importante, ma dentro di sé molti si domandavano: da dove viene questa cosa? Di cosa parla? Perché succede? Come ha fatto una piccola minoranza della società irlandese a imporre la sua volontà all'intero establishment politico, quando molte cause hanno grosse difficoltà ad arrivare a un dibattito parlamentare? Perché improvvisamente ci è stato chiesto di considerare controverse cose che ci erano sempre apparse ovvie, cose che per milioni di anni non abbiamo sprecato un minuto a riflettere, ad esempio: davvero un bambino ha bisogno di suo padre e sua madre? La preside e il lattaio non potrebbero andare altrettanto bene? E il pompiere e il lattaio? In Irlanda, nella prima metà del 2015, degli adulti avevano conversazioni di questo tenore in radio e in televisione, per settimane e settimane.
   Nel corso della campagna, il governo irlandese ha detto che l'emendamento era una semplice aggiunta alla forma esistente di matrimonio, e che non aveva conseguenze sui figli né sulla definizione costituzionale della famiglia. Una cosa disonesta e folle. L'aggiunta di una nuova formula nell'articolo 41 della Costituzione, intitolata "la famiglia", era destinata a modificare le disposizioni di quella sezione e a influenzare i significati della clausole esistenti, così che il potenziale impatto sui diritti espliciti e impliciti sarebbe stato imprevedibile anche per gli avvocati più esperti. L'articolo 41 della Costituzione irlandese comincia così: "Lo stato riconosce la famiglia come prima e fondamentale unità naturale della società e come una istituzione morale dotata di diritti inalienabili e imprescrittibili, antecedenti e superiori al diritto positivo". Qualcuno davvero immaginava che un voto per il Sì potesse cambiare il significato costituzionale di parole come "naturale", "primario", "fondamentale", "antecedente" e "superiore"? La lobby del Sì e il governo hanno ignorato queste obiezioni e si sono rifiutati di rispondere a qualunque domanda specifica riguardo a questo ovvio pericolo. La parola "naturale" in quel contesto si riferiva chiaramente al fatto che
In questo nuovo clima, la leader- ship politica e la risposta del pubblico alle questioni politiche più calde hanno più a che fare con le aspirazioni nella sfera personale che con la natura e i bisogni della società: come vuoi che i tuoi pari ti vedano.
la famiglia fino a quel momento era stata principalmente definita come una madre, un padre e i figli, con i figli nati dalle funzioni biologiche complementari dei due genitori. Era ovvio che se questo concetto veniva mischiato con l'idea che un uomo e un uomo, o una donna e una donna, dovessero essere trattati allo stesso modo sotto la Costituzione, non si sarebbe potuto evitare di abolire lo status legale della connessione biologica fra un genitore e un figlio come criterio della genitorialità. I genitori naturali non avrebbero avuto diritti speciali su altri adulti che reclamavano la paternità o la maternità degli stessi bambini con altre motivazioni - ad esempio, il compagno gay di uno dei due genitori biologici. Nel caso di un contenzioso, una madre o un padre non avrebbero potuto invocare diritti speciali facendo leva sulla biologia, e le stesse parole "madre" e "padre" avrebbero dovuto con ogni probabilità essere abolite. In altre parole, c'era un'invisibile costituency i cui diritti erano enormemente minacciati dall'emendamento, ma i politici disonesti e i giornalisti ideologicamente corrotti avevano negato a questa costituency il diritto a una opportuna discussione su questi temi cruciali. Agli elettori è stato semplicemente detto che avevano il dovere di estendere "l'uguaglianza" alle coppie gay, sono state loro ricordate le intolleranze del passato verso gli omosessuali e gli è stato chiesto come si sarebbero sentiti se i loro figli fossero gay. Non sono stati invitati a giudicare l'emendamento nel contesto dell'ambiente costituzionale, oppure a sostenere una discussione su come questo avrebbe potuto esprimersi nella pratica.
   L'effetto dell'emendamento, in termini culturali, nel tempo includerà anche lo spostamento della protezione legale dei figli dai genitori naturali a un concetto nuovo di genitorialità definito non dalla biologia ma da uno strumento giuridico - l'affidamento - che sarà totalmente nelle mani dello stato e delle sue agenzie, e sarà tolto ai genitori per motivi non chiari né obiettivi, tutto ciò in un procedimento condotto a porte chiuse da un tribunale segreto. Così, l'essere genitori si trasformerà inesorabilmente in una questione sanzionata dallo stato, il quale si arrogherà la funzione di ratificare le relazioni fra genitori e figli secondo il loro status legale. Fra gli effetti collaterali di questo cambiamento va considerato anche la cosiddetta "genitorialità psicologica", ovvero il ruolo dell'educazione e della cura, il contatto quotidiano e l'interazione, la compagnia messa in relazione alla parentela biologica; ciò che, in altri termini, può rendere un'entità non biologica capace di superare le pretese di un genitore naturale semplicemente guadagnando una prossimità al bambino attraverso circostanze come, per esempio, lo sviluppo di una relazione con uno dei genitori naturali.
   C'è anche una conseguenza più grave. L'atto sponsale, l'unione sessuale di un uomo e una donna, non può avere alcuna rilevanza legale. L'idea che esiste una categoria fondamentale del matrimonio, definito come un esclusivo impegno fra un uomo e una donna, costruito attorno all'idea della loro unione coniugale, aperto a una nuova vita e impegnato nella cura e protezione dei figli, è stata deposta in una tomba giuridica, per sempre.
   E' importante sottolineare che questo è l'obiettivo ultimo della lobby lgbt. Nonostante possa apparire, in alcune circostanze e contesti, che si voglia accontentare di molto meno che di questa totale trasformazione della legge famigliare, non si tratta che di una tattica. E' il "metodo salame", procedere una fetta per volta, per ottenere tutti i guadagni incrementali possibili nella prima ondata, per poi capitalizzare chiedendo come mai i gay hanno avuto accesso alle unioni civili oppure a una versione minore del matrimonio ma senza godere, per esempio, dei diritti di adozione. La lobby lgbt tornerà sempre alla carica chiedendo qualcosa in più, fino alla vittoria definitiva.
   Negli ultimi giorni della nostra campagna, una persona con una vista di falco ha richiamato la mia attenzione su un documento piuttosto sconvolgente nascosto nel sito di "Yes, Equality", il gruppo che
Imposta alla nostra società una antropologia ricreata, tesa al trasferimento della custodia della realtà umana da Dio agli uomini. L'essere genitori si trasformerà inesorabilmente in una questione sanzionata dallo stato.
coordinava la campagna in favore dell'emendamento. Questo documento non soltanto confermava le nostre peggiori paure circa la reale intenzione della lobby del matrimonio omosessuale, ma andava molto oltre quanto noi stessi avessimo osato pensare nel descrivere le implicazioni di ciò che chiedevano e che presto avrebbero ottenuto. Si trattava di un paper scritto nel 2009 da un'accademica femminista e lesbica intitolato Feminism and the Same-sex Marriage Debate. In sostanza, questo documento articolava un'argomentazione diretta alle femministe più estreme che rimanevano contrarie all'istituto stesso del matrimonio, dicendo loro che era arrivato il momento di abbracciare il matrimonio gay in nome dell"'uguaglianza".
   Recita il paper: "Il matrimonio fra persone dello stesso sesso rovescia gli assunti biologici e culturali 'naturali' riguardo alla riproduzione e alla famiglia. Ha il potenziale per sovvertire e ribaltare la concezione storica e le implicazioni del matrimonio. Così facendo, avrà sradicato delle sue tradizioni l'ideologia e il mito romantico del matrimonio che è stato a lungo criticato dalle femministe".
   Con questo abbiamo avuto infine la conferma delle segrete intenzioni almeno dei più agguerriti e militanti elementi della lobby lgbt e del loro caravanserraglio - quegli attori che hanno preso la questione del matrimonio gay dal nulla e l'hanno portata al centro del dibattito pubblico. Il matrimonio gay non è parte di un programma rivoluzionario di libertà, è un cavallo di Troia che porta nel cuore della civiltà moderna un nuovo concetto della vita famigliare. Non implicava tanto la valorizzazione dell'omosessualità per la difesa degli omosessuali, ma fingeva una preoccupazione per l'uguaglianza per ripudiare e smantellare i concetti e le strutture che avevano permesso alle società umane di essere coese da quando i primi uomini hanno preso a muoversi sulla faccia della terra. L'obiettivo non era soltanto l'uguaglianza ma la sovversione del modello normativo della riproduzione e della vita famigliare, il rovesciamento dell'ordine naturale (va notato che la parola "naturale" è significativamente messa fra virgolette nella citazione sopra) e la distruzione del "mito romantico" del matrimonio.
   Se qualcuno dalla fazione contraria all'emendamento avesse espresso una critica di questo tipo sulle reali intenzioni della lobby gay, è probabile che i giornali avrebbero messo le loro dichiarazioni nei titoli di prima pagina, accompagnate da dure reazioni della parte del Sì e dalle solite accuse di omofobia. Invece, nonostante io abbia letto il passaggio citato durante diversi dibatti televisivi, non una parola è stata pronunciata o scritta su questo nei media irlandesi. I giornalisti si sono semplicemente voltati dall'altra parte, e così facendo hanno ammesso, infine, che non erano più giornalisti ma tirapiedi ideologici al servizio di un progetto radicale per alterare il vero significato del più centrale e sacro fra gli istituti umani e per ridefinire il significato dell'uomo in relazione alla natura.
   Ciò a cui abbiamo assistito in Irlanda nel 2015, e ciò che gli altri paesi occidentali stanno affrontando uno alla volta, non è meno di un attacco al significato e alla struttura dell'edificio umano. E' anche un sintomo di una civiltà in decadenza, non tanto per le ragioni solitamente addotte (la degenerazione culturale), quanto perché la preoccupazione per una cosa arcana come il matrimonio gay è indicativa del livello di noncuranza e tracotanza che già di per sé è problematica per la civiltà umana. Una delle chiavi è quello che lo scrittore Ron Inglehart chiama "post materialismo", con il quale non intende una società post consumista. La società post materialista è il culmine della deriva iniziata negli anni Sessanta, che ha le sue radici nell'illuminismo e nello sviluppo della società tecnologica, che ha liberato l'umanità dal lavoro manuale e gli ha permesso di vivere senza muscoli né sudore.
   Il post materialismo funziona così: quando le persone non devono occuparsi di rispondere ai propri bisogni elementari hanno più tempo per concentrarsi su problemi periferici, ad esempio come le loro
Il matrimonio omosessuale è un cavallo di Troia che porta nel cuore della civiltà moderna un nuovo concetto della vita famigliare. Una profonda intolleranza mascherata da liberalismo.
opinioni e i loro gusti possono aggiungere valore alle loro identità costruite. In Modernisation and Postmodernization, Inglehart dice che è impossibile prevedere, basandosi sugli indicatori economici, quali temi sono più attinenti alla politica delle varie società in un particolare stadio dello sviluppo. Ai post materialisti, dice, importa meno che ai loro genitori dell'autorità, della tradizione e delle istituzioni tradizionali, sono più tolleranti verso le differenze e mettono l'identità personale in cima ai loro indicatori per la soddisfazione e il successo. Chiaramente qui tolleranza, come la parola uguaglianza, ha un significato diverso da quello originario. In un passato non molto lontano, tolleranza significava non interferire con le convinzioni che contraddicevano le proprie, ma sotto la dispensa contemporanea del politicamente corretto e del marxismo culturale, questo ha lasciato posto a una profonda intolleranza mascherata da liberalismo, che postula che tutto vada tollerato a eccezione delle idee di chi è in disaccordo con ciò che viene proposto.
   In questo nuovo clima, la leadership politica e la risposta del pubblico alle questioni politiche più calde hanno più a che fare con le aspirazioni nella sfera personale che con la natura e i bisogni della società: come vuoi che i tuoi pari ti vedano, come le tue opinioni ti presentano agli occhi degli altri. Nelle nostre culture "liberali" le opinioni su questioni pubbliche si sono in qualche modo scollegate dalla convinzione o dall'analisi, diventando etichette delle identità, come t-shirt o tagli di capelli. La gente usa le filosofie o le posizioni politiche per farsi bella, completando così i loro vestiti e le loro automobili ("Guardami! sono un vegetariano filo palestinese che legge il New York Times! "; "Questo ateismo secolarizzato e pro choice mi fa il culo grosso?"). Il menefreghismo alimentato da sei decenni di prosperità e relativa pace ha reso la maggior parte dei nostri popoli incapace di immaginare che qualcosa di terribile possa accadere al loro mondo; perciò, non c'è bisogno di essere coscienti del contenuto fattuale dei temi politici, che semplicemente offrono il tessuto consunto per questo abito ideologico. In questo schema, odiare gli omofobi è importante almeno tanto quanto sostenere il matrimonio gay.
   Questa analisi in larga parte spiega il successo della spinta per il matrimonio gay, che è davvero la sintesi dell'insensatezza degli anni Sessanta. Spiega perché, negli ultimi quattro o cinque anni, cose che non erano mai state considerate urgenti sono state innalzate ai primi posti dell'agenda, principalmente attraverso la persistenza dei media nel metterli in cima alla loro lista delle priorità. E' stata imposta alla nostra società una antropologia ricreata, tesa al trasferimento della custodia della realtà umana da Dio agli uomini - per la verità non tanto agli uomini, quanto a certi uomini. Siamo di fronte a una forma di suicidio culturale della specie, uno smantellamento di ogni cosa da cui la sopravvivenza dell'umanità dipende.
   E' tempo che il mondo capisca la natura radicale di ciò che è proposto, la repentinità con la quale queste cose sono atterrate nello spazio pubblico di tutte le società occidentali, il veleno e la spietatezza mostrata dagli avvocati di questi cambiamenti e la loro insistenza sul fatto che le società non sono autorizzate ad avere dibattiti esaustivi prima di prendere le decisioni che loro impongono. Quello che osserviamo, anestetizzati, non è solo una presa di potere da parte di un movimento non rappresentativo, ma la sospensione stessa della democrazia e la distruzione dei suoi pilastri principali, inclusi i parlamenti, i media e in certi casi anche i tribunali. Alla fine, questi fenomeni sono di una gravità tale da rendere il matrimonio gay una questione secondaria. Una grave corruzione della legge famigliare e delle sue protezioni, ma in fondo soltanto la caparra di un tributo che contiene ben più inquietanti implicazioni per la razza umana.

(Il Foglio, 6 marzo 2017)



BDS e LGBT
due lobby simili nei metodi
due movimenti simili negli obiettivi

 


Israele, scoperto dolmen gigante. Il mistero delle incisioni

In Galilea, nei campi del kibbutz Shamir, trovata una tomba in pietra risalente a 4 mila anni fa. Sul «soffitto» presenta dei graffiti che non hanno eguali nella regione.

di Davide Frattini

 
GERUSALEMME Una pietra gigante che pesa cinquanta tonnellate, circondata per 20 metri di diametro da altri massi disposti intorno a cerchio. In queste settimane i prati della Galilea stanno fiorendo, il grigio del basalto è colorato dai primi germogli, lo scenario è diverso da quello che devono aver visto i costruttori di quattromila anni fa.
Gli archeologi sono convinti che la siccità, il freddo e la carestia abbiano spazzato via dal Levante le civiltà della prima Età del Bronzo. Eppure la scoperta del dolmen nei campi del kibbutz Shamir ha convinto gli studiosi che la catastrofe possa aver risparmiato alcune popolazioni: non hanno lasciato città o altri reperti, ma l'operazione monumentale indica che la società doveva essere organizzata in gerarchie. «Hai bisogno di radunare abbastanza gente, nutrirla, alloggiarla, devi essere in grado di progettare la struttura e costruirla. E ci vuole un capo, qualcuno che ordini a tutti che cosa fare. Un lavoro imponente che ha modificato il profilo del panorama, ha completamente cambiato la struttura del terreno», spiega il professor Gonen Sharon, autore della scoperta, al giornale online «Times of Israel».
La pietra più grande è incisa all'interno, sul soffitto del dolmen: linee rette che arrivano al centro di un arco, «un disegno unico per il Medio Oriente», spiega Uri Berger dell'Autorità israeliana per le antichità. Sotto sono stati trovati i resti di un uomo, una donna e un bambino, circondati da offerte come vasi di ceramica e pietre colorate da inanellare nelle collane. Il significato dei simboli resta misterioso, sono però considerati un altro segno che i popoli di queste regioni tra Israele, il Libano, la Giordania e la Siria non sono balzati indietro nel tempo tornando alla pura vita nomade. Sulle colline della Galilea sono sparsi 400 dolmen, non imponenti come quello scoperto da Sharon, e 5.600 sono stati individuati nel Golan, le alture catturate ai siriani dall'esercito israeliano cinquant'anni fa, durante la guerra dei Sei giorni.

(Corriere della Sera, 6 marzo 2017)


Netanyahu a Mosca il prossimo 9 marzo, focus su ruolo Iran in Siria

GERUSALEMME - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu solleciterà la Russia ad impedire agli iraniani di condurre operazioni vicino al confine con Israele. Lo ha dichiarato oggi lo stesso capo del governo israeliano intervenendo durante una riunione del Consiglio dei ministri nella quale ha esposto alcuni temi al centro dell'incontro con il presidente russo Vladimir Putin previsto il prossimo 9 marzo a Mosca. Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", il premier spera di raggiungere alcune "intese specifiche" con Mosca per impedire all'Iran e alle milizie appoggiate da Teheran di aprire una base permanente nei territori siriani al confine con lo Stato di Israele. Netanyahu ha inoltre aggiunto che l'incontro vedrà anche la possibilità di avviare nuove disposizioni tra Russia e Israele in merito alla Siria, soprattutto dopo i colloqui di pace tra opposizione e governo siriano avvenuti nelle ultime settimane nella capitale kazaka Astana e a Ginevra.

(Agenzia Nova, 5 marzo 2017)


Ambasciata Usa in Israele, "entro maggio sarà spostata a Gerusalemme"

"Entro fine maggio il presidente Donald Trump annuncerà lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme". Il passo in avanti in una questione che rischia - come più volte ammonito da parte dei palestinesi e del mondo arabo - di avere conseguenze imprevedibili, è stato rivelato al sito americano ultraconservatore 'Breitbart News' dal parlamentare repubblicano Usa Ron DeSantis che ha guidato ieri ed oggi a Gerusalemme una delegazione di rappresentanti del Congresso per verificare le condizioni e le possibili ricadute della mossa.
   DeSantis - che insieme alla delegazione ha incontrato il premier Benyamin Netanyahu e deputati israeliani - ha anche indicato come possibile sede della nuova ambasciata la struttura del compound del Consolato Usa a Gerusalemme che si trova ad Arnona nella parte sud della città all'interno della zona ebraica delimitata dalla linea armistiziale del 1949, ma ad un passo del quartiere palestinese di Jabel Mukaber. Un edificio in potenza "già pronto all'uso" e dotato di maggiore sicurezza rispetto all'ambasciata di Tel Aviv, ha spiegato DeSantis.
   L'indicazione di maggio come scadenza del possibile trasferimento non sembra casuale: in quella data si celebreranno in Israele i 50 di Gerusalemme capitale riunificata dello stato ebraico dopo la Guerra dei 6 giorni del 1967. Lo spostamento dell'ambasciata americana da Tel Aviv, previsto da una legge del 1995, è stato finora rallentato dai presidenti Usa, Barack Obama compreso. La deroga a questa legge scade però proprio a maggio.
   "Molta gente - ha dichiarato il parlamentare repubblicano a Breitbart - ha pensato che la cosa si sarebbe fatta in un giorno solo. E quando non è avvenuto, la stessa gente ha detto. 'Bene (Trump) non lo farà. Non manterrà la sua parola'". Ma DeSantis ha subito aggiunto che "Trump ha dato prova di essere un uomo di parola" e che pertanto "non firmerà la deroga per l'ambasciata stessa", come fatto da Obama. "Del resto - ha proseguito DeSantis - abbiamo già il nostro ambasciatore, David Friedman, sul posto. Così io penso che questo è quello che succederà".
   Il parlamentare del Likud (il partito di Netanyahu) Yehuda Glick che ha incontrato la delegazione Usa capitanata da DeSantis ha fatto appello affinchè la promessa fatta in campagna elettorale da Trump sia mantenuta. "E' tempo - ha sottolineato - che il presidente rispetti l'impegno e la legge approvata dal Congresso nel 1995".
   La reazione palestinese non si è fatta attendere. Ziad Khalil Abu Zayyad, portavoce di Fatah, partito del presidente Abu Mazen ha ammonito la delegazione Usa sulla necessità "di comprendere che spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme non solo farà esplodere la situazione in Palestina ma l'intera regione". Una reazione giunta poche ore prima che il premier Netanyahu chiedesse, e ottenesse, la cancellazione a Jatt, villaggio arabo-israeliano a nord di Tel Aviv, dei cartelli stradali che indicavano 'via Arafat'. "Non possiamo permettere che nello Stato d'Israele - ha motivato durante il consiglio dei ministri - siano dedicate strade in ricordo di uccisori di israeliani o di ebrei".

(L'Huffington Post, 5 marzo 2017)


Israele vista con gli occhi di chi sta per partire

di Georgia Casanova

Quando a gennaio mi hanno proposto di fare uno studio su Israele per comparalo all'Italia, ho realizzato che della società israeliana poco sapevo, se non quello che la storia ci ha insegnato e quello che i telegiornali trasmettono. In realtà quello che hanno trasmesso in passato, visto che l'attenzione mediatica negli ultimi anni si è spostata su altri "conflitti" e questioni. Un cambio non di poco conto, come vedremo tra poco.
   Mi sono - quindi - chiesta cosa volesse dire preparare un viaggio in Israele agli occhi delle persone che mi conoscono. Pur sapendo che ormai Israele sia considerata una meta turistica abbastanza nota e quasi di routine dai viaggiatori esperti, quanto le informazioni che abbiamo influenzano l'immaginario condiviso?
   Ho osservato la reazione della gente per un paio di settimane e una cosa è certa: Israele non lascia indifferenti, come il quadro Guernica di Picasso, muove emozioni profonde. Da una parte l'immagine di Israele assume il significato di "guerra perenne",di conflitto di religione e di occupazione richiamando l'enorme sacrificio della gente e dei popoli originari, ma anche l'idea di prefazione del "potente" e la forza della ribellione ad un destino scritto da altri. Dall'altra parte,la sua valenza storico spirituale, quale luogo di culto, terra santa e culla della spiritualità occidentale, che rende Israele il "punto zero" delle religioni monoteiste.
   Ma c'è ancora una visione diversa, quella che vede Israele come luogo di vivacità economica e di sviluppo. Nel 2016, con un PIL in crescita per il tredicesimo anno di fila, Israele si assesta al 25o posto dei paesi industrializzati OCSE, e Tel Aviv diviene una delle mete turistiche e di divertimento, 24h su 24h, soprattutto giovanile. Questa è l'idea di Israele che mi è stata rimandata dai miei "più giovani" amici e conoscenti. Di quella fetta di popolazione meno esposta al boom mediatico, culturale e politico proprio degli anni '80 e '90 sul conflitto "israelo-palestinese".
   Che ciò sia un caso? Io credo di no.
   A differenza dei più giovani, nei quarantenni ed oltre di mia conoscenza sembra predominare l'immaginario di un paese "a rischio" se non pericoloso e per alcuni politicamente criminale. La spinta emotiva dettata dall' immaginario collettivo è ancora più evidente quando si affronta l'argomento "Israele oggi e la sua società", molti degli adulti non sanno che dire. Se poi si affronta il tema invecchiamento della popolazione e dei rapporti intergenerazionali, la questione si fa ancora più buia: quasi che gli israeliani, visti nei loro abiti militari, non possano invecchiare.
   Questo è il punto zero della riflessione: la società israeliana di oggi, vista e raccontata attraverso la mia esperienza di ricerca di tre settimane.
   Ma perché fare un confronto tra Italia ed Israele?
   La struttura demografica a prima vista non sembrerebbe simile: la popolazione anziana in Israele è poco più del 10% del totale, quasi la metà di quella italiana, e il numero di figli medi per popolazione femminile allo 3,8 è il triplo di quello italiano. Cosa quindi accomuna Italia ed Israele a tal punto da attirare l'attenzione della ricerca scientifica? La prevalenza per la cura familiare-domestico è uno dei fattori principali, così come la conseguente centralità della figura di chi presta la cura spesso informalmente (familiare o amico che sia), ma anche l'elevata presenza dei così detti "Grandi Anziani" over80 che come in Italia occupano una buona fetta della popolazione anziana, ne fanno un buon banco di confronto e di spunto per le politiche nazionali.
   Nelle prossime settimane vi racconterò delle famiglie israeliane e del loro rapporto con l'invecchiamento grazie alle voci degli esperti, ma soprattutto vi racconterò del quotidiano della società israeliana, letta negli occhi della gente e sulle labbra di chi incontrerò. Venite con me.

(The Martian, 5 marzo 2017)


"Basta pregiudizi contro Israele, l'Onu si occupi di altri paesi"

L'amministrazione Trump rivedrà la posizione degli Stati Uniti all'interno del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC). Ad annunciarlo, Erin Barclay, vicesegretario di Stato Usa, citando "l'ossessione" dell'organizzazione internazionale per Israele. "Gli Stati Uniti sono profondamente turbati dalla costante e ingiusta attenzione che il Consiglio riserva a un paese democratico come Israele - le parole di Barclay pronunciate all'Assemblea dell'UNHRC a Ginevra lo scorso 1 marzo - A nessun'altra nazione è dedicato un intero punto all'ordine del giorno dell'agenda. Come può essere questa una priorità?". Il riferimento del vicesegretario Usa è al punto 7 dell'agenda dell'ente dell'Onu, dedicato appunto a Israele e al conflitto con i palestinesi. "L'ossessione per Israele è la più grande minaccia per la credibilità del Consiglio. - ha ribadito Barclay - Questa limita il bene che possiamo fare facendo diventare il Consiglio una parodia di se stesso. Gli Stati Uniti si opporranno a qualsiasi tentativo di delegittimare o isolare Israele, non solo in questa sede ma ovunque". Parole che hanno trovato l'apprezzamento, tra gli altri, del Congresso ebraico mondiale (World Jewish Congress) che ha inviato un messaggio a Barclay, ribadendo la necessità "di rimuovere l'articolo 7 dall'agenda permanente dell'organizzazione".
   "Come organizzazione internazionale che rappresenta più di 100 realtà ebraiche di tutto il mondo, il Wjc è profondamente impegnato nella promozione dei diritti umani universali e del rispetto della dignità umana. Noi crediamo che il Consiglio dei diritti umani è uno strumento importante nell'ambito delle Nazioni Unite, ma siamo turbati e preoccupati dal fatto che questo Consiglio abbia perso la direzione e si sia fissato nel condannare Israele. Dalla sua istituzione, - sottolinea il Wjc - questo Consiglio ha approvato un numero record di risoluzioni di condanna di Israele: più di 65 risoluzioni, ovvero più della metà di tutte le risoluzioni specifiche fatte su di un singolo paese". Dall'istituzione ebraica internazionale fanno sapere che il loro impegno contro l'UNHRC continuerà fino a che il Consiglio non smetterà di prendere di mira Israele.

(moked, 5 marzo 2017)


Chissà se almeno su questo punto anche gli ebrei di sinistra diranno una parola di apprezzamento sull’amministrazione Trump?


Turchia-Israele, delegazione di imprenditori turchi a Gerusalemme dal 14 al 17 maggio

ANKARA - Una delegazione di imprenditori turchi si recherà in visita in Israele dal 14 al 17 maggio prossimi. Lo riferisce il quotidiano turco "Hurriyet". Secondo quanto riferito dalla stampa di Ankara, Gerusalemme ha invitato il ministro dell'Economia turco, Nihat Zeybekci, a partecipare alla visita. La Turchia non ha al momento confermato la presenza del ministro. Nell'ambito del rafforzamento dei rapporti commerciali fra i due paesi, in seguito alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche, avvenuta a giugno 2016, anche il ministro dell'Economia israeliano, Eli Cohen, quest'anno dovrebbe recarsi in Turchia. A maggio dovrebbe svolgersi una riunione della Commissione congiunta turco-israeliana, a cui dovrebbe partecipare il ministro dell'Interno turco, Suleyman Soylu.
Lo scorso 21 febbraio, il console generale israeliano ad Istanbul, Shai Cohen, ha annunciato che gli imprenditori turchi potranno ricevere visti triennali per recarsi in Israele, che consentono ingressi multipli. Entrambi i paesi si sono accordati per rafforzare i legami economici e rinnovare gli accordi scaduti, ha chiarito il diplomatico israeliano. Attualmente il volume degli scambi commerciali (import&export) ammonta a 4-5 miliardi di dollari, ha affermato Cohen. Secondo alcuni esperti il potenziale commerciale dei due paesi si aggirerebbe sugli 8 milioni di dollari, ha sottolineato il console israeliano ad Istanbul. Cohen si adopererà anche per eliminare i dazi imposti al commercio di frutta e verdura.

(Agenzia Nova, 5 marzo 2017)


Israele depenalizza l’uso della marijuana

Ayelet Shaked, Ministro della Giustizia di Israele
Ministro della Giustizia: una 'pietra miliare'

GERUSALEMME - Il governo israeliano ha approvato la depenalizzazione dell'uso della marijuana in Israele in base ad una proposta avanzata dal ministeri della sicurezza e della giustizia. La nuova norma - che dovrà ora essere approvata dal Parlamento - stabilisce che chi è colto, per la prima volta, mentre fuma in pubblico la sostanza, non sia più perseguito penalmente bensì multato. Il ministro della giustizia Ayelet Shaked ha definito il varo del provvedimento come "una pietra miliare. Migliaia di persone normali non saranno più considerate criminali".

(ANSAmed, 5 marzo 2017)


In Lituania minacce di morte contro una giornalista per un libro scomodo sulla Shoah

In Lituania il libro "I nostri" della giornalista Ruta Vanagaité, relativo al collaborazionismo dei lituani con le truppe della Germania nazista e al coinvolgimento nei rastrellamenti e nelle uccisioni degli ebrei, è stato bollato come "opera russa" che minaccia la sicurezza nazionale e la stessa scrittrice è stata minacciata di morte.

La Vanagaitè ha raccontato di aver deciso di scrivere un libro sulle atrocità compiute dai suoi connazionali durante la Seconda Guerra Mondiale dopo aver sentito una lezione che l'ha scossa in un seminario di storia lituana. E' nell'immaginario collettivo l'idea che la Lituania non abbia preso parte all'Olocausto, tuttavia nell'incontro è stata esposta un'altra versione: al vertice della piramide di uccisioni c'era il governo lituano e tutta la macchina dello Stato era coinvolta: dall'amministrazione pubblica alle forze di polizia.
"Ho cominciato a mettermi in contatto con molti storici ed ho visto che scrivono e dicono la verità, ma in modo molto astratto, nel classico stile accademico. Ho voluto scrivere la verità in un modo popolare, una verità scioccante affinchè venisse letta," - ha raccontato la giornalista.
Nelle sue ricerche la Vanagaitè ha scoperto che persino membri della sua famiglia erano coinvolti nell'Olocausto. Il marito di sua zia era un comandante di polizia, mentre suo nonno compilava gli elenchi di ebrei e attivisti sovietici che venivano poi trucidati. La scrittrice sperava che il suo parente non sapesse perché preparava quelle liste.
"Prima di saperlo, era un eroe per me, poi ha smesso di esserlo, dopo aver fatto queste liste, come premio, ha ricevuto due prigionieri di guerra sovietici dai tedeschi, che dovevano lavorare nel suo terreno," - ricorda la Vanagaité.
Secondo lei, nei battaglioni di polizia ci si arruolava su base volontaria: si poteva scegliere di non partecipare alle uccisioni. Di fatto non c'erano conseguenze in virtù di questa rinuncia: nel peggiore dei casi si passava una notte in prigione, oppure i tedeschi non davano l'opportunità di ottenere il denaro rubato nei saccheggi".
La giornalista è convinta che serva far sapere alla gente che gli oggetti di antiquariato che si trovano in casa potevano appartenere alle vittime dell'Olocausto. Racconta che i collaborazionisti dei nazisti non risparmiavano nessuno. I bambini venivano sepolti vivi o venivano loro fracassate le teste sugli alberi.
La pubblicazione del libro della Vanagaitè ha provocato clamore in Lituania. La scrittrice ha detto che la gente si è divisa.
Molti parenti e amici della giornalista l'hanno accusata di essere al soldo del "Cremlino e degli ebrei". La giornalista ha aggiunto che dopo la pubblicazione del libro ha perso la metà degli amici.


E' convinta che nelle lezioni di storia serva dire che alcuni lituani avevano collaborato con i nazisti.
"Bisogna distruggere i monumenti degli assassini. In quattro o cinque posti in Lituania ci sono monumenti dedicate a persone che hanno preso parte agli eccidi, anche in Bielorussia. Dopo la guerra hanno cominciato a lottare per l'indipendenza della Lituania. Ma nessuno si chiede quello che facevano prima" - ritiene la scrittrice.
(Sputnik, 5 marzo 2017)


Arabi contro ebrei

di Lucetta Scaraffia

Georges Bensoussan, Les Juifs du monde arabe. La question interdite,
Odile Jacob, Paris, pagg 166, €24,30





L'Europa deve affrontare una situazione nuova: la presenza di consistenti comunità islamiche e quindi una convivenza che non si annuncia facile. Così, come spesso accade, si cerca rassicurazione nel passato, cercando di fare emergere le prove di felici convivenze fra musulmani, cristiani ed ebrei, come nel frequente riferimento alla condizione idilliaca in cui sarebbero vissuti insieme nella Spagna islamica (al-Andalus ). Oppure si ricostruisce il passato dando per provata una buona convivenza fra ebrei e musulmani nei paesi arabi e nordafricani.
   Non si tratta però di storia vera, perché «quando l'angoscia paralizza la ragione, la credenza vola in nostro soccorso» scrive lo storico Georges Bensoussan nel suo ultimo libro (Les Juifs du monde arabe. La question interdite), che ha suscitato aspre polemiche in Francia.
   Basandosi sulle sue approfondite ricerche sulla vita degli ebrei nei paesi islamici, lo studioso di origine ebraica denuncia una verità ben diversa: la condizione degli ebrei è sempre stata quella di un popolo dominato, umiliato e angariato in paesi dove l'ostilità antiebraica era dominante. Gli ebrei erano sempre considerati stranieri, tanto che veniva loro impedito di imparare l'arabo scritto e di conoscere il Corano.
   Una sorta di esilio interno, insomma, che ha scatenato massacri, violenze di vario genere, umiliazioni costanti. Non è certo stata la costituzione dello stato di Israele a rompere un'armonia secolare - sostiene Bensoussan - perché questo evento ha solo peggiorato una situazione già grave.
   Gli ebrei sono stati considerati potenziali (ma spesso reali) alleati dei regimi coloniali, e quindi malvisti dai partiti nazionalisti arabi, anche se qualcuno di loro aveva preso parte alla lotta per l'indipendenza. A questa ostilità ha contribuito anche l'accesso all'istruzione, che l'Alliance Israelite Universelle con le sue scuole assicurava ai giovani ebrei, offrendo loro possibilità che non avevano i musulmani. In sostanza, scrive lo storico, «l'onnipresenza del terrore abita la storia di tutte le comunità ebraiche in terra araba».
   Lo conferma la grande fuga degli ebrei dai paesi islamici (Marocco compreso) in direzione di Israele che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento. In sostanza Bensoussan mette in dubbio che sia possibile per i musulmani accettare la parità giuridica degli ebrei, sia nei loro territori che in quelli di emigrazione, come in Europa.
   Il libro ha suscitato grandi polemiche per il suo assoluto pessimismo e accuse di «istigazione all'odio razziale» o di islamofobia. Ma nella sua critica al mito dell'esistenza di un passato di utopica pace tra le religioni le ragioni ci sono, anche ben fondate. E tuttavia non può che lasciare perplessi l'assenza di qualsiasi riferimento alla presenza cristiana negli stessi luoghi e negli stessi periodi, perché la dinamica storica è sempre stata fra tre attori e non fra due.
   Al termine della lettura rimane comunque una domanda: anche se l'ipotesi di una possibile convivenza è del tutto nuova, perché va ritenuta impossibile?

(Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2017)


Negli Stati Uniti apprezzamento per ebrei e cattolici

WASHINGTON - Gli americani guardano con sempre maggiore positività e simpatia alle religioni. In particolare, e a dispetto dei gravi episodi di cronaca delle ultime settimane, sono gli ebrei, insieme ai cattolici, a raccogliere il maggiore consenso tra la popolazione statunitense. È quanto emerge da uno studio condotto dal Pew Research Center al termine di un anno elettorale in cui la politica è risultata particolarmente divisiva. Dal sondaggio, condotto dal 9 al 23 gennaio, viene dunque fuori che gli americani esprimono nei confronti delle religioni sentimenti più positivi oggi, rispetto a pochi anni fa. Solo il giudizio sui cristiani evangelici resta sostanzialmente invariato al 61 per cento rispetto all'analogo sondaggio del 2014. Mentre la valutazione per musulmani e atei, pur restando bassa, comunque sale rispettivamente dal 40 al 48 e dal 41 al 50 per cento. Gli americani esprimono invece maggiore apprezzamento verso i cattolici ed ebrei che si attesta attorno al 67 per cento. Intanto, da un altro studio effettuato dal Pew Research Center, risulta che, secondo proiezioni effettuate a partire dalla crescita prevista della popolazione soprattutto nei paesi asiatici, gli islamici sono destinati a diventare, nel 2070, il gruppo religioso più esteso. In quell'anno, il paese con il maggior numero di fedeli dell'islam sarebbe l'India.

(L'Osservatore Romano, 5 marzo 2017)


Campagne mirate per colpire Israele

di Lisa Palmieri-Billig (*)

Lisa Palmieri-Billig
Chi tra noi spera sinceramente in un futuro di pace per il Medio Oriente si sente obbligato ad agire per cercare di ottenere quel risultato. E siccome le mostruose violazioni dei diritti umani che avvengono in Siria, in Iraq, in Egitto, in Iran ecc. sembrano essere troppe, troppo abnormi, troppo devastanti per essere contrastate efficacemente, allora ecco che l'attenzione si rivolge all'unico Paese nel quale è possibile appellarsi impunemente alla libertà di parola, alla democrazia e ai diritti umani a sostegno delle battaglie etiche e morali.
Ciononostante, nel conflitto senza fine tra israeliani e palestinesi, la comunità internazionale non è riuscita a diventare o a essere considerata come un intermediario onesto da entrambe le parti in causa. Mentre le grandi diplomazie internazionali - come le Nazioni Unite, l'Unione europea, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia sola - intervengono, si inventano iniziative e aderiscono a parole a una pace negoziata, continuano a susseguirsi tentativi falliti di portare avanti un processo di pace. A contribuire a questa escalation di sforzi inutili ci si mettono anche le operazioni di marketing contro Israele che si svolgono in varie città europee sponsorizzate da attivisti pro-palestinesi e anti-israeliani, tra cui la "Settimana dell'Apartheid" internazionale contro Israele, giunta alla 12esima edizione, che ha avuto luogo in questi giorni in varie città del mondo. Il nome della manifestazione - una plateale bugia - è un maldestro tentativo di creare un parallelo con il Sudafrica di anni addietro.
  Eppure anche l'osservatore più superficiale dovrebbe ammettere che non c'è nessun "apartheid" in Israele. I cittadini arabi di Israele (che sono storicamente parte del popolo palestinese) siedono nel Parlamento israeliano e sono presenti in ogni aspetto della vita pubblica del Paese. Sono stati in passato e sono ancora deputati alla Knesset, sindaci di città e paesi, ambasciatori e funzionari nella diplomazia internazionale, studenti e professori nelle università, imprenditori e soci di aziende assieme ad israeliani ebrei, ecc.. E va ricordato anche che un giudice arabo israeliano è stato recentemente eletto a membro della Corte suprema israeliana.
  Una conferenza intitolata "Gaza: rompiamo l'assedio" è stata giustamente cancellata dal Comune di Roma dopo che questo aveva per errore concesso i propri spazi per lo svolgimento della manifestazione. La città di Roma non può diventare complice di eventi bellicosi unilaterali, messi in piedi da sponsor privati e che servono solo a soffiare sul fuoco dell'odio invece di lavorare per una comprensione profonda e a mediare per una giusta soluzione. La "Settimana dell'Apartheid", dal 27 febbraio al 3 marzo, ha ospitato 30 eventi in 7 città: Bologna, Cagliari, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Una settimana espressione del movimento "Bds" (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), concepito in origine come opposizione non violenta alla "occupazione", e che vide addirittura il sostegno di alcuni ebrei e israeliani di sinistra. Era un'azione contro la vendita di prodotti israeliani provenienti dai territori palestinesi (azione che tra l'altro
Il tentativo assurdo di censurare e boicottare studiosi israeliani della Technion, dell'Università di Tel Aviv, dell'Università Ebraica di Gerusa- lemme, ecc. non è solo un gesto antidemocratico e ottusamente anti-intellettuale, ma è anche auto-penalizzante, visto che proprio queste persone rappresentano le voci più aperte e liberali della società israeliana.
penalizzava anche i lavoratori palestinesi impiegati in quelle attività!), ma nella sua espansione è stata utilizzata anche per sostenere il rifiuto all'esistenza di Israele, scivolando in un latente antisemitismo nei campus universitari. Il tentativo assurdo di censurare e boicottare studiosi israeliani della Technion, dell'Università di Tel Aviv, dell'Università Ebraica di Gerusalemme, ecc. non è solo un gesto antidemocratico e ottusamente anti-intellettuale, ma è anche auto-penalizzante, visto che proprio queste persone rappresentano le voci più aperte e liberali della società israeliana, arabi (palestinesi) israeliani inclusi. La cosa ancora più assurda è che se i prodotti, la scienza e l'arte israeliana venissero seriamente messi al bando, allora gran parte dei passi avanti compiuti nella tecnologia, nella medicina e contenuti negli oggetti di utilizzo quotidiano, che hanno al loro interno componenti essenziali inventati e prodotti in Israele, dovrebbero essere gettati via. Bisogna dare credito al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ai molti rettori delle università italiane e ai sindaci delle città che si sono opposti senza il minimo dubbio (uno fra tanti Piero Fassino, l'ex sindaco di Torino che in molte occasioni ha insistito fermamente che la sua città rimanesse libera da questi eventi faziosi), e anche alla maggioranza degli studenti, grazie ai quali il movimento Bds non ha ben preso piede in Italia.
  E veniamo a Gaza: la maggior parte dei fattori che continuano a ostacolare la risoluzione della dolorosa questione sono dovuti ai palestinesi stessi. Israele si è ritirata unilateralmente da Gaza dodici anni fa; Israele ha ceduto il controllo di Gaza all'Autorità Palestinese dodici anni fa. Ma neanche un anno dopo, Hamas prese il potere su tutte le organizzazioni di Gaza dopo un golpe violento contro l'Ap. Non è un segreto che l'enorme flusso di investimenti provenienti dalla Ue, dall'Onu, dagli Stati Arabi e dalle Ong internazionali verso Gaza, che dovrebbero servire a migliorare la vita dei civili palestinesi, viene largamente dirottato, se non quando nelle tasche di pochi, per l'acquisizione di materiali necessari a costruire missili e tunnel che vengono poi utilizzati da Hamas per attaccare i cittadini israeliani.
  È comprensibile che molti abbiano a cuore la causa palestinese, ma i donatori internazionali peccano di grave mancanza di responsabilità quando si rifiutano di chiedere alle autorità palestinesi informazioni su
Nel cercare le responsabilità per la sofferenza del popolo di Gaza, gli organizzatori della "Settimana dell'Apartheid" e del movimento "Bds" puntano il dito solo su Israele e sugli insediamenti in particolare, ignorando completa- mente il ruolo spaventoso giocato dallo spietato governo di Hamas.
chi riceve e gestisce le tanto generose donazioni ricevute. Nel cercare le responsabilità per la sofferenza del popolo di Gaza, gli organizzatori della "Settimana dell'Apartheid" e del movimento "Bds" puntano il dito solo su Israele e sugli insediamenti in particolare, ignorando completamente il ruolo spaventoso giocato dallo spietato governo di Hamas, una dittatura che tortura e uccide i nemici al suo interno e che giustizia senza processo i membri del popolo palestinese accusati di tradimento.
E riguardo gli ostacoli a una pace negoziata, la comunità internazionale è totalmente incapace di affrontare il problema di riuscire a trovare nel popolo palestinese un interlocutore credibile che possa garantire in maniera convincente anche per il governo di Hamas a Gaza, che non ha mai cancellato dal proprio statuto lo scopo di "liberare" il territorio da tutti gli ebrei e di annientare Israele. Abbas è veramente capace di ergersi a garante per o contro Hamas?
  Certo, la costruzione di nuovi insediamenti non ci avvicina a una soluzione del conflitto, ma bisogna anche ammettere che non è questo il problema principale. Il problema principale è che Gaza, governata col pugno di ferro di Hamas, è un territorio dove i diritti umani, l'eguaglianza e la libertà in tutti i loro aspetti così come li concepiscono i sistemi democratici, sono inesistenti; e che la coesistenza a fianco allo Stato Ebraico non è parte delle visioni possibili. Due democrazie che possano vivere fianco a fianco con il sostegno degli Stati limitrofi e della comunità internazionale sarebbero la soluzione ideale. Ma per raggiungere questo scopo è necessaria una calma diplomazia che operi dietro le quinte per un negoziato faccia a faccia tra le due parti, condotto da portavoce credibili e supportato da una comunità internazionale che possa disfarsi del cieco pregiudizio contro Israele e che affronti la complessa realtà, così ovvia a un osservatore imparziale e informato.
  Ci sarebbe bisogno di uno sforzo coordinato internazionale per riportare le due parti al tavolo dei negoziati abbandonato dai palestinesi nel 2014 invece di fomentare l'odio con azioni unilaterali dirette contro Israele, che non fanno altro che aumentare l'animosità invece di avvicinare alla mediazione.


(*) Rappresentante in Italia e di Collegamento presso la Santa Sede dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 4 marzo 2017)


Milano - Aperitivo in concerto con Daniel Zamir Quartet

Il più importante e premiato musicista dello 'Jewish Jazz'

di Pierangela Guidotti

Daniel Zamir
MILANO - La stagione di "Aperitivo in Concerto" si chiude con un autentico evento: il primo concerto italiano di uno fra i più importanti sassofonisti viventi, un prediletto di John Zorn, il sopranista Daniel Zamir. E' un sassofonista/compositore del cosiddetto "Jewish Jazz", che unisce suoni jewish e jazz ad elementi di ethno e worlds music. Daniel Zamir è un genio che l'Italia non ha ancora scoperto. Questo sopranista israeliano, che elabora la tradizione ebraica all'insegna della più libera e disinibita improvvisazione, è stato per anni un segreto ben custodito, che solo il mitico compositore e sassofonista americano John Zorn ha saputo svelare, chiedendo a Zamir di realizzare alcune superbe incisioni per la sua casa discografica, la Tzadik. Le incisioni di Zamir sono gli album di jazz che hanno registrato in Israele il più grande successo di vendite e di critica di sempre, come "Amen" realizzato nel 2006, stesso anno in cui Zamir si è esibito con Sting durante la sua visita in Israele. Un concerto di Zamir è un evento irripetibile tanta è l'intensità estatica, una vera e propria trance, in cui egli sa immergersi e immergere gli ascoltatori.
   Nato in Israele nel 1980, erede delle tradizioni yiddish più mistiche in cui la danza diventa strumento liberatorio di energie vitali, Zamir possiede le chiavi d'accesso a un mondo in cui l'improvvisazione è uno strumento di intensa ascesa spirituale. Raramente è dato ascoltare musica così poeticamente e teatralmente capace di creare uno spirito comunitario attorno a una capacità narrativa che ha l'epico piglio e il titanico accento dei grandi Profeti biblici ed è capace di comunicare una gioia irrefrenabile e liberatoria. Nel concerto di Milano, Zamir si avvale delle capacità non meno virtuosistiche del giovane ma affermato batterista Amir Bresler e da uno fra i più brillanti pianisti israeliani sulla scena internazionale, il grande Nitai Hershkovits, di cui si ricordano la lunga militanza nel trio del celebre contrabbassista Avishai Cohen e le collaborazioni con Daniel Zamir, Kurt Rosenwinkel, Avi Lebovich, Jorge Rossy, Greg Tardy, Charles Davis, Mark Guiliana, Zohar Fresco, Steve Davis, Diego Urcola e Robert Sadin. Zamir a soli 32 anni ha vinto il "Prime Minister Award" assegnato ad eccezionali compositori jazz, in assoluto il più giovane ad avere vinto questo prestigioso premio.

(MilanoPost, 4 marzo 2017)


Nuove tensioni tra Iran e Israele

Teheran fa la voce grossa con Israele: possiamo cancellarlo in sette minuti. A formulare la minaccia è stato Kamir Bour, definito come uno dei vertici della potente Guardia rivoluzionaria iraniana.

di Diego Minuti

Nel ribollente calderone della regione mediorientale basta uno stormire di fronde per fare salire la tensione e le parole attribuite da alcuni media arabi ad un alto esponente della Guardia rivoluzionaria iraniana non fanno altro che accrescere i timori per una pace che, nonostante tutto, sembra camminare sempre sul crinale della catastrofe.
A formulare la minaccia è stato Kamir Bour, definito come uno dei vertici della potente Guardia rivoluzionaria iraniana, nell'ambito di una dichiarazione di più ampio respiro relativa alla capacità di Teheran di difendersi da qualsiasi aggressione esterna e di ''rispondere con la stessa forza''.
Ma se l'esternazione di Bour poteva essere presa come una delle tante dichiarazioni da inserire nella normale dialettica politica della regione - in cui resta sempre difficile definire gli schieramenti e quindi anche la reale capacità di difendersi o offendere - quel che ha dato fondamento ai timori è stata l'affermazione che Teheran è in possesso delle mappe di tutti i siti strategici di Israele e quindi di essere capace di distruggerli in sette minuti e mezzo, affidando tale compito ai propri missili.
Non si tratta, stando a quanto attribuito a Bour, di una semplice ipotesi di studio, perché la Difesa iraniana ha già fornito ai capi delle forze armate, ai massimi livelli di responsabilità, ordini scritti nei quali vengono date le direttive per rispondere ad un attacco armato da parte della ''entità sionista''. Altri ordini sono stati impartiti ai capi delle amministrazioni comunali delle più importanti città iraniane per farle trovare pronte in caso di un attacco israeliano.
La chiusa delle dichiarazioni dell'esponente della Guardia rivoluzionaria iraniana è un inquietante corollario poiché allarga la platea dei Paesi che potrebbero essere coinvolti nella risposta all'ipotetico attacco da parte di Tsahal e della letale forza aerea che porta dipinta sulle carlinghe e sui vettori la stella di David:
''L'entità sionista -. ha concluso Bour - dovrà essere al corrente di questo, allo stesso modo che i suoi alleati''.
Signori, la pace è servita.

(globalist, 4 marzo 2017)


Aeroporto Fellini: al via i voli per Tel Aviv grazie 'Destination Romagna'

RIMINI - Da Rimini si volerà per Israele: AIRiminum 2014, società di gestione dell'Aeroporto Internazionale "Federico Fellini", accoglie la compagnia israeliana ISRAIR con i suoi voli in programma per il 7, 14 e 19 aprendo ufficialmente al nuovo mercato israeliano.
Questa prima operazione volta a sviluppare un nuovo mercato, lato incoming, si è resa possibile grazie al supporto di una serie di operatori privati, che insieme al gestore privato dell'aeroporto hanno ritenuto opportuno investire per l'intero territorio romagnolo. Per questo AIRiminum 2014 ringrazia tutti coloro che fin dall'inizio hanno aderito al "Club Destination Romagna", in particolare: gli hotel Touring, De Londres, Parco dei Principi, Villa Adriatica, Ascot, Cristallo, SoleBlu, Tilmar, Oxygen, Grifone, Genty, Luxor; Costa Parchi, San Marino Adventures e Valentino Bus.
Al contempo, insieme all'operatore turistico Destination Romagna, verranno effettuati, lato outgoing, i voli da Rimini a Tel Aviv per il 7 aprile e da Tel Aviv a Rimini il 19 aprile, operati da ISRAIR e prenotabili presso Destination Romagna (outgoing@destinationromagna.it) al costo di €120,00 per tratta. Inoltre, chi sceglierà di volare con ISRAIR potrà beneficiare di una tariffa speciale per il parcheggio dell'auto, pari a €1,00 al giorno. Per la prima volta Rimini avrà quindi un collegamento diretto con lo stato israeliano reso possibile grazie alla partecipazione proattiva dei soggetti coinvolti nel "Progetto Israele", avviato da tempo dal management di AIRiminum 2014.
"Siamo molto soddisfatti che il collegamento con Israele sia ora una realtà - afferma l'Amministratore Delegato di AIRiminum 2014 Leonardo Corbucci. I nuovi voli rappresentano il preludio di un progetto volto a costruire un ponte stabile tra la Romagna e Israele, che contribuirà a potenziare i flussi turistici tra i Paesi e a promuovere la Romagna come un mercato attrattivo per i turisti israeliani."
"Una realtà straordinaria per il turismo verso Israele - afferma il Direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo Avital Kotzer Adari. Un volo che potrà consentire di vivere il periodo delle festività, ebraiche e cristiane, nella nostra terra coniugando in un unico viaggio i periodi appunto delle due Pasque, consentendo di vivere un'esperienza spirituale irripetibile. Israele sa davvero stupire e grazie ora alla politica degli Open Sky è nostra speranza che sempre le rotte come quella da Rimini possano crescere ed accrescere le connessioni verso la nostra meravigliosa Terra" ha concluso Avital Kotzer Adari.

(altarimini.it, 3 marzo 2017)


Milano - L'incontro del Keren Hayesod

Israele-Italia, progetti di futuro

 
"Net@ è un programma quadriennale di formazione doposcuola che offre ai giovani israeliani della periferie geografiche e socio-economiche conoscenze tecnologiche avanzate e promuove i valori sociali e doti di leadership". Un progetto importante, al centro dell'impegno del Keren Hayesod per Israele di cui si è parlato ieri a Milano in occasione dell'apertura della campagna di raccolta fondi in favore dell'organizzazione. Una serata che ha visto protagonisti diversi ospiti, con la partecipazione del mondo ebraico milanese così come di molte persone al di fuori della comunità: "tutti presenti qui per sostenere e dimostrare la propria amicizia a Israele", ha ricordato in apertura il presidente del Keren Hayesod Andrea Jarach. Tra i protagonisti della serata, in cui sono stati ricordati i tanti progetti promossi dall'ente, il vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo, Yossi Vardi, considerato tra i padri della rivoluzione tecnologica israeliana, e l'ambasciatore d'Israele a Roma Ofer Sachs.
   Quest'ultimo - introdotto da Jonathan Kashanian, presentatore della serata - ha ricordato l'incontro avvenuto proprio nei giorni scorsi nella Capitale tra il ministro italiano dello Sviluppo economico Carlo Calenda e il ministro israeliano Yuval Steinitz. I due, ha spiegato l'ambasciatore, hanno discusso in particolare delle risorse di gas, "un'opportunità per entrambi i Paesi e per tutta l'area. Sono anche contento di dirvi che pochi giorni fa la Giordania è stato il primo paese a ricevere rifornimenti di gas da Israele. Una notizia che fa ben sperare per il futuro della regione". Sachs ha ricordato come l'economia israeliana, trainata dal settore high tech, sia riuscita a fare passi enormi nel corso dei diversi decenni, superando quasi indenne anche la crisi economica del 2008. "Ma le sfide di domani sono soprattutto sul fronte sociale - ha spiegato Sachs, tenendo fuori la questione del conflitto - ci sono tre realtà su cui Israele si deve confrontare e che richiedono un cambiamento, le periferie, la comunità araba, gli ultraortodossi. Per ciascuna realtà è necessario provvedere a cambiamenti sul fronte dell'educazione per migliorarne la situazione e il progetto del Keren Hayesod va esattamente in questa direzione". Il vicesindaco Scavuzzo ha richiamato le tre parole tema della serata, Shalom, pace, Atid, futuro, e Haim, vita. "Milano può contare su una relazione intensa con Israele: è gemellata con Tel Aviv con cui condividiamo lo stesso dna di pace, vita e futuro. Un futuro a cui guardiamo con ottimismo forti di una democrazia che ci accomuna e del passato insieme".

(moked, 3 marzo 2017)


Stellari e simulazioni. Così Dana forma gli hacker d'Israele

Il nuovo campus della maggiore Shachar: «Vogliamo reclute che non abbiano schemi».

di Davide Frattini

Il Maggiore israeliano Dana Shachar
Il berretto è grigio come i vecchi telefoni perché per i primi hacker cornetta e modem erano la miccia che innescava gli attacchi informatici. La mostrina raggruppa i simboli delle forze di terra, mare e aria attraversati da un fulmine e circondati dagli anelli di un atomo. Come a dire: la nostra scienza vi proteggerà. Eppure le unità speciali per la cyber-guerra non puntano a reclutare piccoli sapientoni digitali, saper (già) programmare non è un requisito. «Per noi non basta che le ragazze o i ragazzi pensino fuori dagli schemi. Vogliamo giovani senza schemi», racconta la maggiore Dana Shachar, nel suo ufficio alla Kirya, il cubo bianco nel mezzo di Tel Aviv dove è concentrato il comando militare israeliano.
   Sullo schermo del computer lascia scorrere i modelli in 3 dimensioni di quello che diventerà il campus-caserma, una accademia pronta prima dell'estate per addestrare i soldati ad affrontare il terreno di battaglia virtuale. Le pareti di vetro tra le stanze non vogliono ispirare la trasparenza dell'informazione, significa «piuttosto che tutti possono vedere tutto». Shachar vuole insegnare agli ufficiali dei carristi che i loro telefonini personali non sono sicuri neppure dentro a un tank, o che pigiare il tasto per il «check in» quando si entra in un ristorante durante la libera uscita, significa rivelarlo agli amici di Facebook ma anche a potenziali nemici.
   «Nella dottrina tradizionale consideriamo ostili i Paesi con cui non abbiamo un trattato di pace — commenta —. Le tecnologie ampliano l'idea di nemico e le minacce: può essere un adolescente da solo nella stanza che vuol colpire Israele». Bersagliando di codice dannoso le sue strutture vitali, come il sistema informatico della compagnia elettrica tra i più attaccati nel Paese. «Direi quasi ogni giorno. Per convincere i comandanti di quanto sia pericoloso, abbiamo costruito una città simulata: mostriamo quello che potrebbe succedere se energia, treni, la Borsa venissero fermati allo stesso momento. Distruzione totale delle nostra economia».
   Come ha spiegato Uzi Moskovitz, il generale che coordina i corpi C4I, al quotidiano britannico Financial Times: «Non ci sono regole, trattati o convenzioni internazionali. Sembrano gli esordi dell'aviazione militare: nella cyber-guerra siamo ancora alla fase del bombardamento a tappeto».Ehud Barak, il soldato più decorato della Storia di Israele, è stato tra i primi ministri della Difesa a enfatizzare la necessità di concentrare il budget bellico sulle trincee digitali, anche oggi che si è ritirato dal governo e dalla politica la matematica resta la sua passione. «Il nostro sistema è troppo difensivo, non possiamo aspettare e reagire solo agli attacchi», ha proclamato a una conferenza nel 2012. In realtà i programmatori israeliani sono considerati i responsabili, assieme agli americani, del virus Stuxnet che tre anni prima del discorso di Barak ha infettato i computer installati nelle centrali nucleari iraniane per rallentare il programma atomico voluto dagli ayatollah.
   Gli studenti della maggiore Shachar si alternano nel ruolo di buoni e cattivi. «Durante un'esercitazione abbiamo simulato una sfida tra un gruppo in possesso della sceneggiatura segreta del nuovo Guerre Stellari e la squadra di pirati che doveva cercare di rubarla dal computer. Lasciamo liberi i ragazzi di cercare la strategia, vogliamo persone capaci di risolvere i problemi con creatività». La diserzione che la preoccupa di più è quella verso le aziende che aspettano questi genietti coltivati dall'esercito alla fine degli anni di leva obbligatoria: «È difficile competere con un'offerta da Google o altri grandi gruppi, con la prospettiva di fondare una start-up e diventare milionari. Per ora sono riuscita a convincere mio fratello più giovane, ha firmato per un altro periodo. Non resterà in divisa per sempre».

(Corriere della Sera, 4 marzo 2017)


Nikky Haley, volto Usa che rivoluzionerà l'Onu

Si chiama Nikki Haley ed è la nuova ambasciatrice americana all'Onu, È la donna che rappresenta lo scossone trumpiano alle Nazioni Unite: il suo debutto ha già incrinato lo status quo anti-israeliano.

di Fiamma Nirenstein

 
Nikki Haley
E' venuto all'inizio da una bella signora di origine indiana il segnale che l'Onu sarà per il governo americano di Trump un banco di prova politico rivoluzionario. L'Onu forse non sarà più quel coacervo di ingiustizie e ignavia per cui le persone ragionevoli si disperano, in solitudine, per la prepotenza, l'ignavia e l'irragionevolezza della maggiore assemblea internazionale del mondo. La nuova ambasciatrice all'Onu di Trump, magra, lunghi capelli lisci ad ala di corvo, ex vicegovernatore del Sud Carolina, si chiama Nikki Haley: naturalmente sbeffeggiata perché secondo i detrattori non capisce di politica estera ha fatto il suo debutto a metà febbraio, alla riunione informale del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente, e ha invece dimostrato di capire benissimo come stanno le cose, e di non volere accettare lo status quo. In sostanza la Haley ha dichiarato che il peggior nemico degli Usa è il terrorismo, che il suo Paese saprà affrontarlo, e ha sfidato l'Iran dichiarandolo «stato sponsor del terrorismo». Riportando i contenuti della riunione, ha dichiarato di trovare «un po' strano» che il Consiglio di Sicurezza che dovrebbe discutere di come mantenere la pace e la sicurezza, non avesse affatto parlato di quante migliaia di missili gli Hezbollah abbiano illegalmente accumulato in Libano, o di quante soldi e armi i terroristi ricevono dall'Iran, e nemmeno si parlasse di come liberarsi di Assad, l'assassino del suo popolo o di come sconfiggere l'Isis. Invece, ha detto Haley, l'incontro era tutto maniacalmente concentrato sulla critica a Israele, l'unica democrazia del Medio Oriente. Io sono nuova da queste parti, ha detto Nikki, ma non faremo finta di niente di fronte a questo strano fenomeno, perché staremo di guardia per difendere Israele.
   Mai la struttura concettuale che si è data l'Onu in questi anni è stata sfidata alle fondamenta da una presa di posizione così chiara: questo può portare importanti conseguenze politiche. Per esempio, la nuova commissione per combattere il terrorismo che vuole costruire il segretario Guterres non potrà avvalersi di membri che invece flirtano o addirittura sponsorizzano il terrore. Si ha un esempio di questo sistema nel Consiglio per i Diritti Umani gestito da 47 membri in gran parte violatori seriali dei diritti umani, e tutti dediti a fare di Israele un capro espiatorio.
   Ma anche qui si fanno avanti importanti novità: è stato il deciso intervento della Vicesegretaria di Stato, Erin Barclay, in apertura della 34esima sessione dell'Unhrc a Ginevra che ha fatto ipotizzare un prossimo distacco degli Usa dalla organizzazione che conta fra i suoi membri l'Arabia Saudita che esegue condanne a morte per apostasia e adulterio, fustiga e amputa; la Cina che nega la libertà di parola, di religione, di associazione, e opera uccisioni extragiudiziali di dissidenti; l'Iraq che commette abusi seriali fino ali' assassinio e alle sparizioni. Barday per la prima volta nella storia ha accusato il consiglio di nutrire un'autentica «ossessione» che lo porta a condannare Israele in modo pazzoide. Israele ha subito 228 condanne dalla sua fondazione; l'Assemblea l'ha condannato 18 volte solo nel 2016, il consiglio di sicurezza 12. Neppure Iran, Siria, Iraq, Corea del Nord, Sudan, sommate insieme, stanno alla pari con lo Stato Ebraico.
   Se da una parte gli Usa sceglieranno di andarsene e dall'altra diranno molto direttamente a Guterres che una commissione contro il terrorismo all'Onu non si può fare perché rischia di diventare un perverso rifugio concettuale, questo porterà all'Onu un'aria di sfida, un rinnovamento vero. Haley, la cometa, illuminerà finalmente quei corridoi sordi e grigi.

(il Giornale, 4 marzo 2017)


Betlemme, i graffiti di Banksy nell'hotel con vista sul muro

L'artista racconta nelle stanze dell'albergo il conflitto israelo-palestinese. Ha lavorato 14 mesi in segreto, mistero sulla sua presenza all'inaugurazione.

di Fabio Scuto

L'Hotel "con la peggiore vista del mondo"
Dipinto murale di Banksy che mostra un poliziotto israeliano e un palestinese che combattono a cuscinate in una camera dell’Hotel
BETLEMME - L' hotel con la peggiore vista del mondo spunta sul lato della strada appena oltrepassato il checkpoint israeliano sul Muro di sicurezza alla Tomba di Rachel che circonda la città.
   Il suo nome è già un programma: «The Walled Off Hotel». È in un panorama di desolazione come recita il suo nome, case malconce intorno sono sovrastate da una massa di cemento alta 9 metri, dominata dalle torrette di guardia. Ma il Walled Off Hotel offre ai viaggiatori e turisti che si avventurano verso la collina che ospita la Basilica della Natività qualcosa di più sfuggente e sottile rispetto ai comfort offerti da altri hotel, niente spa, né set da bagno sofisticati. È un albergo che è nello stesso tempo protesta e arte, è l'ultimo lavoro dell'artista di strada più famoso del mondo, il britannico Banksy. Le sue nove stanze e la «suite», con le finestre che affacciano direttamente sul Muro di separazione eretto dagli israeliani nel 2002, sono decorate con opere di questo street-artist misterioso. La barriera che avvolge completamente la città è considerata dai palestinesi un furto della loro terra e ne soffoca il movimento, è già stata «riccamente» decorata dall'artista britannico nel 2007 e da altri street-artist con numerosi murales.
   Il «clou», mostra con orgoglio il direttore Wissam Salsah mentre porta un gruppo di giornalisti in giro per l'hotel per questa «anteprima», è certamente rappresentato dalla stanza numero 3. Qui gli ospiti, dal prossimo 20 marzo quando aprirà i battenti ai primi clienti, dormiranno in un letto king-size sotto un murales che ritrae un palestinese con la kefiah e un agente della Border Police israeliana che si affrontano a colpi di cuscino in una nuvola di piume, nella classica visione dello street-artist britannico capace di mescolare nelle sue opere poesia e realtà con una falsa ingenuità. Lui, che custodisce da anni gelosamente il suo anonimato, forse c'era ieri mattina o forse no, mescolato fra giornalisti, curiosi e funzionari palestinesi che apparivano sinceramente sorpresi. Perché Banksy e il suo team hanno lavorato 14 mesi in segreto fra le mura di questo palazzetto, con discrezione sono stati cumulati materiali e realizzate anche delle installazioni. Come la nicchia che all'ingresso ospita a grandezza naturale Lord Balfour mentre nel 1917 firma la famosa dichiarazione. L'intero lavoro è stato visionato e approvato dall'artista inglese. Quando, resta un mistero. Un suo portavoce ha distribuito alcune note dove si spiega che l'hotel è un'impresa commerciale, una spinta per incoraggiare il turismo che negli ultimi anni è sceso progressivamente, nella città dove per i cristiani tutto è cominciato 2017 anni fa. Che l'hotel vuole favorire il dialogo fra le parti (palestinese e israeliana), attirare l'attenzione su una città che - perso parte del contatto con le campagne circostanti - ha puntato tutto sul turismo per sostenere la sua economia e attrarre visitatori e turisti, come il restauro della Basilica della Natività, dove il tetto stava per crollare.
   Con Betlemme, Banksy ha sempre avuto un rapporto particolare. Era già passato di qui nel 2007, lasciando dietro di sé 6 opere, le più celebri delle quali sono la colomba con il giubbotto antiproiettile e la bimba che cerca di sorvolare il Muro con dei palloncini in mano. Poi l'anno scorso a Gaza sono comparsi altri quattro murales, uno dei quali dipinto sulla parte rimanente di una casa distrutta dalla guerra del 2014, con la dea greca Niobe rannicchiata sulle macerie, il suo nome: «Danno da bomba».

(La Stampa, 4 marzo 2017)


Quelle ong che odiano Israele

Chiedono all'Onu di inserirlo nella lista degli assassini di bambini.

Isis, i talebani, al Qaida e ... le Forze di difesa israeliane. Il Watchlist, consesso di ong che monitora il rispetto dell'infanzia in guerra, ha chiesto all'Onu di aggiungere l'esercito israeliano alla lista nera dei soggetti che colpiscono i bambini in guerra. Un anno fa, l'allora segretario Ban Ki-moon aveva tolto Israele dalla lista. Ma visto che mostrare un po' di decenza era troppo per l'Onu, si era preferito salvare anche Hamas, che i bimbi israeliani li prende deliberatamente di mira. L'inclusione di Israele alla lista potrebbe tradursi in sanzioni. L'idea che Israele sia uno stato "infanticida" ormai ha penetrato larghi segmenti dell'opinione pubblica. La professoressa Monika Schwarz-Friesel dell'Università Tecnica di Berlino ha analizzato dieci anni di lettere inviate al Consiglio degli ebrei in Germania e all'ambasciata israeliana a Berlino. Contengono dichiarazioni come questa: "L'assassinio di bambini si adatta alla vostra tradizione". La baronessa Ashton, da responsabile della politica estera europea, ha accostato i bambini ebrei uccisi a Tolosa ai bimbi palestinesi vittime nelle guerre a Gaza. Alla Royal Court di Londra, la regista Caryl Churchill, ha realizzato uno spettacolo in cui alcune madri israeliane raccontano la storia dello stato ebraico ai figli: "Non parlate dei bambini palestinesi assassinati dall'esercito israeliano". Il fotografo svedese Paul Hansen ha vinto il World Press Photo Award con la foto del funerale di due bambini palestinesi. E durante l'ultima guerra a Gaza, nell'estate del 2014, l'Independent ha scritto che Israele è "una comunità di assassini di bambini". L'antisemitismo è tornato di gran moda. E' un'orrenda piaga dilagante.

(Il Foglio, 4 marzo 2017)


E il rifugio divenne una trappola. La caccia agli ebrei nel Sudtirolo

Joachim lnnerhofer e Sabine Mayr ricostruiscono le vicende della Shoah in Alto Adige (Raetia).

di Isabella Bossi Fedrigotti

 
Joachim Innerhofer spiega i segreti della Sinagoga di Merano
Ruth Eckstein, Ilse Eckstein, Adalgisa Ascoli, Isidor Schlaf, Anna Blums, Riccardo Luzzato, Alfred Bermann, John Gitte rmann, Alfred Russo, Malwine Lehmann, Clemens Fraenkel, Alfred Gruen, Charlotte Landau, Felicitas Landau sono soltanto alcuni degli ebrei residenti in Alto Adige vittime della Shoah. La lunga lista, con la storia di ciascuno di loro, l'hanno ricostruita la storica Sabine Mayr e il giornalista, oggi direttore del Museo ebraico di Merano, Joachim Innerhofer, entrambi sudtirolesi; ne è risultato un volume di impressionanti dimensioni, ora tradotto in italiano (da Antonella Tiburzi) con il titolo Quando la patria uccide (Raetia).
   È uno Spoon River, un immaginario cimitero dove giacciono circa 150 morti assassinati - tanti sono quelli dei quali gli autori sono riusciti a rintracciare la vicenda - intere famiglie cancellate o parti di esse, uomini e donne di tutte le età, bambini compresi: per ciascuno c'è una data di nascita, non sempre quella della morte e, quando c'è, segna per lo più l'anno 1943 o il 1944. Erano commercianti, avvocati, medici, imprenditori, industriali, albergatori, farmacisti, cantanti, attori, giornalisti, ma anche impiegati, sarti, infermiere, commesse. Molti immigrati negli anni Venti e Trenta da Austria, Germania e Cecoslovacchia, quando in quei Paesi l'atmosfera per i cittadini ebrei aveva cominciato a farsi pesante e l'Italia, quell'Italia dove, oltretutto, si parlava tedesco, sembrava un luogo attraente, ancora sicuro; molti altri lì radicati da tempo e perfettamente integrati, parte della classe dirigente, residenti per lo più tra Bolzano e Merano.
   Del resto il Sudtirolo, per la sua bellezza, per il suo clima, era sempre stato destinazione non soltanto di vacanze, ma anche di lunghi soggiorni per illustri turisti austriaci e tedeschi di origine ebraica: si pensi a
Sigmund Freud, a Stefan Zweig, a Franz Kafka, alle famiglie Hofmannsthal, Rothschild e Bloch Bauer (Adele BB fu ritratta da Klimt nel famoso quadro rubato dai nazisti che lo Stato austriaco ha dovuto recentemente restituire agli eredi della gran dama viennese).
   Una meta quasi ovvia era, dunque, il Sudtirolo per gli ebrei della Mitteleuropa. E questo nonostante l'antisemitismo serpeggiasse da secoli tra le popolazioni locali. Basti pensare, per esempio, che nel XIV e XV secolo è attestato un insediamento di ebrei a Bolzano prima che scomparisse poco dopo «sotto la pressione di condizioni intollerabili», come scriveva a suo tempo lo storico Aron Taenzer. Ma ancora prima un'invasione di cavallette, un forte terremoto e la peste del 1348 portarono a massacri di ebrei, accusati di aver avvelenato le fontane per sterminare le popolazioni cristiane. Gli episodi di violenza si susseguirono nei secoli secondo lo stesso, ben noto schema: s'invocava, come pretesto delle violenze, la difesa della vera religione, ma, in realtà, ammazzare i prestatori di danaro era il metodo più efficace per cancellare il debito. E per impadronirsi di terreni, case, negozi, imprese.
   Nel secolo scorso gli ebrei altoatesini furono vittime sia del nazismo sia del fascismo. Le leggi razziali del 1938 tolsero loro i diritti e spesso anche la cittadinanza italiana, che fino allora li aveva in qualche modo protetti; e l'8 settembre del 1943, con la trasformazione della regione in Zona operazione Prealpi - in sostanza un'annessione alla Germania - segnò per loro il compimento della tragedia. Le tappe dei sommersi furono il tristemente noto lager di Bolzano, il campo di raccolta di Fossoli e poi Auschwitz, la destinazione finale.
   Gli autori hanno rintracciato eredi, intervistato parenti, raccolto testimonianze, ricostruito storie. Ne esce il quadro di un vasto gruppo di cittadini colti, cosmopoliti, intraprendenti, che avevano notevolmente contribuito alla prosperità della zona, estirpati, eliminati, cancellati dalla terra che pensavano fosse heimat, cioè patria, casa, riparato paese natio.

(Corriere della Sera, 4 marzo 2017)


Pitigliano, nuove sfide nel futuro della "piccola Gerusalemme"

Nuove idee per la Pitigliano ebraica

Il futuro della Pitigliano ebraica, la "piccola Gerusalemme", al centro dell'incontro che la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni e il Presidente della Comunità ebraica di Livorno Vittorio Mosseri hanno avuto nelle scorse (?) con il sindaco del comune toscano Pier Luigi Camilli. Un incontro nel segno della progettualità, per la valorizzazione e la tutela dell'immenso patrimonio culturale custodito a Pitigliano, dal complesso museale all'antico cimitero ebraico cittadino.
Una sfida, è stato sottolineato, che passa da un sempre più stretto coordinamento tra le istituzioni locali, la Comunità ebraica livornese, l'UCEI, il lavoro dell'associazione "La piccola Gerusalemme" guidata da Elena Servi. Al sindaco Camilli è stato inoltre illustrato il progetto UCEI dedicato agli itinerari ebraici e al virtual tour, che potrebbe presto interessare anche la realtà di Pitigliano.

(moked, 3 marzo 2017)


Al via le prime esportazioni di gas da Israele verso la Giordania

AMMAN - La società israeliana Delek Drilling ha avviato le operazioni di esportazione di gas dal giacimento di Tamar verso la Giordania. Secondo quanto riferiscono i media arabi, le esportazioni sono iniziate a gennaio. Non c'è stato un annuncio ufficiale, ma come riferito da una portavoce della società, si tratta delle prime esportazioni di gas nella storia di Israele. Le compagnie giordane Arab Potash e Bromine hanno firmato un accordo nel 2014, del valore di 771 milioni di dollari, con Delek per l'importazione di 2 miliardi di metri cubi di gas dal giacimento di Tamar nei prossimi 15 anni. La Giordania ha siglato un accordo di pace con Israele nel 1994 in base al quale è stato firmato il contratto per l'importazione di gas. Buona parte della popolazione, tuttavia, è ancora contraria a qualsiasi accordo di tipo economico con un paese che considera "nemico". Nei mesi scorsi centinaia di persone sono scese in piazza ad Amman per protestare contro l'accordo sull'importazione di gas da Israele. La protesta è stata organizzata dalle realtà sindacali e politiche che si oppongono al trattato di pace e che includono il partito islamista, principale forza dell'opposizione. la Giordania, tuttavia, ha poche alternative all'importazione di gas dallo Stato ebraico per soddisfare il suo fabbisogno interno.
  A settembre scorso, Amman ha firmato un altro accordo con Israele per l'importazione di gas. I membri del consorzio per lo sviluppo del giacimento offshore Leviathan hanno firmato un accordo con la società elettrica giordana (Jordan National Electric Power Company - Nepco) per la fornitura di 4,5 miliardi di gas per un periodo di 15 anni. Il contratto ha un valore stimato di circa 10 miliardi di dollari. Secondo i termini dell'accordo, la società di marketing Nbl Jordan Marketing, di proprietà del consorzio Leviathan, fornirà gas alla Giordania una volta che verranno posizionate le condutture tra il regno hascemita ed Israele.
  Lo scorso 23 febbraio, Avner Oil e Delek Drilling, partner di Noble Energy nello sviluppo del Leviathan, hanno annunciato alla Borsa di Tel Aviv di aver approvato la decisione finale d'investimento nel progetto offshore. Noble si è assunta un impegno da 3,75 miliardi di dollari per la prima fase di sviluppo del giacimento, al termine di due mesi di trattative. Lo sviluppo del giacimento include la realizzazione di quattro pozzi, una piattaforma e un gasdotto di collegamento con la costa israeliana in grado di rifornire fino a 12 miliardi di metri cubi di gas l'anno allo Stato ebraico, alla Giordania e all'Autorità nazionale palestinese. I contratti siglati finora riguardano forniture pari a 4,5 miliardi di metri cubi l'anno, ma i partner del Leviathan sperano di ottenerne altri in futuro.
  Avner Oil e Delek Drilling, che hanno entrambe il 22,67 per cento delle quote del Leviathan, hanno firmato un accordo per un prestito da 1,75 miliardi di dollari con un consorzio di banche guidate da JP Morgan e Hsbc. Noble Energy detiene invece il 39,66 per cento del giacimento e Ratio Oil il restante 15 per cento. Il ministro dell'Energia e delle Infrastrutture israeliano, Yuval Steinitz, ha commentato la notizia oggi affermando che lo sviluppo del Leviathan avverrà sotto la sua supervisione. "Avremo profitti in termini di entrate per lo Stato, aria più pulita per noi e i nostri figli e maggiore sicurezza energetica - ha detto Steinitiz -. La decisione finale di investimento da parte di Noble e dei suoi partner mette fine alle proteste di chi si è opposto all'accordo sul gas cercando di bloccarlo. Se continuiamo ad andare avanti in modo responsabile e con determinazione, potremo scoprire nuovi giacimenti e posizionare Israele come un importante operatore del mercato dell'energia per i nostri vicini in Medio Oriente e in Europa".
  Il responsabile di Noble Energy in Israele, Bini Zomer, ha detto che negli ultimi due anni lo Stato di Israele ha fatto "passi da gigante per stabilire le condizioni necessarie per consentire alle compagnie energetiche di fare investimenti nello sviluppo delle risorse naturali del paese. Oggi, Israele sta raccogliendo i frutti di questi sforzi. Lo sviluppo del progetto Leviathan è un'altra pietra miliare nel raggiungimento della sicurezza energetica e porterà benefici nella qualità dell'aria e della salute dei cittadini israeliani - ha aggiunto Zomer - che inoltre potranno godere dei profitti governativi" derivanti dalla distribuzione del gas. Zomer ha detto inoltre che l'obiettivo è distribuire la prima fornitura di gas del Leviathan entro la fine del 2019. La scoperta del giacimento energetico, che contiene riserve stimate pari a 450 miliardi di metri cubi di gas naturale, risale al 2010.

(Agenzia Nova, 3 marzo 2017)


Il ministro israeliano Steinitz: puntiamo sul gasdotto Eastmad

Progetto tra Israele e Italia tramite Cipro e Grecia

 
ROMA - "Realizzare il gasdotto Eastmad tra Israele e Italia, attraverso Cipro e la Grecia, e' uno dei nostri obiettivi, considerati i giacimenti di gas naturale" di Israele ed il fabbisogno in Europa e Italia nei prossimi anni. Lo ha detto il ministro israeliano dell'Energia, infrastrutture e risorse idriche, Yuval Steinitz, incontrando alla Camera una delegazione di parlamentari della associazione interparlamentare di Amicizia Italia-Israele guidata da Maurizio Bernardo, presidente della Commissione Finanze della Camera. "Come ho spiegato ieri al ministro Carlo Calenda, che sarà a inizio aprile a Israele - ha proseguito Steinitz secondo una nota - il progetto e' ambizioso e contiamo di portarlo a termine in 4-5 anni, coinvolgendo anche i privati. Siamo qui anche per chiedere il sostegno del Parlamento italiano". "Il progetto va realizzato il prima possibile - ha detto da parte sua Bernardo -. Siamo pronti, anche come associazione interparlamentare di amicizia, a fare la nostra parte, forti degli ottimi rapporti esistenti tra i due Stati". "L'Italia - ha osservato Ignazio Abrignani, vicepresidente Commissione Attivita' Produttive della Camera - sta andando verso la de-carbonizzazione. Il gas naturale serve per il fare un giusto mix con le energie rinnovabili. Siamo fortemente dipendenti dalla Russia, l'approvvigionamento anche da Israele sarebbe ideale".
All'incontro hanno partecipato anche deputati e senatori delle Commissioni Attività Produttive e Bilancio delle due Camere.

(ANSAmed, 2 marzo 2017)


I nemici di Israele affamano i palestinesi

Gli attivisti di Bds boicottano l'azienda ebraica Sodastream, che aveva aperto uno stabilimento in Cisgiordania. L'Unione europea si è prontamente accodata, Risultato: l'impianto ha chiuso, lasciando a casa 500 lavoratori locali. Ma ai fanatici ancora non basta.

Come risposta, l'ad ha scritto sui prodotti: «Fatto in Israele. Questo prodotto è realizzato da arabi ed ebrei fianco a fianco in pace e armonia» Scarlett Johansson, ebrea per parte di madre, era stata scelta dall'azienda come testimonial. Per ripicca, la Ong di cui era membro l'ha fatta dimettere

di Costanza Cavalli

Scarlett Johansson durante la presentazione come testimonial di SodaStream
Probabilmente Daniel Birnbaum, amministratore delegato di Sodastream, ha letto Luigi Pirandello. Per la precisione, la novella La patente: il protagonista Rosario Chiarchiaro ha una faccia che induce le persone a credere che sia uno iettatore. Perseguitato a causa del suo aspetto, che non può cambiare, farà della ragione per cui viene respinto la sua identità, pretenderà anzi di avere la «patente». Superstizione e pregiudizio sono parenti stretti e anche per Birnbaum e la sua azienda, colosso israeliano di gasatori per acqua e bibite: la questione è l'etichetta, o meglio il «marchio», di essere israeliani Sodastream, infatti, da anni è sotto schiaffo da parte di un movimento filo palestinese, Boycott, divestment and sanctions (Bds), nato con lo scopo di fare pressione economica e politica su Israele perché abbandoni i territori occupati a Est di Gerusalemme. L'azienda, presente in 45 Paesi, è stata presa di mira per aver aperto un centro di produzione a Mishor Adumim, nel cuore della Cisgiordania, insediamento ritenuto illegale dalla comunità internazionale fin dalla Guerra dei sei giorni del 1967

 Orgoglio
  È nei giorni scorsi che Birnbaum ha fatto la sua mossa «pirandelliana»: ha fatto applicare alle sue macchine l'etichetta «Made in lsrael. This product is produced by arab andjews working side-by-side in peace and harmony». Ovvero: «Fatto in Israele. Questo prodotto è realizzato da arabi ed ebrei che lavorano fianco a fianco in pace e armonia». Come la patente di Chiarchiaro. « Vogliamo mandare un messaggio di orgoglio nazionale, nel momento in cui molti di noi in tutto il mondo sono costretti a nascondere la loro identità», ha dichiarato Birnbaum. Questa è la sfida: se gli avversari ci appiccicano al bavero la stella gialla dispregiativa di «giudei», noi ne facciamo una bandiera. Questa è l'ultima azione, in ordine di tempo, di una battaglia che è cominciata nel 2007 ed è culminata nella. decisione dell'Unione europea, l'11 novembre 2015, di permettere che sui beni prodotti nei territori occupati venisse applicata l'etichetta «made in West Bank» o «made in Gaza», certificando il diritto di boicottare Sodastream. Sodastream è nata nel 1903 in Gran Bretagna, si è conquistata il favore dell'upperclass inglese, regnanti inclusi, ed è approdata sotto la stella di Davide nel 1978. La sua storia moderna comincia nel 2006, quando viene comprata per 6 milioni di dollari da un fondo israeliano posseduto da Yuval Cohen, che assume Birnbaum, un vivacissimo manager a capo del ramo israeliano di Nike, perché si occupi del rilancio.

 Nuovo manager
  Birnbaum è una specie di Steve Jobs e i prodotti decollano, la rete si allarga a tutto il mondo, ma la maggior parte dei gasatori, piccoli elettrodomestici nati per essere utilizzati in casa, è fabbricata a Mishor. Lo stabilimento è una ex fabbrica militare in cui si producevano micce per razzi. O governo israeliano incoraggia le attività industriali nella West Bank con sgravi fiscali e incentivi e Birnbaum, che ha in mente un'isola di pace e di lavoro comune, conia il motto: «Qui trasformeremo le spade in aratri». Comincia ad assumere arabi e palestinesi, in poco tempo Sodastream diventa il più importante datore di lavoro nei Territori. In questa fabbrica, fornita di una moschea interna, arrivano a lavorare 1.300 operai: 500 palestinesi, 450 arabi israeliani e 350 ebrei israeliani. Considerando le famiglie, dà di che vivere a 6.000 persone.
  I guai cominciano l'anno dopo, quando il successo attira l'attenzione dei gruppi di opposizione che cominciano una campagna di denigrazione che si intensifica negli anni, insistendo sull'illegalità dell'attività dell'insediamento.
  Nel 2014 la questione arriva all'Ue: 17 Paesi si pronunciano sul divieto di importare beni prodotti da Israele nella West Bank. È un'indicazione pericolosa, che apre le porte a ogni sorta di post verità: presto il contagio ideologico si spande oltre i confini dell'Unione, fino al Giappone, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti.

 L'attrice
  L'azione del gruppo di opposizione sembra non avere limiti: all'inizio del 2014, l'attrice Scarlett Johansson, ambasciatrice di Oxfam, ong britannica che combatte la povertà, viene scelta come testimonial globale di Sodastream. L'associazione, vicina alle posizioni dei boicottatori, la costringe a scegliere: o l'azienda israeliana oppure Oxfam. La Johansson,ebrea per parte di madre, decide di dare le dimissioni dalla ong. Uno degli episodi più curiosi capita alla società che gestisce le mense all'università di Harvard. Un gruppo di studenti del College palestine solidarity committee e della Harvard islamic society si lamenta per la presenza di sistemi di filtraggio dell'acqua nelle sale da pranzo «griffati» Sodastream, ritenendo che avrebbero potuto offendere gli universitari palestinesi. L'università decide quindi che il marchio sarebbe stato rimosso dagli erogatori e che in futuro sarebbero stati comprati nuovi macchinari americani.Spiega Birnbaum: «La tecnica di questa guerriglia è semplice: gli attivisti chiedono un colloquio con i rivenditori, portano loro prove - false - dell'illegalità del nostro lavoro, fino ad associarlo a parole magiche come pulizia etnica e crimini di guerra. Nel frattempo, cominciano un bombardamento di lettere e di post sui social media. A volte arrivano a picchettare l'entrata dei negozi e si spingono fino a veri atti vandalici». Un esempio è quanto è accaduto al punto vendita di Brighton, in Inghilterra: per due anni è stato preso di mira due volte alla settimana. La polizia effettuò vari arresti, ma alcuni membri del Parlamento presero le parti degli oppositori. «È normale che un rivenditore, pur di stare tranquillo, finisca per non volerne sapere più di Sodastream», commenta Birnbaum.

 Trucchi
  In generale, Sodastream ha evitato di reagire alle provocazioni. Le azioni di boicottaggio, però, si sono fatte via via più intense, così l'azienda ha scelto di variare la sua politica commerciale, distribuendo nei Paesi più sensibili alla questione palestinese, per esempio quelli scandinavi, gasatori fabbricati in stabilimenti «non sospetti», così da evitare un crollo delle vendite. Birnbaum, il 24 febbraio 2014, in un'intervista a International Business Times ha dichiarato: «Di questa guerra fra arabi e israeliani mi sono stancato. A seguito delle pressioni dei rivenditori nordeuropei siamo stati costretti a vendere prodotti provenienti e marchiati dalle nostre fabbriche in Cina». Aggiungendo, sarcastico: «La madre dei diritti umani».

 Sostituiti
  Per sostenere la causa dello stabilimento cisgiordano, Birnbaum ha viaggiato per il mondo, ha parlato al Congresso Usa e ha partecipato a tutte le trasmissioni radio e tv possibili. A febbraio 2014, alla Bbc, ha perfino chiarito che la fabbrica non si trovava nei territori propriamente detti, ma nell'Area C, una zona franca creata con i palestinesi.
  Ogni tentativo è risultato vano e, nello stesso autunno, Sodastream ha annunciato l'abbandono dello stabilimento di Mishor Adumim. Quando lo stabilimento ha chiuso, la quasi totalità dei palestinesi è stata licenziata. La produzione è stata spostata in una sede nel Sud d'Israele, nel deserto del Negev, a Lehavim.
  Dei 500 lavoratori palestinesi, dopo una trattativa con il governo, solo 74 hanno potuto mantenere il posto di lavoro nella terra di Davide, «mentre», continua l'ad, «in Israele lo Stato non solo tollera la presenza di 30.000 lavoratori abusivi, ma ha approvato la concessione di nuovi visti d'ingresso a 20.000 lavoratori cinesi».

 La nuova intifada
  Poi, a causa dell'Intifada dei coltelli, cominciata nell'autunno 2015, Tel Aviv, preoccupata dal fatto che gli attentatori • che colpivano i passanti ebrei per le strade - erano per lo più incensurati e ignoti all'intelligence, non ha rinnovato i permessi di lavoro per il 2016. Sodastream il 2 marzo dello scorso anno ha diffuso un video in cui Birnbaum fuori dallo stabilimento di Lehavim, saluta i 74 dipendenti in lacrime all'ultimo giorno di lavoro: «Non dimenticate tre cose: qui abbiamo costruito la pace; non odiate i soldati al check point, loro non odiano voi; il governo non ci ha supportato, ma io non abbandono questo ideale e non fatelo neanche voi». Il Boycott ha rivendicato la vittoria, «ma non è chiaro su chi o che cosa: non sull'azienda, che si è solo spostata, non sull'occupazione dei territori, né Israele ha perso granché, mentre centinaia di palestinesi hanno perso la loro fonte di sostentamento», ha scritto David Rosenberg sul Financial Times.

 I conti
  Dal punto di vista economico, dopo un primo momento in cui la quotazione in Borsa e i ricavi hanno subito una flessione, sia l'etichettatura sia le azioni di disturbo del Boycott, pare abbiano dato risultati modesti. Kristin Kindow, vice presidente del Moody's investment service, ha dichiarato a Forbes: «L'impatto di Bds è più psicologico che reale. Le sanzioni rischiano invece di colpire l'economia palestinese, più piccola e povera di quella israeliana, proprio come si è visto nel caso Sodastream». Un caso che pare sia destinato a non concludersi ancora, visto che il Boycott è già impegnato in una nuova campagna, questa volta rivolta ai beduini del Negev che Sodastream ha assunto per sostituire i palestinesi. La contesa, quindi, continua. E l'atteggiamento di Birnbaum rimane lo stesso, anche fuori dalla Cisgiordania: «Nei nostri stabilimenti fabbrichiamo la pace; e nel frattempo anche la soda».

(La Verità, 3 marzo 2017)


Per gli odiatori di Israele l’obiettivo è chiaro: i palestinesi non devono assolutamente smettere di soffrire, perché hanno ricevuto dal mondo il compito di testimoniare della malvagità degli ebrei che costituiscono lo Stato d’Israele. Con la loro sofferenza devono mantere viva la fiamma del loro odio, e di quello di tutto il mondo, contro lo sfacciato Stato ebraico che si rifiuta di smettere di esistere. M.C.


Addio a David Rubinger lo sguardo sulla storia di Israele

È morto David Rubinger, il fotografo che con i suoi scatti aveva raccontato la storia di Israele. Aveva 92 anni. La fotografia più nota, quasi un'icona, è quella che immortala i soldati israeliani davanti al Muro del Pianto nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 (foto a lato). Ma ce ne sono tante altre. Bellissimi i ritratti dedicati ai padri fondatori, spesso colti in momenti di relax. In uno Ben Gurion fa la verticale sulla spiaggia, in un altro Golda Meir imbocca suo figlio. Rubinger ha catturato tutto: le guerre, i kibbutz, gioie e lutti. Anche Giovanni Paolo II al Muro del Pianto. Era nato in Austria nel 1924, da dove era fuggito per le persecuzioni naziste. Aveva anche preso parte alla guerra di liberazione con la Brigata Ebraica. Nel 1997 aveva ricevuto il Premio Israele, la più alta onorificenza dello Stato.

(la Repubblica, 3 marzo 2017)


Israele, il diritto internazionale e il ricorso alle forze militari di terra

GERUSALEMME - Il quotidiano "Jerusalem Post" dedica un approfondimento alle implicazioni legali del ricorso israeliano alle forze armate di terra, e le critiche della Nazioni Unite a pratiche adottate dalle forze israeliane come il lancio di missili senza testata esplosiva a mo' di colpi d'avvertimento ("roof knocking"). Noam Neuman, direttore del dipartimento di diritto Internazionale delle Forze di difesa israeliane, ha fornito proprio di recente un punto di vista su come l'esercito determini i propri obblighi di diritto internazionale in situazioni complesse che richiedono l'impiego di forze terrestri. Parlando a una conferenza dell'Hebrew University promossa dal Minerva Center, Neuman ha sottolineato che mentre la maggior parte del diritto internazionale contemporaneo dibatte circa l'impiego della forze aeree e dei droni, Israele si trova a far fronte a criticità di natura differente. Neuman ha illustrato diversi strumenti che compongono l'armamentario dell'Esercito israeliano - come granate, fucili d'assalto e carri armati - e le sfide legali specifiche poste da ciascuno di essi in relazione a sfide particolari, come le irruzioni in edifici privati e la bonifica di trappole esplosive. Il funzionario ha illustrato anche i dettagli di pratiche come l'irruzione e l'occultamento tramite fumogeni: tutte pratiche che costituiscono la base dell'addestramento dei reparti di terra, ma che assumono una rilevanza e rischi particolari in teatri ad alta densità di civili come quelli in cui si trovano ad operare i militari israeliani.

(Agenzia Nova, 3 marzo 2017)


Giornata dell'udito - Premiata la scuola ebraica di Torino

Oggi è la "Giornata dell'udito", versione italiana dell'internazionale "World hearing day", indetto dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Un giorno nato per sensibilizzare sul tema della sordità, che questa mattina è stato celebrato anche presso il Ministero della Salute, alla presenza del Ministro Beatrice Lorenzin.
Nel corso della mattinata è stata illustrata la campagna di prevenzione "L'udito è uno strumento prezioso" ed è stato presentato il comitato scientifico dell'Associazione "Nonno ascoltami", che cura l'iniziativa nel nostro Paese. E, tra i protagonisti dell'incontro, ci sono state anche le Scuole ebraiche di Torino, il cui lavoro audiovisivo sul tema della sordità è stato proiettato di fronte al qualificato uditorio di rappresentanti delle istituzioni, studiosi ed esperti: un video che elabora i disegni e i pensieri che i bambini hanno espresso sulla sordità, e il rapporto con le persone da essa più colpite, i nonni e le nonne.
Il lavoro didattico delle Scuole ebraiche di Torino era stato infatti molto apprezzato nel corso della manifestazione "Nonno ascoltami", svoltasi a Torino (e in tante altre città italiane) il 9 ottobre scorso. Tanto da spingere l'omonima Associazione a chiedere alle Scuole ebraiche di realizzare un audiovisivo proprio sul lavoro dei ragazzi.
Le Scuole ebraiche paritarie di Torino, dirette da Sonia Brunetti e suddivise in scuole dell'infanzia e primaria Colonna e Finzi, e nella secondaria di primo grado Emanuele Artom, hanno trovato nell'iniziativa sulla sordità una grande assonanza con gli intenti formativi della scuola, che prevedono percorsi di educazione al benessere e alla salute, una particolare attenzione alla formazione scientifica e ai rapporti intergenerazionali.
A rappresentare le scuole ebraiche Laura Giulianati, mamma di un bambino che frequenta l'istituto, e coinvolta nell'associazione "Nonno ascoltami".

(moked, 3 marzo 2017)


La nuova dirigenza di Hamas e i rischi di instabilità nel Vicino Oriente

di Giuseppe Dentice

 
Ismail Haniyeh e Yahya al-Sinwar
Le elezioni interne ad Hamas iniziate nel gennaio scorso e volte a scegliere la nuova dirigenza al potere nella Striscia di Gaza hanno definito un ulteriore step nel processo di radicalizzazione politica che il gruppo islamista sta conoscendo da alcuni anni a questa parte. Infatti, la nomina di un nuovo leader considerato un "falco tra i falchi" e le ripercussioni che questa può comportare nello scenario politico palestinese potrebbe rappresentare altresì un'alquanto pericolosa sfida al quadro di sicurezza e di stabilità vicino-orientale.
  Il 13 febbraio scorso il Comitato esecutivo di Hamas ha eletto a netta maggioranza Yahya al-Sinwar (anche noto come Abu Jamil o Abu Ibrahim) nuovo leader della medesima organizzazione islamista. Sinwar, già a capo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam (l'ala militare di Hamas), è un militante anziano del gruppo, già Comandante del Munazzamat al-Jihad wal-Dawa (MAJD, gli apparati di sicurezza del movimento e uno dei tanti attivi a Gaza) e, negli ultimi anni, punto di raccordo con l'anima politica dell'organizzazione. Più volte arrestrato dagli israeliani, Sinwar era stato definitivamente catturato e condannato all'ergastolo nel 1988 per l'omicidio di un soldato israeliano. Nel 2011 era stato rilasciato nell'ambito dello scambio di prigionieri politici che aveva portato alla liberazione di Gilad Shalit, il caporale israeliano catturato da Hamas nel 2006 - pare da una cellula fedele a Sinwar - durante la guerra con il Libano, e alla scarcerazione di oltre un migliaio di militanti palestinesi. Nel 2015 gli Stati Uniti lo avevano inserito nella black list del terrorismo internazionale a causa delle sue posizioni oltranziste in merito al conflitto "infinito" con Israele. Anche alla luce di ciò, Sinwar è considerato da quasi tutti i media specializzati israeliani e statunitensi come un integralista e per certi versi un estremista persino all'interno di Hamas.
  La nomina di Sinwar, che succede all'ex uomo forte di Gaza Ismail Haniyeh, a sua volta subentrante nei prossimi mesi nella carica di guida spirituale al posto di Khaled Meshaal - dimissionario e ormai fuori dai giochi di potere del gruppo dopo il suo esilio volontario in Qatar -, oltre a rappresentare una nuova svolta radicale interna al gruppo islamista, potrebbe definire un chiaro segnale di opposizione alla riconciliazione intra-palestinese con i rivali di Fatah. Nonostante i vari Vertici andati in scena dall'aprile 2014 in poi (ossia dall'ultimo tentativo di governo di unità palestinese) al Cairo, a Beirut e ad Amman nel tentativo di rilanciare la cooperazione tra le diverse anime palestinesi - non ultimo evidenziato dall'intesa raggiunta a Mosca nel gennaio di quest'anno, dove Hamas, Fatah e il Palestinian Islamic Jihad (PIJ) avevano trovato un accordo preliminare per rilanciare l'ipotesi di un esecutivo di unità nazionale -, oggi qualsiasi tentativo di riconciliazione intra-palestinese sembra essere un'effimera illusione, anche in virtù della continua "guerra fredda" in corso tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, fatta di arresti e defezioni reciproche sul terreno. Anche alla luce di ciò appare più probabile l'ipotesi di un rafforzamento dell'entità - politica e militare - di Hamas nella Striscia di Gaza, volutamente separata e/o isolata dalla leadership di Fatah in Cisgiordania, decretando di fatto l'esistenza di due soggetti politici palestinesi indipendenti, fattore che potrebbe indebolire ulteriormente il già fragile processo di pace con Israele.
  L'elezione di Sinwar evidenzia inoltre il definitivo consolidamento delle Brigate al-Qassam ai danni della componente politica - come dimostrano la nomina di Khalil al-Haya quale numero due nella scala gerarchica dell'organizzazione e l'elezione degli altri membri provenienti dall'ala militare nel bureau politico. Lo scontro tra le due anime di Hamas è divenuto ormai palese e la sua origine deve essere rinvenuta nella scelta di Khaled Meshaal di impedire all'ala militarista del movimento di effettuare un attacco contro alcuni villaggi nel sud di Israele durante la guerra di Gaza del luglio-agosto 2014 ("Protective Edge"). Questo episodio ha segnato una frattura almeno all'apparenza insanabile, alimentata anche dalle critiche rivolte dalla cerchia di Sinwar all'allora ufficio politico di Hamas accusato di incapacità e inadeguatezza sia nei confronti delle condizioni di vita della popolazione locale gazawi - vessata da una perdurante crisi economica accentuata dall'embargo economico israeliano e dal ripetersi di conflitti all'interno dei territori della Striscia - sia in merito - a loro dire - alle deboli posizioni assunte dalla precedente dirigenza nei confronti della causa palestinese, che rischierebbe di essere appaltata in favore dei gruppi radicali ed estremisti, come ad esempio anche lo Stato Islamico (IS), proliferanti a Gaza e nel confinante Sinai egiziano.
  Una situazione, questa, potenzialmente destabilizzante che potrebbe favorire - come in altri casi analoghi di forte instabilità e insicurezza nella regione - l'ascesa e l'affermazione di IS in loco, con ripercussioni geo-strategiche dirette negli equilibri del Vicino Oriente. È altrettanto evidente che la penetrazione ideologica di frange estremiste esterne alla Striscia suscettibili di orientare l'opinione pubblica locale verso posizioni sempre più radicali rappresenta di fatto una duplice sfida, politica e di sicurezza, al sistema di legittimità vigente promosso da Hamas. In questo senso, quindi, la nomina di Sinwar appare essere una scelta tattica e funzionale alla volontà del movimento di recuperare credibilità in termini di appeal nei confronti del proprio elettorato e di conservazione dei pur sempre delicati e fragili equilibri securitari che coinvolgono anche altri attori locali come Egitto e Israele, con i quali l'organizzazione islamista collabora in maniera ufficiosa e pragmatica con i compiti di controllore interno delle fazioni più radicali in funzione anti-IS e di guardiano delle frontiere tra Egitto e Gaza con l'obiettivo finale di evitare una saldatura transnazionale delle violenze contro i tre stessi attori coinvolti. Tale condotta però potrebbe subire una profonda revisione da parte della nuova dirigenza, favorendo al contempo una maggiore collaborazione, seppur non ufficiale, con IS a Gaza e il lancio di una nuova campagna retorica e militare a bassa intensità contro Il Cairo e Tel Aviv, con il rischio che un'eccessiva esasperazione dei toni e delle azioni violente in particolare nei confronti dello Stato ebraico possa aprire di fatto le porte ad un quarto conflitto in meno di un decennio nella Striscia, scenario di fronte al quale l'Egitto potrebbe peraltro presentarsi come spettatore più disiniteressato che non impegnato a salvaguardare l'antico protettorato gazawi.
  In uno scenario sempre più complesso, polarizzato e mutevole, i cambi al vertice di Hamas potrebbero pertanto rappresentare un nuovo banco di prova per la stabilità e per la legittimità delle istituzioni locali, nonché per la tenuta dei delicati equilibri del Vicino Oriente.

(Paperblog, 1 marzo 2017)


iPhone 8 con realtà aumentata? Apple ha un team di 1.000 ingegneri

Arrivano da Israele nuove indiscrezioni sulle caratteristiche del prossimo cellulare top di gamma della Mela, che potrebbe integrare una fotocamera a infrarossi e un sensore 3D per mappare lo spazio circostante.

La prossima funzionalità dell'iPhone 8? Il supporto alla realtà aumentata. Secondo Business Insider, Apple avrebbe assoldato oltre mille ingegneri e li avrebbe "rinchiusi" in un laboratorio israeliano per condurre un progetto sperimentale sulla realtà aumentata. L'indiscrezione è stata ottenuta dalla testata dalla società Ubs Research, la quale ha sottolineato che le novità sarebbero in dirittura d'arrivo già sul modello di smartphone atteso per l'autunno. I dettagli sono scarsi: gli unici indizi trapelati sono una mappatura 3D visibile tramite fotocamera e un kit di sviluppo aperto ai creatori di applicazioni. Se i rumors dovessero trovare conferma (e lo si saprà soltanto alla presentazione dell'iPhone 8), vorrà dire che il prossimo top di gamma di Apple integrerà una fotocamera con funzionalità di riconoscimento facciale tramite infrarossi e un sensore 3D per mappare lo spazio circostante.
   Specifiche che rispecchiano quanto reso noto a febbraio dall'analista Ming-Chi Kuo, di Kgi Securities, il quale ha sottolineato come la Mela sia "anni luce davanti ad Android in termini di algoritmi 3D, che renderanno i sensori 3D avanzati una caratteristica unica degli iPhone per almeno un paio di anni". Negli ultimi mesi Cupertino ha rilevato diverse startup tecnologiche impegnata nel campo della realtà virtuale e aumentata.
 Tra queste spiccano Primesense e Realface, entrambe basate a Tel Aviv, in Israele, dove secondo gli ultimi rumors, l'azienda avrebbe avviato il progetto di ricerca con i mille ingegneri. Il mercato della realtà aumentata è uno dei primari interessi di Tim Cook, Ceo di Apple, il quale ha spesso definito la tecnologia come molto più promettente della realtà virtuale, ritenendola centrale per il futuro dei dispositivi elettronici.
   A ottobre Cook aveva dichiarato a Buzzfeed che "la realtà aumentata avrà ancora bisogno di tempo per funzionare correttamente, ma credo proprio sia una cosa molto profonda", aggiungendo che l'interazione umana "non conosce sostituti": segnali che spingono proprio in direzione dello sviluppo di sistemi di realtà aumentata che, a differenza di quella virtuale, non proietta le persone in un mondo isolato.

(ictbusiness, 2 marzo 2017)


Emicrania, con un cerotto elettronico si «spegne»

Per lenire il mal di testa, o emicrania, si può ricorrere a un cerotto elettronico da portare al braccio, riducendo così il ricorso ai farmaci. Con una semplice scossa indolore, il cerotto può letteralmente 'spegnere' l'emicrania.

di Stefania Del Principe

 
L'emicrania si spegne con un cerotto
ISRAELE - Gli scienziari della Technion Faculty of Medicine di Haifa, in Israele, hanno sviluppato un cerotto elettronico che si può portare al braccio che può letteralmente 'spegnere' l'emicrania. Il congegno è in grado di dare sollievo a chi soffre di questi mal di testa, permettendo così di ridurre il riscorso ai farmaci, non esenti da effetti collaterali anche pesanti.

 Stimolare il cervello
  Secondo quanto riportato nello studio pubblicato sulla rivista Neurology, il dispositivo applicabile al braccio agisce per mezzo di una piccola scossa elettrica indolore. Questa va a stimolare il cervello e infine riduce l'intensità dell'attacco. Il meccanismo su cui si basa il sistema è detto 'modulazione condizionata del dolore', e si è rivelato efficace.

 Lo comandi anche con il cellulare
  Per questo studio i ricercatori hanno coinvolto 71 pazienti affetti da emicranie ricorrenti e frequenti. A questi è stato fornito il cerotto da applicare sul braccio e comodamente comandabile con lo smartphone tramite un'App dedicata. Non appena il paziente avverte l'arrivo dell'emicrania può attivare il cerotto (l'importante è farlo entro i primi 20 minuti dall'inizio dell'attacco). Dopo di che il cerotto inizia a fare il suo lavoro, che pare funzionare bene.

 Ridurre i farmaci
  I risultati dei test hanno mostrato che il cerotto funziona anche meglio dei farmaci. Se per esempio la stimolazione è attivata il prima possibile e viene ripetuta, maggiore è la riduzione del dolore e della crisi. In sostanza, i ricercatori ritengono che la stimolazione attuata dal cerotto elettronico sia altrettanto efficace rispetto alle tradizionali terapie farmacologiche. «Il prossimo passo - sottolinea il dottor David Yarnitsky, autore principale dello studio - sarà testare il cerotto in test clinici più ampi che coinvolgeranno quasi 200 pazienti».

(Diario Salute, 2 marzo 2017)


Aumentano le pressioni per l'annessione dell'insediamento di Ma'aleh Adumim

GERUSALEMME - La proposta di annettere Ma'aleh Adumim, un insediamento in Cisgiordania a est di Gerusalemme, dovrebbe essere presentata al Comitato ministeriale per la legislazione israeliano la prossima settimana, dopo numerosi ritardi. Sponsor del disegno di legge è un parlamentare israeliano del Likud, Yoav Kish, che aveva chiesto di sottoporlo al voto diverse settimane fa; la richiesta aveva incontrato l'opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu, riluttante a "viziare" in quel modo il primo faccia a faccia con il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha incontrato a Washington lo scorso 15 febbraio. L'obiettivo di Kish, scrive il quotidiano "Haaretz", è di forzare il consiglio dei ministri a discutere la proposta, per poi giungere al dibattito parlamentare entro le prossime settimane. Il disegno di legge prevede l'estensione della giurisdizione israeliana all'insediamento di Ma'aleh Adumim, con la sua conseguente annessione alla zona contesa E1, che è stata aggiunta in passato al territorio comunale della città. L'area in questione ha una superficie complessiva di circa 12 chilometri quadrati. La comunità internazionale, come Washington, si oppone all'annessione dell'appezzamento, che isolerebbe il nord della Cisgiordania dal sud e priverebbe così dell'integrità territoriale un futuro Stato arabo palestinese.

(Agenzia Nova, 2 marzo 2017)


Quando il tallone d'Achille è il sistema scolastico

di Aviram Levy

Intervenendo a un convegno della confindustria israeliana, la governatrice della Banca centrale d'Israele Karnit Flug ha lanciato un nuovo campanello d'allarme sulla inadeguatezza del sistema scolastico israeliano. Quali sono le debolezze delle scuole israeliane e quali le conseguenze? Lo spunto è stato offerto da una domanda rivolta alla governatrice dall'uditorio, sul perché la banca centrale e il Ministero del Tesoro non adottano misure di stimolo all'economia, in un contesto in cui il prodotto cresce a ritmi soddisfacenti 13% l'anno) e la disoccupazione è contenuta ma il potere d'acquisto delle famiglie è basso e vi è una percezione diffusa che il benessere è scarso e concentrato in una piccola fetta di popolazione. La governatrice ha esposto la visione che è ormai di consenso tra le autorità di politica economica dei paesi sviluppati, ossia che politiche di stimolo (riduzione dei tassi d'interesse da parte della banca centrale o aumento della spesa pubblica da parte del Governo) hanno dei vincoli oggettivi (il fatto che i tassi sono vicini allo zero e la necessità di evitare deficit dei conti dello Stato) e comunque hanno effetti temporanei sull'occupazione e si traducono in aumenti dell'inflazione. Secondo la Flug, la chiave per aumentare in modo permanente il benessere della popolazione (in termini economici si tratta della produttività, ossia del prodotto annuo di ogni lavoratore) è quella di agire sul sistema scolastico, che rimane un tallone d'Achille dell'economia israeliana.
   È un fatto poco noto che il sistema scolastico israeliano (istruzione primaria e secondaria, ossia elementari, medie inferiori e medie superiori) soffre di una duplice debolezza: da un lato un livello generale di preparazione degli studenti, specie nelle materie scientifiche, basso nel confronto internazionale (lo confermano i test PISA) dall'altro lato le forti disparità tra studenti di diversa estrazione socio-economica (Tel Aviv rispetto a Beer Sheva, per intendersi) e di diverse etnie (arabi e ebrei ultraortodossi sono le minoranze svantaggiate). Dalla qualità del sistema scolastico dipendono i percorsi lavorativi e il gradino sociale che gli studenti di oggi raggiungeranno domani e l'istruzione è divenuto uno strumento ancora più importante nell'epoca della globalizzazione e dell'accresciuta concorrenza delle economie emergenti. Sotto questo profilo ci sono alcune analogie tra Israele e l'Italia. Ma come si concilia, qualcuno obietterà, questa debolezza con il successo e la fama mondiale delle università israeliane nonché con la vivacità del settore delle alte tecnologie, fiore all'occhiello del paese e ad elevata intensità di manodopera qualificata? Come si spiega il paradosso? In primo luogo c'è una cesura tra scuole e università israeliane dovuta al fatto che le università da un lato ricevono ingenti finanziamenti pubblici e privati, dall'altro beneficiano della "fuga di cervelli" stranieri, un po' come le università americane. In secondo luogo il settore high tech rappresenta una nicchia e una piccolissima percentuale della popolazione e della manodopera israeliana, e purtroppo ha ricadute limitate sul resto del paese.

(Pagine Ebraiche, marzo 2017)


Elor Azaria ricorre contro la condanna

TEL AVIV - Il soldato Elor Azaria ha deciso di ricorrere in appello contro la condanna emessa il mese scorso dal Tribunale militare di Tel Aviv a 18 mesi di carcere per omicidio colposo, avendo egli ucciso un assalitore palestinese che giaceva a terra gravemente ferito.
Lo ha riferito radio Gerusalemme. Secondo i media, tre dei suoi avvocati difensori - che ritenevano ormai preferibile per Azaria l'ingresso in carcere e l'immediata richiesta di una grazia - si sono dissociati dalla decisione e hanno dato le dimissioni.
Azaria sarà dunque rappresentato in appello dall'avvocato Yoram Sheftel, un legale molto noto in Israele per essere riuscito nel 1993 ad annullare la condanna a morte di Ivan Demianyuk, un ucraino ritenuto essere stato un aguzzino del campo di sterminio di Treblinka.
Sheftel riuscì ad ottenere per lui l'assoluzione col beneficio del dubbio e la estradizione negli Stati Uniti, dove si ricongiunse con i familiari.

(tio.ch, 2 marzo 2017)


"Boicottare Israele". Gli universitari approvano la mozione

Primo caso in Italia. Il rettore: "Gli accordi con Technion non riguardano attività per l'uso militare delle tecnologie". Il documento sarà discusso dal Senato Accademico. Obiettivo Studenti si oppone.

di Jacopo Ricca

 
Gli universitari di Torino scelgono il boicottaggio di Israele e del Technion, l'università di Haifa finita più volte nel mirino dei militanti pro Palestina. Con una mozione dura, votata a maggioranza (16 favorevoli e 5 contrari), il Consiglio degli studenti ieri ha chiesto che il rettore Gianmaria Ajani «receda agli accordi attualmente in vigore con il Technion» entro la metà di aprile. La richiesta, che per essere valida dovrà essere votata da Senato accademico e consiglio d'amministrazione, è la prima ad essere approvata da un organo istituzionale di un ateneo italiano. Nel testo si sostiene, citando Amnesty International, che lo «Stato di Israele abbia deliberatamente colpito obiettivi civili e si sia reso responsabile di crimini di guerra durante l'attacco condotto nell'estate 2014 contro Gaza». E gli studenti sposano la campagna di Bds, cioè boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele e le sue istituzioni.
   Un voto che arriva proprio nella settimana di sensibilizzazione sull'argomento organizzata dagli universitari del collettivo "Progetto Palestina" che da anni si battono contro questo tipo di accordi: «Siamo soddisfatti e speriamo che questo sia un primo passo e che anche altri atenei seguano questo esempio», commentano. Tra i sette punti approvati nella mozione, si chiede di stracciare la collaborazione con il Technion che già negli anni scorsi aveva suscitato polemiche, e contro cui sono state raccolte centinaia di firme tra docenti e studenti di molte università italiane. Ma si invita anche l'ateneo «a prendere pubblicamente posizione contro le violazioni per parte israeliana della legislazione internazionale e della Dichiarazione universale dei diritti umani e a non intessere più relazioni con tutti quei soggetti che contribuiscano o traggano beneficio dalle violazioni israeliane e dai loro contatti con le forze armate di quel Paese».
   Il rettore Ajani conferma che se la presidente del Consiglio Studenti, Irene Raverta, porterà la questione agli organi centrali questa verrà discussa, ma ribadisce: «La cooperazione che abbiamo noi con il Technion è stata approvata dalla maggioranza di Senato e Cda e gli accordi stipulati non coinvolgono attività legate all'uso militare delle tecnologie, né la violazione dei diritti umani». Il tema potrebbe essere già calendarizzato nelle sedute previste tra un paio di settimane: «Il Technion è uno degli istituti più coinvolti nella progettazione di tecnologie usate contro il popolo palestinese - spiega Raverta, presidente espressione della lista di maggioranza Studenti Indipendenti - Abbiamo scritto la mozione con il coordinamento Studenti contro il Technion se fosse approvata dall'ateneo saremmo la prima università italiana ad assumere una posizione politica sul tema del conflitto israeliano-palestinese».
   Di tutt'altra opinione Luca Scudeler, portavoce di Obiettivo Studenti che si è opposto alla mozione: «Boicottare una comunità accademica popolata da studenti nostri coetanei equivale ad isolarla, impedendo alle future generazioni di israeliani di crescere e portare un contributo diverso rispetto a quella attuale sul conflitto in atto».

(La Stampa, 2 marzo 2017)


«Il Technion è uno degli istituti più coinvolti nella progettazione di tecnologie usate contro il popolo palestinese», dice il capo degli studenti. Perché bisogna sapere che questi giovani idealisti hanno un amore sviscerato per il popolo palestinese, che evidentemente ai loro occhi appare essere, tra tutti i popoli, il più misero, il più oppresso, il più sfruttato, il più martirizzato su tutta la terra. Da chi? Ma dagli ebrei, naturalmente. No, questo forse lo contesteranno: non sono gli ebrei, ma lo Stato israeliano, che per loro è tutt’altra cosa. Loro sono antisionisti, non antisemiti. L’antisemitismo è di destra, dicono, è di gente come il Duce, il Führer, i naziskin, loro sono per la giustizia, non antisemiti. Forse in parte è vero, perché non è questa la loro caratteristica principale. Prima di tutto sono semplici, vacui ipocriti, fin troppo riconoscibili nella loro ipocrisia mentre si dilettano nei loro stupidi passatempi giovanili da “movimento studentesco” del terzo millennio. Come a quel tempo, non sanno né quello che dicono né quello che fanno. Ma sono presi in considerazione dall’ambiente circostante, perché a parlar male degli ebrei (oggi rappresentati da Israele) si ottiene sempre una buona audience. Provocano disastri? Loro non se ne accorgono e a loro non interessa. La parte dei giusti a buon mercato li appaga pienamente. M.C.


Il tocco di lvanka dietro le parole di Donald su antisemitismo, ambiente e minoranze

La figlia ha suggerito la linea morbida

Ivanka con il padre
NEW YORK - C'è la mano di Ivanka, finalmente notano diversi osservatori, dietro al nuovo tono scelto dal padre per il discorso al Congresso. La figlia di Trump avrebbe lavorato fino all'ultimo sul testo, insieme allo scrittore Stephen Miller, per assicurarsi che fosse meno cupo dell'Inauguration, e contenesse temi come la condanna degli atti di odio verso gli ebrei e le minoranze, la difesa dell'ambiente e le agevolazioni per le famiglie.
Ivanka non ha un ruolo ufficiale alla Casa Bianca, ma suo marito Jared Kushner è il consigliere «senior». Prima che Trump entrasse in carica, tutti si aspettavano che la coppia diventasse la sponda moderata dell'amministrazione, frenando gli impulsi personali di Donald, e soprattutto quelli degli altri collaboratori chiave come Steve Bannon. Finora però si erano visti pochi segni della loro presenza, tranne quando erano intervenuti per evitare che il nuovo presidente cancellasse le protezioni offerte ai gay da Obama. Jared e Ivanka, in sostanza, sembravano aver perso il braccio di ferro per l'influenza sul capo della Casa Bianca.
Il discorso di martedì sera conteneva tutta la sostanza delle idee di Bannon, ed è stato scritto dal suo braccio destro Miller, ma secondo il sito Axios lvanka ci ha lavorato fino all'ultimo e ha lasciato il segno. L'apertura con la condanna degli atti vandalici, le minacce contro la comunità ebraica, gli spari in Kansas contro gli immigrati indiani, sarebbe stata suggerita da Hope Hicks, direttrice delle comunicazioni della Casa Bianca che lavorava con lei. lvanka poi ha insistito sul tono ottimistico, e l'inclusione di temi come la salute delle donne, l'aspettativa pagata, l'aria e l'acqua pulita, anche se il padre ha appena cancellato le regole di Obama su questo punto. Ora si tratta di capire se è stato un caso isolato, oppure se lei e Jared hanno riconquistato l'orecchio di Trump spingedolo alla moderazione.

(La Stampa, 2 marzo 2017)


Nell'ebraismo. Le regole alimentari valgono come quelle etiche

di Elena Loewenthal

Se è vero che, come dice un adagio indiano, siamo quello che mangiamo, non lo è meno il contrario: mangiamo quello che siamo. La nostra identità si fonda anche sul nostro rapporto col cibo, sulle nostre passioni e i nostri tabù. Del resto, siamo anche quello che "non mangiamo": siccome la carne è debole e le tentazioni abbondano la privazione deve sempre avere un senso, uno scopo, una certa qual gratificazione.
   E questo succede più che mai nell'ebraismo, perché a differenza di altre la fede d'Israele si fonda sull'assunto che essendo l'uomo fatto di materia e anima entrambe contano nella stessa misura Non c'è mai nell'ebraismo un rifiuto della fisicità, perché il corpo è un dono di Dio non meno dello spirito. Questo spiega, ad esempio, la vasta serie di norme relative alla vita materiale, a incominciare dai divieti alimentari, che nell'ebraismo non sono considerate secondarie rispetto alle supreme leggi etiche - come la fede in Dio o la pietà- e fanno invece parte integrante di una vita ebraicamente completa.
 
Vino buono e rigidamente kosher
   In questo contesto anche la astensione dal cibo fa ovviamente la sua parte: nel calendario ebraico ci sono infatti alcuni digiuni. Ma questa pratica non ha un senso univoco di mortificazione attraverso la privazione. Il 9 del mese di Av (che cade fra luglio e agosto) è il ricordo dell'evento infausto per antonomasia: la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera una volta dei Babilonesi e un'altra dei Romani, come se quel giorno fosse una sorta di nero gorgo della storia Il digiuno dei primogeniti precede la festa di Pasqua - cioè l'Esodo dall'Egitto - e celebra con trepidazione il fatto che Dio abbia risparmiato i primogeniti d'Israele durante l'ultima terribile piaga, subito prima di dare loro la libertà.
   Ma il digiuno ebraico per eccellenza è quello del Kippur, cioè dell'espiazione: culmine del grande ciclo di feste con cui si inaugura l'anno - che di solito cade a settembre - questo digiuno suggella i cosiddetti "giorni tremendi" in cui l'individuo sta di fronte a Dio, ma soprattutto di fronte a se stesso e al prossimo, in attesa del giudizio. Kippur non è un momento di mortificazione e paura: è piuttosto un momento di bilancio morale e di attesa L'astensione totale dal cibo e dalle bevande, il divieto di indossare capi in pelle, accompagnano una giornata di preghiera ma anche e forse soprattutto di acquisizione di consapevolezza: cosa ho fatto di male in passato? In quelle ore Dio può perdonare i peccati commessi verso di Lui - sempre che siano riconosciuti e scanditi ad alta voce - ma non può farlo con quelli commessi verso il prossimo "umano". Nessuno, nemmeno l'Altissimo, può condonare per conto terzi. Dunque il Kippur è anche un momento fondamentale di bilancio "sociale", in cui è essenziale dirimere le questioni lasciate in sospeso: chiedere scusa a chi abbiamo offeso, impegnarsi a non commettere in futuro gli stessi errori del passato.
   E il digiuno non è tanto il segno della mortificazione, non è fatto per umiliare il corpo e attraverso questo gesto cercare compassione: ci si astiene dal cibo per elevarsi, quasi per essere più leggeri, più vicini al cielo. Per ascoltare meglio la voce del prossimo e quella che viene di lassù, a indicarci la strada. Alla fine di questa giornata c'è un canto bellissimo, intitolato ''Neilah": le voci si levano quando la luce del giorno calante sfiora le fronde degli alberi più alti, appena prima che le porte del cielo si chiudano e con esse le pagine del Libro della Vita dove sono scritte le azioni di ciascuno. Siglato il bilancio del passato ci si apre a un futuro in cui, possibilmente, non commettere gli stessi errori.

(La Stampa, 2 marzo 2017)



Parashà della settimana: Terumah (offerta)

Esodo 25:1-27:19

 - La parashà di Terumah (offerta) segue alla parashà di Mishpatim (leggi) in quanto prima di costruire la Casa di D-o bisogna costruire la Casa degli uomini sulla base della giustizia e della pace (shalom). E' da questo insegnamento della Torah che la civiltà occidentale si è allontanata nel sostenere il detto "Il mio regno non è di questo mondo". Rabbi Akivà affermava : "Il fondamento della Legge è quello di amare il prossimo come te stesso" comandamento questo che prepara la Redenzione dell'uomo (Gheullà) a cui seguirà la costruzione del Tabernacolo. La tradizione ebraica difatti chiama questo primo periodo "materiale", tempo del "Messiah figlio di Giuseppe". In questa fase si verificherà il ritorno degli esiliati con la formazione della Nazione ebraica. Seguirà una seconda fase "spirituale" del "Messiah figlio di Davide"con la ricostruzione definitiva del Tempio. E' scritto: "Essi mi faranno un Santuario ed I-o abiterò in mezzo a loro" (Es. 25.8).
I nostri Saggi (z"l) hanno fatto notare che il testo della Torah avrebbe dovuto scrivere "abiterò nel Santuario" e non in mezzo al popolo. Quale dunque il significato? Rabbi Haym di Volozin sosteneva che la Shekinà (Presenza Divina) risiede presso coloro che mettono in pratica i comandamenti della Torah. Il Tempio esteriore esiste solo in rapporto a quello interiore come il Signore ha profetizzato al re Salomone: "Se starai attento ad osservare i Miei statuti… allora I-o manterrò la Mia parola data a Davide tuo padre e risiederò in mezzo ai figli d'Israele" (1Re 6.11).
La Torah dedica alla costruzione del Tabernacolo nel deserto del Sinài ben quattro parashoth intere (Terumà-Tezavè-Vayekel- Pequdè) e parte della parashà Ki-Tissà che studieremo in seguito, a D-o piacendo.
La nostra parashà descrive in modo dettagliato gli ordini di D-o dati a Moshè per la costruzione dell'Arca dell'Alleanza, la Tavola dei Pani, il Candelabro e l'Altare esterno di rame nel cortile del Tempio.
L'arca fatta con legno di acacia e ricoperta d'oro puro sia all'interno che all'esterno, contiene le tavole della Legge. Il suo coperchio (Capporet=Riparazione) e gli angeli cherubini presenti su questo, sono un unico blocco d'oro. Tra le ali dei cherubini parla il Signore a Moshè rabbenu in modo che quello che è in alto (D-o) scende verso il basso (uomo). L'Arca dell'Alleanza è stata costruita mediante misure "incomplete" per simboleggiare che lo studio e la comprensione della Torah non hanno un limite.

Tavola dei Pani
La tavola è il simbolo della dimensione terrestre. Dodici pani cotti sono posti sulla tavola che è posta nel lato Nord del Tabernacolo, da cui secondo la Tradizione ebraica giungono le benedizioni del Signore. La tavola vuol darci un insegnamento fondamentale: riuscire nella vita secondo gli insegnamenti della Torah. Nel Talmud è scritto: "E' più grande colui che trae profitto dal lavoro delle "sue mani" che colui che teme D-o". Per merito delle sue mani, mentre la sua testa e il suo cuore sono immersi nell'osservanza della Torah. Il verso 25.30 conclude: "E tu metterai dei pani di proposizione (facce) davanti a Me". Il pane che ha un volto simboleggia la riuscita nella vita materiale dovuta alla benedizione di D-o per l'uomo meritevole.

Il Candelabro
Il candelabro (Menorah) è uno dei simboli più misteriosi che si trovano nel Tabernacolo, perché con la sua forma contiene tutto il significato della Creazione. L'uomo della Torah (spirituale) e l'uomo della Tavola (materiale) trovano la loro unione nel candelabro che riunisce i suoi due poli. Per questo motivo il candelabro è fatto di un solo unico pezzo senza alcuna saldatura allo stesso modo della Torah che non può subire aggiunte né mancanze. Per arrivare ad una tale "unità" Moshè ha avuto bisogno dell'aiuto di D-o. Rashì riporta a riguardo un midrash in cui Moshè gettò una quantità d'oro nel fuoco, senza conoscere la forma del candelabro. D-o stesso compì il miracolo, dicendogli: "Così vedi, così fai".

L'altare
"Farai un altare di legno di acacia della lunghezza di cinque braccia e altrettanto in altezza, quadrato" (Es. 27.1).
Contrariamente a quanto si possa credere il luogo dove sorge l'altare è la parte più importante del Tabernacolo. Sopra di questo venivano sacrificati dai sacerdoti gli animali kasher come comandato da D-o.
L'offerta dell'animale simboleggia la riparazione dei peccati commessi dall'uomo e la sua vittoria sui propri istinti da indirizzare verso una riparazione (tikun olam) degli errori commessi. Perché l'altare esterno è fatto di rame? In lingua ebraica il rame (nehoschet) ha la stessa radice del serpente (Nahasch) il cui obiettivo è quello di "prendere e mangiare" senza mai "ringraziare" il Creatore per quello che concede. L'ideologia del serpente difatti è presente nella Storia nella nota espressione "Il tempo è denaro" con tutte le sue tragiche conseguenze. F.C.

*

 - Il solenne patto di sangue tra Dio e il popolo è stato siglato. Nulla è più esattamente come prima. Sullo stesso monte, nello stesso punto in cui Mosè aveva visto il fuoco sacro ardere il roveto senza consumarlo, adesso il popolo vede "la gloria dell'Eterno abitare sul monte Sinai ... e l'aspetto della gloria dell'Eterno era agli occhi dei figli d'Israele come un fuoco divorante sulla cima del monte" (Es. 24:16,17).
Sei giorni rimane sul Sinai la gloria di Dio, coperta dalla nuvola; il settimo giorno "l'Eterno chiamò Mosè di mezzo alla nuvola" (Es. 24:16). Quando Dio aveva chiamato Mosè di mezzo al roveto ardente, gli aveva ordinato di non avvicinarsi; adesso invece, dopo la stipulazione del patto, le cose sono cambiate: "Mosè entrò in mezzo alla nuvola e salì sul monte; Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti" (Es. 24:18).
Il Signore aveva già detto a Mosè il motivo per cui l'avrebbe di nuovo chiamato: "L'Eterno disse a Mosè: Sali da me sul monte, e fermati qui; e io ti darò delle tavole di pietra, la legge e i comandamenti che ho scritti, perché siano insegnati ai figli d'Israele" (Es. 24:12). Dio dice: "Io ti darò...", dunque è questo il "dono della legge" di cui spesso si parla. Ma in che cosa consiste, esattamente?

Qual è il dono che Dio consegna a Mosè?
Il dono che Dio consegna a Mosè per il popolo in quei quaranta giorni e quaranta notti non è una generica Torah, ma l'insieme delle disposizioni contenute nei capitoli da 25 a 31 dell'Esodo. Il passo si conclude con queste parole: "Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio" (Es. 31:18).
E' in questo preciso momento che avviene la consegna a Mosè del dono che Dio vuole fare al popolo. Che ne è stato, di quel dono? Dopo l'atto di consegna avverrà un fatto nuovo, di enorme gravità, che cambierà ancora una volta la natura del rapporto tra Dio e il popolo.
Le disposizioni che Mosè riceve da Dio nei primi quaranta giorni e quaranta notti che passa a digiuno sul monte Sinai non sono dunque da mettere in un unico fascio con la somma di ordini e precetti che Dio darà in seguito al popolo per guidarlo e tentare di imbrigliarlo. Come la stipulazione del patto matrimoniale ha cambiato radicalmente le cose, così, altrettanto radicalmente, cambierà le cose la successiva violazione del patto. Anche nella storia profana, sono i fatti che determinano le legislazioni, e quando i fatti cambiano, anche le legislazioni cambiano.

Un progetto di vita matrimoniale
Il "dono della legge" che Dio intende fare al popolo in questo preciso momento della storia è un insieme di istruzioni d'amore per vivere un rapporto di comunione in vista del progetto che il Signore vuole portare a compimento, secondo la promessa fatta ad Abramo.
Qualunque sia il progetto di vita che possa indurre un uomo e una donna a unirsi in matrimonio, è normale che i coniugi pensino ad avere una casa in cui possano abitare insieme e vivere i loro momenti di massima intimità. Si può dire allora che il tabernacolo che Dio ordina a Mosè di costruire è la "abitazione" (mishkan, משכן) in cui Egli vuole venire ad "abitare" (shakan, שכן) in mezzo al popolo.
"Mi facciano un santuario perch'io abiti (shakan) in mezzo a loro. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishkan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti" (Es. 25:8-9).
Ma il progetto che aveva spinto il Signore ad unirsi in un patto col popolo d'Israele era di fare di lui "un regno di sacerdoti e una nazione santa (kadosh, קדוש)" (Es. 19:6). Per questo dunque la comune abitazione viene chiamata anche "santuario" (mikdash, מקדש).
Continuando nel paragone, si può dire che se il tabernacolo è la casa della coppia matrimoniale, il luogo santissimo, in cui si trova l'arca, è la camera nuziale:
"Nell'arca metterai la testimonianza che ti darò. Lì io mi incontrerò con te; dal propiziatorio, fra i due cherubini che sono sull'arca della testimonianza, ti comunicherò tutti gli ordini che avrò da darti per i figli d'Israele" (Es. 25:21-22).
Dio incontra Mosè nel luogo santissimo, e nel colloquio intimo con lui vive quel rapporto d'amore con il popolo che soltanto per sua iniziativa poteva cominciare e che adesso Egli vuole portare a compimento per la realizzazione del suo progetto.

Comunione e santità
Nelle disposizioni che Dio dà a Mosè per la costruzione e il funzionamento della casa comune, sono presenti come sottofondo, in varie forme, due aspetti ricorrenti: desiderio di comunione ed esigenza di santità. Secondo il suo progetto eterno, Dio vuole venire un giorno ad abitare stabilmente con gli uomini:
"Udii una gran voce dal trono, che diceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini; Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio" (Apocalisse, 21:3).
E per la realizzazione del suo progetto, Dio ha deciso di cominciare con il popolo d'Israele. Su questo, nessuno può discutere.
Dio però è santo, e tutti gli uomini, da Adamo ed Eva in poi, sono peccatori. Non in un senso moralmente generico, ma in modo puntualmente teologico: sono in guerra con Dio, ribelli a Lui nel profondo del loro essere, anche quando pensano di essere religiosamente a posto.
Ma Dio ha preparato, e ha svolto, e tuttora svolge, un'opera di riconciliazione tra Lui e gli uomini basata su una sua iniziativa di grazia, da cui si aspetta una risposta di fiduciosa ubbidienza.
Naturalmente, a questo punto del programma, l'itinerario scelto da Dio ha ancora molte tappe davanti a sé, ma se ne possono riconoscere fin d'ora alcuni caratteri di fondo.
Dio gradisce offerte da coloro che sono disposte a fargliele "di cuore" (Es. 25:2).
Il luogo d'incontro intimo fra Dio e l'uomo avviene là dove è presente e riconosciuta la sua opera di espiazione del peccato. Mosè parla con Dio da sopra il "propiziatorio" (capporet, כפרת), termine che contiene la stessa radice di "espiazione" (cafar, כפר), da cui proviene anche il termine kippur.
E' certamente utile e istruttivo approfondire ogni aspetto delle particolari disposizioni che il Signore comunica a Mosè in quei quaranta giorni e quaranta notti, ma in ogni caso si deve tenere presente che i capitoli da 25 a 31 dell'Esodo si muovono in un contesto storico-salvifico diverso sia da ciò che precede, sia da ciò che segue. E' la storia sacra che determina l'etica sacra, non viceversa. M.C.

  (Notizie su Israele, 2 marzo 2017)


"È necessario abbandonare le posizioni squilibrate di questo Consiglio"

Lo ha detto la rappresentante Usa, Erin Barclay, alla riunione d'apertura del Consiglio Onu per i Diritti Umani

Gli Stati Uniti hanno velatamente minacciato di ritirarsi dal Consiglio Onu per i diritti umani se l'organismo non porrà fine alla sua incessante "ossessione" contro Israele. L'avvertimento è stato espresso al termine di un breve discorso tenuto mercoledì da Erin Barclay, vice assistente del Segretario di stato americano, alla seduta d'apertura della 34esima sessione del Consiglio, a Ginevra.
Dopo aver ribadito che l'impegno degli Stati Uniti per i diritti umani "è più forte che mai", Barclay ha aggiunto: "Malauguratamente troppe azioni di questo Consiglio non vanno a sostegno di questi principi universali. Anzi, li contraddicono. Affinché questo Consiglio abbia una qualche credibilità, per non parlare di efficacia, è necessario che abbandoni le sue posizioni squilibrate e improduttive. Nel momento in cui valuta i propri impegni futuri, il mio governo terrà in considerazione le azioni del Consiglio con un occhio particolare a una riforma che abbia lo scopo di realizzare più compiutamente la missione del Consiglio di proteggere e promuovere i diritti umani"....

(israele.net, 2 marzo 2017)


Anti-Israele in piazza, 20 denunce per mancato preavviso

Nonostante il passo indietro di Fassina (Si) sull'utilizzo della Protomoteca comunale per il convegno del movimento Bds che era stato, così, annullato alcuni sostenitori si sono riuniti in piazza del Campidoglio.
Poi, però, è intervenuta la Questura che in un comunicato ha reso nota la scorrettezza dell'iniziativa: «Una ventina di persone, nonostante la revoca della concessione della sala della Protomoteca si sono comunque presentate per manifestare in Campidoglio esponendo le loro argomentazioni. Tutti i partecipanti sono stati identificati dalla polizia scientifica e saranno denunciati per manifestazione non preavvisata».

(Fonte: Corriere della Sera, 1 marzo 2017)


Israele-Hamas, nuove tensioni a Gaza

L'esercito egiziano distrugge quattro tunnel al confine con la Striscia: cinque le persone ferite.

di Rosaria Sirianni

Le relazioni tra Israele e Hamas sono di nuovo in fermento. Lunedì l'aviazione israeliana ha colpito in due ore almeno cinque obiettivi militari del gruppo islamista palestinese, a seguito di un razzo sparato da Gaza nella notte di domenica scorsa, che ha raggiunto un'area agricola del Negev, nel sud di Israele. Cinque i feriti: tutti giovani inquadrati nelle forze di Hamas che presidiano le linee di frontiera di Gaza. Hamas e Israele si sono polemicamente scambiati l'accusa di essere responsabili della nuova escalation di tensione. Ma l'incidente, almeno al momento, sembra esser stato superato.
  Nella Striscia, in previsione degli attacchi israeliani, diversi uffici governativi sono stati sgomberati. La stessa apprensione è stata avvertita fra le decine di migliaia di israeliani che vivono a ridosso di Gaza. Ma nessuno, secondo il ministro della Difesa di Tel Aviv, Avigdor Lieberman, vuole un deterioramento dell'equilibrio raggiunto con il gruppo islamista palestinese. "Non abbiamo intenzione - ha affermato Lieberman - di prendere alcuna iniziativa militare a Gaza. Ma non saremo neppure disposti ad accettare lanci sporadici di razzi. Consiglio ad Hamas di assumersi la responsabilità di quanto avviene e di calmarsi".
  Ormai da anni, quella tra Israele e il gruppo islamista palestinese, non è una guerra aperta, ma uno scontro a bassa intensità. Se sul cielo di Tel Aviv veglia lo scudo invisibile dell'Iron Dome, il sistema di difesa antimissile dello Stato ebraico, il dedalo di tunnel sotterranei costruiti da Hamas che parte dalla Striscia di Gaza, resta ancora un territorio inesplorato e inaccessibile, che preoccupa non poco le Forze di difesa israeliane (Idf). Lo scorso venerdì, le forze armate egiziane hanno distrutto quattro tunnel al confine con la Striscia di Gaza. La notizia è stata diffusa giorni fa dal portavoce de Il Cairo, il colonnello Tamer al Rifae, sulla sua pagina Facebook.
  Ma a preoccupare Israele, dopo Hamas, ci sono ormai da tempo anche lo Stato islamico e i suoi affiliati. Non a caso, lo Stato del Sinai, il gruppo terroristico egiziano legato ai miliziani di Abu Bakr al Baghdadi, nei giorni scorsi ha rivendicato il lancio dei due razzi Katyusha caduti lo scorso 20 febbraio nel sud di Israele, in risposta - secondo i media jihadisti - a un drone israeliano che avrebbe bombardato e ucciso cinque membri del gruppo nella regione del Sinai settentrionale. All'inizio di febbraio, lo Stato islamico aveva rivendicato la responsabilità di un secondo attacco: quattro razzi lanciati dal Sinai verso la città israeliana di Eilat. Tuttavia, nei giorni scorsi, il ministro della Difesa di Tel Aviv ha minimizzato la minaccia rappresentata dai terroristi attivi nella penisola del Sinai definendoli "dilettanti che decidono di mettere in piedi un esercito".
  In un editoriale pubblicato dal quotidiano "Jerusalem Post" si legge che il lancio di razzi rappresenta "la reazione carica di nervosismo dello Stato islamico alle operazioni antiterrorismo attribuite a Israele nella penisola del Sinai". Negli ultimi due anni, infatti, l'intelligence israeliana avrebbe intrapreso una cooperazione sempre più stretta con l'Egitto per contrastare la destabilizzazione del Sinai da parte delle organizzazioni terroristiche. Questa cooperazione tra Tel Aviv e Il Cairo si basa, secondo il quotidiano locale, sugli interessi comuni dei due paesi, legati ad avversari condivisi: Hamas a Gaza e lo Stato Islamico nel Sinai.
  In merito al gruppo islamista palestinese, degno di nota è il rapporto pubblicato lo scorso 8 febbraio sul sito "Investigative project on Terrorism", che evidenzia il doppio ruolo che Hamas gioca con l'organizzazione jihadista di Abu Bakr al Bagdadi. Il gruppo islamista palestinese che dal 2006 governa la Striscia, infatti, si muove all'interno del territorio in due direzioni: da un lato, è impegnato a combattere i gruppi salafiti attivi a Gaza per impedire che questi possano destabilizzare l'aerea e prenderne il controllo; dall'altro, invece, è intento a tessere relazioni con formazioni estremiste affiliate allo Stato islamico, già attive nel Sinai, per riuscire a ottenere un "rifugio sicuro" per i propri leader, in vista di un nuovo confronto militare con Israele.
  Infine, secondo il rapporto, altro punto importante della strategia di Hamas, è riuscire a mantenere buone relazioni con Il Cairo, il quale pur essendo impegnato in una lotta contro il gruppo Wilyat Sinai, legato ai miliziani del Califfato e noto fino al 2014 con il nome di Ansar Beit al Maqdis ("i sostenitori della Città santa", ovvero Gerusalemme), periodicamente apre il valico di Rafah per consentire agli abitanti della Striscia di rifornirsi di beni di prima necessità e di ricevere cure mediche, proprio attraverso i tunnel scavati da Hamas che collegano i territori palestinesi all'Egitto.

(OFCSreport, 1 marzo 2017)


Ebrei in Cina e cinesi in Israele

Per celebrare il venticinquesimo anniversario delle relazioni tra Cina e Israele, l'università della Bar Ilan (di Ramat Gan, vicino Tel Aviv) ha allestito una speciale mostra sulle comunità ebraiche presenti nel Paese della Grande Muraglia. Attraverso le numerose fotografie e i filmati, viene raccontata la storia degli ultimi 150 anni, fatta di immigrazioni, salvataggi e ricchi scambi culturali. La dottoressa Danielle Gurevitch, organizzatrice dell'evento, ha spiegato che gli ebrei e i cinesi sono i popoli più antichi del mondo, che le due culture si sono sviluppate parallelamente e che hanno molto in comune: "Noi, nella moderna Israele, parliamo l'ebraico, la stessa lingua dei nostri antenati di cinquemila anni fa, esattamente come i cinesi hanno preservato il loro idioma. Abbiamo gli stessi valori: amiamo il nostro Paese, il nostro retaggio e i nostri filosofi. La saggezza di Confucio è frequentemente citata, così come quella di Maimonide e diamo molta importanza alla famiglia e all'istruzione. Sappiamo anche che il pensiero ebraico è apprezzato nell'Est asiatico e specialmente in Cina, per la sua creatività e il rigore scientifico"....

(Progetto Dreyfus, 1 marzo 2017)


Ondata antisemita in America. Decine di centri ebraici nel mirino

Escalation di minacce e atti vandalici in tutto il Paese

NEW YORK - Ormai sta diventando un'emergenza quotidiana. Una volta sono le minacce di attentati contro i centri ebraici e le scuole, un'altra gli atti di vandalismo nei cimiteri, ma quasi non passa giorno senza che negli Stati Uniti si registri qualche allarme. La comunità è preoccupata, anche perché a differenza dell'Europa, in America queste cose non succedevano spesso. L'Fbi sta indagando e la Casa Bianca ha condannato, dopo che da più parti si sono sollevate voci che attribuiscono questi incidenti al clima creato nel Paese dalla retorica e dall'elezione del presidente Trump.
   L'ultima ondata c'è stata lunedì, quando 21 edifici sono stati evacuati dopo che qualcuno aveva minacciato di farli saltare in aria. Si trattava di 13 centri ebraici e 8 scuole in almeno 16 stati, dal New Jersey alla North Carolina, dalla Florida al Michigan. La sede di San Francisco dell'Anti Defamation League ha ricevuto una chiamata alle 4,20 del pomeriggio, che parlava di una bomba pronta ad esplodere: «È profondamente preoccupante - ha detto il ceo di Adl Jonathan Greenblatt - vedere questi atti di antisemitismo che allargano il loro obiettivo a sezioni sempre più ampie della comunità ebraica. Spesso infatti questi edifici ospitano gli asili, i centri per gli anziani, o le attività dopo scuola degli adolescenti». Anche i cimiteri sono stati vandalizzati, a St. Louis e Philadelphia. Secondo un calcolo ancora parziale, da gennaio ad oggi si sono verificati almeno 90 incidenti contro 73 luoghi, in 30 Stati americani e in Canada. Nessuna bomba è stata trovata finora, ma l'effetto è lo stesso: «I membri della nostra comunità - ha commentato David Posner della Jcc Association of North America - devono vedere uno sforzo concertato delle forze dell'ordine per individuare e catturare i responsabili, che stanno cercando di instillare ansia e paura».
   Le minacce si ripetono spesso uguali, attraverso telefonate fatte con voci distorte, e raggiungono più volte gli stessi centri. Si potrebbe trattare di singole persone, o anche di soggetti mentalmente instabili, ma l'Fbi non esclude la partecipazione di gruppi. Secondo Heidi Beirich, direttrice dell'intelligence al Southern Poverty Law Center, «questo fenomeno è senza precedenti. Lavoro qui dal 1999, e non ho mai visto una serie di attacchi così, che puntano le stesse istituzioni nella stessa maniera».
   Il numero dei gruppi dell'odio presenti negli Usa aveva raggiunto il picco di 1.018 nel 2011, il più alto degli ultimi 30 anni, ma nel 2016 è tornato a salire da 892 a 917. La ragione per cui il Southern Poverty Law Center collega questa impennata alla retorica di Trump, sta nel fatto che nei primi 34 giorni dopo la sua elezione sono stati registrati 1.094 incidenti. Non tutti erano diretti contro la comunità ebraica, ma ora è chiaro che sta diventando l'obiettivo.
   All'inizio il Presidente non ha reagito, forse per evitare di confermare anche indirettamente i collegamenti con la sua elezione. Poi però la Casa Bianca ha condannato, e lo stesso Trump ha detto che questi atti sono intollerabili. Ora la chiave è nelle mani dell'Fbi, che sta cercando di individuare i responsabili, prima che le minacce si trasformino in azioni concrete. Quando lo farà, sarà possibile capire se il movimento che ha portato alla vittoria il nuovo presidente ha anche incoraggiato i gruppi dell'odio e della destra estrema a diventare più aggressivi.

(La Stampa, 1 marzo 2017)


La codificazione dell'antisemitismo

di Marcello Malfer (*)

Una nota recente della Commissione europea, forse passata in secondo piano, ci informa che la stessa ha deciso di inserire nel proprio sito ufficiale la definizione di antisemitismo. Definizione già adottata nel maggio 2016 a Bucarest dall'Intemational Holocaust Remembrance Alliance, ovvero la rete intergovernativa che comprende 31 Paesi, di cui 24 membri dell'Unione europea. Si tratta di una notizia che può essere accolta con soddisfazione; se, come si spera, la Commissione europea dovesse anche ufficialmente adottare tale definizione, rappresenterebbe un segnale ancora più concreto di impegno nella lotta all'odioso fenomeno.
Certo la definizione di antisemitismo, per come è stata formulata, appare alquanto scialba e banale, e nel leggerla si ha l'impressione che il fenomeno a cui si riferisce non sia poi così preoccupante. «L'antisemitismo a nostro parere è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa con manifestazioni retoriche e fisiche dell'antisemitismo e sono dirette a individui ebrei e non ebrei o ai loro beni, a istituzioni comunitarie e ad altri edifici a uso religioso e non solo».
   Il testo adottato dalla Commissione europea contiene, oltre alla pur blanda definizione di antisemitismo, anche alcune importanti precisazioni. Una tra le più significative è che l'antisemitismo può comprendere anche gli attacchi sistematici allo Stato di Israele, concepito come collettività ebraica, e si forniscono diversi esempi di come tali accuse possano rappresentare, al di là di ogni legittima critica politica, delle forme di antisemitismo. Nel documento si puntualizza altre sì che le critiche rivolte a Israele, che sono simili a quelle mosse a qualsiasi altro Paese, non possono essere considerate antisemite.
   Vale la pena ricordare a tal riguardo alcuni segni che possono definire l'antisemitismo: «Accusare gli ebrei in quanto popolo, o Israele in quanto Stato, di inventare o esagerare l'Olocausto»; «negare al popolo ebraico il proprio diritto all'autodeterminazione, cioè sostenere che l'esistenza dello Stato di Israele è un atto di razzismo»; «tracciare paragoni tra la presente politica d'Israele e quelle dei nazisti»; «ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato d'Israele»; «usare i simboli e le immagini associate all'antisemitismo classico (per esempio le accuse agli ebrei di deicidio) per caratterizzare il popolo ebraico, Israele e gli israeliani».
   Questi pochi esempi appaiono decisamente utili, appropriati, pertinenti per definire il concetto. Diciamo anche che sarebbero tutte delle ovvietà, se non vivessimo in un mondo nel quale, per esempio, dei giudici di un tribunale tedesco possono tranquillamente sentenziare che incendiare delle sinagoghe non è antisemitismo, ma è critica alla politica dello Stato di Israele.
   Particolarmente inopportuno, a mio avviso, il riferimento al trattamento sempre riservato allo Stato ebraico. Le parole pronunciate dal tribunale tedesco fanno una certa impressione e sembrano ricalcare, là dove si distingue il «trattamento speciale» tra lo Stato di Israele e il popolo ebraico, alcuni pronunciamenti già sentiti alle Nazioni Unite.
   Con ottimismo quindi guardiamo al significato di questo piccolo grande passo e restiamo in attesa, con cauta fiducia, di ulteriori segnali nella direzione di un impegno che deve essere continuo, concreto e svolto a ogni livello educativo, culturale e politico. E, siccome del «trattamento speciale» fa parte anche il semplice parlare dello Stato di Israele, la cui morbosa sovraesposizione mediatica è anch'essa un sottoprodotto dell'antisemitismo, sarebbe forse utile che l'Europa d'ora innanzi si occupasse di Israele con maggiore consapevolezza. Parlandone, se possibile, con più obiettività, con più rispetto, con più equilibrio.

(*) Presidente Associazione trentina Italia-Israele

(Corriere del Trentino, 1 marzo 2017)


Rigurgiti di antisemitismo fin troppo tollerato

Perciò, caro idiota antisemita, non si odia né per scherzo né sul serio!”

di Giuseppe Trapani

 
Ricordo che quando ero bambino, combinata la cavolata "involontaria", cercavo l'attenuante del «non l'ho fatto apposta» e sentivo dire da mia madre a seguito di un ceffone inevitabile che «bisognava pensarci prima e non esiste il fare senza pensare» poiché quando un atto è grave, niente scuse. Potessimo tutti dire la stessa cosa nei confronti dell'intollerabile "antisemitismo di ritorno" che lascia tracce inquietanti un pò ovunque senza che ci sia un minimo di indignazione.
   Richiamo con un certo imbarazzo della scelta le ultime e clemorose situazioni: Ai primi di Febbraio un giudice ha prosciolto due tifosi laziali che nel 2013 a seguito di una denuncia della Digos avevano istigato i cori della curva al grido "giallo-rosso ebreo!" . Dopo tre anni e mezzo il Gup di Roma ha emesso una sentenza - le cui motivazioni sono uscite in questi giorni - nella quale ha ritenuto le espressioni "configurabili nell'ambito di una rivalità di tipo sportivo". Insomma, so ragazzi no? Rimaniamo nell'impalpabile mondo degli spalti e trasferiamoci a Montecatini Terme dove fu imbrattata la scritta (riferita alla squadra avversaria del Viareggio) "Viareggio Anna Frank" e che ha scosso e infignato la dirigenza del montecatini a tal punto che si è minacciato di ritirare la squadra se non si fosse tolta l'ignobile frase e dare seguito a pubbliche scuse da parte della tifoseria responsabile. E anche qui ascolti molti se ne escono con un banale "ma sono solo scritte no?
   E la rete ci mette pure del suo: da ultimo la polemica si è scatenata in altre "arene" come quella dello shopping online. Lo Yad Vashem, il monumentale Memoriale dell'Olocausto di Gerusalemme, ha chiesto ufficialmente al gigante online di Jeff Bezos di bloccare la vendita di tutti i testi negazionisti che smentiscono la Shoah. Robert Rozett, direttore delle biblioteche dello Yad Vashem, ha detto di aver scritto direttamente a Bezos per "fermare l'odio". Per ora Amazon non ha ancora risposto in via ufficiale. Ma in passato, come ha dichiarato ieri alla Associated Press lo stesso Rozett, nei confronti di simili richieste il gigante del commercio online "ha più volte rifiutato di oscurare materiale offensivo in nome della libertà di espressione". E sempre su internet si è persino creata una "app" concepita - leggete bene - per individuare e indicare al pubblico ludibrio con nome e cognome i singoli ebrei da intimidire e forse colpire. Stava sullo store di Google Chrome, che si è affrettata a rimuoverla. Molti ebrei avevano deciso addirittura di sabotarlo e tuttavia resta il fatto che un minuscolo gruppo di farabutti riesce con un minimo sforzo a ottenere l'ascolto da un palcoscenico senza frontiere, senza controlli e senza confini. Ma è la rete no?
   Come ci si sente quando, intorno a te, migliaia di persone intonano un coro razzista o antisemita? Cosa si prova quando compare uno striscione infame e non puoi fare niente per impedirlo?
   Ci si sente uno schifo!
   Mi è capitato varie volte allo stadio: da italiano, da cittadino, da ebreo, sentirmi offeso e impotente di fronte a quest'odio insensato e orribile. Talvolta erano i tifosi avversari, talvolta quelli della mia squadra (la Roma). Mi sono messo a litigare, se potevo.
   Ora, ho sempre pensato che spargere questi semi dell'odio è soprattutto un atto di idiozia prima che criminale, è un vuoto della mente a causa del quale si viene affetti da accidia individuale e cattiveria collettiva, demoni ammantati di nuovi vestiti, e spesso giustificati come innocui sfottò o peggio ancora come satira, così come ci ricorda la storia italiana del periodo fascista .In questa cesura fra il dramma vissuto e il nostro presente apparentemente pacifico molti vivono nella narcosi di un silenzio assenso che butta nel cestino il passato. E si cela il pericolo - in questo gioco che assottiglia il valore dei gesti che si compiono - che tutto va bene e può essere giustificato. Odio e falsità vanno poi a braccetto come una dualità indivisibile e si nutrono a vicenda; e sugli ebrei con la scusa dei soliti clichè (lobby-potentati-multinazionali etc) si va avanti a colpi di offese con innumerevoli esempi che uno storico al di sopra di ogni faziosità come Paolo Mieli snocciolava già diversi anni fa, nel silenzio di molta stampa. Per alcuni risulterà esagerato ma credo che il disprezzo 2.0 (contro ebrei,migranti, omosessuali, neri etc) è molto più pericoloso e grave rispetto a decenni fa poiché striscia perfido fra un click e un altro salvo poi nascondersi dietro il non più ascoltabile "non l'ho fatto apposta! Jose Saramago ha scritto che noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere.
   Perciò caro idiota antisemita, non si odia né per scherzo né sul serio!

(Lettera 43, 28 febbraio 2017)


La danza degli uccelli migratori nei cieli israeliani, turisti affascinati

Nei cieli israeliani in questo periodo gli uccelli migratori, che qui si radunano per passare l'inverno, creano degli incredibili effetti ottici, spostandosi in stormi. Il volo coordinato di migliaia di uccelli è impressionante: macchie scure riempiono il cielo per poi andarsi a posare su tutto ciò che è disponibile man mano che si avvicina l'imbrunire. Nella città di Beersheba accorrono numerosi turisti per ammirare questa incredibile magia della natura. Nonostante ciò rispetto a 20 anni fa, per ragioni sconosciute, il fenomeno ha visto un notevole decremento.

(La Stampa, 1 marzo 2017)


L'"omocausto" immaginario

Lettera al direttore di La stampa

Caro Direttore, la bella iniziativa denominata «Treno della Memoria», nata per portare studenti a conoscere i luoghi simboli dell'Olocausto del popolo ebraico con in testa Auschwitz, si è trasformata, a cura degli organizzatori, in «Omocausto», con treni Lgbt esclusivamente dedicati agli omosessuali e alle lesbiche che persero la vita nei campi di concentramento nazisti e nella presenza, in tutti i Treni della Memoria, di attivisti del Torino pride e del Puglia pride, «per formare tutti gli accompagnatori sui temi Lgbt e su una corretta terminologia di genere» e segnalare agli studenti una situazione di attuale discriminazione di cui sarebbero vittime i gay a Vienna, Budapest, Praga.
Ma la legge 2011 del 2000 ha istituito il Giorno della Memoria al fine di ricordare «la Shoah (Sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, con l'organizzazione di momenti di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati, militari e politici italiani nei campi nazisti». Per quanto riguarda la Germania nazista, nei campi di concentramento finirono, ognuno con un proprio simbolo, oppositori politici, massoni, sacerdoti antifascisti, lesbiche, omosessuali, zingari, vagabondi, etilisti, malati di mente, prostitute, testimoni di Geova: una tragica pagina di storia che non consente però di giocare con le parole inventandosi uno sfacciato e indecente paragone fra un immaginario «omocausto» e l'«Olocausto» con l'eliminazione scientifica di sei milioni di ebrei.
Non crede che siamo di fronte a un'ambigua forma, non di negazionismo, ma di subdolo revisionismo, che tende a rimettere in discussione l'unicità dell'Olocausto, estendendola a una molteplicità di altre situazioni da condannare con forza, ma che nulla hanno a che fare con la soluzione finale della questione ebraica immaginata da Hitler?
Sen. Carlo Giovanardi


(La Stampa, 1 marzo 2017)


Omocausto! Indecente.


Netanyahu criticato per la gestione della guerra a Gaza nel 2014

Il Premier israeliano Benyamin Netanyahu duramente criticato da un atteso rapporto del Controllore dello Stato Yosef Shapira sul modo in cui venne condotta a Gaza l'operazione militare contro Hamas, nel 2014.
Falla principale: la sottovalutazione dei tunnel sotterranei costruiti da Hamas. Al centro delle critiche anche l'ex-Ministro della Difesa Moshe Yaalon e l'ex-Capo di Stato Maggiore Beny Gantz. Netanyahu si era così difeso alla vigilia della pubblicazione del rapporto:
"Abbiamo attaccato duramente Hamas, uno dei colpi più duri che abbiano mai subito. Abbiamo ucciso un migliaio di terroristi di Hamas, colpito i suoi leader militari, colpito le sue fondamenta, abbiamo agito con forza, responsabilità e nella piena collaborazione tra il livello politico e quello militare. Mai un governo israeliano aveva seguito così da vicino e con piena informazione un'operazione del genere" aveva detto Netanyahu in conferenza stampa lunedì 27 febbraio.
Il rapporto critica in particolare la mancanza di preparazione a livello militare e la scarsa comunicazione tra intelligence e governo. In particolare, i bombardamenti israeliani non ottennero lo scopo, cruciale, di neutralizzare i tunnel usati da Hamas.

(euronews, 1 marzo 2017)


Una conferma che in Israele è possibile accusare il governo, a ragione o a torto.


Sharia sull'Ontario

Una legge in Canada per difendere l'islam dalle critiche. ''E' il ground zero della libertà d'espressione".

di Giulio Meotti

ROMA - Il Parlamento dell'Ontario si è portato avanti con il lavoro, senza aspettare l'approvazione della mozione a livello nazionale. La politica liberal Nathalie Des Rosiers ha introdotto la mozione che condanna l"'islamofobia". A favore il procuratore generale, Yasir Naqvi, musulmano, e la premier Kathleen Wynne, che "come lesbica sono stata dissuasa dal presentarmi dove c'era una grande popolazione islamica, ma ce l'ho fatta". Il Parlamento canadese approverà la M-103, la prima legge di un Parlamento occidentale che mette l'islam al riparo dalle critiche.
   Un mese fa un estremista di destra era entrato in una moschea della città di Québec e aveva ucciso diversi fedeli musulmani in preghiera. Da allora, i liberal di Justin Trudeau hanno promesso nuovi strumenti per perseguire i crimini d'odio legati alla comunità musulmana. Anche a costo di cestinare la libertà di espressione e di parola. Una deputata liberal di religione musulmana e origini pakistane, Iqra Khalid, ha così depositato una proposta di legge che sta facendo molto discutere e approvata in prima seduta il 16 febbraio. Obiettivo della mozione di Khalid è combattere "il razzismo e la discriminazione religiosa sistematica" e in particolare "l'islamofobia". E come lo si fa? Mettendo un bel bavaglio a chiunque intenda esprimere opinioni critiche sull'islam. Ezra Levant, giornalista canadese molto esposto nella critica all'islam, ha già fatto sapere che lui non si piegherà a questa "intimidazione", assieme a parlamentari conservatori come Pierre Lemieux, Chris Alexander, Kellie Leitch e Brad Trost. I liberal hanno votato contro la mozione presentata dai conservatori che condannava "ogni forma di discriminazione religiosa", senza estendere una protezione privilegiata all'islam. "Il Canada è sul punto di approvare una mozione contro la libertà di parola che porterà il nostro paese a un passo dal sancire leggi sulla blasfemia islamica", ha detto Levant. "La M- 103 chiede al governo non solo di condannare l'islamofobia, ma anche di sviluppare un approccio per ridurla o eliminarla. Il governo canadese si prepara a far tacere chi critica l'islam". Nel 2005 l'Ontario consentì l'applicazione della legge islamica (sharia) negli arbitrati famigliari in casi come divorzi e custodia dei minori.
   Pierre Lemieux, che è in corsa per la guida dei Conservatori, ha detto che "la mozione impone una speciale protezione per una religione", l'islam, escludendo le altre. Liberi di attaccare il giudeo-cristianesimo, ma per l'islam si devono indossare guanti bianchi. Barbara Kay è intervenuta con un'editoriale sul National Post, descrivendo il rischio di una supremazia della sharia che "considera blasfemia qualsiasi critica a Maometto". Il rischio è quello di introdurre il reato di opinione e di colpire chiunque dissenta. Sul Toronto Sun, Anthony Furey ha scritto che "l'islamofobia si trasformerà presto in un'espressione onnicomprensiva per silenziare chiunque critichi la religione. Perciò sarà applicata anche se questi denunceranno gli estremismi come la sharia e i gruppi come i Fratelli musulmani".
   Durissimo anche Chris Alexander, ex ministro dell'Immigrazione, che ha definito la mozione il "ground zero" della libertà di espressione, "non solo per il Canada ma per il mondo intero". Il rischio è una proliferazione di casi come quello di Mark Steyn. L'Economist parlò di "polizia del pensiero" e di uno dei processi più inquietanti nella storia della libertà d'espressione. Autore del best seller "America alone", all'epoca numero uno delle classifiche canadesi, Steyn finì sotto processo a seguito dell'accusa di "islamofobia" rivoltagli dalle principali organizzazioni di musulmani canadesi sostenute da progressisti pro bono. Il testo incriminato di Steyn, "The future belongs to islam", era apparso sulla prestigiosa rivista Maclean's, per la quale scriveva Mordecai Richler, l'autore de "La versione di Barney" (Steyn gli è subentrato alla rivista). L'Ottawa Citizen chiese la chiusura di questi tribunali dei diritti umani "neo-maoisti". La scrittrice Natalie Solent si lamentò che "il Canada non è più un paese libero", mentre Steyn si difendeva dal vicino New Hampshire, dove si era trasferito. Attirato dal motto dello stato: "Vivi libero o muori".

(Il Foglio, 1 marzo 2017)


Israele e Arabia Saudita

di Giancarlo Elia Valori

 
Netanyahu e Saudi King Salman
In Siria, dal 24 Febbraio scorso, l'Iraq ha compiuto il suo primo bombardamento contro l'Isis, nell'area di Abu Kemal, ma il supporto tattico e informativo alle forze di Baghdad lo hanno dato Mosca e l'Iran, non gli USA, che pure hanno tacitamente permesso le operazioni.
Il che significa, peraltro, che Putin ha perso, per così dire, la pazienza e teme il nuovo frazionismo del potere a Washington, tra la Presidenza di Donald Trump e le agenzie di intelligence ormai schierate contro il nuovo Presidente; e quindi va avanti nelle sue operazioni in Siria con il sostegno dell'Iran e non, come prima era stato previsto proprio dai Servizi russi, con quello degli Stati Uniti.
E ancora, si suppone che gli USA non accettino il ruolo primario delle forze turche nella presa di Raqqa, la capitale del cosiddetto "califfato"; ma il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu, dopo la presa turca della città di Al Bab nel nord della Siria, ha annunciato che le forze armate turche continueranno le azioni verso Raqqa con il sostegno di Francia, Gran Bretagna, Germania, senza nemmeno citare gli USA.
Se quindi Washington sarà espulsa di fatto dal quadrante siriano, sarà irrilevante nel Grande Medio Oriente, se sarà effimera nel Grande Medio Oriente, l'America sarà del tutto marginale in Europa e, se Washington mancherà dall'Europa, non sarà un problema per la UE, che nemmeno se ne accorgerà, irrilevante anch'essa com'è, ma gli USA saranno comunque inesistenti nel Maghreb e in Asia Centrale.
Per la politica estera della UE, non sarà un pericolo l'assenza di Washington, la politica estera europea non esiste già nemmeno ora, figuriamoci in futuro-
Ma per la Russia e per la Cina significherà il "via libera" per la grande Eurasia programmata da Mosca e per la nuova Via della Seta, la Road and Belt Initiative, pensata da Pechino fin dal 2013.
In tutti e due i casi, si tratta della fine del nesso UE-USA come oggi lo conosciamo, ma a Bruxelles non se ne è ancora accorto nessuno, lasciamoli dormire.
E' proprio in questo contesto che va visto il rapprochement tra Israele e l'Arabia Saudita.
Tra il 21 e il 22 Febbraio scorsi, proprio mentre gli USA segnalano la loro debolezza in Medio Oriente e altrove, il capo dell'intelligence saudita, Khalid bin Ali al Humaidan, ha fatto visita, in gran segreto, sia a Ramallah che a Gerusalemme.
 Al Humaidan, recentemente nominato nel ruolo di capo del principale servizio segreto del Regno saudita, non appartiene, ed è la prima volta che ciò accade, alla rete dei più importanti principi della famiglia Al Saud, i "sette Sudayri", ma emerge unicamente attraverso una brillante carriera militare.
I Servizi sauditi sono, infatti, molto preoccupati dal progetto, autorizzato poche settimane fa dalla Guida Suprema iraniana Ali Khamenei e anche dal Presidente di Teheran Rouhani, quello che gli occidentali definiscono stupidamente un "riformista", un progetto che le FF.AA. iraniane definiscono Prima Riyadh.
 Si tratterebbe, per gli iraniani, di aggiungere altri 100 chilometri alla gittata dei loro SCUD-C e SCUD-D, che è oggi rispettivamente di 600 e 700 chilometri, per permettere al missile di raggiungere direttamente la capitale saudita.
 L'operazione di Teheran è messa in atto, oggi, presso la base di Al Ghadi nell'area di Ganesh, a circa 48 chilometri dalla capitale della repubblica sciita.
Al Ghadi è a pochi chilometri da Hamadan, la base che Teheran ha concesso all'aviazione russa che, peraltro, è stata già abbandonata dall'aviazione di Mosca, con qualche rimostranza da parte dell'Iran, lo scorso agosto.
La strategia della repubblica sciita è quindi chiara: invece di accettare diversioni o multipli conflitti regionali per procura, Teheran colpirà subito e direttamente il regno saudita con una salva missilistica tale da bloccare i suoi centri decisionali e gran parte della sua economia.
D'altra parte, proprio il 4 Febbraio scorso gli Houthy, i ribelli sciiti dello Yemen, hanno attaccato con un missile di tipo Borkan (ovvero Vulcano 1) che possiede autonomia media di 800 chilometri, il campo saudita di Al Mazahimiyah, a 40 chilometri ovest di Riyadh.
Il Borkan 1 è un missile balistico tattico sviluppato sul modello dell'R-17 Elbrus sovietico, ma non è molto probabile che questo missile a media gittata e a propellente solido sia stato lanciato proprio dagli Houthy, piuttosto si tratta invece della prima prova iraniana del nuovo SCUD a gittata maggiorata.
Cosa mai avrà detto il capo dei Servizi sauditi ai dirigenti palestinesi riuniti a Ramallah?
Avrà certamente detto agli eredi dell'OLP di smetterla di rafforzare i loro legami con Teheran.
Hamas e le Brigate Al Qassam hanno, fin dal 2014, pubblicamente affermato il loro rapporto politico-militare con la repubblica sciita, anche se Hamas è una emanazione della Fratellanza Musulmana sunnita che, pure, è da sempre il nemico sunnita numero uno del regno degli Al Saud.
Se precedentemente Hamas aveva rotto con Teheran, nel 2012, nella fase della stupide "Primavere Arabe" e sostenendo la legittimità politica del presidente Hadi in Yemen; oggi Haniyeh, il capo di Hamas nella striscia di Gaza, vuole il rapporto preferenziale con l'Iran per il suo appoggio finanziario e militare, mentre svanisce quello saudita e degli Emirati.
E ciò avviene anche se i dirigenti di Hamas accetterebbero in prima istanza e preferenzialmente il sostegno del Regno.
Appoggio alla lotta palestinese che, però, oggi non arriva "per cause interne al regime di Riyadh", come dicono le nostre fonti nella Fratellanza Musulmana nei Territori Palestinesi.
Vi è già stato, peraltro, un incontro tra delegazioni iraniane e palestinesi a Bruxelles, a metà del mese di Febbraio 2017.
E' questo incontro che ha allertato l'intelligence saudita.
La delegazione iraniana era stata tutta nominata direttamente dal Presidente Rowhani, il "riformista", mentre quella palestinese era diretta da Jibril Rajoub, che probabilmente Mahmoud Abbas, il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, nominerà suo vice nei prossimi giorni.
Rajoub è "persona non grata" per la Giordania, è emerso come leader al Congresso di Al Fatah del 2016 a Ramallah, non può entrare nemmeno in Egitto.
A Gerusalemme, il capo dei Servizi sauditi avrà parlato invece delle questioni afferenti alla prossima conferenza sul Medio Oriente proposta da Trump e dal primo ministro israeliano Netanyahu nel loro ultimo incontro.
Ma qual è, comunque, il rapporto attuale tra Israele e le petromonarchie del Golfo?
Gerusalemme ha mandato, lo ricordiamo, la sua prima missione diplomatica negli Emirati Arabi Uniti il 27 Novembre 2015, ad Abu Dhabi.
Ovviamente, sia per gli Emirati Arabi Uniti che per l'Arabia Saudita il rapporto con lo stato ebraico è funzionale al contenimento dell'Iran, nemico acerrimo di entrambi.
Ma c'è l'economia e, soprattutto, la tecnologia evoluta, essenziale per la diversificazione economica delle petromonarchie sunnite.
Il Qatar ha perfino tentato di mettere recentemente in atto alcuni canali diplomatici non ufficiali con Israele, canali che erano stati interrotti dopo le azioni militari di Gerusalemme nella Striscia di Gaza del 2008-2009.
I sauditi e le altre petromonarchie del Golfo sono sempre meno interessate ai palestinesi, ma sempre più avide allora di tecnologia di punta israeliana, che gli USA o non hanno o non vogliono concedere.
Fin dalla Guerra dei Sei Giorni, la dirigenza dello Stato Ebraico giocava le concessioni ai palestinesi per diluire la minaccia che gli Stati arabi ponevano alla sua stessa sopravvivenza.
La diplomazia di Gerusalemme ha sempre usato, poi, il modello della normalizzazione dei rapporti con la Giordania del 1994 per proporre azioni similari con gli altri Paesi della Lega Araba.
E, negli anni, il sostegno del Qatar ad Hamas e dei sauditi all'intera area militare e politica palestinese è diventato sempre meno appassionato e rilevante.
Il motivo primario è la colossale corruzione che impera nei Territori, che impedisce di fare affari anche ai referenti sauditi e degli emirati; mentre l'equazione strategica di Riyadh è sempre più rivolta verso l'Egitto di Al Sisi, feroce nemico della Fratellanza Musulmana, piuttosto che verso Hamas, che della Fratellanza è il braccio armato palestinese e, quindi, direttamente operativo nel Sinai.
Oggi, il sostegno dei sauditi e degli Emirati ai Palestinesi è sempre più tattico e vago, salvo evitare che l'Iran si prenda tutto il fiorente mercato degli "aiuti" alle forze militari della Autorità Nazionale Palestinese.
Riyadh non vuole il rapporto sempre più stretto tra Mahmoud Abbas e gli iraniani, né peraltro vuole sostenere una lotta militare contro Israele; e qui si noti l'assenza di Re Salman Al Saud dalla riunione del 25 luglio 2016 in Mauritania della Lega Araba, summit incentrato proprio sulla questione palestinese.
Già oggi i prodotti ad alta tecnologia israeliani e le tecnologie evolute per l'irrigazione sono entrate nel Regno tramite compagnie "terze".
Nel 2011, alcune compagnie israeliane hanno venduto tecnologia militare per 300 milioni di Usd agli Emirati, mentre i membri del Consiglio di Sicurezza del Golfo utilizzano tecnologie prodotte dallo stato ebraico per mantenere la sicurezza nei loro pozzi di petrolio.
Nel 2009, Riyadh ha perfino testato le sue difese aeree per verificare l'eventualità di un attacco israeliano all'Iran lanciato dal suo territorio, mentre il 53% dei cittadini sauditi vede, e sono dati del 2015, l'Iran come minaccia primaria, mentre Israele è considerato il nemico n.1 solo dal 18% dei cittadini del Regno.
Peraltro, Israele ha pubblicamente sostenuto la concessione egiziana delle due isole nel Mar Rosso ai sauditi nell'Aprile 2016, mentre la correlazione strategica primaria che interessa ad Israele è quella che riguarda il contrasto saudita o comunque sunnita alla penetrazione dell'Iran nell'universo palestinese.
Aziende derivanti dallo spin off dei Servizi israeliani vengono utilizzate dai sauditi per scandagliare il deep web, mentre gran parte della cybersecurity, negli Emirati, è di derivazione israeliana.
Sei miliardi di Usd in infrastrutture per la sicurezza sono stati recentemente spesi, sempre dagli Emirati, utilizzando ingegneri dello stato ebraico e società riconducibili a imprenditori israeliani.
Il tramite principale di queste relazioni, almeno a livello governativo, è Ayub Kara, un arabo-israeliano di fede drusa che è oggi ministro presso il gabinetto di Netanyahu.
E' un uomo del Likud, che non si fa nessuna illusione sul fine strategico dei possibili "amici" di Israele nella regione mediorientale.
Il punto di partenza per le nuove reti tra Riyadh e Gerusalemme è il Red Sea-Dead Sea Conveyance Project.
Il "Canale dei due mari" porterà acqua potabile da Aqaba a Lisan, nel Mar Morto, acqua disponibile per la Giordania, per Israele e per i Territori Palestinesi, oltre a poter generare energia elettrica, si trova integralmente su territorio giordano e verrà finanziato dal governo di Amman e da alcuni donatori internazionali.
La costruzione dovrebbe iniziare l'anno prossimo, e Kara, in particolare, sostiene la valorizzazione del porto di Haifa per il trasporto delle merci verso l'UE e la Turchia, oltre a immaginare un ruolo per il porto israeliano verso l'Arabia Saudita e la Giordania.
Un altro progetto israeliano al quale i sauditi sono interessati è la vecchia pipeline del Mar Rosso, una vecchia rete di 50 anni fa, costruita in collaborazione con lo Shah iraniano, da Eilat fino ad Ashkelon.
Evita il canale di Suez ed abbatte quindi molti costi di trasporto e politici del petrolio verso l'Europa e gli USA.
L'anno scorso una corte svizzera ha però accordato all'Iran 1,1 miliardi di Usd per il mancato guadagno, ma Gerusalemme si rifiuta di pagare l'Iran, come è facile immaginare.
Altre aziende israeliane del comparto sicurezza hanno venduto agli Emirati sistemi integrati per il controllo delle reti e dei flussi di persone, sistemi che servono anche per la supervisione remota dei pellegrinaggi alla Mecca e a Medina.
Le nuove coordinate strategiche del Grande Medio Oriente, quindi, saranno da un lato la gestione iraniana delle minoranze sciite in Bahrein, Yemen, Afghanistan, Arabia Saudita e Siria, dall'altro l'apertura dei sauditi ad ogni nemico dell'Iran che sia nell'area.
Gli USA continueranno la loro fuoriuscita dal sistema mediorientale, i russi diventeranno i veri e unici broker del potere militare e degli equilibri nella mezzaluna fertile, Israele creerà, se non vi saranno prossime crisi militari ai suoi confini oltre quella siriana, il punto di riferimento sia di Mosca che del mondo sunnita, orfano di Washington.
L'Europa sarà, come oggi, irrilevante e priva di idee.

(Il Denaro, 1 marzo 2017)


Rav Sacks: "Le bugie antisemite del Bds sono un pericolo per tutti noi"

Come testimoniano i fatti di Roma, con la cancellazione dell'iniziativa in Campidoglio legata al movimento che propugna il boicottaggio d'Israele, il Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) continua a cercare spazi per esprimersi e legittimazione. L'incontro nella Capitale, poi cancellato ufficialmente, rientra in quello che a livello internazionale è noto come l'Israel Apartheid Week, una settimana di appuntamenti il cui orientamento è già chiaro dal titolo: contestare in modo velenoso Israele e propagandare le tesi del Bds. In risposta a queste iniziative, rav Jonathan Sacks, già rabbino capo del Commonwealth, ha realizzato un video divenuto subito molto popolare sui social network in cui spiega perché "chiunque abbia a cuore una società libera" deve far sentire la propria voce contro il Bds...

(moked, 28 febbraio 2017)


California, allarme bomba in un centro ebraico

Paura al Merage Jewish Community Center: evacuate circa 1.000 persone

Militari al Merage Jewish Community Center
Un centro ebraico di Irvine, in California, è stato evacuato ieri pomeriggio a causa di un allarme bomba: lo riporta la Cbs Los Angeles. Circa 1.000 persone sono state evacuate dal Merage Jewish Community Center e dalla vicina scuola Tarbut V'Torah, scrive l'emittente sul suo sito. L'allarme è scattato alle 16:40 di ieri ora locale (l'1:40 di notte in Italia). Finora non è stato trovato alcun ordigno esplosivo.
In ogni caso le tensioni sociali provocate dai problemi razziali continuano a crescere negli Stati Uniti e gli episodi di antisemitismo aumentano, con decine minacce di attentati contro organizzazioni ebraiche registrate dall'inizio di gennaio. Lo scorso fine settimana oltre 170 tombe nel cimitero ebraico di St. Louis sono state vandalizzate. Uno dei tanti episodi di una serie di atti di antisemitismo, avvenuti in corrispondenza con l'entrata in carica del nuovo presidente Donald Trump.

(La Stampa, 28 febbraio 2017)


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Ancora «minacce bomba» contro scuole e centri ebraici

Ancora minacce di bombe contro scuole e centri ebraici in tutti gli Stati Uniti. Sarebbero 16, secondo fonti di stampa, i centri ebraici che hanno ricevuto telefonate minatorie, in dodici Stati diversi: Alabama, North Carolina, New York, Connecticut, New Jersey, Indiana, Pennsylvania, Florida, Maryland, Michigan, Virginia e Delaware. In alcuni casi le minacce hanno provocato l'evacuazione degli edifici. La nuova ondata, la quinta dall'inizio dell'anno, di telefonate minatorie contro centri e scuole ebraiche è arrivata dopo che durante il weekend sono state profanate decine di tombe nel cimitero ebraico di Filadelfia. La scorsa settimana i vandali avevano attaccato il cimitero ebraico di St.Louis, in Missouri. Durante il briefing con i giornalisti, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer ha detto che il presidente Trump è «dispiaciuto e preoccupato per questi episodi di violenza nei confronti della comunità ebraica americana.

(Avvenire, 28 febbraio 2017)


La Shoah ricompose l'anima ebraica dopo l'illusione dell'assimilazione

Goffaggine e orrore. Appelfeld e Arendt a confronto.

di Antonio Donno

 
                                             Hannah Arendt                                                                            Aharon Appelfeld
I profughi della Shoah vagarono a lungo in Europa, sperduti e, nello stesso tempo, desiderosi di trovare un luogo di approdo definitivo, ma "secondo me - scrive Aharon Appelfeld in Oltre la disperazione (Guanda) - un altro punto fece da catalizzatore per quei sentimenti contrastanti in cerca di armonia e, se volete, di sollievo: la terra d'Israele. Soltanto della Palestina la gente parlava in un tono che ricordava la fede". Molto spesso i sopravvissuti avevano perso la fede, perché la loro invocazione "Ascolta Israele", che avevano lanciato al cielo mentre erano in fila per entrare nelle camere a gas, non era stata ascoltata. Era il dramma esistenziale di un popolo che aveva subito "la devastazione dell'identità", compresa quella religiosa. Ora, però, per molti, la terra di Israele era il ritorno alla fede, all'antica tribù.
   L'ultimo romanzo di Appelfeld, Il partigiano Edmond (Guanda)- anticipato lo scorso gennaio dal Foglio - descrive la vita di una piccola parte della tribù d'Israele che si isola sulle montagne polacche e sopravvive alla deportazione. Uomini validi, bambini, donne, vecchi, malati, compongono tutti un microcosmo della tribù d'Israele: "Il nostro patto non può sciogliersi. Siamo legati da una fratellanza pietosa". La loro volontà è saldissima, il loro progetto è chiaro: "Non si può combattere un nemico così determinato senza amore verso la tribù, il suo Dio e le sue credenze". Il ritorno alla fede si traduce nella volontà di salire sempre più in alto, per sfuggire al nemico, ma soprattutto per sentirsi sempre più vicini a Dio. Raggiunta la vetta, si è compiuta l'aliyah, l'ascesa lungo la montagna polacca in cui si erano rifugiati, ma che per loro rappresenta il monte Sion, la salvezza per la piccola tribù, la meta ultima della loro fede, una sorta di ricomposizione del popolo ebraico in una terra che gli è ostile: quasi una sfida a chi odia gli ebrei e la dimostrazione che il popolo ebraico vivrà, a dispetto di tutti i suoi nemici. Arriverà, infine, l'Armata Rossa, pensavano, che ci ripagherà di tutte le sofferenze patite e ci darà la possibilità di ricostituire la nostra tribù, quel che resta del popolo ebraico. Illusione. La speranza diventa certezza per la piccola tribù di Israele: "Saremo sempre insieme, tutti coloro che sono stati sulla vetta la porteranno con sé ovunque. Porteranno con sé i vivi e quelli che sono spirati. Senza paura, stare insieme è come essere in una fortezza". E' ciò che Appelfeld sostiene in Oltre la disperazione: "Siamo abituati a pensare che la Seconda guerra mondiale abbia spento le ultime scintille di fede ebraica. Non è così. Come ogni eruzione vulcanica, la Shoah ha fatto emergere strati profondi". Lo dice lo stesso Edmond: "La Torah e l'amore ci tengono insieme qui e là". E Kamil, il capo del gruppo: "Siamo un'anima sola e dobbiamo custodirla". La Shoah ha ricomposto l'anima ebraica, dopo le illusioni dell'assimilazione nel mondo dei gentili. Gli ebrei sopravvissuti dovettero sostenere non solo l'orrore di ciò che avevano vissuto durante la Shoah, ma soprattutto il crollo di tutte le speranze di assimilazione in un mondo normale in cui avevano creduto negli anni Venti e Trenta. Dopo la Shoah, scrive Appelfeld in Oltre la disperazione, "la storia ebraica si è stagliata davanti a noi nella sua forma più distillata, faccia e faccia", senza possibilità di equivoci, senza doppiezze. E così, dopo l'orrore e la perdita, "in Palestina in quegli anni noi cercavamo piuttosto il senso della vita dopo la morte". La rinascita.
   Il tempo della "goffaggine" (Appelfeld) con la quale gli ebrei avevano aspirato all'assimilazione era definitivamente scaduto. Su questo tragico argomento l'analisi di Appelfeld collima con quella di Hannah Arendt, che in L'ebreo come paria (1944)- ora pubblicato nella sua forma integrale dalla Giuntina - stigmatizza il rifiuto di sé che caratterizzò la storia degli ebrei dell'Europa centrale, con esiti catastrofici. Scrive Arendt: "Come individui, essi iniziarono un'emancipazione di sé, dei propri cuori e cervelli. Una tale concezione era, naturalmente, un grossolano fraintendimento di quanto s'intendeva che sarebbe stata l'assimilazione". Così, popolo paria, quegli ebrei intesero affrancarsi dal proprio ebraismo, rinunciarono a essere inseriti nei vari contesti in quanto ebrei, "anziché scimmiottare i gentili o giocare al parvenu". Lo stesso concetto è espresso da Appelfeld come un'accusa: quegli ebrei "volevano forse che continuassimo a tessere la trama della negazione, a occultare le tracce dell'identità, sì che nessuno sapesse più chi e che cosa era?". Per Appelfeld il rifiuto della negazione di sé è stato Israele, ma non per Arendt.

(Il Foglio, 28 febbraio 2017)


Forse è già scaduto il tempo della goffaggine sionista laica: cioè l’assimilazionismo nazionale. L’illusione che il mondo possa accettare Israele come nazione tra le altre, uguale a tutte le altre, ormai è svanita. O forse no, non del tutto. E’ ancora tenuta in vita da quelli che dicono di volere “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”. In qualche caso è goffaggine, in molti altri è imbroglio. M.C.


Troppo sesso e corruzione, Ramallah vieta il libro giallo

Minacce di morte all'autore, ma i download si moltiplicano.

di Fabio Scuto

 
Abbad Yahaia
Un thriller scuote le strade di Ramallah. È di uno scrittore palestinese. Il sociologo e giornalista Abbad Yahaia autore del romanzo è in Qatar - dov'era per una fiera libraria - e adesso ha paura di rientrare ed essere arrestato. Il tema e lo sviluppo della sua «crime story» hanno fatto arrabbiare il procuratore generale Ahmed Barak che ha ordinato l'arresto e il sequestro delle copie (500) ancora nelle librerie di Ramallah. La famiglia, qui in città, vive tappata in casa perché è stata minacciata, la pagina Facebook di Abbad è piena di insulti e promesse di una rapida e dolorosa fine. Il presidente degli scrittori Murad Sudani si schiera contro di lui: linguaggio troppo esplicito, sesso, sangue. «Un romanzo che viola i valori nazionali e religiosi della società per tranquillizzare l'Occidente e vincere premi», commenta velenoso al telefono evadendo la domanda se ha letto o meno il libro. Ma c'è anche qualche ministro a cui piace e che prova a reagire, il dipartimento della Cultura dell'Olp diretto da Hanan Ashrawi ha chiesto di far cadere le accuse in nome della libertà di espressione. Il libro è introvabile in tutta la Cisgiordania - mai un ordine di sequestro è stato eseguito così rapidamente dalla polizia palestinese - ma tutti ne parlano, «Omicidio a Ramallah» ha scatenato un ampio dibattito pubblico fra i conservatori della società palestinese e la piccola minoranza liberale.
   Ma cosa c'è di così incompatibile con la morale da far paragonare questo thriller ai «Peccati di Peyton Palace» o ai «Versetti satanici» di Rushdie? La trama riguarda l'omicidio di una ragazza davanti a un bar dove lavorano il fidanzato e due altri giovani, le cui vite passate al setaccio da una polizia ottusa saranno devastate. Sullo sfondo dell'indagine prende luce uno spaccato inedito della società palestinese che finge di non vedere i cambiamenti che si stanno innestando. Il diffondersi della malavita e di piccole gang, i delitti d'onore che ancora si commettono, la corruzione, i dubbi sulle capacità della polizia, l'inanità dei politici. Su Facebook si sfidano pro e contro il romanzo. Ghassan K. scrive: «Yahia dovrebbe essere ucciso o espulso». Hussein M. loda il divieto: «Un libro distruttivo per le giovani generazioni». Gamal O. invece scrive: «Romanzo coraggioso, contro i tabù, avrei voluto che non finisse mai».
   Il libro uscito in sordina un paio di mesi fa, tirato in un migliaio di copie, è il quarto romanzo del ventinovenne Abbad Yahia - dopo «Ramallah la Bionda», «Giuramento» e «Telefono pubblico» - aveva venduto fino alla scorsa settimana qualche centinaio di copie. Fadi Gulan, libraio di centro città, racconta che in due mesi ne aveva vendute solo una decina di copie. «Il giorno del divieto ne ho vendute 17 copie, un paio d'ore dopo è arrivata la sicurezza per sequestrare tutto». L'editore Fuad Aleek è stato arrestato per strada «come un terrorista» dice lui, e trattenuto per 7 ore prima che il ministro della Cultura Ehab Bsaiso intervenisse.
   «Utilizzare il termine pubblica decenza è una forma di manipolazione e giustificazione inaccettabile - spiega senza mezzi termini la signora Hanan Ashrawi - perché non ha una definizione legale o logica. Apre le porte a una censura senza fine». E non sarebbe la prima volta, visto che basta criticare il presidente Abu Mazen sui «social» per essere fermati e interrogati, la deriva autoritaria è ancora più pronunciata negli ultimi anni con la repressione di ogni forma di dissenso. Il libro di Abbad Yahia piace perché racconta una storia in cui una generazione di palestinesi si riconosce e ritrova la vita di tutti i giorni e anche se il procuratore generale Barak l'ha fatto ritirare dalle librerie non ha ancora bloccato Internet, dove il download prosegue spedito.

(La Stampa, 28 febbraio 2017)


L'Intifada pentastellata

I grillini sono diventati uno dei partiti più ostili a Israele in Europa. Così nel giardino della "resistenza palestinese" vedono fiorire i garofani del progresso. Dai convegni alle mozioni, i grillini svenano per pregiudizio. La visione di Israele come avamposto colonialista.

di Giulio Meotti

Luigi Di Maio e Manlio Di Stefano a Hebron
ROMA - Due anni fa, i Cinque stelle, assieme ad altri "parlamentari per la pace", invitarono a Montecitorio Omar Barghouti, il fondatore del movimento per il boicottaggio di Israele, che accusa lo stato ebraico di "nazismo". Stavolta il palcoscenico doveva essere il Campidoglio, dove la giunta Raggi aveva concesso una sala al boicottaggio d'Israele. Relatrice Ann Wright, leader della Freedom Flotilla, l'imbarcazione che sotto la bandiera umanitaria aveva cercato di portare solidarietà a Hamas. Decisivo il ruolo dell'ex vicesindaco Daniele Frongia, attuale assessore allo Sport, legato alla filiale italiana di quell'nternational Solidarity Movement che promuove "campagne di resistenza non-violenta nei Territori palestinesi" e per il boicottaggiodi Israele. Frongia e i Cinque stelle avevano già organizzato in Campidoglio eventi come quello sugli "Accordi di Oslo", dove avevano invitato Diana Carminati, l'autrice di "Boicottare Israele". Ieri alcune associazioni, come il Progetto Solomon, avevano chiesto al sindaco Raggi di impedire di "trasformare uno spazio comune in un palco da cui arringare sull'estromissione di aziende e docenti" israeliani. L'incontro è saltato, dopo che si è sfilato uno degli oratori, Stefano Fassina: "Favorire il dialogo". "Il boicottaggio fa tornare alla mente la Germania nazista, dove ben prima dello sterminio si cominciò con il boicottare i negozi ebraici, in Italia abbiamo avuto effetti simili con le leggi razziali", aveva denunciato Ruben Della Rocca, vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, che aveva chiesto di "revocare la concessione di locali del Campidoglìo a questa pura campagna d'odio verso Israele condotta con metodi antisemiti".
  In Italia il Movimento Cinque stelle si è da tempo intestato la battaglia per l'emarginazione di Israele e la sua trasformazione agli occhi dell'opinione pubblica in uno strumento dell'imperialismo. E' questo il messaggio martellante che arriva dai pentastellati: nell'identificazione fra Israele, l'occidente e il capitalismo, noi uomini bianchi, contaminati dalle colpe del colonialismo, dovremmo coltivare i nostri rimorsi, e tacere, facendo tacere Israele. Israele, piccolo stato-santuario che raccoglie profughi di tre continenti, diventa così il simbolo dell'aggressione e dell'usurpazione.
  Questa piattaforma ideologica associa il Cinque Stelle ad alcuni dei partiti più ostili a Gerusalemme in Europa, Podemos in Spagna, il Labour corbiniano, il Front National di Marine Le Pen in Francia e lo Sinn Féin irlandese. Nel mirino della giunta Raggi c'è ad esempio l'intesa tra Acea spa e Mekorot WC ltd, firmato il 2 g del 2013 dall'allora primo ministro Enrico Letta e dall'omologo israeliano Benjamin Netanyahu. Già il 23 dicembre 2013, il gruppo capitolino del Movimento Cinque stelle, tra cui Virginia Raggi, disse che quell'accordo "contribuisce a legittimare le violazioni del diritto internazionale umanitario".
  Durante la guerra a Gaza del 2014, mentre Israele veniva ogni giorno puntellato di lanci di missili, i Cinque Stelle si preoccupavano di chiedere in Parlamento di fermare le vendite di armi a Israele e di ritirare l'ambasciatore italiano a Tel Aviv. Le posizioni espresse dai Cinque stelle, disse allora l'ambasciata israeliana a Roma, "sono simili a quelle espresse da altri gruppi estremisti, che si oppongono al sionismo e negano al popolo ebraico il diritto di vivere nel proprio paese, a prescindere dal limite dei suoi confini nazionali".
  A inveire contro Israele ci si sente sempre un po' grillini. Cosi, due settimane fa, Manlio Di Stefano, deputato e "responsabile esteri" dei pentastellati, ha definito "un abominio" la legge israeliana che legalizzava le colonie in Cisgiordania: "Il messaggio che Israele rivolge al mondo è che continuerà con le sue politiche di occupazione, di insediamento e guerra". Guerra? A inveire si finisce come il parlamentare pentastellato Paolo Bernini, che ha definito il sionismo "una piaga", con dovute dissociazioni dello stesso Di Stefano. O come un altro parlamentare, Stefano Vagnaroli: "Eccomi a Gerusalemme, città della pace dove l'uomo occupa, separa, violenta".
  A inveire contro Israele, si sa, ci si sente sempre un po' grillini. Così Alessandro Di Battista: "Quello che sta portando avanti Israele è un genocidio", niente meno. E ancora: "Siamo davanti a un'invasione, a una segregazione che dura da molti anni, con il popolo palestinese chiuso come fosse in una prigione". Poi arriva a spiegare che Israele è la causa dell'antisemitismo nel mondo: "Quello che bisogna semmai dire è che sono le azioni del governo israeliano la benzina gettata sul fuoco degli antisemiti nel mondo".
  I Cinque stelle hanno proposto sette passi per strangolare letteralmente Israele, fra cui il blocco di tutte le commesse di armi italiane nei confronti di Israele, lo stop degli accordi commerciali con le aziende israeliane che operano nei Territori e l'obbligo per l'Ue di identificare l'origine di ogni prodotto importato da Gerusalemme. Nelle mozioni presentate in Parlamento, i deputati grillini nella loro affabulazione spesso mistificano la realtà. E' successo a Gianluca Rizzo, che ha parlato in aula contro "la detenzione arbitraria di migliaia di palestinesi, compreso Marwan Barghouti, il 'Mandela palestinese'".
  Arbitraria fu la decisione di Barghouti di uccidere numerosi israeliani durante la Seconda Intifada, fatti per cui sta scontando cinque ergastoli. Benjamin Pogrund, il giornalista sudafricano che tenne incontri segreti con il leader sudafricano, ha sempre rifiutato qualsiasi confronto tra }landela e Barghouti, "I bianchi non dovevano preoccuparsi di attentati suicidi e sparatorie", ha scritto Pogrund, Ma i grillini forse la sanno più lunga.
  Anche quando si trova di fronte a una manifestazione palese e sfacciata di antisemitismo, il Cinque stelle nicchia. E' il caso del sindaco di Livorno, Filippo Nogarin. Accadde quando militanti appesero uno striscione sull'ex carcere del quartiere Venezia, non lontano dal municipio: "Fermare il genocidio a Gaza, Israele vero terrorista", recitava. Nogarin parlò di "una frase generica", di uno "striscione che aiuta a sviluppare un ragionamento", "perché è chiaro a tutti ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza", bisogna allora "far salire l'attenzione su questa nuova ondata di morte e terrore", cosi che "per me lo striscione può restare Il". A Livorno sarebbe poi scoppiato il caso del consigliere pentastellato Marco Valiani, che ha parlato di "giudeomassoneria italica", spingendo il presidente della comunità ebraica, Vittorio Mosseri, a scrivere al sindaco per chiedere "rispetto". Nogarin avrebbe concesso anche le sale comunali alla "Giornata per la Palestina". Giornate per la Palestina sì, Giornate della memoria meno. E' successo a Milano, Consiglio di zona tre, dove la grillina Patrizia Bedori, poi candidata sindaco a Milano per i Cinque stelle, ha votato contro le celebrazioni per la Giornata della memoria. Bedori sarebbe anche stata favorevole alle iniziative deliberate, ma secondo la "democrazia diretta" del Movimento, si è dovuto fare "portavoce" incaricata di votare come la maggioranza dei sostenitori decide. E la rete si era schierata contro la Giornata della. memoria."Il Consiglio di Zona dovrebbe dare i soldi per iniziative a favore di altri popoli oppressi, come i palestinesi", recitava la vox populi.
  Succede anche che l'Ordine dei giornalisti del Friuli Venezia Giulia organizzi corsi di formazione per giornalisti e che l'incontro "Gaza - testimonianze oltre il muro", veda la partecipazione del grillino Manlio Di Stefano. E' lo stesso Di Stefano che, un anno fa, ha parlato come oratore al "Festival della solidarietà palestinese" a Roma. E' lo stesso Di Stefano che sul blog di Grillo è andato davvero alla "radice" del problema in medio oriente: "Comprendere a fondo il conflitto israelo-palestinese significa spingersi indietro fino al 1880 circa quando, nell'Europa centrale e orientale, si espandevano le radici del sionismo". Sciocco pensare che il conflitto israelo-palestinese risalisse al rigetto del mondo arabo-islamico della presenza ebraica in medio oriente. Il problema sono "le radici del sionismo".
  C'è un avvertimento nel blog di Beppe Grillo. "Non sono consentiti: messaggi con linguaggio offensivo o turpiloquio; messaggi con contenuto razzista o sessista". Va detto che Grillo non è responsabile di quanto lettori e fan lasciano scritto sul blog e lui stesso ha chiesto alla magistratura di eliminare commenti disdicevoli (che spesso però continuano a campeggiare sul blog). Ma nel suo sito ricorrono messaggi tipo quello su Charlie Hebdo: "Quanta puzza di servizi e longa manu israeliana!... ". Campeggiano elogi alla "resistenza" contro Israele: "I Palestinesi, i Libanesi, i Siriani, gli Iraniani, gli Irakeni, gli Yemeniti,una volta, anche i pakistani, sono gli unici che combattono la prepotenza sanguinaria di Israele e le sue mire egemoniche in medio oriente. I sionisti, quindi, hanno come ostacolo per il compimento del loro disegno, proprio i musulmani perché, ribadisco, sono gli unici che gli resistono".
  A inveire contro Israele, si sa, ci si sente più grillini. E' successo spesso anche a Grillo: "I bambini palestinesi studiano. Studiano da terroristi e Israele è il loro miglior maestro"; "la Palestina è sotto il tallone di Israele, alleata degli Stati Uniti"; "dietro Israele ci sono gli Stati Uniti o dietro gli Stati Uniti c'è Israele, chi è la causa e chi l'effetto?". "Chi è che gridava 'dopo di me non crescerà più l'erba'?", disse Grillo in uno show del 2000. "Chi? Ve lo ricordate? Attila. Oggi gli israeliani cosa dicono, 'dopo di noi non cresceranno più palestinesi'". Il 24 Giugno 2012 in un'intervista concessa al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, Grillo disse: "Tutto ciò che impariamo nei confronti di Israele e il mondo arabo-musulmano è filtrato dall'agenzia di traduzione Memri; diretto da un ex agente del Mossad, che manipola e distorce le parole degli arabi a favore della propaganda israeliana".
  In questa sinistra affabulazione grillina succede anche che Luca Frusone, deputato pentastellato e membro della commissione Difesa, partecipi a un convegno che gli "Amici del Libano in Italia" hanno convocato per discutere di "medio oriente tra resistenza alla guerra imperialista, caos e migrazioni". Al suo fianco un parlamentare di Hezbollah, Nawar el Salili, mentre Sameer el Abdaly, membro del governo yemenita, ha inviato una lettera per la lotta "contro il regime di apartheid israeliano".
  La scorsa estate, il grillino Luigi di Maio e altri "compagni di viaggio" si sono visti rifiutare da Israele il permesso di entrare a Gaza. Un gesto notoriamente tabù nella politica europea, perché equivale a un riconoscimento de facto del regime islamista che governa la Striscia da quando Hamas fece un colpo di stato dieci anni fa.
  Ma a inveire contro Israele, si sa, ci si sente sempre un po' grillini. E sui fucili palestinesi si vedono fiorire i garofani del progresso.

(Il Foglio, 28 febbraio 2017)


Roma - Annullato il convegno anti-lsraele

Passo indietro di Fassina (SI) sulla conferenza in Campidoglio pro Palestina Gelo della Comunità ebraica romana: «È stato riparato un grande errore».

Il movimento Bds
È nato per il boicottare e proporre sanzioni contro Israele
Assemblea capitolina
Il presidente De Vito ha avviato accertamenti sulla vicenda

di Susanna Novelli

 
Il Campidoglio
Il passo indietro lo ha fatto, alla fine, il consigliere capitolino di Sinistra Italiana Stefano Fassina: la conferenza in Campidoglio del movimento Bds prevista per oggi nella Sala della Piccola Protomoteca non si terrà più. Una svista importante quella dell'ex ministro che se ne era fatto promotore con un suo intervento in programma e da parte del Campidoglio che non si occupa di effettuare una pur minima verifica degli eventi per i quali vengono concessi spazi istituzionali.
   Eppure sarebbe bastato un semplice «click» su internet e leggere solo la definizione del movimento per rendersi conto che dare spazio a simili, sedicenti «diritti» viola innanzitutto, come ben ricordato dal presidente dell'Assemblea capitolina Marcello De Vito, lo Statuto di Roma Capitale. «Bds Italia» si autodefinisce: «Sezione italiana per il movimento a guida palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele».
   Una definizione che già di per sé non sembri incoraggiare il processo di pace, così come aveva forse erroneamente intuito Fassina. Che anzi ci aveva pure provato domenica sera a "tamponare" la protesta: «Il sottoscritto nella messa a disposizione di una sala - aveva detto l'esponente di Sinistra Italiana - ha seguito, come ogni volta che arrivano richieste di sale, un elementare principio democratico: il Campidoglio è la casa di tutti i romani con posizioni coerenti con la nostra Costituzione repubblicana e antifascista. Tanto che più che nel mio previsto intervento ribadirò quanto mi è capitato di dire in passato: sono contrario a iniziative di boicottaggio perché rischiano di generalizzare e di avere come destinatario un popolo non le politiche di un governo».
   Un "romanticismo" di un'ideologia arcaica che ha però messo nei «guai», squisitamente politici, lo stesso Fassina. la sollevazione della comunità ebraica e praticamente di tutte le altre parti politiche hanno infatti ben poco di ideologico e molto di un messaggio di democrazia che, proprio perché tale, non può far passare tutto. E questo lo ha capito pure il consigliere capitolino di Sinistra Italiana che nel primo pomeriggio ha diramato una nota che tuttavia rinvia l'iniziativa: «Di fronte alle preoccupazioni e alle gravi valutazioni espresse in merito all'iniziativa del movimento Bds prevista in Campidoglio, ritengo necessario un approfondimento e incontri di chiarimento. Pertanto, sospendiamo e rinviamo la disponibilità degli spazi in Campidoglio per lo svolgimento dell'iniziativa. La situazione tra.Israele e Palestina - conclude la nota - richiede a chi ha incarichi istituzionali e vuole contribuire al processo di pace di favorire il dialogo, non provocare anche involontariamente un allontanamento delle posizioni».
   Gelo da parte della Comunità ebraica romana che nella nota diffusa non cita mai l'esponente di Sinistra Italiana ma, non a caso, il grillino De Vito: «Si è riparato ad un grande errore - dice Ruben della Rocca, vice presidente della Comunità Ebraica di Roma - la pace non si ottiene con il boicottaggio. Abbiamo apprezzato Marcello De Vito che si è speso molto per sospendere il tutto. Fa male però pensare che debba intervenire la Comunità Ebraica per chiedere di bloccare una iniziativa. Roma è una città di pace e deve essere al centro dei rapporti di pace fra le varie religioni. Israele anela la pace e se qualcuno non lo capisce, è in malafede. Magari proprio Roma fosse protagonista di una conferenza di Pace. Si è riparato ad un grande errore - conclude - che avrebbe portato la città di Roma a vivere un evento brutto. Evento che non avrebbe di certo aiutato».
   Nonostante le polemiche di alcuni esponenti del Pd e di Forza Italia, lo scivolone stavolta non si può proprio attribuire al sindaco Virginia Raggi. Ma a una sinistra che ancora rincorre ideologie di parte e a degli uffici, questo sì, un po' distratti.

(Il Tempo, 28 febbraio 2017)

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