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Notizie 16-31 gennaio 2015


Palermo - L'ambasciatore di Israele ricevuto da Crocetta e Orlando

L'arrivo di rappresentanti istituzionali a Palermo è un'occasione che gli amministratori locali non si lasciano di certo sfuggire per stringere rapporti di collaborazione, scattare foto di rito, intervenire sulle questioni più varie, manifestare la propria vicinanza a Paesi le cui problematiche tengono banco sui media internazionali.
Ed è così che la visita in città di Naor Gilon, ambasciatore di Israele in Italia, ha portato gran fermento alla presidenza della Regione, al Comune e a Confindustria Sicilia.
Il governatore Crocetta ha ricevuto Gilon a Palazzo d'Orleans. Presenti all'incontro l'assessore all'Agricoltura, Nino Caleca e Sami Ben Abdelaali, esperto per 'internazionalizzazione.
"Il presidente ha espresso - si legge nella nota stampa della Presidenza - la propria vicinanza al popolo ebraico per gli episodi di violenza accaduti negli ultimi giorni in Europa. Nel corso dell'incontro si è discusso anche della necessità di rafforzare il dialogo e la collaborazione fra Sicilia e Israele, soprattutto nel campo culturale ed economico, con particolare riferimento ai settori agricolo e turistico. Dall'anno scorso esistono voli diretti tra Palermo e Tel Aviv, che saranno riproposti anche nel 2015.
Ma Gilon ha anche incontrato il sindaco Orlando a Villa Niscemi insieme al presidente della Consulta delle Culture di Palermo, Adham Darawsha.
"La visita di oggi è stata un'importante occasione per fare il punto fra la realtà palermitana e siciliana, e lo Stato d'Israele, - ha dichiarato Orlando - e per riaffermare l'importanza del dialogo. Inoltre, nel colloquio, abbiamo discusso dell'importanza dell'incremento delle relazioni economiche e culturali tra questo paese e la nostra città".
"Con l'ambasciatore abbiamo parlato del lavoro che il Comune di Palermo sta portando avanti nella promozione della pace, anche in Medio Oriente, - ha spiegato il Presidente della Consulta delle Culture Darawsha - e Gilon si é mostrato molto interessato al grande impegno interculturale della Consulta e dell'Amministrazione comunale".
Gli industriali siciliani invece hanno incontrato Gilon presso la sede di Confindustria Sicilia. Obiettivo: creare opportunità di business fra le varie realtà imprenditoriali dei due Paesi, stabilendo un ponte nell'ambito della ricerca e dello sviluppo scientifico, industriale e tecnologico. Agricoltura, energia, sicurezza, financial technology, innovation, ambiente e acqua, sanità, start up e trasporto e infrastrutture i principali settori di interesse.
"Israele - ha detto l'ambasciatore Gilon - è molto simile alla Sicilia per grandezza e numero di abitanti e sono certo che le sinergie possono essere tante. Il primo settore della nostra economia è rappresentato dall'alta tecnologia, metà del Pil deriva da lì. Ogni anno, spendiamo il 4,5 per cento del nostro prodotto interno lordo proprio in ricerca e sviluppo e contiamo qualcosa come 5 mila start up. Non è un caso, quindi, che sul versante dell'innovazione Israele sia secondo al mondo dietro solo agli Stati Uniti".

(Tiscali, 16 febbraio 2015)


Profanate anche le tombe. Ebrei tornate a casa, l'Europa non vi protegge

di Fiamma Nirenstein

Prima, il terrorista islamico spara ai simboli della libertà dell'occidente, poi agli ebrei, simbolo di tutto il male. Così a Parigi, così a Copenhagen e il piano riguarda tutta la mappa del futuro stato islamico: il mondo. Ammazzare gli infedeli per preparare l'avvento del futuro califfato.
Così, in tutta Europa si ammazzano gli ebrei, il numero degli attacchi antisemiti è cresciuto del 436% nei primi sei mesi del 2014. In Francia sono state profanate centinaia di tombe in un cimitero ebraico di Sarre Union. Un rabbino di Copenhagen ha consigliato agli ebrei di non uscire di casa: stiano ben chiusi. Un deputato francese ebreo Meir Habib ha ricevuto il video di una decapitazione. Un giudice tedesco ha stabilito che bruciare la sinagoga di Wuppertal non è stato un gesto antisemita, ma motivato dal creare attenzione su Gaza!
«Ebrei, basta, venite a casa, vi aspettiamo a braccia aperte» ha detto Benjamin Netanyhau, primo ministro israeliano. Sa di infastidire Hollande e quelli che come lui dicono che «senza gli ebrei la Francia (o gli altri Paesi europei) non sarà più la stessa» e «proteggeremo le comunità». Non si intende, in Europa, cercare nella direzione giusta, ovvero nell'odio islamico che investe l'Occidente. Esso ha aperto le fogne dell'antisemitismo assassino che fece 6 milioni di vittime.
L'Europa è in pericolo come allora. Obama ha parlato della strage di Parigi comed i un evento «incidentale (random) compiuto da qualche sciagurato: «L'Islam non c'entra». Come lui Hollande, come lui la signora Helle Thoming Smith, primo ministro danese... Che vergogna, mentono mettendo a rischio la vita dei loro cittadini.
Sì, ebrei, meglio andare a casa dove si dice terrorista al terrorista. E se la Francia non sarà più la Francia, beh, non lo è più da tempo.

(il Giornale, 16 febbraio 2015)


"Come potete lasciare che ci chiedano di non essere ebrei per sopravvivere?"

Riprendiamo da “VareseNews” una lettera al direttore scritta ieri, quando già si sapeva dell’attentato di Copenaghen, ma non ancora della profanazione di tombe ebraiche in Francia. Ci si può chiedere perché mai cose semplici ed evidenti come quelle espresse con chiarezza dall’autrice di questa lettera facciano fatica ad essere capite, ma è proprio nella lettera che si trova la risposta. NsI

di Ariel Shmona Edith Besozzi

 
Ariel Shmona Edith Besozzi
Gli eventi hanno una successione temporale, si collegano tra loro in un ordine cronologico e per noi spesso si definiscono sulla base del luogo nel quale avvengono, delle modalità.
   Tutto questo spinge la stampa oggi a parlare dell'attentato a Copenaghen mettendolo in relazione diretta con quello di Parigi alla redazione del giornale CH. Sappiamo infatti che a Copenaghen si stava tenendo un incontro sulla libertà di stampa, proprio in relazione a quanto avvenuto a Parigi, sappiamo che era presente il vignettista che da quando, alcuni anni fa per ha utilizzato maometto è minacciato, subisce aggressioni e da allora vive sotto scorta. Sappiamo che era presente l'ambasciatore francese. Insomma due eventi strettamente correlati.
   Subito dopo questi due eventi sono accaduti altri due eventi: a Parigi sono state sequestrate e poi uccise delle persone in un negozio kosher, a Copenaghen è stato aperto il fuoco contro la Grande Sinagoga entro la quale si stava svolgendo un Bar Mitzva ed a perso la vita una guardia ebrea. Cosa hanno in comune questi due eventi? Hanno colpito ebrei, in quanto tali, nel momento in cui agivano in relazione a se stessi alla propria appartenenza, nel momento in cui "manifestavano" il proprio essere ebrei.
   Perché i giornali fanno tanta fatica a dire questo? Perché i giornali non dicono, subito, apertamente, che di nuovo vengono colpiti ebrei, luoghi ebraici? Perché nessuno si chiede come facessero a sapere che a Copenaghen a mezzanotte si stava svolgendo un Bar Mitzva nella Grande Sinagoga? Perché nessuno si chiede per quale motivo sia morto un ebreo che opponendosi all'attacco terroristico ha salvato la vita a quanti all'interno della Sinagoga stavano raccolti per un evento lieto? Perché non si chiedono per quale motivo, dopo che, nel 2012 lo stesso governo danese aveva dichiarato esserci un oggettivo percolo per gli ebrei, fuori dalla Sinagoga c'era la sicurezza della comunità ebraica a supportare forse la poca polizia messa a disposizione?
   A tutte queste domande esiste una sola risposta, ed è strettamente correlata agli attentati che hanno colpito la redazione di CH e la conferenza di ieri: l'antisemitismo che dal 1967 in Europa ha ripreso vigore (dopo, forse, una brevissima pausa!) legittimando il terrorismo islamico.
   Purtroppo ciò che contraddistingue l'azione politica e non solo, della maggior parte degli europei è l'incapacità di compiere quei semplici collegamenti che avrebbero dovuto portare oggi ad una situazione assai differente da quella che vediamo. Ciò che ha reso l'islamismo così aggressivo è stata una sostanziale
Il senso di colpa per la Shoah è durato giusto una ventina d'anni poi è stato facile inventare una nuova scusa per mettere lo Stato ebraico nella stessa posizione in
cui da sempre erano stati posti
gli ebrei.
e completa complicità europea, soprattutto attraverso l'appoggio alla cosiddetta "causa palestinese" contro Israele, lo Stato degli ebrei.
Il senso di colpa per la Shoah è durato giusto una ventina d'anni poi è stato facile inventare una nuova scusa per mettere lo Stato ebraico nella stessa posizione in cui da sempre erano stati (ma forse dovrei dire, sono) posti gli ebrei. Per questo ed altri motivi, la giornata della memoria appare il più delle volte come una ricorrenza vuota, non essendo di fatto elemento di autoanalisi ed autocratica per quelli che hanno reso possibile la Shoah e che oggi rendono possibili gli attentati antisemiti.
   Non mi interessa evidenziare, la sudditanza ai paesi arabi legata al petrolio, perché questa costituirebbe una scusa ad un comportamento che non può in alcun modo essere assolto.
   Credo che chiunque voglia ricostruire la storia dal 1967 ad oggi e verificare le scelte poste in essere dall'Europa in merito alla politica internazionale, piuttosto che l'inazione di alcuni paesi, come il caso dell'Italia che mai volle punire chi compì gli attentati della Sinagoga di Roma, dell'aeroporto di Fiumicino, dell'Achille Lauro, può farlo e troverà molto materiale su cui riflettere. Ciò che oggi risulta evidente è che perfino gli analisti, che dovrebbero essere in grado di guardare al medio-oriente con maggiore chiarezza, che hanno la possibilità di evidenziare le relazioni che esistono tra il famigerato discorso di Obama al Cairo e la situazione attuale, le correlazioni e le similitudini tra i vari gruppi terroristici e come questi si siano potuti rafforzare grazie alle politiche europee ed alla totale assenza della politica statunitense, quando quando si tratta di inserire nel ragionamento Israele hanno come una sorta di blocco atavico. Sembra non riescano a dire che hamas è un di cui dei fratelli mussulmani, oppure che Abbas è un negazionista (chissà se grazie alla nuova legge nel corso della sua prossima visita in italia verrà processato per questo!). Che ha dimostrato di essere totalmente inaffidabile che, come il suo predecessore Arafat, finge di trattare con Israele per poi fomentare gli attentati terroristici.
   Per la maggior parte degli analisti è come se ci fosse una specie di impossibilità di superare il proprio viscerale antisemitismo, quel desiderio profondo e neppure molto nascosto di fare finta che l'ebraismo non sia matrice essenziale della cultura occidentale, come se fosse possibile oggi, come in passato è stato tentato più volte, sacrificare gli ebrei alla belva. Che la belva fosse l'inquisizione, i nazisti o oggi il terrorismo islamico, non cambia nulla, l'idea che affiora per prima è quella di addossare la colpa agli ebrei.
   Allora c'erano le bugie su rituali mai esistiti nell'ebraismo, c'era l'accusa di deicidio, poi c'è stato il nuovo antisemitismo illuminista che pretendeva di azzerare la tradizione ebraica e che ha costruito il substrato
Sono trascorsi pochissimi anni ed i nuovi antisemiti europei si abbeverano alla peggiore propaganda prendendo per oro colato tutto quello che viene detto dagli arabi, dai negazionisti e dai neonazisti contro Israele.
sul quale si è innestata la possibilità dell'Affaire Deryfus e poi tutta la propaganda nazista alla quale, quasi per intero gli antisemiti europei si sono abbeverati per legittimare lo sterminio del popolo ebraico. Sono trascorsi pochissimi anni ed i nuovi antisemiti europei si abbeverano alla peggiore propaganda prendendo per oro colato tutto quello che viene detto dagli arabi, dai negazionisti e dai neonazisti contro Israele, dimenticando completamente che quegli stessi arabi che molti della sinistra credono essere un "popolo martire", in realtà sono stati al fianco di Hitler ed hanno fin da allora sposato completamente il nazismo.
   Se guardo all'Europa oggi ho l'impressione che ancora non sappia scegliere la libertà, che ancora non abbia imparato che la libertà, quella autentica nasce dal rispetto di regole condivise, che la capacità di vivere insieme non accade per il fatto che il forte sottomette il debole. L'Europa mostra ancora una volta di non esser capace di difendere le minoranze, finge di farlo ma in realtà si lascia dominare dalla cultura che maggiormente mostra d'essere aggressiva e machista: l'islam radicale.
   Ancora una volta l'Europa si sta lasciando sedurre da una dittatura e sta espellendo da se stessa l'unico reale antidoto, l'unica cultura e tradizione che ha mostrato nei secoli, fin dalla propria nascita, d'essere in grado di costruire se stesso su basi solide di amore e di rispetto: l'ebraismo.
   Spero che tutti gli europei che non hanno paura della libertà, che realmente desiderano una società più giusta e più equa sappiano per una volta ribellarsi all'antisemitismo, quello che è dentro la società europea e quello che è portato dall'islam, che sappiano scegliere di difendere gli ebrei, sappia ribellarsi risolutamente al fatto che ci viene chiesto, o nel migliore dei casi viene fatto presente che non è opportuno per noi, ebrei, esporre elementi che contraddistinguono la nostra identità.
   Chi ci sta chiedendo di rinunciare alla nostra identità? Chi sta imponendo la propria visione del mondo con la violenza e con il terrore?
   Se davvero abbiamo imparato qualcosa dalla storia passata è che la complicità, più che la violenza stessa, rende possibile uno sterminio. Se tutti i tedeschi prima e gli europei poi si fossero ribellati alla dittatura nazista, alla persecuzione nei confronti degli ebrei non ci sarebbe stata la Shoah. Ognuno di noi, ogni giorno può scegliere di farsi spaventare e di offrire il proprio vicino come vittima sperando che poi non arrivi il suo turno, cosa che sta già accadendo, oppure possiamo decidere di ribellarci definitivamente alla dittatura ed alla violenza, imparando come prima cosa a denunciare l'antisemitismo, a chiamare le cose con il proprio nome.
   Come potete lasciare che ci chiedano di non essere ebrei per sopravvivere? Voi stessi che permettete questo rinunciate alla vostra umanità, rinunciate alla vostra libertà, rinunciate a tutto ciò che fa dell'esistenza un qualcosa di unico che merita di essere vissuto.

(VareseNews, 15 febbraio 2015)


Si spera proprio che dopo una lettura come questa ci sia qualcuno, anche tra gli ebrei, che cominci a vergognarsi. E se chi legge è un ebreo di sinistra, forse potrebbe aiutarlo in questo la lettura di un altro articolo di Edith Besozzi che riportiamo qui sotto. M.C.


Sono Sionista

di Ariel Shmona Edith Besozzi

Sono nata e cresciuta in una famiglia per nulla religiosa, fin da piccolissima mi è stato detto che il rapporto con D_o era qualcosa di personale e che avrei dovuto valutare io, decidere come e se credere.
   I nonni paterni erano piuttosto religiosi, soprattutto il nonno ma in una maniera molto intima e privata, non era un uomo particolarmente loquace ed è sempre stato difficile per me parlare con lui.
   I nonni materni invece erano comunisti e da loro ho imparato la storia. Mio nonno era stato partigiano, catturato e deportato in Germania, mia nonna, allora bambina, ricordava con precisione il fascismo ed i bombardamenti. Mi hanno trasmesso, attraverso i loro racconti la loro "fede"; per questo motivo, fin da piccola, ho pensato fosse indispensabile lottare contro le cose che ritenevo ingiuste, inique. Inizialmente si trattava di reazioni piuttosto istintive che mi portavano a prendere sempre le parti dei più deboli o degli emarginati, crescendo è divenuto un impegno politico concreto che si è modulato attraverso la partecipazione alle proteste studentesche, poi all'attività sindacale fino a divenire parte integrante della mia vita.
   Non ho mai avuto paura di prendere parola, di far valere le mie ragioni o di difendere quelli che credevo avessero bisogno d'essere difesi. Mi sono mossa dentro alcune categorie rispetto alle quali credevo si potessero trovare indicazioni e risposte alla sensazione che provavo d'essere immersa nelle ingiustizie e nelle iniquità.ù
   Ho attraversato il lavoro in fabbrica con una sofferenza profonda che mi veniva soprattutto dal fatto di non poter condividere con le mie compagne di lavoro nessun pensiero, nessuna istanza. Mi sono trovata emarginata ed umiliata perché frequentavo le serali, derisa perché credevo che attraverso lo studio sarei riuscita ad uscire dalla fabbrica, cosa che puntualmente è accaduta. Nonostante ricevessi molta più
Lavorando e studiando mi sono trovata cooptata all'interno del sindacato rosso d'italia, portata come un trofeo: giovane donna, ho avuto tutti i ruoli che pensavo di desiderare. Credevo sinceramente di poter fare qualcosa di positivo per le persone con cui lavoravo.
solidarietà e stima dalle mie datrici di lavoro ho continuato a pensare a loro come nemiche ed a difendere le mie aguzzine con la mia abilità dialettica e lo studio dei contratti e delle leggi.
Proseguendo negli studi mi sono confrontata con donne sapienti capaci di destrutturare il mio pensiero attraverso la presa di consapevolezza d'essere donna; processo non indolore poiché, chi non era abbastanza interessante per loro, non veniva neppure presa in considerazione.
Lavorando e studiando mi sono trovata cooptata all'interno del sindacato rosso d'italia, portata come un trofeo: giovane donna, ho avuto tutti i ruoli che pensavo di desiderare. Credevo sinceramente di poter fare qualcosa di positivo per le persone con cui lavoravo, lo studio delle norme, della contrattazione, dei bilanci delle aziende, la costante lettura di giornali e libri mi ha mostrato le infinite possibilità di cambiare radicalmente l'ordine delle cose. Non sarebbe stato affatto difficile contrapporsi al capitale e far valere le ragioni del lavoro se solo si fosse creduto davvero che il lavoro è qualcosa di fondante per l'individuo.
   Il lavoro, l'opera umana, è la più grande ricchezza che ognuno di noi possiede ed è ovviamente la più grande ricchezza dell'umanità tutta. "Prerogativa dell'uomo nato libero e fornito di genio creativo". "Il lavoro è una grande cosa perché onora chi lo fa" (Talmud babilonese, Nedarim 49b).
   Credevo e ancora credo fermamente che questo sia vero, solo che ho capito che proprio le organizzazioni della così detta sinistra italiana (partiti, sindacati, associazioni di vario genere) non solo non lo credono, decisamente fanno il possibile per screditare questa idea.
   Ci sono voluti alcuni anni di militanza intensa ed assoluta, diverse ulcere ed una quantità enorme di accesissime discussioni ma alla fine ho capito che quelle "strutture" non centravano nulla con gli ideali di giustizia, equità, libertà collettiva ed individuale cui mi rifacevo.
   Non è stato semplice rinunciare alla visibilità ed al potere, ma ancora meno semplice è stato ritrovarmi a fare i conti con il mio desiderio di essere politica.
   Dovevo cercare altrove, più profondamente dentro di me, dentro la mia storia personale, famigliare… soprattutto mi trovavo senza fede, senza dio o, dovrei dire, senza idoli…
   Nel corso di quegli anni e di quelle esperienze non ho mai scordato d'essere ebrea, non ho mai scordato l'importanza d'Israele per me, troppi e troppo frequenti e stupidi gli attacchi per poter dimenticare.
   Nel 2008 sono andata in Israele, trascinandomi dentro ancora qualche idolo: Berlusconi è colpevole di tutti i mali d'italia (compreso il fatto che ho la cellulite), gli USA sono il male assoluto, è alternativo andare a sentire il concerto al centro sociale, i militari sono tutti assassini guerrafondai, a Genova le proteste
In Israele ho visto che la creatività può essere condivisa e collettiva, che il genio viene premiato e reso disponibile per il bene comune, che i militari sono ragazzi allegri ed informali, leali e generosi, che la libertà femminile non passa attra. verso una falsa emancipazione all'interno di una élite intellettuale ma si dichiara nella dimensione autentica di cittadinanza piena delle donne israeliane.
erano legittime, forse gli scrittori pacifisti israeliani hanno ragione, poverini i migranti dobbiamo a accoglierli tutti…
In Israele ho visto che la creatività può essere condivisa e collettiva, che il genio viene premiato e reso disponibile per il bene comune, che i militari sono ragazzi allegri ed informali, leali e generosi, che la libertà femminile non passa attraverso una falsa emancipazione all'interno di una élite intellettuale ma si dichiara nella dimensione autentica di cittadinanza piena delle donne israeliane.
Ho visto che se si vuole creare una nazione bisogna lavorare duramente e crederci fino in fondo.
Ho imparato che è possibile amare la vita e avere molti figli nonostante la possibilità d'essere continuamente attaccati; che si può essere assolutamente laici senza tradire la propria spiritualità e religiosità, perché è importante assumere la responsabilità di sé della propria vita, di quella della propria comunità e spesso del mondo.
   Ho abbandonato gli idoli ed ho trovato l'esito vivo di un socialismo reale, unico caso al mondo su base totalmente volontaria. Ho conosciuto una società che non smette di interrogare se stessa, che non smette di chiedersi conto delle proprie azioni. Ho trovato una nazione giovanissima ed antichissima ad un tempo ed ho capito, per esempio, che questa parola, "nazione" (Il complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica) non contiene in sé alcun male.
   Piuttosto mi sembra che in questo momento un certo internazionalismo stia facendo gli stessi danni che nello scorso secolo sono stati fatti da alcuni nazionalismi.
   Il percorso politico è sempre molto personale ed è indispensabile che resti tale nei suoi tratti fondanti perché proprio dalla fedeltà a se stessi è possibile trarre la forza per comprendere quali sono i propri idoli e decidere di rinunciare.
   Nel momento in cui ho dovuto assumere la consapevolezza che la situazione in cui versa l'italia è responsabilità di tutti quelli che, soltanto per incapacità, non sono riusciti a realizzare se stessi, i propri talenti e hanno lasciato che nella frustrazione e nell'invidia crescesse la legittimazione alla propria inazione, ho dovuto riconoscere le mie personalissime responsabilità per non essermi allontanata prima dalla così detta sinistra per non avere avuto il coraggio prima di denunciare i facili urlatori populisti che sulla stessa incapacità di assumere le responsabilità su se stessi dei molti accoliti stanno raccogliendo un facile quanto rischioso consenso.
   Oggi dopo essermi allontanata faticosamente ed a tratti dolorosamente da tanti dei miei antichi idoli guardo alle persone che definendosi di sinistra si scagliano contro Israele riconoscendo ancora una volta i tratti di chi piuttosto che conoscere e studiare preferisce assumere parole d'ordine e luoghi comuni, preferisce essere militante piuttosto che essere libero pensatore, preferisce credere ai complotti piuttosto che assumere su di sé la responsabilità di cambiare le cose.
   Hanno un vestito diverso dagli antisemiti del secolo scorso, ma il cuore è sempre lo stesso.
   Sono felice di dichiarare apertamente d'essere sionista, conosco il significato di questa parola, ne conosco la natura e ne conosco l'azione. Il ritorno a Sion fa parte dell'etica alla quale mi riferisco, la tensione ideale alla libertà che si riconosce nelle regole necessaire perché sia sempre collettiva prima che personale, la nostalgia di una pace profonda che trae forza dall'impegno alla vita, sempre, che si determina ogni volta che la paura mi coglie e nello stesso tempo mi abbandona perché so di poter tornare. Tornare a Gerusalemme, tornare a me stessa, tornare alla mia storia, tornare alle mie continue assenze da lei. Ciò che mi sostiene è la concretezza della terra, ciò cui anelo è la libertà dell'attraversamento del deserto.
   Sono sionista non so se sono di destra o di sinistra ma "francamente me ne infischio".

(Oggi, 21 agosto 2014)


Di Edith Besozzi avevamo già pubblicato l'articolo "Saranno i nuovi scienziati della razza a dire quale ebreo potrà vivere?"


Oltremare - Centimetri

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Questo è di gran lunga l'inverno più piovoso e freddo che ho passato, nei miei ormai sette anni israeliani. Soprattutto, il tempo tende ad essere pessimo nel weekend e bello durante la settimana, e dire che con tutte le magagne locali uno penserebbe che almeno la legge di Murphy potrebbe esserci risparmiata. Urge tener su il morale, anche in vista di elezioni faticose. E c'è una cosa cui ci appigliamo come all'ultima scialuppa di salvataggio del Titanic, ogni inverno bagnato o secco che ci sia: l'altezza delle acque del Kinneret (il Lago di Tiberiade).
Ogni giorno, ad ogni ora tonda, il giornale radio scocca i centimetri guadagnati nelle ultime piogge, e quando nevica sul monte Hermon è festa grande non solo per gli sciatori: tutta quella neve presto, ma davvero, molto presto, si scioglierà e porterà centimetri nuovi di zecca al nostro beneamato Kinneret. Il quale sta lì, placido che neanche il Piave, e poco più largo, in effetti.
L'ossessione nazionale per l'aumento dell'unico bacino d'acqua dolce del paese si rintraccia nelle chiacchiere da fermata di autobus "Ah, ma questi del Daesh sono degli assassini spietati!" "Beh, consoliamoci che il Kinneret è salito di sette centimetri". Un classico. Kinneret consolatore negli inverni piovosi, oppure fonte di immensa angoscia alla fine di estati torride, quando di acqua dal cielo non ne arriverà almeno fino a ottobre o novembre.
A dirla tutta, ne ha di strada da fare, per renderci davvero sereni quanto a risorse idriche. Passa il tempo fra due linee rosse, quella di sopra e quella di sotto, che essendo linee rosse non dicono nulla di buono. Ma il legame personale, quasi fisico, di ogni israeliano con il Kinneret è una delle definizioni di questo paese. Un luogo in cui allo stesso tempo si fanno furori al Nasdaq con l'ultima exit tecnologica miliardaria, e ci si preoccupa del centimetro in più o in meno d'acqua che porterà su o giù la produzione dei pomodori e l'umore della nazione.


(moked, 16 febbraio 2015)


Carpi - Domenica 1o febbraio apertura della ex Sinagoga e mostra fotografica

L?ex Sinagoga di Carpi
La Fondazione Fossoli informa della possibilità anche per il 2015 di visitare la ex Sinagoga di Carpi ogni prima domenica del mese a partire dal 1o febbraio. Dunque l'edificio di via Rovighi 57, oggi sede della Fondazione, sarà accessibile domenica con il seguente orario: mattino 10-13, pomeriggio 15-19.
L'ingresso è a offerta libera.
Presso la ex Sinagoga è inoltre allestita fino al 1o marzo prossimo la mostra fotografica Un viaggio lungo dieci anni, un viaggio per immagini attraverso gli scatti di 10 fotografi che nel corso degli anni sono saliti sul Treno per Auschwitz insieme agli oltre 5000 studenti che hanno partecipato a questa iniziativa.
L'esposizione è visitabile dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13, la domenica con orari 10-13 e 15-19.
La Sinagoga è stata progettata da Achille Sammarini e inaugurata nel 1861. La facciata di via Rovighi presenta severe linee neoclassiche. All'interno il problema dovuto allo scarso spazio per l'accesso al Tempio è risolto dal progettista con una geniale soluzione di scala concava. Il vasto ambiente di culto, decorato di stucchi e rivestimenti in scagliola con dorature e fregi monocromi, presenta un tabernacolo a colonne corinzie scanalate e timpano circolare e, sulla parete opposta, il matroneo.
Dalla fine dell'800 è chiusa al culto. Non sono più conservati oggetti sacri, trasferiti a Modena, e a Gerusalemme. Gli ambienti della ex Sinagoga sono stati restaurati e inaugurati il 19 aprile 2009. La Sinagoga non è accessibile ai diversamente abili. L'Antica Sinagoga costruita nel 1722 e posta nel sottotetto del Portico del Grano, ha visto di recente concludersi i lavori di consolidamento: a causa del sisma a tutt'oggi non è però ancora visitabile.

(Sassuolo2000, 31 gennaio 2015)


Quirinale, Pacifici: "Con lui Memoria condivisa. Lo aspettiamo nella nostra Grande Sinagoga"

ROMA, 31 gen - "In questo importante giorno per l'Italia ci congratuliamo con Sergio Mattarella eletto Presidente della Repubblica. Ci associamo, come hanno già fatto le forze politiche, nel riconoscergli i suoi alti valori morali e istituzionali per rappresentare il nostro Paese. Uomo di Giustizia, saprà sicuramente valorizzare il ruolo delle minoranze in Italia e saremo al suo fianco nella lotta contro il razzismo, la xenofobia e certamente nella lotta all'antisemitismo e alla sua moderna forma che è l'antisionismo, nel solco del suo predecessore Giorgio Napolitano che continuiamo a ringraziare per il suo impegno.
L'elezione di Sergio Mattarella rappresenta la garanzia che la Memoria non è solo un esercizio di retorica, bensì un cardine della Democrazia. Sull'esperienza della tragedia che ha colpito il popolo ebraico si può lavorare insieme per piantare i semi contro l'indifferenza. Quell'indifferenza che consentì, nel silenzio assoluto, lo sterminio di innocenti. In questo momento il pensiero va anche alla tragedia che ha colpito l'Italia e la famiglia del Presidente della Repubblica: rivolgiamo un ricordo al fratello Piersanti vittima del terrorismo della mafia.
Il primo gesto del Capo dello Stato è stato rendere omaggio alle vittime delle Fosse Ardeatine. Ciò testimonia come l'impegno per la Memoria non debba essere affidato solo al popolo ebraico ma a tutti noi italiani: quelle 335 vittime rappresentavano lo spaccato della società di allora vittima del nazi-fascismo. Il suo atto non è di certo casuale e darà una chiara impronta alla sua Presidenza.
Con il Presidente siamo inoltre pronti a condividere la lotta al Male che oggi colpisce il mondo libero. Ci riferiamo al terrorismo jihadista che in nome di un'interpretazione fanatica della religione islamica vuole distruggere l'unica democrazia del Medio Oriente, lo Stato di Israele, come prima tappa di un percorso che mira ad annientare l'Europa e le nostre democrazie.
Infine ci associamo al pensiero da lui rivolto a chi nel nostro Paese sta affrontando con serie difficoltà socio economiche la crisi del mondo del lavoro. Al Capo dello Stato inviamo i migliori auguri di buon lavoro certi di poterlo presto accogliere nella più antica Comunità Ebraica della diaspora Occidentale e all'interno delle mura della Grande Sinagoga di Roma".
Lo dichiara il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici.

(Agenparl, 31 gennaio 2015)


I ragazzi, la fabbrica di Schindler e quel quartiere pieno di stelle

Il luogo dove fu stilata la famosa 'lista' raccontata dal film di Spielberg ora è un museo dove rivivere la vita di Cracovia durante il nazismo. E a Kazimiers, dove visse la popolosa comunità ebraica della città, restano le tracce di una cultura annientata.

di Lara Crinò

 
I volti degli ebrei salvati da Oskar Schindler sulla facciata della fabbrica, oggi museo
 
La placca originale del tram che attraversava il ghetto: "Uso vietato agli ebrei"
 
Ragazzi del Treno della Memoria in visita dove sorgeva il ghetto di Cracovia
"In questa piazza ci fu il rastrellamento che portò alla liquidazione del ghetto di Cracovia, tra il 13 e il 14 marzo del 1943. Circa duemila ebrei furono uccisi per le strade che avete appena percorso. Gli altri che erano rimasti furono inviati ai campi. Qui, in questa piazza, rimase solo un'enorme catasta di mobili, provenienti dalle case che furono svuotate".
  Mentre la guida polacca racconta la storia del ghetto di Podgórze, dove dopo l'occupazione nazista di Cracovia fu stipata la popolazione ebraica della città, tra le sessantacinquemila e le ottantamila persone, i ragazzi del gruppo del Treno della Memoria che sto seguendo restano in silenzio.
  Una ragazza ha gli occhi lucidi, un altro accarezza con la mano una delle grandi seggiole-scultura in metallo che sono sparse per la piazza, un monumento alla memoria di uomini, donne, vecchi e bambini di cui non rimase nulla, se non qualche vecchio mobile.
  All'angolo della piazza c'è uno dei simboli della resistenza di Cracovia al nazismo, la farmacia del dottor Pankiewicz, l'unico non ebreo che restò a vivere nel ghetto, tenendo aperta la sua bottega e aiutando la popolazione.
  Qualche strada più in là, l'asilo ebraico che le SS 'svuotarono' mentre i genitori dei bambini che lo frequentavano erano al lavoro. Più in là ancora, il luogo di un'altra strage.
  Mentre camminiamo, la guida fa vedere ai ragazzi i lavori in corso per rinnovare il quartiere: "Tra dieci, vent'anni questo posto che è rimasto quasi uguale a com'era durante la guerra sarà irriconoscibile. Un pezzo di memoria di Cracovia scomparirà".
  Attraversiamo la Vistola verso Kazimierz, dove per seicento anni, fino al trasferimento forzato a Podgórze, è vissuta la comunità ebraica di Cracovia. "Da qui sono passati dotti e rabbini provenienti da tutta l'Europa Orientale. C'erano sette grandi sinagoghe, oltre cento luoghi di culto" spiega raccontando ai ragazzi tradizioni, leggende, usi alimentari della vita della comunità.
  Costeggiamo il cimitero ebraico, l'antica sinagoga con la cancellata punteggiata di stelle di Davide. E ancora i ristoranti ebraici per turisti, il Jewish Community Center, punto focale della piccolissima comunità di ebrei che oggi vivono qui. Da Kazimierz riattraversiamo la Vistola verso la Fabbrica di Schindler. Da cinque anni, la fabbrica vicino alla Vistola resa celebre in tutto il mondo è diventata un museo .
  La città di Cracovia, mi racconta uno dei curatori, Tomasz Owoc, ha acquisito l'edificio quando la ditta di materiale elettrico che l'aveva occupata dopo la guerra è fallita. "Abbiamo voluto fare un museo che non raccontasse solo la storia di Schindler, ma l'intera storia di Cracovia durante l'occupazione nazista. Tutta la popolazione di Cracovia ci ha aiutato, portando documenti, fotografie, manifesti dell'epoca". Il risultato è abbastanza straordinario, visivamente immediato e commovente. Qui passano trecentomila visitatori l'anno, molti stranieri. In due piani, attraverso una serie di piccole stanze a tema, si torna indietro fino al 1939 e poi avanti, in una spirale di violenza e terrore, fino al 1945. Quando Cracovia viene 'liberata' dai russi e cade, insieme al resto della Polonia, sotto l'ala sovietica.
  In piccoli gruppi, i ragazzi sfilano nelle sale. Fotografano tutto con i cellulari ma non si disperdono, non chiacchierano tra loro. Hanno all'improvviso, nello sguardo, qualcosa di più adulto. Vedono, appesi ai muri, i documenti di arresto dei professori e intellettuali polacchi stilati dai tedeschi appena presero possesso della città perché, commenta la guida polacca, "se vuoi togliere a un popolo la dignità e la libertà cominci subito annientando la sua èlite culturale".
  Vedono le fotografie originali dei soldati del Reich che tagliano le barbe agli ebrei ridendo e mettendosi in posa. Vedono la foto di Amon Göth, il famigerato comandante di Paszów che in 'Schindler's List' ha il voto di Ralph Fiennes, mentre imbraccia il fucile con cui sparava, a distanza, ai prigionieri del campo.
  Poco prima di cominciare il tour del museo, una delle guide italiane che aiutano Roberto Forte e Oliviero Alotto, presidente di Terra del Fuoco, ha tenuto loro una breve introduzione nell'auditorium della fabbrica. "Di quello che avete visto oggi, e di quello che vedrete ad Auschwitz non dovete mai pensare che è stata opera di un pazzo. Fu opera di una massa di persone che era stata convinta che quella fosse la cosa giusta da fare. E l'unica arma per difendersi dalla legge della grande massa è la cultura". I ragazzi applaudono.

(Espresso, 31 gennaio 2015)


Na'ama Goldman: "Canto l'ebraismo aulico e popolare"

Il mezzosoprano di Tel Aviv al Festival Liederiadi. Dalle melodie yiddish di Ravel ai brani di Argov.

di Nicoletta Sguben

Na'ama Goldman
Che c'azzecca una melodia funebre in antico ebraico scritta con maestria finissima da Ravel con una canzone di oggi che parla dei nuovi ricchi in Israele? Apparentemente nulla. In realtà sono poli di un unico mondo sonoro poliedrico, meticciato e fascinosissimo: quello della musica ebraica. A quel mondo s'ispira il recital della cantante Na'ama Goldman domenica mattina al Festival Liederiadi nella stagione di Milano Classica. Accompagnata dal pianoforte camaleontico di Giulio Zappa, la 29enne mezzosoprano di Tel Aviv - in Italia non è passata inosservata al Rossini Opera Festival di due anni fa - mette in scaletta il repertorio sofisticato delle raveliane melodie yiddish e dei lieder di Mahler, Korngold e Weill, con la musica popolare di Engel, Bat e Argov. Classico e contemporaneo, aulico e folclorico, ashkenazita (cioè del centro-est Europa) e mediorientale. Per un totale di 16 brani.

- Non è facile orientarsi in un programma così sfaccettato.
  «Non lo è nemmeno per me che vengo dalla lirica e canto Rossini e Verdi. Ma mi piaceva l' idea, per la giornata della memoria, di proporre una prima parte con grandi autori "classici" di origine ebraica (Ravel non era ebreo, ma s'ispirò al folclore semita) e una seconda più israeliana, attuale e popolare: nel senso che nel mio paese certe canzoni le conoscono tutti. Un po' come da voi quelle napoletane».

- Per esempio?
  «Quelle di Sasha Argov, che parlano della vita di tutti i giorni, dei nuovi ricchi che arrivano dalla Russia coi denti d'oro e i reumatismi, o quelle di Joel Engel che negli anni Venti del '900 ha raccolto la musica tradizionale folclorica trascrivendola in una forma di art song».

- Quanti tipi di voce bisogna avere per un recital del genere?
  «Nella prima parte la voce del cantante lirico: il lied fa parte del bagaglio della nostra formazione. Nella seconda ho dovuto trovare un compromesso fra la tradizione lirica e un idioma completamente nuovo che si esprime nella musica folclorica. Anche la lingua è diversa. L'yiddish lo parlano milioni di ebrei ma non è la mia lingua: ho dovuto impararlo; e nell'ebraico, la mia lingua madre, uso diversi livelli di pronuncia: quello liturgico antico, quello poetico e quello di tutti i giorni. La voce è libera: fra il colto e il leggero» .

- Che cosa l'affascina di più del programma?
  «Il fatto che mi appartiene. Canto la lirica, è vero, ma mia nonna era una cantante folk negli anni '30e '40. In un vecchio baule di famiglia ho trovato una canzone d'amore dedicata a lei da un soldato. La canterò come bis. Insomma, attraverso la voce della nonna la musica del territorio israeliano era già nella mia famiglia».

- Un territorio in costante stato di allerta: com'è viverci?
  «L'allerta è molto sentita nelle zone di confine. A Tel Aviv meno, ci si sente protetti. E c'è voglia di non fermarsi: continuare ad amare, a vivere, a fare cultura. Una vita normale, malgrado tutto».

(la Repubblica, 31 gennaio 2015)


Energia - AB apre filiali negli USA e in Israele

 
Impianto di cogenerazione AB
AB, produttore italiano di impianti di cogenerazione, aprirà due nuove filiali negli USA e in Israele, nell'ambito della politica di crescita internazionale dell'azienda.
AB Energy USA LLC è stata costituita il 26 novembre 2014 con sede nel New Jersey ed è già forte di un impianto realizzato nel settore greenhouse/serre e altri in fase di progettazione. Negli USA, la cogenerazione apre un mercato energetico di grandi prospettive: la politica di re-industrializzazione, voluta dal presidente Obama, pone particolare attenzione all'efficienza energetica ed alla riduzione delle emissioni inquinanti. Un impianto di cogenerazione, infatti, consente la contemporanea produzione di calore e di energia elettrica, riducendo i consumi energetici e l'inquinamento atmosferico.
AB Energy Israel è stata costituita l'8 dicembre 2014 ed è partecipata al 60% da AB Holding e dal 40% da ITEEO, una società di ingegneria emergente, impegnata sul territorio nello sviluppo di impianti di termodinamica. L'azienda inizia la sua attività dopo la scoperta, al largo delle coste israeliane, di due giacimenti di gas naturale. Sono in fase di realizzazione le infrastrutture utili a sfruttare questi giacimenti: ciò permetterà anche uno sviluppo del settore cogenerazione.

(Ambienti, Ambienti, 31 gennaio 2015)


La spaccatura nel califfato a caccia di soldi

di Fiamma Nirenstein

Sarebbe dovuto scadere ieri sera l'ultimatum dell'Isis che propone lo scambio fra il pilota giordano rapito e una terrorista detenuta ad Amman. Ma per ora non si muove nulla, e anche se la Giordania ha dichiarato la sua disponibilità, pure la mancanza di notizie certe sulla sorte del pilota blocca la situazione. Le perplessità sono da tutte le parti: non si sa se Kasaesbeth, il pilota, sia vivo, e in realtà la richiesta dello scambio l'ha bizzarramente gestita il prigioniero giapponese Kenji Goto, anche lui minacciato di morte. E anche l'Isis, nonostante l'inflessibile, criminale leadership di Abu Bakr al Baghdadi può avere momenti di dubbio: sembra che proprio ieri nelle ore in cui la Giordania doveva liberare la terrorista Sajida al Rishawi in cambio dell'ostaggio, si sia spaccata. Una buona parte del Califfato è convinta che il pilota, in quanto kafir, miscredente, debba essere ucciso comunque. C'è chi invece sostiene che lo scambio debba concludersi, e poiché la gente dell'Isis ha un caratterino, nella città di Raqqa si spara fra fazioni. Ma la diminuzione del prezzo del petrolio che dava all'Isis 2 milioni di dollari al giorno, le perdite a fronte della coalizione e dei Curdi, spingono parte della leadership a cercare successi e soldi.
    L'Isis è in pieno movimento: a Tikrit, a nord di Baghdad, i terroristi hanno fatto esplodere dieci palazzi che erano di Saddam; sempre ieri hanno attaccato le cittadine di Kaske e Aske. È anche una reazione alla pesante sconfitta subita a Kobane. Ma è la trattativa di questi giorni che ci mette di fronte alla pirotecnica politica dell'Isis. La gestione degli ostaggi (sono arrivati a essere 27 tutti insieme) è ultrasofisticata. Non basta che la loro nazionalità come anche quella dei carcerieri-boia sia multiforme (il primo decapitato americano James Foley fu sgozzato da un disk jockey inglese). Stavolta il povero giapponese, dopo aver mostrato la foto del compagno decapitato, ha imposto l'ultimatum per il giordano, anche se è lui stesso in attesa della propria esecuzione: è un incredibile groviglio che getta responsabilità a destra e a manca, i giordani diventano qui responsabili per i giapponesi, i giapponesi per tutti, inchiodati al loro ruolo nella coalizione e a non aver voluto pagare. Un messaggio è chiaro: per noi siete la medesima carne da decapitazione, infedeli. Un'altra novità è che l'Isis chiede al mondo che tuttavia disprezza qualcosa che gli interessa, dimostrando così che anche dalla casa degli infedeli si può ottenere qualcosa per trattativa, nella fattispecie la terrorista suicida di un attentato che costò 60 vite. Una tipa come loro. Non finisce qui perché di personaggi come la Rishawi ce ne sono tanti. Purtroppo.

(il Giornale, 31 gennaio 2015)


Grecia - Il ministro (ultrazionalista) Kammenos preoccupa le comunità ebraiche

L'arrivo del leader "Greci indipendenti" alla guida della Difesa solleva interrogativi in Israele.

di Maurizio Molinari

Panos Kammenos
GERUSALEMME - L'arrivo di Panos Kammenos alla guida del ministero della Difesa di Atene preoccupa le comunità ebraiche greche e solleva interrogativi in Israele. Kammenos è il leader del partito ultrazionalista "Greci indipendenti" ed è stato nominato alla Difesa dopo aver siglato il patto di coalizione con il partito di sinistra "Syriza" guidato da Alexis Tsipras.
    Divisi quasi su tutto, i due leader sono accomunati dal rifiuto dei "diktat" economici della troika europea ad Atene ma ciò che preoccupa gli ebrei greci è tutt'altro. Kammenos in dicembre fece scalpore per aver dichiarato, durante un'intervista tv, che "gli ebrei greci non pagano le tasse" additandoli di conseguenza come co-responsabili della pesante crisi finanziaria nazionale. Il governo allora in carica rispose parlando di "bugia" ed accusando Kammenos di "farsi portavoce di teorie cospirative, insulti e infamie generate dal lato nero di Internet". Un recente studio dell'Anti-Defamation League americana afferma in effetti che gli "stereotipi antiebraici sono molto diffusi in Grecia" portando a livelli molto alti di antisemitismo di cui si giova il partito neonazista "Alba Dorata".
    A sorpresa e disappunto delle comunità ebraiche greche, il governo di Israele ha aggiunto un silenzio impenetrabile. Il motivo è sulla bocca di tutti: la Grecia negli ultimi anni ha sviluppato molto la cooperazione militare con Israele - a cominciare dai test di aviazione a lungo raggio - occupando de facto il posto in precedenza avuto dalla Turchia ed ora l'interesse di Gerusalemme è conservare e rafforzare questo legame, proprio grazie a Kammenos. Tanto più che il partito di Syriza viene considerato "meno vicino a Israele" rispetto alla destra di Kammenos.
   
(La Stampa, 31 gennaio 2015)


Altro che libertà d'espressione. I musei d'Europa si censurano sull'islam

di Giulio Meotti

ROMA - Quando la Tate Gallery di Londra si era autocensurata ritirando l'opera "God is great" di John Latham (perché mostrava una copia del Corano), il critico d'arte Richard Cork accusò l'establishment britannico di aver svenduto la libertà d'espressione: "Quando si inizia a pensare così, il cielo è il solo limite". Adesso è stato stabilito un nuovo limite. Il Victoria and Albert Museum, il più noto e affollato della capitale inglese, ha prima esposto e poi nascosto al pubblico un ritratto del Profeta dell'islam, un'opera d'arte devozionale dell'immagine di Maometto. La paura di esporla fa seguito alla strage al settimanale francese Charlie Hebdo. Come scrive il Guardian, "musei e biblioteche britanniche custodiscono decine di queste immagini, per lo più miniature in manoscritti antichi, che sono tenuti fuori dalla portata del pubblico". La riproduzione di Maometto è stata eliminata anche dal database online del Victoria and Albert Museum: "Visto che il museo è già un edificio pubblico in allerta sicurezza, il nostro team ha deciso di rimuovere l'immagine", ha comunicato ai giornali inglesi Olivia Colling, portavoce della celebre istituzione londinese.
   Furiosi molti esperti di arte islamica. "Non c'è ragione artistica alcuna per cui quelle immagini avrebbero dovuto essere lasciate fuori", ha detto Christiane Gruber, esperta in immagini del Profeta all'Università del Michigan. "I dipinti di Maometto sono stupendi. Temo che i nostri istituti di cultura stiano ammutolendo queste significative opere d'arte islamiche a causa di una serie di paure. Questa è una perdita terribile per il nostro patrimonio artistico". Una litania della codardia che vanta altri casi importanti.
   La British Library incluse una immagine di Maometto nella sua esibizione di icone sacre, ma con il volto velato. Di recente, anche la Edinburgh University Library aveva reso omaggio a un manoscritto che conteneva molte raffigurazioni di Maometto, ma nessuna venne esposta nella mostra. Il Museo dell'Aia aveva in programma un'installazione di fotografie, comprese due maschere di Maometto e Alì. Sono state ritirate in fretta dal museo. E il Metropolitan Museum of Art di New York ha rimosso dalle proprie gallerie di Islamic Art ogni opera che contenesse immagini riconducibili al Profeta. Egle Zygas, portavoce del Met, ha motivato con una "semplice rotazione dei pezzi esposti, programmata da tempo". Magari qualcuno gli crede.
   E pensare che al Louvre, il tempio dell'arte di Parigi, se l'arte dei cristiani d'oriente è stata scacciata come troppo ingombrante, si è vista la creazione di un nuovo dipartimento di arte islamica, finanziato lautamente dal principe saudita al Waleed bin Talal, dalla compagnia petrolifera Total, e dai governi di' Oman, Marocco e Kuwait. Nell'inaugurarlo, la curatrice dell'arte islamica Sophie Makariou ha detto che il dipartimento avrebbe insegnato "la tolleranza e la diversità". Questo ovviamente prevede che non si mostri il Profeta.
   Ieri Libération aveva un lungo servizio dal titolo "Dopo Charlie Hebdo, la cultura si autocensura". L'ondata di attentati a Parigi ha spinto festival, musei e teatri a ritirare opere considerate "sensibili".
   Al celebre carnevale di Colonia, in Germania, non sfilerà il carro dedicato a Charlie Hebdo. "Non vorremmo un carro che limitasse libertà e leggerezza", si legge nella motivazione addotta dagli organizzatori della manifestazione. La preoccupazione di numerosi comitati di cittadini ha indotto il comitato a bandirne la presenza. "Non si può ridere di tutto", recitava il titolo del nuovo show a Parigi di Patrick Timsit, chiamato così giustamente. Il teatro Roundabout ha negato all'artista lo spazio per esibirsi, visto che il comico avrebbe abbracciato una bomba, in omaggio a una vignetta danese. Anche uno spettacolo sulla lapidazione delle donne nello Yemen è stato annullato. Non si sa mai. E sempre in Francia, due film, "Timbuktu" e "L'apostolo", sono stati deprogrammati da numerose sale cinematografiche.
   Tre giorni fa, il Musée Hergé di Louvainla-Neuve, dedicato al creatore di Tintin, aveva in programma una mostra per rendere omaggio ai vignettisti di Charlie Hebdo e alla libertà di espressione. Ma il sindaco della città, Jean-Luc Roland, e i curatori del museo hanno deciso che la mostra non s'aveva da fare. "La polizia ci ha presentato un resoconto dei potenziali rischi che potevamo correre e ai quali dovevamo stare attenti", ha fatto sapere il direttore del museo Nick Rodwell. "E martedì mattina abbiamo deciso di non aprire per non aumentare i rischi per lo staff del museo ma anche per i residenti della città". A Welkenraedt, sempre in Belgio, un'altra mostra che comprendeva un pannello dedicato a Charlie Hebdo è stato censurato.
   Il cielo è sempre più basso in tutta Europa. E' la soumission.

(Il Foglio, 31 gennaio 2015)


Quando Alcide non volle che mettessi la divisa

di M. R. De Gasperi

 
Alcide De Gasperi
Mia sorella Lucia ed io andavamo a scuola dalle suore di Nevers sul Lungo Tevere accanto alla Sinagoga e di fronte all'Isola Tiberina. Il mio posto, causa la mia statura, era all'ultimo banco vicino alla finestra, il che mi dava il vantaggio di poter vedere ciò che succedeva nell'isola dove è uno dei più noti ospedali della capitale. Ancora oggi, con le grandi piene, le acque del fiume raggiungono le basi del fabbricato ed io che allora amavo l'avventura, sognavo di vedere i letti degli ammalati galleggiare a mo' di barche sulle acque gialle del sacro Tevere. Con le suore si doveva parlare francese quando le si incontrava per le scale o nei corridoi dove il nostro «bonjour ma mère» doveva essere accompagnato da un piccolo inchino.
In compenso il nostro abito blu ci metteva a riparo dalle divise fasciste che erano portate da chi frequentava la scuola pubblica.
    Finché un giorno venne un'ispezione del Ministero che obbligava, anche per gli esami interni alla scuola, a indossare l'uniforme di piccole italiane. In casa De Gasperi questo fu sentito come un abuso e quando dovetti chiedere a papà se potevo acquistare quella divisa mi sentii rispondere: «Assolutamente no». «Ma allora, non posso continuare la scuola, come devo fare?». «Non studi», disse tranquillamente. I grandi sacrifici che il regime gli aveva imposto togliendogli la libertà, il lavoro, i contatti sociali e infine la sua carriera politica gli avevano suggerito quella dura risposta. Poi tutto finì quando la mamma mi fece fare una gonna nera a pieghe ed una camicetta bianca che poteva assomigliare, pur non avendo nessuno stemma, alla divisa richiesta. In questo modo ebbi la possibilità di sostenere i miei esami, ma appena giunta a casa tutto l'abito venne tagliato in piccole strisce per tacitare il nostro rimorso di avere disobbedito al pater familias.
    Noi ragazze non ci eravamo accorte della terribile tragedia che si andava consumando anche vicino a noi quando chiedemmo alle suore dove erano andate le nostre compagne di banco dal cognome ebraico. Non ci fu risposta. Gli ebrei di Roma nel freddo di quelle mattine condivisero la sorte infame di tutti gli ebrei d'Europa. Furono portati lontano, in silenzio, senza ribellione perché il fatto si presentava nella sua tragicità così fatale da non avere domande. Dopo la guerra, quando mi chiesero di aiutare gli ebrei che fuggivano dai Paesi dell'Est per raggiungere quella terra, al di là del mare, che non era ancora Israele, riuscivo ad ottenere da mio padre, presidente del Consiglio, un documento di passaggio dall'Italia per chi apparteneva a questo popolo in cerca di una patria.
    Conservo con grande cura un piccolo volume dei Salmi pubblicato in lingua ebraica dove c'è questa dedica: «A De Gasperi che ha lavorato per l'umanità con amore, energia e un profondo sentimento dell'eterna dottrina senza nessuna differenza tra uomini che appartengono a cittadinanze diverse».

(Avvenire, 31 gennaio 2015)


In che modo l'Iran accerchia il Golfo e Israele

di Khaled Abu Toameh (*)

Mentre il presidente americano Barack Obama continua a cercare un accordo sul programma nucleare iraniano, nelle ultime settimane, gli iraniani stanno operando intensamente per infiltrarsi nell'arena palestinese e ristabilire i legami con il loro ex alleato, Hamas. Incoraggiati dall'ossessione di Obama per i negoziati sul nucleare, che riprenderanno il mese prossimo, i leader iraniani sperano che Washington sia disposta a chiudere un occhio su ciò che fanno.
   Così gli iraniani si sentono liberi di intromettersi ancora una volta nelle questioni interne dei palestinesi, per rafforzare ulteriormente il loro potere in Medio Oriente. Con basi in Libano, Siria, Yemen e in Iraq, l'Iran ha circondato tutti i campi petroliferi del Golfo Persico. Dietro questo accerchiamento c'è il programma nucleare iraniano. L'obiettivo principale di Teheran è quello di riprendere il controllo del movimento islamista palestinese in modo da potersi trasformare in un attore del conflitto arabo-israeliano. Gli iraniani hanno già impegnato Hezbollah al confine nord di Israele. Tutto ciò di cui hanno bisogno ora è un altro gruppo terroristico a Gaza, a sud, per continuare l'accerchiamento. E stanno lavorando sodo per raggiungere questo obiettivo.
   Le relazioni fra l'Iran e Hamas erano diventate tese dopo il rifiuto del movimento islamista di appoggiare il regime di Bashar al Assad, cliente di Teheran, nella sua lotta contro le forze di opposizione siriane. Un'alleanza con Hamas permetterebbe all'Iran di sbarazzarsi delle accuse di guidare una fazione sciita nella lotta contro i sunniti. Hamas, da parte sua, è alla disperata ricerca di qualsiasi appoggio esterno, soprattutto in seguito all'accresciuto isolamento nelle arene palestinesi e internazionali. Il movimento islamista sta iniziando a intravedere la possibilità di ricostruire la Striscia di Gaza dopo la guerra della scorsa estate con Israele. I dirigenti di Hamas ora sperano che l'Iran ricominci a erogare aiuti finanziari al movimento evitando una rivolta palestinese.
   Inoltre, le severe misure di sicurezza egiziane lungo il confine con la Striscia di Gaza, come la demolizione dei tunnel usati per il contrabbando e la creazione di una zona di sicurezza, hanno stretto il cappio attorno a Hamas. I dirigenti del gruppi dicono di aver preso una decisione "strategica" per recuperare i legami con l'Iran. Ismail Haniyeh, già premier del governo di Hamas nella Striscia di Gaza, ha annunciato di recente che il suo movimento sta lavorando per stabilire "rapporti aperti" con Teheran. Un altro leader di Hamas, Osama Hamdan, ha dichiarato che le divergenze esistenti tra il suo movimento e l'Iran sono state risolte. Egli ha detto che Hamas instaura le sue relazioni con tutte le parti per fornire sostegno alla causa palestinese.
   "Accogliamo con favore chiunque appoggi la causa palestinese", ha chiosato Hamdan. "I rapporti tra l'Iran e Hamas si sono normalizzati". Allo scopo di rabbonire gli iraniani, il braccio armato del movimento islamista, le Brigate Ezzedin al-Qassam, ha emesso un raro comunicato per "ringraziare l'Iran di aver fornito armi e denaro", nel corso degli ultimi anni, a Hamas e ad altri gruppi palestinesi della Striscia di Gaza. Hamas sa bene che migliorare le sue relazioni con l'Iran comporterebbe anche un riavvicinamento a Hezbollah che agisce per conto di Teheran. Ecco perché il movimento islamista la settimana scorsa ha preso una serie di misure per ripristinare i rapporti con Hezbollah. Mohammed Deif, comandante delle Brigate Ezzedin al-Qassam, una settimana fa ha inviato una lettera di condoglianze al capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, per la morte di alcuni esponenti che sono stati uccisi in un attacco aereo israeliano in Siria.
   Nella sua missiva, Deif ha invitato Hezbollah a unire le proprie forze a quelle di Hamas contro "il vero nemico - l'entità sionista". Il riavvicinamento tra Hamas e l'Iran è un ulteriore segno del tentativo di Teheran di utilizzare i suoi alleati in Medio Oriente per distruggere Israele. I leader del movimento islamista ora sperano che l'Iran riprenderà a erogare al gruppo aiuti finanziari e a rifornirlo di armi. L'Iran non è interessato alla ricostruzione della Striscia di Gaza o a dare riparo a migliaia di famiglie palestinesi che hanno perso la casa durante l'ultima guerra. L'unica cosa che interessa a Teheran è trasformare Hamas in un altro esercito da utilizzare per attaccare Israele.
   Questo è tutto ciò che accade in un momento in cui l'amministrazione Obama è occupata a preparare un'altra serie di negoziati con l'Iran sul suo programma nucleare. È evidente ormai che Teheran usa questi negoziati per distogliere l'attenzione dai suoi tentativi di rafforzare il suo coinvolgimento in Medio Oriente, con la speranza di assumere il controllo dei giacimenti di petrolio ed eliminare Israele.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 31 gennaio 2015 - trad. Angelita La Spada)


Livorno - Il violino di Auschwitz suona al Mascagni

Un appuntamento eccezionale, protagonista lo strumento che una giovane ebrea deportata lasciò al fratello prima di essere uccisa.

 
Il violino di Auschwitz
LIVORNO - Al Mascagni il 2 febbraio un violino che ha suonato ad Auschwitz rompe il silenzio dell'Olocausto. Maria, una giovane ebrea morta nel lager lo aveva affidato al fratello, poi liberato dall'Armata Rossa L'iniziativa di Giulio Cesare Ricci e della Comunità Israelitica Livornese Nel pomeriggio di lunedì 2 febbraio, alle 18:30, nell'Auditorium dell'ISSM Mascagni a Livorno si terrà uno straordinario concerto, promosso dall'Istituto con la collaborazione della Comunità Ebraica Livornese, quando la violinista Anna Maria Fornasier, docente del Mascagni, darà voce a un "violino della shoah", strumento che ha suonato ad Auschwitz e torna a farsi ascoltare dopo un silenzio lungo decenni.
   Fornasier, accompagnata dal pianista Daniel Rivera, anche lui prestigioso docente del Mascagni, eseguirà pagine ispirate alla cultura ebraica: Kaddish, di Maurice Ravel, canzone composta nel 1914 su un testo aramaico del Libro di Preghiere degli ebrei; Kol Nidrei, serie di variazioni su melodie ebraiche, risalenti al VII e all'VIII secolo, che Max Bruch compose nel 1014; e infine Hebräische Melodie, del 1911, del russo Joseph Achron. L'iniziativa di Giulio Cesare Ricci, presidente uscente del Mascagni, ha trovato la piena e immediata adesione della Comunità Ebraica Livornese. Era a Cremona, Ricci, invitato nell'occasione in cui il violino, perfettamente restaurato, è stato presentato al pubblico per essere poi suonato nella ricorrenza della giornata della memoria, il 27 gennaio.
   "Ho subito pensato che questo strumento doveva suonare anche a Livorno" dice Ricci, "La nostra Comunità era una delle più ricche d'Europa e ha pagato un pesante tributo di vite alla barbarie delle leggi razziali e della follia di sterminio nazi-fascista". L'ha recuperato fortunosamente in una bottega antiquaria di Torino l'ing. Carlo Alberto Carutti - 91 anni segnati da un'inestinguibile energia vitale - imprenditore milanese, mecenate e collezionista, che ha recentemente affidato in comodato gratuito al Museo Civico di Cremona la sua prestigiosa collezione di oltre 60 antichi strumenti a pizzico. Sarà lo stesso Carlo Alberto Carutti che porterà a Livorno il Violino della Shoah.
   L'ingegnere, ospite della Comunità Ebraica cittadina, affiderà ad Anna Maria Fornasier il prezioso strumento per poi riprenderlo in consegna alla fine del concerto e dando, con la sua presenza, un rilievo particolare all'evento. Anche la famiglia Carutti, infatti, porta il segno della tragedia che sconvolse il secolo passato, quando il padre di Carlo Alberto dovette trovare rifugio in Russia. Da tempo l'ingegnere cercava uno strumento che fosse testimone dell'Olocausto; e di questo violino "sopravvissuto" è riuscito anche a ricostruire la vicenda, una storia terribile e bellissima, che testimonia dell'amore fraterno tra due giovani, più forte dell'orrore del lager, suggellato dalla comune passione per la musica.

(Il Tirreno - Livorno, 30 gennaio 2015)


Finanziavano Hamas dal Canada, sotto inchiesta due gruppi islamici

di Alessandro Di Liegro

Le forze armate canadesi sono stati il primo esercito occidentale a confrontarsi direttamente con le milizie terroriste dello Stato Islamico. Ora si trovano a combattere contro una minaccia che, però, proverrebbe da casa loro. La Muslim Association of Canada, la più grande associazione islamica del Paese, avrebbe fornito quasi 300.000 dollari ad Hamas, attraverso una fondazione ad essa collegata.
La MAC controllerebbe 20 scuole islamiche e 14 moschee nelle principali città canadesi e nelle regioni dell'Ontario, dell'Alberta e del Quebec; a Ottawa nel 2005, una di queste scuole è stata messa sotto inchiesta dall'allora Ministro dell'Educazione dell'Ontario a causa di un progetto antisionista scritto da uno degli studenti.
Dalle informazioni raccolte dall'agenzia di stampa QMI e riportate dal Toronto Sun, la MAC sarebbe direttamente collegata a un'associazione "umanitaria" chiamata IRFAN, revocata nel 2011 dalla corte federale di Ottawa, e inserita in una speciale lista di organizzazioni di stampo terroristico, nell'aprile del 2014, dopo che il Public Safety Canada ha dichiarato che il gruppo ha fornito, fra il 2005 e il 2009 circa 14.6 Milioni di dollari ad Hamas. Sia la IRFAN che la Muslim Association hanno entrambe base a Mississauga, vicino Toronto, e la seconda avrebbe fatto da testa di ponte per continuare il found raising destinato a raggiungere Gaza.
Da anni le forze di polizia investigativa stanno conducendo indagini su entrambe le associazioni, in special modo dopo alcune dichiarazioni a favore dei gruppi fondamentalisti egiziani legati ai fratelli Musulmani. I "mounties", come vengono chiamati i poliziotti canadesi, stanno procedendo con il "Project Sapphire", attraverso intercettazioni ambientali, sorveglianza diretta e agenti sotto copertura fra Toronto e Montreal. Il 28 Aprile 2014 gli investigatori hanno sequestrato computer, fondi e video promozionali che demonizzavano Israele.
Fra i membri della MAC sotto inchiesta ci sarebbe anche il sindaco musulmano di una città canadese. Nelle 113 pagine di mandato da parte del procuratore generale di Ottawa, è dimostrato come entrambi i gruppi di Missisauga fossero sotto stretta sorveglianza con l'accusa di finanziare il terrorismo internazionale. Fra le prove che le condannerebbero, ci sarebbe un transazione monetaria avuta luogo alla Moschea Al-Radwah, nella periferia nord di Montreal, controllata dalla MAC.

(Il Messaggero, 30 gennaio 2015)


Israele cambia volto, al via la campagna adv 'Almeno una volta nella vita'

di Fiorella Cipolletta

'Almeno una volta nella vita' è lo slogan scelto dall'Ufficio Israeliano del Turismo per rilanciare l'immagine del Paese. Un primo passo verso il rinnovamento era stato fatto già nel 2009 con uno slogan innovativo che presentava Israele come una destinazione per una vacanza 'Anima e Corpo', che punta a far conoscere nel continente europeo, e soprattutto in Italia, 'il Vero Israele', cioè quelle mete non strettamente legate al turismo religioso. Ora lo schema è davvero tutto nuovo, nuovo il concept, nuove le immagini. "Si è trattato di una sfida, la mia prima sfida lavorativa davvero importante - ha dichiarato a Today Pubblicità Italia Avital Kotzer Adari direttrice da pochissimi mesi dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano -. La nuova campagna si focalizza su tre immagini che sintetizzano a pieno la molteplicità della destinazione. Abbiamo voluto lavorare sul binomio bellezza ed energia, perché questo è ciò che fa la differenza".
Le creatività rispecchiano l'evoluzione dell'immagine della destinazione, meta irrinunciabile per tutti coloro che sono desiderosi di vivere la straordinaria esperienza di un viaggio in una terra tanto splendida quanto emozionante: Gerusalemme 'la Bella' che emoziona con il calore del tramonto dorato, simbolo di spiritualità irrinunciabile; Mar Morto che incanta come uno dei luoghi più vivi e vitali del mondo; Tel Aviv che non smette mai di stupire, giovane ed energica, meta sempre più ricercata da un pubblico giovane e non solo. Gli ampi body copy descrittivi chiudono con il claim 'Israele, la Terra della Creazione' un invito a camminare nella storia. Israele entra nel 2015 con sostanziali novità: nuova e giovane l'immagine e nuovo il volto di chi guiderà per i prossimi anni l'Ente a Milano. La nuova comunicazione creativa debutterà sulle riviste trade e di turismo "proprio da quello che è il nostro specifico settore vogliamo dare il primo kick off - sottolinea Adari -. Per essere 'on air' per la BIT di febbraio la campagna partirà fra 2 settimane per i primi 3 mesi dell'anno. Dal turismo procederemo poi verso il mondo dell'online presentando due formati, uno di 30 ed uno di 20 e a queste farà il lancio del nuovo canale su YouTube in italiano e una campagna Facebook e Google che partirà attraverso un mini sito dedicato. L'anima di Israele emozionerà anche sul web alternando le immagini più belle al payoff 'almeno una volta nella vita'". La novità più grande infatti è proprio nel pay off. "In una frase siamo riusciti a riassumere tutto il desiderio del pubblico sempre più curioso che vuole scoprire una terra inaspettata 'almeno una volta nella vita', ma non certo una sola volta - continua Adari -. Negli ultimi due anni gli italiani hanno cambiato modo di fare turismo. Fino a 7 anni fa Israele era considerata una meta di pellegrinaggio e attraeva sopratutto gruppi religiosi. Oggi gli italiani arrivano individualmente in Isralele che scelgono come city break e per i ponti, grazie ai voli giornalieri da Roma e Milano, ma anche da Venezia (El Al e Alitalia) e da Bergamo, Verona, Catania, Bari. Gerusalemme, rimane una destinazione multiculturale e affascinante, a sole tre ore e mezza di volo dall'Italia, la città più importante per le tre religioni monoteiste". Il pay off sarà anche il claim per il lancio del nuovo canale YouTube in italiano dedicato all'Ente che sarà collegato ai social network e al nuovo mini site. "Abbiamo voluto mantenere sempre questo chiusura - ha dichiarato Emilio Haimann - Presidente di Hi! Comunicazione, agenzia creativa che ormai da 9 anni lavora a fianco dell'Ente a Milano, "perché scoprire la Terra della Creazione è la realizzazione di un sogno". La pianificazione sarà realizzata da Havas Media Italia, centro media dell'Ente, che da ormai sei anni è partner di Israele a Milano.

(Pubblicità Italia, 31 gennaio 2015)



«A nome dell'Olp e dello Stato di Palestina, combattiamo con voi nella stessa trincea»

Il Fatah di Abu Mazen non esita a celebrare come "eroi e martiri" i terroristi Hezbollah.

All'inizio di questo mese, quando Jihad Mughniyeh, un comandante Hezbollah, è rimasto ucciso in un attacco aereo sul Golan siriano attribuito a Israele, anche il movimento Fatah, che fa capo al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha voluto esprimere solidarietà alla milizia islamista sciita libanese filo-iraniana. Figlio del famigerato capo terrorista Hezbollah Imad Mughniyeh (responsabile negli anni '80 e '90 di decine di attentanti con centinaia di morti in vari paesi del mondo, ucciso infine in un attentato a Damasco nel 2008), Jihad Mughniyeh era a capo dell'organizzazione terroristica sul versate siriano delle alture del Golan con l'incarico di stabilire basi missilistiche nella zona per poter sferrare attacchi contro Israele senza doverlo fare dal Libano. Nel raid, insieme a Jihad Mughniyeh è morto il generale iraniano Mohammed Ali Allahdadi, un esperto di missili balistici coinvolto nel progetto delle basi missilistiche vicino al confine con Israele. Insieme a loro, Mohammed Issa, altro ufficiale di Hezbollah responsabile del trasferimento sul Golan di missili provenienti da Siria, Libano e Iran. Lo stesso Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha dichiarato che il generale Allahdadi si trovava in Siria per fornire "consulenza militare" al governo siriano nella sua guerra contro "takfiri e salafiti" (estremisti sunniti) e contro "le trame del complotto sionista"....

(israele.net, 29 gennaio 2015)


Italia-Israele, a Roma la preview dell'asta per Iifca

Si terrà lunedì 9 febbraio a Roma presso la galleria Anna Marra Contemporanea di Roma la preview dell'asta per la raccolta fondi in favore dell'Iifca (Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti). Interverranno, tra gli altri, l'ambasciatore d'Israele in Italia, Naor Gilon, il direttore generale Sistema Paese della Farnesina, Andrea Meloni e il presidente dell'Iifca, Piergaetano Marchetti. Obiettivo dell'evento è sostenere e promuovere l'Iifca, creata in occasione del terzo Vertice intergovernativo fra Italia e Israele nel 2012, nata con lo scopo di promuovere e sostenere progetti d'eccellenza che vedono coinvolti le due nazioni nello scambio e nel comune interesse a sostegno della cultura. L'asta, che si terrà l'11 marzo al Teatro Franco Parenti di Milano, raccoglie trentasette artisti italiani e israeliani in una collezione curata da Giorgia Calò dal titolo [Sé-gni]. Tra questi, solo per citarne alcuni, Jannis Kounellis, Mimmo Paladino e Pietro Ruffo. Alla giornata di presentazione del 9 febbraio presso la galleria Anna Marra Contemporanea, seguirà dal 18 al 26 febbraio nella galleria Riccardo Crespi di Milano, la mostra [Sé-gni], in occasione della quale saranno esposti tutti i lavori che andranno all'asta.

(il Velino, 30 gennaio 2015)


I campi di addestramento di Hamas a Gaza

di William Booth

Un giornalista del Washington Post ha visitato i posti in cui Hamas insegna ai ragazzi tra i 15 e i 21 anni a combattere e usare fucili e granate.

Giovedì si sono tenute a Gaza le cerimonie di chiusura della settimana di addestramento di moltissime nuove aspiranti reclute del braccio armato di Hamas, il gruppo palestinese che di fatto controlla la Striscia di Gaza. Più di 17mila ragazzi di età compresa tra i 15 e i 21 anni hanno partecipato all'addestramento organizzato in una decina di campi nella Striscia di Gaza: hanno migliorato la loro abilità a usare il kalashnikov, a superare degli ostacoli, a portare il primo soccorso e a lanciare le granate, in modo da essere pronti a combattere la prossima guerra contro Israele. Hanno anche assistito a una lezione per imparare a maneggiare ordigni esplosivi improvvisati.
   Per la prima volta le Brigate Ezzedin al-Qassam, l'ala armata di Hamas, hanno organizzato la settimana di addestramento per i giovani palestinesi all'interno delle proprie basi, che finora erano considerate off-limits. L'addestramento - che si è concluso il 29 gennaio con la cerimonia di "diploma" per i partecipanti - è stato più serio rispetto ai tradizionali campi tenuti delle Brigate Qassam: hanno partecipato ragazzi meno giovani e il ruolo di addestratori è stato assunto dai comandanti stessi delle Brigate, vestiti con uniformi militari. Le Brigate hanno anche permesso a un giornalista del Washington Post di entrare a visitare due campi, non più di 30 minuti ciascuno, e di fare delle fotografie (altre fotografie sono state scattate da giornalisti di altre testate).
   Le Brigate hanno detto che i campi non sono stati organizzati per trovare nuove reclute, ma per rispondere a precise richieste dei giovani palestinesi. I critici dicono invece che l'addestramento è stato organizzato per rafforzare la popolarità di Hamas e distrarre i residenti dalle pessime condizioni di vita che permangono nella Striscia di Gaza: tra le altre cose, non vengono pagati gli stipendi dei dipendenti pubblici, non si sta portando avanti la ricostruzione dopo la guerra con Israele di quest'estate e non si è trovata una soluzione per eliminare il "blocco" della Striscia che non permette il commercio e il movimento di persone in entrata e in uscita.
   Secondo alcune stime di gruppi palestinesi e israeliani, nei cinquanta giorni di guerra di quest'estate contro Israele sono stati uccisi circa un migliaio di combattenti palestinesi. Gli analisti stimano che le Brigate Qassam, il gruppo più grande e organizzato tra le milizie che operano nella Striscia di Gaza, ha tra i 20mila e i 25 mila combattenti. Nonostante le pesanti perdite dell'ultima guerra, molti giovani di Gaza sembrano essere pronti a combattere di nuovo contro Israele. Ahmad Ismail, 16 anni, vestito con una maglietta nera delle Brigate Qassam, ha detto: «Ho ricevuto addestramento per usare le armi, specialmente i fucili, arrampicarmi sulle corde, marciare, sparare, lanciare granate con propulsione a razzo e sparare colpi di mortaio. Spero ora di potermi unire alle Brigate Qassam. Voglio combattere Israele. Voglio cacciare via gli israeliani dalla nostra terra. Sono pronto».
   Un funzionario israeliano ha detto che le Brigate non hanno particolari problemi a reclutare nuovi miliziani e ha aggiunto che Hamas sta «assemblando nuovi razzi più rapidamente che può»: centinaia ogni settimana, migliaia ogni mese. Ha detto che le milizie nella Striscia saranno ben armate nel giro di pochi mesi, nonostante la chiusura dei tunnel tra la Striscia e l'Egitto impedisca il trasferimento di materiali e tecnologia per la costruzione di altri tipi di armi. Il funzionario israeliano, rimasto anonimo per ragioni di sicurezza, ha anche detto: «La decisione di combattere una guerra spetta a Hamas, ed è politica. Dal punto di vista militare, loro sono pronti a cominciarla anche oggi».
   Ibrahim Shinbari, 15 anni, ha detto: «Sono venuto al campo perché volevo sapere come trattare gli ebrei quando invadono la nostra terra. Abbiamo imparato come usare una pistola. Voglio vendicare i miei amici e i miei vicini che sono stati uccisi dagli ebrei». Un suo amico, anch'egli a un campo di addestramento delle Brigate, ha detto: «Ogni giorno c'è qualcuno di Hamas che ci insegna qualcosa sul jihad e sulla sua importanza. Guardiamo dei video sulle operazioni militari fatte da Hamas nell'ultima guerra. [Le Brigate] sono l'esercito più potente in Palestina. Hanno dato una dura lezione agli ebrei».
   I campi di addestramento sono nascosti dalla strada da pile di sacchi di sabbia, ma sono a cielo aperto. Un soldato delle Brigate Qassam ha detto: «Non ci interessa cosa riescono a vedere i satelliti israeliani. Stiamo cercando di insegnare le basi». Il soldato ha anche detto che il primo giorno di addestramento le Brigate hanno dovuto rimandare a casa centinaia di ragazzi che avevano tra 12 e 13 anni: «Gli abbiamo detto di tornare il prossimo anno. Sono andati a casa piangendo».

(il Post, 30 gennaio 2015)


Autismo, sabato convegno Italia-Israele su insightfullnes

ROMA - Genitori e terapeuti uniti nella ricerca di mezzi comunicativi idonei a favorire il processo empatico nella relazione con il figlio autistico, per incentivare il suo sviluppo cognitivo. Un approccio sostenuto da risultati concreti, che saranno illustrati domani a Roma nell'ambito del seminario italo-israeliano promosso dall'Istituto di Ortofonologia (IdO) su 'Attaccamento e autismo: l'importanza dell'insightfullness genitoriale'. Una due giorni di formazione nella Capitale, nell'Aula Magna dell'Istituto comprensivo Regina Elena, in Via Puglie 6, dalle 9 alle 18.
Attaccamento sicuro nei bambini con disturbi dello spettro autistico' sarà infatti il tema che affronterà al convegno David Oppenheim, ex presidente del dipartimento di Psicologia e membro senior del Center for the study of child development dell'Università di Haifa. Lo studio si basa sulla constatazione che un numero significativo di bambini autistici sviluppa un attaccamento sicuro e si concentra sul ruolo della genitorialità nella promozione di tali attaccamenti.
In particolare, esamina l'importanza dell'insightfulness materno: la capacità di guardare al mondo interno del bambino, pensando alle motivazioni che guidano il suo comportamento.
"Sappiamo ancora poco sulle implicazioni a lungo termine del rapporto insightfulness-attaccamento. Nei bambini con sviluppo tipico, la sicurezza precoce è predittiva di esiti più ottimali nello sviluppo, in particolare del settore socio-emotivo- conclude Oppenheim- varrà anche per i bambini con autismo?".
Sono queste le domande a cui si risponderà alla due giorni dell'IdO. Per partecipare è necessario iscriversi inviando una email a scuolapsicoterapia@ortofonologia.it. Al termine del seminario sarà rilasciato un attestato di partecipazione.

(Dire.it, 30 gennaio 2015)


Nei kibbutz-fortini del Golan "Così Hezbollah ci assedia"

Fra gli abitanti in prima linea: temiamo i tunnel come a Gaza

di Maurizio Molinari, inviato a Maayan Baruch

 
Maayan Baruch
A 350 metri dal confine libanese sorge il kibbutz di Maayan Baruch dove gli abitanti vivono con l'incubo dei tunnel di Hezbollah. L'agguato con i razzi antitank al convoglio militare israeliano lungo la vicina strada 999 dimostra che i guerriglieri filo-iraniani sono sul piede di guerra e per Philip Pismanick, veterano della sicurezza del kibbutz, bisogna prepararsi al peggio. «I pericoli vengono dal cielo e da sottoterra» dice, dentro uno dei bunker in grado di ospitare trenta persone.
Ognuno dei 700 residenti ha diritto a tre quarti di metro quadrato di spazio. «Abbiamo costruito un quartiere di rifugi» spiega Pismanick, nato ad Atlanta in Georgia, «perché questo kibbutz viene bombardato dal 1947, prima lo facevano i libanesi, poi lo ha fatto l'Olp e ora sono gli Hezbollah».

SCAVATRICI NELLA ROCCIA
Durante la guerra del 2006 sono caduti 16 razzi ma nelle ultime 48 ore Hezbollah ha cambiato arma: lancia colpi di mortaio perché sa che le batterie di Iron Dome non li intercettano.
«Non possiamo perdere tempo a indovinare che cosa ci tireranno contro - aggiunge Ortal, volontaria nelle unità di emergenza e madre di una bimba di 9 mesi - e dunque abbiamo rinforzato al massimo i bunker». Ora sono ricoperti da grandi massi perché quando un proiettile cade «le rocce si spezzano e disseminano mentre il cemento può essere perforato».
Ma il pericolo maggiore viene da sottoterra. Yoram, capo della sicurezza, lo spiega così: «Sappiamo che Hezbollah sta scavando tunnel sul modello di quanto fatto da Hamas a Gaza, per questo l'esercito li cerca». Il riferimento è a quanto sta avvenendo a Zarit, nella Galilea Occidentale, dove da 48 ore i militari perlustrano il terreno cercando tunnel Hezbollah. Pismanick parla di «situazione nuova» perché «finora si pensava che scavare tunnel nel terreno roccioso fosse quasi impossibile» ma «adesso sappiamo che esistono macchine ad aria compressa in grado di scavare qualsiasi terreno, procedendo un metro al minuto».

TUTTI ARMATI
Ciò spiega perché Yoram ha organizzato una copertura 24 su 24 ore di ogni angolo del kibbutz, gestita dai residenti d'intesa con soldati e polizia. «Se sbucano dai tunnel e iniziano a sparare - dice Pismanick - la difesa è il primo membro del kibbutz che incontrano, deve essere armato e pronto». È in questo clima che cova irritazione con il governo di Benjamin Netanyahu per non aver lanciato una massiccia rappresaglia dopo l'uccisione di due soldati nell'area delle Fattorie di Shebaa, fra i confini con Libano e Siria.
Nel kibbutz di Snir, a ridosso del luogo dell'agguato, Yosi Hashalomi è furente: «Viviamo qui da sempre, conosciamo gli Hezbollah, la risposta deve essere poderosa altrimenti tornano a colpire». Shosha Tzuella, guida per turisti, rincara la dose: «Netanyahu doveva rispondere spianando le posizioni Hezbollah in un'area di 20 km». Snir è un kibbutz di matrice socialista, gran parte dei residenti votano a sinistra, ma su Hezbollah criticano Netanyahu da destra. «Sono terroristi e devono essere trattati come tali, senza sconti né fidarsi di impegni che violeranno» aggiunge Asa, 65 anni, in cui nonno tedesco arrivò in Galilea dopo la Notte dei Cristalli del 1938.

ATTACCHI SOFISTICATI
Se a Maayan Baruch prevale la paura dei tunnel ed a Snir la rabbia contro il governo, nel villaggio di Nevè Ativ vive un ex ufficiale che dà una lettura più militare. Kobi Marom è l'ex comandante della brigata dell'Hermon, ha avuto per anni la guida della difesa di questi confini, e per spiegare cosa pensa ci accompagna sulla cima innevata del monte più alto della regione. «Hezbollah ha una nuova strategia - dice, indicando i luoghi di cui parla - lancia razzi dalla Siria verso di noi per estendere il fronte di conflitto, puntando a colpire hotel o turisti, mentre dal Libano compie attacchi di guerriglia, sofisticati, per portare il scompiglio nelle nostre retrovie». Sono le avvisaglie del nuovo conflitto che Hezbollah vuole combattere.

(La Stampa, 30 gennaio 2015)


L'incubo dei terroristi

L'avvocato Darshan- Leitner vuole mandare in bancarotta la guerra santa. Finora è riuscita a togliere un miliardo di dollari agli islamisti.

di Giulio Meotti

Nitsana Darshan-Leitner
Nitsana Darshan-Leitner combatte il terrorismo con la penna e con la carta. I suoi campi di battaglia sono le corti di giustizia di Israele, dell'Europa e del Nord America. Figlia di ebrei iraniani, Leitner quando creò il suo studio legale, Shurat HaDin, o Centro legale israeliano, lo fece senza un centesimo. Una sorta di Erin Brockovich israeliana. Da allora, Leitner ha perso soltanto una causa su sessanta, ottenuto un miliardo di dollari in risarcimenti dagli sponsor del terrorismo islamico e congelato beni al jihad per 600 milioni di dollari.
Leitner ha rappresentato centinaia di vittime del terrorismo in casi contro il Jihad islamico, Hezbollah, al Qaida e l'Autorità palestinese. L'ultima causa che ha avviato presso la Corte dell'Aia è contro il leader di Hamas. Khaled Meshaal. Ma anche contro paesi come l'Iran, la Siria e la Corea del nord. La sua causa la perse quando nel 1995 Leitner si infuriò per il fatto che a Muhammad Abbas, uno dei terroristi palestinesi che avevano preso parte al dirottamento della nave da crociera Achille Lauro nel 1985, era stato concesso di tornare in Israele. Decise di rivolgersi alla Corte suprema israeliana. Leitner non aveva mai sostenuto una causa prima. Perse, ma i magistrati non le fecero pagare le spese legali. Fu una mezza vittoria.
   Da allora, Leitner avrebbe fatto causa anche all'Unione europea per i fondi ai palestinesi dirottati al terrorismo o all'incitamento all'odio. Bruxelles gode di immunità diplomatica quindi il caso non è arrivato in tribunale. Ma l'azione di Leitner ha spinto l'Unione europea a vigilare meglio su come vengono impiegati i fondi. La sua organizzazione ha anche impedito che la seconda flotilla per Gaza salpasse dalla Grecia. Leitner minacciò le navi greche messe a disposizione dei "pacifisti".
   Fra i suoi maggiori successi c'è stata una causa da 378 milioni di dollari contro la Corea del nord. Leitner accusò il regime comunista di aver foraggiato i gruppi terroristici che nel maggio del 1972 fecero strage di passeggeri nell'area ritiro bagagli dell'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Ebbe l'idea di rivolgersi a una corte federale americana, interessata alla vicenda poiché gran parte delle vittime di quell'attentato proveniva da Porto Rico. Esecutori del bagno di sangue (26 morti e 80 feriti, in maggioranza pellegrini cattolici portoricani) furono tre terroristi dell'Armata rossa giapponese arrivati in Israele con un carico di armi su un volo proveniente dall'Italia. Poi Leitner ha ottenuto 338 milioni di dollari dalla Siria per il sequestro di archeologi in Turchia nel 1991 e 70 milioni dall'Iran.
   Quando arriva un giudizio a lei favorevole, Leitner fa copie della sentenza e la spedisce a tutti i suoi amici, anche a chi all'inizio ha cercato di scoraggiarla, dicendo che era una follia, una crociata inutile. In questo modo l'avvocato ha costretto i terroristi di Hamas a usare i tunnel, anziché le banche europee, per muovere il denaro. Fu all'università, studiando legge, che questa donna capì che avrebbe usato la sua esperienza per fermare i terroristi. Erano anni terribili per lo stato ebraico. Nel 1974 i terroristi fecero irruzione in una scuola elementare a Maalot e uccisero ventuno bambini; poi bombardarono una strada trafficata di Gerusalemme nel 1975, uccidendo 15 persone; sbarcarono sulla spiaggia di Tel Avive presero ostaggi al Savoy Hotel, uccidendo otto israeliani; e dirottarono un autobus lungo la strada costiera tra Tel Avive Haifa, uccidendo 38 israeliani. Nei primi anni Novanta ha incontrato Avi Leitner, un immigrato americano che era cresciuto nell'attivismo per i diritti civili degli afroamericani contro il Ku Klux Klan. Fu l'inizio, oltre che di una famiglia con sei figli, di un sodalizio che vuole mandare in bancarotta la guerra santa.
   Leitner ha preso di mira anche Mohammed Khatami, l'ex presidente iraniano, a nome delle famiglie ebree i cui cari erano stati imprigionati e torturati perché intenzionati a fuggire dall'Iran quando Khatami era in carica. Leitner attese che Khatami venisse a parlare alle Nazioni Unite, a New York. Una sera Khatami doveva parlare al Council on American-Islamic Relations di Washington. Per ottocento dollari non si poteva solo andare a cena, ma anche ottenere una stretta di mano e una photo opportunity con il turbante nero. E consegnargli anche una citazione in giudizio.
   E' stato però nel febbraio 2002 che la vita di questo avvocato è definitivamente cambiata. La sentenza riguardava il caso di Ira Weinstein, autista dell'autobus numero 18 a Gerusalemme nel febbraio 1996, quando un attentatore suicida si fece esplodere uccidendo venticinque israeliani. La squadra di Leitner aveva presentato una denuncia per conto della sua famiglia nel Distretto di Columbia contro il governo iraniano, sostenitore dei terroristi di Hamas che avevano effettuato l'attacco. Nel febbraio 2002, il giudice federale costrinse Teheran a pagare 183 milioni dollari di risarcimento.
   Il Centro legale israeliano ha già esportato il suo modello al di fuori del medio oriente, aiutando le vittime del gruppo terroristico colombiano delle Farc e dell'Ira irlandese. Lo scorso autunno, Newsweek ha dedicato alla Leitner un ritratto dal titolo "The Woman fighting Isis in court". Sì, perché l'avvocato israeliano ha fatto causa anche a chi fa affari con il califfo al Baghdadi. Alle banche che ricevono il denaro proveniente dalle vendite del petrolio. Si dice che la Cia assista la Leitner in questa causa.
   Se le banche hanno filiali negli Stati Uniti o in Canada, Leitner li può perseguire in giudizio grazie al Patriot Act e al Canadian Anti-terrorism Act. Uno dei successi di Leitner ha coinvolto la Bank of China. La Corte suprema dello stato di New York ha emesso una storica sentenza: le vittime israeliane degli attacchi terroristici organizzati da Hamas possono procedere contro l'istituto di credito cinese. La Bank of China era stata accusata infatti dallo studio Leitner di non aver fatto nulla per bloccare il trasferimento di denaro verso i gruppi islamisti di Gaza. Soldi che poi sono stati usati per acquistare i missili lanciati verso lo stato ebraico.
   Inoltre Leitner si è dedicata alle organizzazioni non governative (ong) della carità. Associazioni come Rashid Trust (pachistana), Islamic Heritage Revival Society (Kuwait), Al Haramain (Arabia Saudita), Holy Land e World Islamic Charity, Perché gli oboli raccolti nelle moschee in occidente vengono spesso incanalati dalle ong verso i jihadisti, dietro al pretesto dell'aiuto agli affamati e ai senzatetto. Di 156 milioni di dollari l'ammontare dei risarcimenti ottenuti dalla Leitner da queste charities islamiche che agiscono in Europa e America.
   Ogni volta che c'è un attacco terroristico, la sua squadra comincia a costruire lentamente il caso. Come quando fece causa all'American Express per i milioni trasferiti da Hezbollah tra il 2004 e il 2006, denaro poi utilizzato per compiere attacchi missilistici sulle città israeliane. Leitner ha anche lanciato una campagna pubblica per salvare la vita di Imad Sa'ad, un agente di polizia palestinese accusato di aiutare l'intelligence israeliana nella caccia ai latitanti. Era stato condannato a morte da un tribunale palestinese. Leitner è riuscita a salvargli la vita, e a fargli scontare la prigione.
   Nel 2002, il suo team si è messo sulle tracce dell'ex ministro della Difesa siriano, Mustafa Tlass, uno dei più famosi uomini del regime di Bashar al Assad, a nome della famiglia Shatsky, la cui figlia era stata uccisa in una pizzeria nel centro commerciale a Karnei Shomron nel nord-ovest della Samaria, a est di Kfar Saba, da un gruppo terroristico finanziato da Damasco. Ha presentato una denuncia a Washington contro la Siria, sostenendo che ha fornito il supporto fondamentale per il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, i cui membri realizzarono l'attacco suicida. Il caso è ancora pendente.
   Leitner incarna lo spirito ebraico di emancipazione, la convinzione che le vittime del terrorismo possano fermare i loro oppressori e ottenere anche un po' di giustizia.

(Il Foglio, 30 gennaio 2015)


Una domanda: quante guardie del corpo hanno dato a Nitsana Darshan-Leitner?


La storia del jazzista ebreo in fuga da Hitler, finì in gulag

di Paola Cortese

Eddie Rosner
Caravan: 
«Una parabola unica, una storia incredibile tanto più potente per la grandezza del musicista che, ancora oggi, resta semi sconosciuto». Con queste parole Marco Maria Tosolini, musicologo del Conservatorio "Tartini" di Trieste, ieri pomeriggio ha introdotto la figura di Eddie Rosner durante la conferenza-concerto a cura di Giovanna Maresta, tenutasi nell'Auditorium Monteverdi del conservatorio Campiani di Mantova. L'appuntamento ha chiuso il programma di eventi promossi dal Campiani e dal liceo musicale Isabella d'Este per celebrare la Giornata della Memoria e ha aperto il tradizionale ciclo dei "Mercoledì", giunti all'ottava edizione, curata da Albertina Dalla Chiara. Eddie Rosner: un jazzista ebreo tra Hitler e Stalin era il titolo dell'incontro, preceduto da un film di Pier Henry Salfatti, in francese, che ha introdotto la straordinaria figura di Eddie Rosner, jazzista di livello assoluto che, in quanto ebreo, fugge da Hitler per essere costretto poi ad affrontare le indicibili sofferenze nei gulag di Stalin. «In Italia c'è stata un'unica produzione curata da me - ha aggiunto Tosolini -. La sua produzione è stata distrutta per volere del regime. Si è salvato fortunatamente solo qualche incisione grazie alla cosiddetta "musica delle ossa" incisa clandestinamente sulle lastre». Il programma è proseguito tra la proiezione di documenti filmati d'epoca sulla vita e le vicissitudini del musicista, le spiegazioni dello studioso e l'esecuzione di brani musicali, nella versione di Eddie Rosner. In programma St. Louis Blues di Handy, Caravan di Tizol, Sing Sing Sing di Louis Prima nella versione di Benny Goodman. La band era composta da Franco Capiluppi, tromba, Carlo Cantini, violino, Stefano Caniato, pianoforte, Giampaolo Zago, contrabbasso, Andrea Braga, batteria, Rita Gelmetti, voce solista. Eddie Rosner e nato a Berlino nel 1910 a Berlino dove è morto nel 1976 quasi in povertà dopo essere stato tra i musicisti più amati e osannati dell'Unione Sovietica.

(Gazzetta di Mantova, 29 gennaio 2015)


La mappa italiana degli insulti: Bergamo tra le più antisemite

Bergamo è tra le città più antisemite d'Italia. E' quanto emerge da un rapporto di Vox (Osservatorio italiano sui diritti) pubblicato su L'espresso, con due milioni di tweet scandagliati da tre università, che mostrano quanto siano frequenti gli insulti, misogini, omofobi, razzisti. E dove avvengono.

Bergamo è tra le città più antisemite d'Italia. E' quanto emerge da un rapporto di Vox (Osservatorio italiano sui diritti) pubblicato su L'espresso, con due milioni di tweet scandagliati da tre università, che mostrano quanto siano frequenti gli insulti, misogini, omofobi, razzisti. E dove avvengono.
   L'hanno chiamata "Mappa dell'intolleranza", ma la si potrebbe anche definire "geografia dell'odio". L'odio degli italiani verso le donne, l'odio razziale, l'odio antisemita e quello verso i "diversi": gli omosessuali e i disabili. Il risultato è una serie di vere cartine dell'Italia dove, in base all'intensità dei colori che compaiono nelle diverse regioni, si ha una idea immediata del grado di intolleranza.
   Ma come è stato possibile "geolocalizzare" l'intolleranza e quale "materiale" ha consentito di individuarla e misurarla? Il materiale è costituito dai messaggini di 140 battute pubblicati su Twitter. E che, anche per questa caratteristica, determinano semplificazioni brutali, favoriscono la radicalizzazione del linguaggio, eliminano i filtri e le mediazioni. Inoltre appartengono al mondo dei social, cioè al luogo dove - anche per via della garanzia dell'anonimato - i messaggi di odio proliferano.
   Una ricerca che, ispirata da esempi stranieri (celebre la "Hate Map", mappa dell'odio, appunto, della Humboldt State University), ha coinvolto tre dipartimenti di altrettante università italiane: quello di Diritto Pubblico italiano e sovranazionale della Statale di Milano, quello di Psicologia Dinamica e Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza di Roma e, infine, quello di Informatica della Università di Bari che ha progettato un software che - come spiega Vox nella nota che illustra il progetto - "utilizza algoritmi di intelligenza artificiale per comprendere la semantica del testo e individuare ed estrarre i contenuti richiesti".
   La Mappa dell'intolleranza, non basata su impressioni e sensazioni inevitabilmente condizionate dalla sensibilità individuale, ma su dati statistici e con numeri, ha un grado di oggettività altissimo. E questo la rende ancor più allarmante.
   "Ciò che emerge da una prima lettura dei termini sensibili - sottolinea Vox - è che l'offesa verso donne, omosessuali, immigrati, ebrei e disabili passa (quasi) sempre per la dimensione corporea e l'atto fisico: corpi sessualizzati, deformati, mutilati, mortificati, fino a essere picchiati o violentati. Non è in gioco soltanto un rifiuto generalizzato di chi da sempre è considerato 'diverso' (…). Si tratta di un bisogno primitivo, non elaborato, ma scaraventato lì fuori su gruppi di individui che culturalmente rappresentano ciò che è considerato inferiore. Ecco dunque che l'insulto offre una vera e propria difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell'umanità altrui. 'Un'avversione profonda - direbbe la filosofa Martha Nussbaum - simile a quella ispirata dagli escrementi, dagli insetti viscidi e dal cibo avariato'".
   "Emerge poi una ripetizione - scrive ancora Vox - quasi ossessiva del termine escrementizio che non si limita a reinterpretare l'altro manipolando segni e parole. È in atto un vero e proprio processo di disumanizzazione, per tenere l'altro il più lontano possibile da sé. Come se fosse impossibile anche solo pensarlo degno di occupare lo spazio vitale condiviso".
   Due le tendenze che emergono dallo studio. La prima è che - considerando tutte le sue vittime - l'intolleranza è polarizzata soprattutto nei due capi opposti del Paese, al Nord e al Sud, ed è molto meno presente nelle regioni centrali come Toscana, Umbria, Emilia Romagna. Se però si prende in esame il solo antisemitismo, a balzare in vetta alla triste graduatoria è in Centro. Con un picco definitivo "significativo" in Abruzzo, nell'area tra L'Aquila, Chieti, Pescara e Teramo. Al Nord le zone più antisemite sono Milano, Bergamo, Brescia, Varese e Como.
   L'insulto più utilizzato è "rabbino", spesso abbinato a "trans", chiaro dunque il doppio pregiudizio. Seguono "usuraio" e "giudeo". Altre indagini dicono che il 24 per cento degli italiani ha un pregiudizio antiebraico. E che sui circa 1.200 siti antisemiti in Europa, 100 sono quelli italiani, con un aumento del 40% rispetto al 2009
   L'altro aspetto è che, nell'ambito dell'intolleranza, quella verso le donne superare di gran lunga tutte le altre forme: il numero dei tweet misogini negli otto mesi della rilevazione è arrivato a 1.102.494. Misoginia - Vox la definisce "il vero fenomeno esplosivo". I social rilanciano le brutalità registrate dalla cronaca attraverso una valanga di insulti e volgarità. In modo uniforme in tutt'Italia, con picchi in Lombardia, Campania, lungo il confine tra il sud dell'Abruzzo e il nord della Puglia.
   "Un dato curioso - sottolinea Vox - è la netta crescita dei post a sfondo razzista in corrispondenza dei Mondiali e delle partite di calcio del Campionato, ma anche dopo i talk show con personaggi politici o i programmi con la presenza di soubrette". L'insulto più utilizzato è il vecchio, ed evidentemente sempre florido, "terrone". Seguono "zingaro" e "negro".
   Le ricerche svolte nel mondo reale dicono che in Italia gli stranieri sono poco meno di cinque milioni e rappresentano circa l'8 per cento della popolazione e che il 45% dei giovani tra i 18 e i 29 anni si definisce xenofobo o diffida degli stranieri. Inoltre due italiani su tre pensano che la quantità di immigrati in Italia sia eccessiva.
   Su Facebook, sono più di 350 i gruppi dichiaratamente anti-immigrati, alcuni dei quali arrivano anche a 5.000-7.000 iscritti; oltre 400, i gruppi "anti-meridionali", e circa 100 i gruppi "anti-musulmani", mentre sono più di 300 quelli contro gli zingari.
   L'odio verso i disabili è distribuito in tutto il Paese, ma si concentra soprattutto in Lombardia, Campania e nelle zone del Sud dell'Abruzzo e del Nord della Puglia. Le parole usate più frequentemente sono "vergogna". Quando la "parola d'odio" è "storpio", viene associata frequentemente alle parole "odio" ed "elemosina". Frequente l'associazione dell'indicazione della disabilità col termine "cazzo" ("mongoloide del cazzo", "cerebroleso del cazzo")
   "Doneremo la mappa - fanno sapere da Vox - ai comuni, alle Regioni, alle scuole, a chiunque abbia bisogno di fare un'efficace azione di prevenzione sul territorio".

(BergamoNews, 30 gennaio 2015)


"Fratelli gemelli nati da un unico tronco"

Gli interventi del rav Giuseppe Laras sul Corriere della sera del 13 gennaio e del priore Enzo Bianchi su La Stampa del 18 gennaio hanno suscitato una presa di posizione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che denuncia sul quotidiano "Pagine ebraiche" il pericolo, da parte cristiana, di una lettura a senso unico delle Scritture.

di Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

 
                           Priore Enzo Bianchi                                                       Rabbino Riccardo Di Segni
Un articolo di rav Giuseppe Laras pubblicato sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2015, puntuale con l'urgenza dei tempi, ha richiamato ad un impegno condivisibile tra ebrei e cristiani: "Riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell'etica"; precisando: "Tuttavia senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani". Il riferimento, peraltro generico, a "Israele", è stato ripreso e precisato il 18 gennaio dal priore Enzo Bianchi, che ha replicato a rav Laras su La Stampa, con alcune considerazioni che meritano attenzione. Bianchi parla di "un tema bruciante e sul quale non pare esserci comprensione; il tema della terra e dello Stato di Israele". Premette: "Secondo le Scritture del Nuovo Testamento c'è un Israele di Dio, che sono gli ebrei in alleanza con Dio, ma non tutto Israele è l'Israele di Dio, è discendenza di Abramo". E aggiunge: "È certo che spontaneamente la chiesa di sente legata agli ebrei credenti…ma non identifica questa alleanza …con una dimensione etnica, culturale o politica. Noi cristiani che non abbiamo più terra né patria perché ogni terra straniera è per noi patria…, essendo cittadini del mondo in grado di fare scelte politiche, possiamo volere o non volere lo Stato di Israele, ma teologicamente non abbiamo parole in merito…la mia fede non mi autorizza ad ipotizzare uno Stato d'Israele"
   Effettivamente da queste parole emerge l'incomprensione. L'incomprensione di chi, come cristiano, non avrebbe "più terra né patria", ma che ha sempre avuto terre e patrie, definite cristiane e talora cristianissime, nei confronti di chi - il popolo d'Israele - la terra ce l'aveva, promessa, ma l'ha perduta per millenni, senza tuttavia dimenticare il suo rapporto con essa. A molti cristiani, in quanto cristiani, è stato e viene ancora contestato il diritto di residenza nelle loro terre (persino oggi, nell'indifferenza della maggioranza dei loro fratelli), e ancora di più il diritto di dominio sul loro territorio; ma questo non serve a educare a un rapporto diverso con gli ebrei, ai quali, molto più radicalmente, viene spesso contestato sia il diritto di insediamento in altre terre che quello di ritorno nella propria, per non parlare del diritto di indipendenza.
   Lo Stato d'Israele è una struttura politica, ma prima dello Stato c'è "il tema della terra", che Bianchi cita ma poi non affronta; e il rapporto del popolo d'Israele (anche di chi non è credente) con la terra è qualcosa di ben diverso che precede e sovrasta la politica. La storia ha diverse chiavi di lettura. Parlando in termini laici, con laici non credenti, non ha senso parlare di promesse divine; un interlocutore laico può prendere atto della fede altrui, come forte movente della sua azione storica, ma non la considera causa sufficiente e giustificazione valida. Ma per chi ha fede il discorso è ben diverso. Ci sono le Scritture che possono essere interpretate e reinterpretate, ma non se ne può fare a meno. Dal discorso di Bianchi riemerge la posizione, ben radicata nella storia della sua fede, di una lettura a senso unico delle Scritture. Siccome noi le leggiamo così, fa capire l'autore, il resto non ha senso. Potete essere, voi ebrei (e neppure tutti, solo quelli credenti) nostri fratelli gemelli, ma le categorie interpretative delle Scritture che valgono sono solo quelle nostre. Se il cristiano non ha terra (forse), il rapporto ebraico con una terra (quella terra) non conta teologicamente. Eppure si tratta di un tema fondamentale nelle Scritture (per non parlare della fede successiva). Abramo viene mandato via dal suo luogo di origine non verso un posto qualsiasi, ma verso la terra che verrà promessa ai suoi discendenti. Dimenticare questo significa dimenticare le storie dei Patriarchi, il senso dell'Esodo, la conquista della terra, l'annuncio dell'Esilio e il ritorno dall'Esilio, e poi - nel seguito della storia ebraica - il costante legame di fede e di preghiera verso la terra che venne sottratta. Chi ha una fede che dice di fondarsi sulle Scritture non può dire che tutto questo non ha senso teologico; e non parlo ancora dello Stato, ma del recente ritorno di milioni di ebrei nella terra e la sua rifioritura. Può dargli tutte le interpretazioni che vuole, ma se non lo fa significa che "ha occhi ma non vedono, ha orecchie ma non sentono". Non si può leggere la Bibbia facendo finta che pagine intere non esistano o non abbiano senso. O che una tradizione religiosa successiva di millenni sia senza significato. Come Bianchi non capisce il rapporto di Israele con la terra d'Israele, così noi non riusciamo a capire (o meglio, troppo bene la comprendiamo…) questa sua ostinata negazione di matrice cristiana (sarebbe meglio dire cattolica) di un elemento fondamentale della fede di Israele, basato sulle Scritture, che pure sono testi che dovremmo condividere.
   L'incomprensione di Bianchi è in realtà espressione attuale e drammatica di quello che lui chiama e interpreta come "il grande originario scisma" tra ebrei e cristiani "a partire dalle stesse Scritture interpretate in modo diverso". Stupisce un po' questa sua semplificazione della storia (ma soprattutto della sua fede), in linea con correnti di pensiero attuale, come se si trattasse dello scisma tra Occidente e Oriente o tra la Chiesa di Roma e quella di Lutero. La rivoluzione cristiana in realtà sconvolge l'essenza dell'Israele originario, affermandosi contemporaneamente al disfacimento della sua unità territoriale intorno a un centro religioso, il Tempio di Gerusalemme. I cristiani costruirono i loro mondi su basi differenti e sostitutive, ma gli ebrei, privati del legame originario, non vi hanno mai rinunciato. Per i cristiani era la punizione che gli spettava per non avere accettato Gesù. Oggi, dopo la Shoah, ogni onesto cristiano si astiene dal dichiarare che la dispersione degli ebrei nel mondo, e la loro sofferenza conseguente, è la pena per la loro colpa originaria, ma fa fatica a interpretare il ritorno ebraico a Sion come qualcosa di teologicamente significativo. Costerebbe troppa fatica teologica, significherebbe mettere in discussione categorie millenarie. Allora ci si rifugia nel rifiuto teologico della politica, che sarebbe forse una scelta valida se fosse coerente. E chissà se lo è, se non riguarda solo lo Stato d'Israele. E poi non si può ignorare che alla base di questa opposizione c'è anche la radicalmente diversa comprensione della messianità, che è comunque sinonimo di regalità e che con tutte le varianti possibili del pensiero ebraico non può essere distinta da una dimensione politica, quale che essa sia. La messianità cristiana è ben differente, ma non può ignorare l'altra faccia della realtà. Se veramente c'è un rapporto tra fratelli gemelli (ma chi è Esaù e chi Giacobbe?) bisognerebbe capirlo meglio questo strano fratello. Il riferimento positivo a Israele, di cui parla rav Laras, comporta la messa in discussione di un'intera tradizione teologica tesa a umiliare e sottomettere, se non proprio eliminare il diverso, l'antico fratello. C'è stato un grande progresso su tanti aspetti di questo rapporto, ma la terra rimane uno scoglio. Eppure il chiarimento e la svolta su questo tema è una necessità teologica, che va chiarita spogliandosi di ostilità ancestrali e senza timore di mettere in discussione la propria fede.
   Non ha senso invocare la fratellanza, anche gemellare, con Israele, se non si comprendono e si rispettano le sue basi identitarie, come popolo e non solo fede astratta, per cui tutto Israele è Israele ed è legato a Dio anche se forse non ci crede, ed è legato spiritualmente e materialmente a una terra, anche se ne è lontano.
   Se non si accettano queste premesse non stupisce l'invito finale di Bianchi: "occorre restare sempre vigilanti per non giudaizzare da parte dei cristiani". Invito allarmante, se non meglio chiarito. Cosa dovrebbero fare i cristiani per non giudaizzare? Eliminare dalla loro liturgia i Salmi di Davide, il "Santo, Santo, Santo", o la Pasqua e la Pentecoste, o il calice del vino, o i Dieci Comandamenti, o il rito del battesimo, o le ore della preghiera scandite dai tempi dei sacrifici nel Tempio di Gerusalemme, o la recente attenzione per la ricchezza dell'esegesi rabbinica? O ci sono cose che vanno bene perché "ebraiche" e altre no perché "giudaiche"? I cristiani non possono togliersi di dosso l'ebraismo/giudaismo senza pregiudicare la loro natura, né ignorare o non dare senso a quanto succede oggi al popolo d'Israele, smettendo di interrogare la loro fede.

(moked, 29 gennaio 2015)


Dice Di Segni: "Effettivamente da queste parole emerge l'incomprensione.... L'incomprensione di Bianchi..." Ma è solo del priore Bianchi l'incomprensione? O anche del rabbino Di Segni, che pensa di poter mantenere un colloquio teologico paritario con la chiesa cattolica? Credo che Bianchi abbia compreso benissimo e cerchi di spiegare a quelli che tratta da simpatici, amabili, ma teologicamente ottusi ebrei perché la chiesa cattolica non può appoggiare lo Stato d'Israele. Gli ebrei? sì, quelli sì, perché adesso non vanno più ammazzati. Lo Stato ebraico? no, quello no. L'unico Stato teologico sulla terra oggi è lo Stato del Vaticano. E' democratico lo Stato del Vaticano? Che domanda importuna! E' come chiedere se è democratico lo Stato di Palestina. E' stato eletto democraticamente il Papa? Altra domanda importuna. Il Papa è un imperatore designato direttamente dal cielo, non esiste al mondo nessun'altra autorità che possa colloquiare con lui da pari a pari. Non si è capito? Dov'è allora l'incomprensione? Si può capire che uno Stato d'Israele abbia rapporti diplomatici con lo Stato del Vaticano, perché politicamente deve cercare di avere rapporti con tutti, ma che senso ha un rapporto teologico tra la Sinagoga e la Basilica di San Pietro? La Chiesa Cattolica si ritiene al centro del mondo, e nella sua benevola pazienza aspetta soltanto che gli altri vincano la loro ignoranza e arrivino a capirlo. Fa così con i "fratelli separati" cristiani, a maggior ragione lo fa con i "fratelli gemelli" ebrei. Il priore Bianchi, che ho avuto occasione di incontrare quando era ancora un promettente e un po' irrequieto giovane cattolico impegnato, è uno che sa quello che dice. L'incomprensione non sta dalla sua parte. M.C.


C'è un altro fronte. Attacco hezbollah contro Israele

di Fiamma Nirenstein

Kiryat Shmona
GERUSALEMME - Due soldati morti, il capitano Yohai Klamgel di 25 anni, e il sergente Dor Nini di 20 anni, e sette feriti per un attacco missilistico degli hezbollah, un soldato dell'Unifil ucciso dopo lo scontro di artiglieria seguito all' attacco degli hezbollah. L'assedio stringe Israele dal nord: probabilmente i due soldati uccisi erano a Gaza a combattere qualche mese fa. Il pesante bilancio della giornata di ieri giunge dopo 8 anni di quiete dalla seconda guerra del Libano. I colpi delle batterie si sono susseguite tutto ilgiorno. I missili degli hezbollah sono quelli iraniani, probabilmente anche l'attacco un ordine degli ayatollah. La gente del nord, a Metulla, a Kiryat Shmona, nei kibbutz in montagna, è chiusa a casa, ha pulito e rifornito i rifugi, i bambini sono stati ritirati da scuola a metà giornata, gli ospedali verificano le attrezzature, la radio rassicura: siamo pronti, non abbiate paura. Le ultime notizie non ufficiali dicono che i messaggi che le parti si mandano in queste ore tramite l'Unifil tendono a calmare le acque: la guerra non conviene a nessuno, Israele si rende conto dell'infiammabilità dell' eccitamento terrorista globale, e sa che ne possono nascere gravi pericoli; né gli hezbollah né gli iraniani, impegnati in questi mesi nella guerra a fianco di Assad, vogliono impegnarsi in due guerre contemporaneamente. La loro guerra principale è quella sciita, come sono sia Iran che hezbollah, contro gli uomini dell'opposizione a Assad: Iabat al Nusra, Isis. Inoltre l'Iran, che trascinò a forza gli hezbollah a fianco di Assad, adesso è impegnato nella trattativa sul nucleare, e deve indossare una maschera.
   Gli hezbollah rivendicano l'azione di ieri come una semplice, conclusa vendetta per l'operazione di Kuneitra, quando Israele ha eliminato un convoglio di hezbollah e iraniani in ricognizione lungo il confine siriano: nel gruppo si trovavano anche Jihad Mughniyeh, figlio dell'altro «shahìd», il generale Imad Mughniye, e un generale iraniano, Mohammad Allahdadi. Fu una scelta strategica, e hezbollah e l'Iran hanno giurato vendetta. L'attacco ha avuto luogo sotto Ar Dov, un monticello sotto cui corre una strada militare verso la cittadina di Kfar Raja. Alle 12 cinque o sei missili Nun Tet, di genere Kornet, uno dei più micidiali hanno colpito due jeep e le hanno letteralmente incenerite mentre viaggiavano nella zona delle cosiddette Shaba Farrn che gli hezbollah che considerano la zona tuttora «disputata». Adesso per Netanyahu si pone la difficile questione della risposta: può considerare che gli hezbollah cerchino semplicemente un consenso antisraeliano perduto con la guerra in Siria e evitare la guerra, ma non è facile di fronte alle famiglie dei soldati uccisi. Inoltre l'Iran e gli hezbollahpotrebbero vagheggiare una strategia che attragga Israele nel profondo di una guerra. Il Medio oriente è al solito, denso di sabbie mobili.

(il Giornale, 29 gennaio 2015)


Nota per gli amici di Assad: Hezbollah spara sugli israeliani dal Golan

Imboscata a un convoglio militare, uccisi due soldati. Per il presidente siriano "Israele è l'aviazione di al Qaida".

di Daniele Raineri

ROMA - Mercoledì una squadra di Hezbollah ha sparato alcuni razzi controcarro contro un convoglio di veicoli militari israeliani che stava passando sulla strada al di là dei reticolati sulle alture del Golan, al confine conteso tra Siria e Israele. L'attacco ha ucciso due soldati e ne ha feriti altri sette, ed è stato rivendicato come "il primo" eseguito dalla "Brigata dei martiri di Quneitra" di Hezbollah. E' un dato importante perché conferma che il movimento libanese ha fondato un reparto che ha l'incarico di preparare attacchi contro Israele e agirà dal Golan siriano con il consenso del governo del presidente Bashar el Assad. La notizia era circolata sulla stampa araba nei giorni scorsi, dopo che domenica 17 gennaio un drone israeliano aveva colpito un convoglio di Hezbollah nella stessa zona, Quneitra, e aveva ucciso un generale iraniano che accompagnava il gruppo.
   Oltre all'attacco sul Golan, mercoledì Hezbollah ha anche attaccato sparando colpi di mortaio dal sud del Libano. Israele ha risposto con almeno cinquanta colpi di artiglieria che però hanno ucciso un peacekeeper spagnolo (il ministro degli Esteri israeliano ha chiesto scusa al governo di Madrid per la morte del soldato). Martedì dal territorio siriano erano stati sparati due razzi contro Israele, e Israele aveva risposto sparando con l'artiglieria sulle postazioni siriane. Per il ministro della Difesa Moshe Yaalon "il regime di Assad è responsabile del fuoco, non ignoreremo attacchi terroristici contro i nostri soldati o cittadini".
   Il generale israeliano in congedo Israel Ziv ha spiegato mercoledì in una conferenza stampa che l'attacco compiuto da Hezbollah in quell'area del confine conosciuta come Shebaa segnala la volontà di non aprire davvero un conflitto. "Quello che succede a Shebaa resta a Shebaa", dice il generale, parafrasando "Quel che succede a Las Vegas resta a Las Vegas". Ci sarebbe stata quindi la volontà da parte del gruppo libanese di vendicare l'attacco aereo del 17 gennaio, ma con un'azione eseguita in una zona di attrito dove ci sono frequenti scambi di fuoco tra le parti (Hezbollah e siriani da una parte, israeliani dall'altra), perché nessuno vuole davvero aprire una guerra, in questo momento (un motivo tra tanti possibili: sono in corso i negoziati sul programma nucleare iraniano)
   Questa settimana il sito di Foreign Policy ha pubblicato un'intervista a Bashar el Assad in cui il presidente siriano definisce Israele come "l'aviazione di al Qaida", con riferimento agli sporadici attacchi aerei israeliani sulle installazioni militari siriane e di Hezbollah - di solito effettuati in occasione di trasferimenti di armi di tipo avanzato, come missili, che lo stato maggiore israeliano considera "non perdonabili". Questa definizione di Israele come "aviazione di al Qaida" è un uso disinvolto da parte di Assad di un argomento classico dei regimi autoritari arabi: chi non sta con me, allora è con al Qaida (o con lo Stato islamico).
   Le dichiarazioni del ministro israeliano Yaalon sulla responsabilità di Assad per gli scambi di artiglieria, la presenza ormai fissa di Hezbollah sulla alture del Golan siriano e questo attacco di mercoledì con armi controcarro sottolineano una questione finora trascurata da chi pensa al governo di Damasco come a un utile alleato dell'occidente contro l'estremismo sunnita e come a un protettore delle minoranze mediorientali: la Siria invita e ospita Hezbollah e generali iraniani. Nel sud, i non-siriani stanno preparando più o meno alla luce del sole una possibile guerra contro Israele, ed è difficile spiegare la loro presenza a decine di chilometri dai fronti della guerra civile contro i ribelli e i gruppi jihadisti. In un discorso pronunciato la settimana scorsa, il leader di Hezbollah ha parlato del Libano e della Siria come di una sola entità geografica schierata nella lotta contro Israele.
   La contromanovra israeliana può confondere ancora di più chi crede in questa divisione tra bianchi e neri, con Assad da una parte e gli estremisti dall'altra. Da un anno, l'esercito israeliano nella stessa zona sta aiutando i gruppi di ribelli siriani non islamisti, offrendo cure mediche in ospedali da campo e aprendo il confine per fare passare i feriti, un via vai che ormai riguarda centinaia di persone. Secondo un'analisi pubblicata dal Washington Institute for the Middle East, gli israeliani vogliono così creare e frapporre una zona cuscinetto di gruppi siriani non ostili tra il confine e gli estremisti. Non sta funzionando al cento per cento, come testimonia la presenza in alcuni tratti del confine del Golan di Jabhat al Nusra, edizione siriana di al Qaida.
   Il Wall Street Journal chiede, in un editoriale di tre giorni fa intitolato "Il nostro uomo a Damasco" con tetro sarcasmo, se questa politica dell'Amministrazione Obama troppo accondiscendente con Assad non sarà controproducente a lungo termine: "Gli Stati Uniti saranno riusciti a sconfiggere una minaccia estremista jihadista, lo Stato islamico, soltanto per potenziarne un'altra, gli estremisti sciiti rafforzati dalla bomba (atomica). Il Congresso dovrebbe chiedere all'Amministrazione se Assad è davvero l'uomo di Obama a Damasco".
   Sullo sfondo, resta aperta la questione che ha innescato questo scontro sul Golan: il bombardamento a sorpresa da parte di un drone israeliano - o di un elicottero secondo altre fonti - di un convoglio di Hezbollah che stava passando nell'area di Quneitra a dieci chilometri dal confine tra Siria e Israele. Cosa ci faceva un generale iraniano in quel gruppo, stava davvero esplorando la possibilità di allestire una postazione missilistica così vicina ai reticolati, come sostengono alcune fonti? E Israele ignorava davvero la sua presenza in quel convoglio, come ha sostenuto il giorno dopo per provare a disinnescare la situazione tesa con l'Iran e con Hezbollah?
   Secondo una ricostruzione di Reuters che cita fonti libanesi, gli israeliani hanno agito al volo, con opportunismo predatorio, partendo da alcune intercettazioni ascoltate lungo il confine, ma questo non chiarisce se avevano capito o no che stavano per uccidere un generale iraniano, con tutte le possibili conseguenze. Reuters dice che può essere: lo hanno fatto perché hanno percepito una minaccia militare più grande del solito e anche perché il governo non può mostrarsi esitante, non può tollerare la presenza di un generale di Teheran a passeggio lungo il confine, ci sono le elezioni fra due mesi.

(Il Foglio, 29 gennaio 2015)


Il piccolo 'Schindler dell'Oglio Po'

Umberto Araldi nascose e salvò un dipendente ebreo.

di Davide Bazzani

Lo stabilimento della Società Federale Orefici di Casalmaggiore di cui Araldi fu tra i soci fondatori
CASALMAGGIORE-VIADANA — «C'è frase del Talmud che dice 'Chi salva una vita, salva il mondo intero'. Penso si potrebbe applicare anche al caso di Umberto Araldi, che durante la guerra salvò un ebreo, Fabio Reggio». A raccontare la vicenda è Raul Tentolini, imprenditore in pensione, la cui famiglia collaborò professionalmente con quella di Araldi. «Umberto nacque a Viadana. Frequentò la scuola di disegno 'Bottoli' di Casalmaggiore, e grazie ad una sua creazione artistica vinse anche un premio. Fu, nel 1906, tra i soci fondatori della Società Federale Orefici». Araldi faceva parte del gruppo di operai che, per diverbi di natura economica, si era distaccato dal nucleo originario dell'industria dell'oro matto di Casalmaggiore, fondata da Giulio Galluzzi. «Umberto ebbe un figlio, Bruno, nato nel 1915 — aggiunge Tentolini — e un nipote, l'ingegner Umberto Fortunati, che è vivente e abita a Milano. Ad un certo punto Umberto si ritirò dal 'fabbricone' e fondò a Milano la fabbrica di bigiotteria 'Umberto Araldi'. In questa fabbrica lavorava come ragioniere Fabio Reggio, originario di Montefiorino, in provincia di Modena, che era ebreo, come si capisce anche dal cognome. Durante gli anni delle persecuzioni degli ebrei, fu Araldi a nasconderlo. Reggio viveva nella sede aziendale e riuscì ad attraversare indenne i rastrellamenti». Diversamente, sappiamo quale triste fine avrebbe purtroppo fatto: sarebbe stato deportato nei campi di concentramento.
   «Il ragionier Reggio — continua Tentolini — era una persona molto affabile e precisa». Tentolini ebbe modo di conoscerlo: «Mio padre Evrardo, che era attrezzista del fabbricone ed aveva frequentato la Scuola Bottoli, ebbe la proposta di costituire una società con il figlio di Umberto, Bruno, e così avvenne». Umberto morì nel 1944, ma il figlio continuò con la tradizione di famiglia. «Nel 1949 nacque la 'Ar.Te', acronimo di Araldi e Tentolini, specializzata in bigiotteria, occhiali, minuteria metallica. Il ragionier Reggio venne assunto alla Ar.Te. e lì io lo conobbi. «Ricordo questo particolare: nel 1949 io avevo 14 anni, lui parecchi più di me, eppure mi chiamava 'signor Raul'. Non si è mai sposato. Ogni tanto si allontanava per una meta 'misteriosa'. Qualcuno ad un certo punto gli chiese dove andasse e lui rispose che tornava a Montefiorino, sull'Appennino, a ritrovare le sue radici». Una bella storia di umanità che richiama alla mente la storia, descritta da Steven Spielberg in un film, dell'industriale tedesco Oskar Schindler, che riuscì a salvare diversi ebrei reclusi nel ghetto di Podgorze, impiegandoli nella sua fabbrica, pagandoli con utensili da scambiare e sottraendoli al campo di lavoro comandato dal criminale tedesco Amon Goeth. Schindler costruì un campo per i suoi operai, dove le milizie non potevano entrare senza la sua autorizzazione. Infine decise di attivare una fabbrica di granate nella natia Brinnlitz, compilando una lista di 1100 persone ebree perché venissero a lui affidate come operai, riuscendo così a strapparle alla morte. Evidente l'analogia con il caso di Araldi, che meriterebbe forse l'inserimento tra i 'Giusti tra le Nazioni', i non-ebrei che hanno agito in modo eroico a rischio della propria vita per salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista.

(La Provincia, 29 gennaio 2015)


C'è ancora odio contro gli ebrei

Lettera a La Stampa

di Maurizio Degiani

Leggere su La Stampa che il venti per cento degli ebrei italiani non si sente sicuro in patria e sarebbe pronto a lasciarla, per recarsi in Israele. È un dato che mi rattrista moltissimo e mi fa pensare. Sono passati settant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dei suoi orrori e siamo ancora al punto che una componente essenziale della società italiana, a cui tanto ha dato, è costretta a sentirsi insicura e perseguitata a casa propria. Eppure è così, Basta entrare in rete per rendersi conto della miriade di siti, anche italiani, che ispirati dalla più crassa ignoranza spargono odio contro gli ebrei. Ci sono i neonazisti, i «nostalgici», gli integralisti islamici ma, bisogna dirlo anche certi integralisti cattolici e, non da ultimi, diversi tra i sostenitori più acritici della causa palestinese. Una realtà sconfortante e pericolosa che lo Stato, se vuole ancora definirsi democratico, deve contrastare con decisione per proteggere senza tentennamenti una parte della sua popolazione che, integrata da secoli nel tessuto sociale del nostro Paese, non chiede che di viverci in pace.

(La Stampa, 29 gennaio 2015)


Documenti inediti negli archivi comunali di Rovetta

Si scopre la storia degli internati ebrei

 
La serata organizzata a Rovetta
 
L'archivista Pasinelli
ROVETTA (BG) - L'anniversario del 27 gennaio 1945 è stata l'occasione a Rovetta per scoprire la storia degli internati ebrei che negli anni della repressione fascista vennero relegati nel comune di Rovetta e Fino del Monte. I documenti parlano di 6 - 7 persone ma si può presumere che la piccola comunità ebraica raggiunse le 20 unità. Diversi sono gli episodi raccontati attraverso i documenti mostrati dall'archivista Bernardino Pasinelli in occasione della serata "Dalla Shoa alla vita" organizzata dalla Biblioteca Comunale.
   Nella prima parte della serata è stato mostrato il docufilm su Sciesopoli, la colonia fascista costruita negli anni '30 a Selvino, riconvertita in seconda casa per i bambini orfani ebrei.
   Una testimonianza importantissima per il nostro territorio: gli ebrei nel mondo ricordano con commozione il loro passaggio a Selvino che gli permise di riacquistare fiducia nella vita e nel genere umano. Da Sciesopoli passarono 800 bambini ebrei tra cui nomi che divennero illustri come il pittore Shlomo Schwartz e il musicista Gary Bertini, divenuto direttore d'orchestra di fama internazionale.
   Un Comitato ha indetto una petizione che si può firmare anche online qui per far sì che Sciesopoli diventi un luogo della memoria
A Rovetta, così come a Gandino, il substrato di ebrei che vennero internati fu davvero vario: nei documenti ritrovati da Pasinelli negli archivi comunali, si scoprono le motivazioni del perché queste persone, spesso con una buona posizione sociale, vennero confinate dal Ministero con ordinanza della Questura in queste piccole realtà di montagna: la motivazione era sempre la stessa, la razza.
   Le carte rivelano come gli internati potessero lavorare e avevano a disposizione delle risorse proprie per permettersi, ad esempio, una domestica di razza ariana, ovviamente.
   Quella degli internati a Rovetta e Fino del Monte è una storia a lieto fine: gli ebrei si salvarono tutti. Ma il lavoro di ricerca non finisce: sono ancora tante infatti le testimonianze e le analisi che lo stesso Pasinelli sta svolgendo attraverso la collaborazione con la biblioteca, scrivendo una pagina della storia locale di cui c'è ancora molto da scoprire.

(Valseriana news, 29 gennaio 2015)



Fiorentini (FI), considerazioni sul Giorno della Memoria

SOVICILLE- A Sovicille, terra "rossa" riunione del Consiglio Comunale al completo con all'Ordine del Giorno unico, quello sulla Giornata della memoria.
Inizia con interventi di circostanza, alla presenza anche del Rabbino di Siena e di una piccola delegazione della Comunità Ebraica di Siena, tra cui il sottoscritto.
Tutti a ribadire che la Shoa è stata il culmine della nefandezza, della aberrazione disumana ecc..
Poi tra le file dei Consiglieri Comunali, una giovanissima legge uno scritto che citava, tra l'altro, "…la persecuzione dei palestinesi…".
La cosa mi ha infastidito!
Ho chiesto la parola e, dopo aver premesso che l'intervento era fuori tema, in quanto nella giornata della memoria a 70 anni dalla Shoah, la Palestina non c'entra, ho voluto esprimere con forza il rifiuto del "pensiero unico di sinistra" che i palestinesi siano perseguitati.
Ho spiegato che sono anche cittadino israeliano, che ho vissuto in Israele indossando una maschera antigas, quando Saddam Hussein ci lanciava i missili, e che ora, dopo migliaia di missili lanciati dai palestinesi, mi ribello a sentire una propaganda di tal fatta, quale quella della giovanissima Consigliera.
Ho raccontato "l'affaire Magenta", con il caso di quel Sindaco che aveva in mente di inquinare la Giornata della memoria con una mostra fotografica dei campi palestinesi, e di come dietro mia richiesta l'avesse cassata.
Mi rincuora che nelle conclusioni, il nostro amato Rav. Crescenzo Piattelli, abbia ribadito che la questione mediorientale era completamente fuori tema, e che anche lui era stato in Israele la scorsa estate, e aveva subito l'arrivo dei missili da parte dei Palestinesi che non tollerano l'esistenza di Israele!
Spero che tutti noi Ebrei, si sostenga Israele e il suo diritto all'esistenza.
Come ha da sempre sostenuto Silvio Berlusconi e Forza Italia!
Viva Israele!
Filippo Fiorentini
Forza Italia - Monteroni

(ilCittadinoonline.it, 29 gennaio 2015)


Non c’interessa l’aspetto partitico di questa dichiarazione. Avremmo riportato questo intervento anche se a farlo fosse stato il membro di un altro partito. Accostare la “persecuzione palestinese” alla Shoah è una gravissima menzogna che favorisce il ripetersi della Shoah. M.C.


Irit Dekel ed Eldad Zitrin, il duo israeliano live in Italia

Con album 'Last of Songs', a Roma il 3 febbraio e Milano il 4

Il duo israeliano composto da Irit Dekel ed Eldad Zitrin arriva in Italia con l'album di debutto 'Last of Songs', in due esibizioni live il 3 febbraio a Roma alla Casa del Jazz e il 4 febbraio a Milano al Blue Note. La voce della cantante/attrice Irit sarà accompagnata dalla fisarmonica di Eldad e da Adi Har Zvi alle percussioni e batteria, Idan Armoni al basso e contrabbasso e Elad Cohen Bonen alla chitarra.
L'album è composto da dodici brani tra jazz, folk e pop. I diversi stili di musica e colori, combinati tra loro, dai quali è influenzato, lo fanno così presentare come un ponte tra culture diverse. In Italia verrà distribuito dal 3 febbraio (da Believe digital per Walkman srl). Propone un repertorio variegato che va dalla struggente poesia di Billie Holiday all'elettronica dei francesi Air. Nelle esibizioni dal vivo assume poi sfumature nuove, grazie all'abilità del duo di spaziare in diversi formati orchestrali: le tracce sono state eseguite per quintetto o sestetto, ma anche con orchestre di oltre 30 elementi.
L'unione artistica tra i due musicisti di Tel Aviv inizia nel 2011 per arrivare al primo album nell'arco di un paio d'anni. Il titolo 'Last of Songs' nasce da una sorta d'interpretazione del tempo come 'un'illusione' in cui il presente è l'unico tempo possibile e il passato può solo essere 'riportato in vita'. "Ho voluto prendere queste canzoni e dare loro una nuova esistenza", racconta Irit. "Mentre lavoravamo ai nostri videoclip, il regista Roy Even Tov ha suggerito il titolo per questo progetto - spiega Eldad -. In quest'album abbiamo rappresento un periodo di tempo ben preciso, che sia nello stile sia nei suoni rappresenta un'era musicale. Dopo questo periodo lo stile della canzone d'autore è cambiato".
Di dieci brani dell'album sono stati girati altrettanti video clip in cinque giorni con immagini degli anni '70 di Israele, montate secondo lo stile del cinema realista italiano che ben rappresentano lo spirito del disco. Il duo si è tra l'altro già esibito in festival italiani, dal Catania Jazz Festival al Fano Jazz.

(Ait Cultura, 28 gennaio 2015)


Buio in sala. La Francia "deprogramma" la libertà d'espressione sull'islam

di Giulio Meotti

ROMA - La sbornia libertaria seguita alla strage di Charlie Hebdo è durata poco. La Francia ha deciso di "deprograrnmare" la libertà d'espressione sull'islam. "Siamo tutti Charlie, ma non siamo tutti l'Apostolo", commenta il settimanale Causeur. Il riferimento è a "L'Apòtre", il nuovo film della regista Cheyenne Carron che è stato appena deprogrammato da alcuni cinema "per prevenire il rischio di attacchi". La motivazione addotta dai servizi francesi per togliere la pellicola dalle sale è che la comunità musulmana potrebbe "sentirsi provocata" dal film che racconta la conversione di un giovane musulmano francese al cattolicesimo. Un destino che accomuna la regista a Michel Houellebecq, che in "Soumission" racconta una conversione all'islam e contro cui è stata mossa l'accusa di "islamofobia". Accusa scagliata anche contro Carron che racconta una conversione inversa, dall'islam al cattolicesimo. In Francia prima di Carron nessuno aveva mai portato sul grande schermo una storia di conversione al cristianesimo dal Corano, la storia degli "apostati" che nei regimi islamici vengono impiccati dalle gru o bruciati vivi. Nel suo film, la regista Carron racconta la storia di Akim, che studia da imam in una cittadina francese. Una donna viene strangolata da un maghrebino, al grido di "putaine". Akim è toccato dalla compassione di don Fauré, il prete cattolico fratello della vittima, che resta ad abitare vicino ai genitori dell'assassino senza portare rancore. Akim compie il massimo sacrilegio nell'islam, passando da Allah a Gesù. Formidabile la scena in cui confessa alla madre la propria conversione: "Sei mia madre. Sai tenere un segreto? Voglio diventare cristiano. Il Figlio di Dio tocca il mio cuore". La madre si mette a ridere, ma i fratelli di preghiera gli cambiano i connotati. Nel film, Carron mette in bocca al protagonista domande scandalose, tipo: "Perché i cristiani accettano i loro fratelli che si convertono all'islam mentre i musulmani non possono accettare coloro che si convertono a Cristo?".
   La regista si difende dalla censura dicendo che la sua pellicola "è un film di pace. L'Apostolo dovrebbe essere proiettato per i cristiani e i musulmani, e nei luoghi di culto. Ho cercato di fare un film che permette una vera e propria apertura verso l'altro e verso la differenza". L'Apostolo non è il solo film a essere stato cancellato dalle sale francesi dopo gli attacchi di Parigi. "Timbuktu'', il film di Abderrahmane Sissako, premiato all'ultimo Festival di Cannes e candidato agli Oscar, è stato appena deprogrammato a Villers-sur-Marne per decisione del sindaco, Jacques-Alain Bénisti, appartenente non alla sinistra socialista, ma all'Ump. Il film è un appassionato appello contro l'islamismo jihadista, ne mostra tutto l'orrore in Mali, paese natale della moglie di Amedy Coulibaly, l'attentatore del supermarket kosher di Parigi. Il film di Sissako è stato oscurato anche al festival del cinema di Ramdan, in Belgio. Due anni fa, in Mali, centinaia di manoscritti del Centro Ahmed Baba di Timbuctu furono bruciati dalla furia iconoclasta dei mujaheddin islamici. Paragonati ai Rotoli del Mar Morto, si trattava di un corpus di opere che va dal IX secolo d. C. fino ai giorni nostri abbracciando tutto lo scibile umano. Nel film c'è una scena con i fanatici della sharia che vogliono imporre a una donna velata di vendere il pesce al mercato, ma indossando i guanti. E lei si ribella.
   "Per far progredire le cose, occorre assumersi dei rischi", ha detto la regista Carron di fronte alla censura della sua pellicola. "Non si vincono le guerre col silenzio". L'Apòtre come "Submission" di Theo van Gogh? Se il primo "Submission" non lo trasmette più nessuno, né le televisioni né i festival cinematografici (bisogna spulciare su You Tube per vedere il cortometraggio), il sequel è morto già sul nascere, dopo anni di scrittura e di gossip.
Buio in sala.

(Il Foglio, 29 gennaio 2015)


"Vattene, ebreo": il video del reporter con la kippah per le strade della Svezia

Peter Lindgren ha attraversato la sua città con la kippah in testa e una catenina con la stella di David. Il risultato è un documentario di 58 minuti, intitolato "Odiare gli ebrei a Malmoe".

di Maurizio Molinari

Il vento dell'intolleranza antiebraica raggiunge la Svezia e in particolare la città di Malmoe, dove risiede una numerosa comunità musulmana al cui interno di moltiplicano gruppi di individui ostili, aggressivi, nei confronti degli ebrei: a raccontarlo è Peter Lindgren, reporter di una tv di Stoccolma che ha deciso di travestirsi da ebreo per documentare una realtà da molti sconosciuta. Lindgren si è messo una kippà sulla testa, ha indossato una catenina con la stella di David ed ha iniziato a camminare in città, sempre seguito da una telecamera nascosta e dei microfoni per rilevare parole e gesti delle persone in strada.
Il risultato è un documentario di 58 minuti, intitolato "Odiare gli ebrei a Malmoe" che è stato trasmesso questa settimana consentendo a milioni di telespettatori di ascoltare passanti che hanno apostrofato il reporter definendolo "ebreo di merda" o "ebreo diabolico" mentre in altre occasioni si vede sullo schermo chi gli chiede in tono perentorio di "andarsene" e chi, più bonariamente, gli suggerisce "se tieni davvero alla tua sicurezza vattene". Nel quartiere di Rosengard, abitato in maggioranza da immigrati musulmani, Lindgren è stato circondato da una dozzina di uomini che lo hanno minacciato fisicamente mentre da alcuni edifici vicini gli tiravano contro uova, gridando insulti anti-ebraici.
Da qui la conclusione del documentario sugli ultimi 600 ebrei rimasti a Malmoe che "hanno paura di uscire di casa e pensano di andarsene perché non vogliono far crescere i figli in questo ambiente". Gran parte degli ebrei di Malmoe si sono trasferiti a Stoccolma a seguito dell'attacco esplosivo contro un edificio della Comunità, avvenuto nel 2012, lamentando la carenza di sicurezza collettiva e la mancanza di contromisure da parte della polizia. A contribuire a tale atmosfera è stato il sindaco di Malmoe, Ilmar Reepalu, che nel 2010 reagì ad un'aggressione di piazza contro una manifestazione di solidarietà a favore degli ebrei, spiegando che erano stati gli ebrei stessi "a provocare tali violenze non avendo condannato i crimini israeliani commessi nella Striscia di Gaza".

(La Stampa, 28 gennaio 2015)


Direttore di Hyper-Cacher: "Vado a vivere in Israele"

Patrice Oualid non si è ripreso dall'attacco terroristico di Amedy Coulibaly

PARIGI - "Vado a vivere in Israele. Non voglio tornare a lavorare all'Hyper Cacher": lo afferma in un'intervista al quotidiano Le Parisien, Patrice Oualid, il direttore del supermercato kosher della Porte de Vincennes di Parigi, colpito dalla furia fondamentalista di Amedy Coulibaly.
"Non voglio più tornare a lavorare all'Hyper Cacher, nemmeno le cassiere. Il mio capo, lui, vuole riaprire per mostrare ai terroristi che non possono vincere. Noi vivremo per chi non c'è più. La religione ci aiuterà. Presto, partirò in vacanza, in famiglia, in Israele. E penso che faremo le valigie per andare a vivere laggiù. Non sono carne da cannone. La Francia è il mio Paese, ci sono nato, ci si viveva bene, ma oggi non è più possibile".
Al giornalista che li faceva osservare che anche Israele non è poi così tranquillo, Oualid risponde: "No, certo, ma almeno lo sappiamo (...) È un Paese in guerra, è vero, ma che sa difendersi". Durante l'assalto al supermercato, Oualid è riuscito a scappare praticamente all'inizio del sequestro. Nella fuga è stato colpito al braccio dagli spari di Coulibaly.

(tio.ch, 28 gennaio 2015)


Così cantano i jihadisti mentre marciano verso l'Occidente ignaro

Il nuovo libro di Maurizio Molinari racconta come è nata la minaccia del Califfato e che cosa dobbiamo aspettarci.

di Maurizio Molinari

Abbiamo i barbari alle porte di casa. Vogliono portare il terrore nelle nostre città, decapitare i passanti, stravolgere la vita di milioni di persone, obbligarci a rinunciare alle libertà civili e precipitarci in un Medioevo sanguinario. A muoverli è l'ideologia della jihad, la volontà di combattere gli «infedeli», di imporre su ognuno la versione più estrema e intollerante della sharia, la legge islamica. Sono loro ad aver aggredito Parigi il 7 gennaio scorso con l'attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo e al supermarket kosher Hyper Cacher, svelando l'intenzione di dichiarare guerra all'Europa. Alle spalle hanno la galassia di sigle del salafismo jihadista e soprattutto hanno uno Stato, erede e rinnovatore del conflitto brutale contro le democrazie iniziato da Osama bin Laden con gli attacchi dell'11 settembre 2001 a New York e Washington. [...]

I CANTI DI GUERRA
Nasheed sono le musiche jihadiste che accompagnano le pattuglie della polizia religiosa nelle strade di Raqqa, tengono compagnia ai miliziani asserragliati nelle postazioni di Aleppo o Ramadi, fanno da sottofondo ai siti islamici che reclutano volontari e risuonano tra i quartieri dei centri urbani conquistati dallo Stato Islamico, quando carovane di pick-up con il vessillo nero sfilano appesantite da grappoli di combattenti e da ogni sorta di armamenti leggeri.
La genesi dei nasheed risale alla fine degli anni Settanta quando, in Egitto e in Siria, i fondamentalisti islamici iniziano a comporli per ispirare i seguaci, motivare la jihad e diffondere il proprio messaggio. Si tratta di motivi a sfondo religioso che i Fratelli Musulmani trasformano in inni alla ribellione politica per sfidare Hafez Assad in Siria e Anwar Sadat in Egitto, facendoli circolare sotto forma di cassette e suscitando sovente le ire di imam salafiti, che li condannano come una «distrazione dallo studio del Corano».
A conferma dell'importanza di questi inni come fattore aggregante c'è il fatto che Osama bin Laden, da adolescente, finanziò e cantò in un gruppo nasheed, puntando a diventare popolare fra i coetanei sauditi. Il vero contenzioso dottrinario sui nasheed riguarda l'uso di strumenti musicali, perché i jihadisti sunniti li reputano haram (proibiti) e dunque si limitano a canti collettivi, mentre i jihadisti sciiti fanno delle concessioni, accettando per esempio i tamburi. In quello divenuto dal dicembre del 2013 l'inno nazionale dello Stato Islamico, gli unici suoni non umani sono quelli di una spada sfoderata, di soldati che marciano e di spari di fucili. Si intitola Dawlat al-Islam Qamat, dura 4 minuti e 33 secondi e per i primi tre minuti si presenta come un canto arabo collettivo ritmato attorno al concetto di umma, la comunità dei fedeli. Melodia e ritmo evocano il deserto fino a quando My Ummah, Dawn has appeared (Mia umma, l'Alba è arrivata) - questo il titolo scelto per la diffusione fra i non arabi - si trasforma in un'apologia dello «Stato Islamico sorto dal sangue dei giusti e dalla jihad dei pii», promettendo di continuare a «sconfiggere i nemici».

FALLUJA
Si tratta solo del nasheed più popolare fra i miliziani del Califfo, che si distinguono per suonare o cantare un repertorio assai vasto. Per esempio, all'inizio del 2014 il brano intitolato Al-Maliki, la tua fine sarà domani accompagna l'offensiva nel Nord dell'Iraq che porta alla conquista di Ramadi, Fallujah, Mossul, la pianura di Ninive e gran parte della regione dell'Anbar.

IL CENTRO DI PRODUZIONE
Il Califfo ha ordinato la creazione di un apposito centro di produzione musicale - l'Anjad Media Foundation - al fine di realizzare motivi capaci di rispondere a esigenze differenti: rafforzare la capacità di attrazione di volontari sul web, sostenere l'umore dei miliziani in combattimento e imporre un clima di obbedienza assoluta nei territori controllati.
A quest'ultimo gruppo di canzoni appartiene La sharia del Nostro Signore il cui testo recita: «La sharia è la luce grazie a cui ci eleviamo sopra le stelle, viviamo senza umiliazione, viviamo in pace e sicurezza, combattendo contro il nemico, l'idolatria tirannica».

I MILITI DELLA GIUSTIZIA
O soldati della giustizia, sollevatevi è invece un canto di battaglia teso a motivare i mujaheddin durante gli scontri più duri, e le strofe sono di tenore diverso: «La terra di Sham s'illumina di luce, lo Stato Islamico è nato, distruggete tutti i confini, ovunque la nostra mano guerriera si posi, c'è l'umiliazione per il rabbino degli ebrei, spezziamo le croci, distruggiamo la progenie dei discendenti delle scimmie, resta solo lo Stato Islamico». I riferimenti alla guerra senza quartiere contro i cristiani - le croci spezzate - e gli ebrei - i discendenti delle scimmie - sono tradizionali simboli della jihad per sottolineare la superiorità dell'Islam sulle altre fedi monoteiste.

(La Stampa, 28 gennaio 2015)


Pacifici e Perugia bloccati nel campo di Auschwitz. Fermati dalla polizia

I rappresentanti della comunità ebraica romana dopo un servizio televisivo per la Giornata della memoria rimangono chiusi nel campo. Cercando di uscire vengono bloccati dalle forze di sicurezza che li trattengono per ore. Vicenda "surreale" risolta con l'intervento dell'ambasciata e della Farnesina.

di Gabriele Isman e Pasquale Quaranta

ROMA - Assurdo fuori programma nel campo di Auschwitz per Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia, portavoce della stessa Comunità, il giornalista David Parenzo e due tecnici del programma televisivo "Matrix", Gaetano Mazzarella e Matteo Raimondi. Rimasti chiusi nel campo di concentramento dopo la registrazione di un servizio televisivo regolarmente autorizzato, nel tentativo di uscirne sono stati bloccati dalla polizia polacca e tenuti per ore in stato di fermo. La vicenda è stata risolta dopo diverse ore con l'intervento dell'ambasciata italiana in Polonia e della Farnesina.


"Siamo bloccati da ore", ha detto Pacifici raggiunto telefonicamente. "Dopo tre quarti d'ora al gelo abbiamo cercato di uscire e siamo stati fermati dalla polizia", ha aggiunto Fabio Perugia.
Secondo una prima ricostruzione dei fatti i rappresentanti della comunità ebraica romana, il giornalista e la troupe sono stati lasciati soli dai custodi che si sono allontanati. Dopo aver atteso il gruppo ha cercato di venir via, forse da un'uscita non autorizzata. Qui sono stati fermati dalla polizia che li ha trattati come dei criminali, portati al commissariato locale e tenuti in stato di fermo per parecchie ore prima di poter ripartire per Roma.
Pacifici e Parenzo hanno definito la vicenda kafkiana. "Certamente non si tratta di un'azione antisemita ma piuttosto - ha spiegato il presidente della Comunità ebraica di Roma - di una falla nel campo. Chiaramente la struttura non è protetta, come dimostrano le finestre aperte". "Non è stato un episodio piacevole - ha aggiunto - anche perché accaduto nel luogo in cui sono morti mio nonno e mia nonna. Mi ha dato fastidio emotivamente tanto che ho detto ai poliziotti: 'O mi arrestate o mi lasciate libero perché sono profondamente turbato'. Una storia surreale".

(la Repubblica, 28 gennaio 2015)


"Chi gioca col fuoco si scotterà..."

Il premier israeliano Netanyahu nel Giorno della Memoria: "Gli attacchi ci vengono da Hamas e Iran"

GERUSALEMME - L'antisemitismo "non è scomparso" e ad "essere vilipesi non sono solo gli ebrei ma anche lo stato ebraico". A 70 anni dalla liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa, il 27 gennaio del 1945, in occasione del Giorno della Memoria, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha partecipato oggi pomeriggio al Mausoleo di Yad Vashem a Gerusalemme a una ricorrenza che Israele di solito ricorda per suo conto, ad aprile-maggio, in quello che si chiama Yom HaShoah.
   Una prima volta nella quale Netanyahu ha denunciato, davanti a una folta rappresentanza diplomatica che "ancora oggi gli ebrei sono perseguitati e vilipesi solo per il fatto d'essere ebrei. E questo avviene in Medio Oriente così come nel liberale e tollerante Occidente: da Teheran a Parigi, da Gaza a Bruxelles. In tutto il mondo le comunità ebraiche vivono in una crescente paura". Ma - ha aggiunto con forza - a essere sotto tiro non sono solo gli ebrei, bensì anche "lo Stato ebraico". E non a caso ha citato la Siria da cui oggi sono arrivati sulla parte israeliana delle Alture del Golan due razzi che, secondo Israele, sarebbero stati lanciati in maniera intenzionale dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah. "Chi gioca con il fuoco - ha ammonito al riguardo il premier, a dispetto delle stesse smentite di Hezbollah - rimarrà scottato".
   Netanyahu ha poi ricordato gli attacchi a Israele che vengono da Hamas e dall'Iran dove si predica "l'odio verso il sionismo, si fa appello alla uccisione degli ebrei e alla distruzione del loro Stato". Eppure - ha lamentato, dando una coloratura politica alla giornata del ricordo - a essere chiamato sul banco degli accusati "è sempre e solo Israele", come accade nel Consiglio per i diritti umani dell'Onu di Ginevra e nella Corte penale internazionale dell'Aja. "Questa ossessione contro gli ebrei e il loro Stato -secondo il premier- ha un nome: antisemitismo".
   Infine l'Iran: "la minaccia" maggiore per Israele, stando alle parole ripetute ancora una volta. "Israele - ha avvertito Netanyahu ammonendo la comunità internazionale a restare in guardia su possibili intese sul nucleare iraniano - rigetterà ogni accordo che consenta a Teheran di aver un'arma atomica".
   Prima del suo intervento, Benyamin Netanyahu aveva visitato una mostra organizzata da Yad Vashem e composta da opere d'arte (realizzate tra il 1945 e il 1947 da sopravvissuti) in ricordo alla liberazione dai lager. Poi ha partecipato a una cerimonia nella sinagoga del Mausoleo. Ma Yad Vashem oggi non ha visto solo la presenza speciale di Netanyahu, è stato il fulcro di manifestazioni promosse da vari Paesi per il 27 gennaio.

(Corriere del Ticino, 27 gennaio 2015)


Grasso riceve il rabbino capo di Tel Aviv, Israel Meir Lau

ROMA, 26 gen - Il presidente del Senato, nell'esercizio delle funzioni del presidente della Repubblica, Pietro Grasso, ha ricevuto lunedì mattina, a Palazzo Giustiniani, il Rabbino Capo di Tel Aviv e presidente di "Yad Vashem", Israel Meir Lau.
Erano presenti il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, e il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni.

(Agenparl, 26 gennaio 2015)


Quel paragone osceno tra Shoah e questione palestinese

E' diventata ormai consuetudine, soprattutto durante la Giornata della Memoria e nei giorni che la precedono, l'attività di minimizzazione della Shoah e lo spostamento dell'attenzione sulla questione palestinese. In particolare l'ultima settimana ha visto la diffusione sul web di un'enorme quantità di commenti in cui si invita a non pensare allo sterminio nazista ma a quello che sarebbe in atto verso la popolazione di Gaza. Proprio oggi, 27 Gennaio data in cui si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, il gruppo Lotta Studentesca ha diffuso fuori dal liceo romano Tasso alcuni volantini che richiamano al genocidio palestinese. Un atto vile che prova a infondere nelle nuove generazioni una concezione distorta sia della Shoah che della nozione di genocidio in generale. Premesso che ogni vita spezzata è un danno irreparabile all'umanità e che nessuno vuole negare che a Gaza le persone muoiano, è bene approfondire la questione in maniera da non svilire il più grande genocidio della storia e non strumentalizzare la morte dei palestinesi in chiave antisemita e negazionista....

(Progetto Dreyfus, 27 gennaio 2015)


Ritorno in Israele

L'antisemitismo accresce l'immigrazione ebraica dall'Europa .

PARIGI - La crescita esponenziale dell'aliyah, l'immigrazione ebraica nella terra d'Israele, riflette il malessere di molte comunità ebraiche europee che dura da anni e si acuisce costantemente. I persistenti problemi di molte economie si sommano alla percezione di un crescente razzismo e antisemitismo nella società. È l'analisi del demografo Sergio Della Pergola, dell'Università ebraica di Gerusalemme, contenuta nel numero di febbraio di «Pagine ebraiche», mensile dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. Un fenomeno che riguarda soprattutto la Francia e che i recenti tragici fatti di Parigi hanno acuito. «L'entità e il calendario delle migrazioni, anche quelle verso Israele, seguono soprattutto motivazioni economiche e se del caso politiche, e solo in secondo luogo motivazioni ideologiche», scrive tra l'altro Della Pergola, secondo il quale «queste ultime determinano soprattutto la scelta del paese di destinazione, Israele o altro». Il fatto certo è l'aumento molto notevole dell'aliyah nel 2014: oltre 6.500 arrivi dalla Francia, primato di tutti i tempi per questo Paese, e 323 dall'Italia, secondo risultato di sempre dal 1950.
   Secondo l'indagine, condotta da Della Pergola assieme a un ricercatore dell'Università di Cambridge in nove Paesi dell'Unione europea, già nel 2012 il 52 per cento degli ebrei francesi e il 41 per cento dei belgi contemplavano la possibilità di emigrare. In Italia questa ipotesi interessava il 22 per cento della comunità. Oggi, dopo la strage di Parigi, queste cifre sono certamente superiori. Secondo la stessa indagine, il 68 per cento degli ebrei in Italia, Germania e Regno Unito e l'89 per cento in Francia e in Belgio percepivano un incremento nei livelli di antisemitismo nei cinque anni precedenti, assieme a un aumento del razzismo in generale nelle rispettive nazioni. Quasi il 30 per cento degli ebrei italiani dichiarava di aver subito molestie antisemite negli ultimi dodici mesi, livello molto simile a quello degli ebrei francesi e belgi. Il 20 per cento riportava l'impressione di essere stato discriminato a causa della propria appartenenza religiosa, il quattro per cento aveva subito atti di vandalismo, il due per cento di aggressione fisica (una persona su cinquanta); in Francia e in Belgio il livello era quattro volte superiore. L'antisemitismo - scrive Della Pergola - «infesta in primo luogo le reti virtuali dove per il 61 per cento degli ebrei italiani il problema è grave, per il 24 per cento il problema è grave nei mezzi di comunicazione e stampa, ed è serio per un altro 36 per cento, e in aumento dappertutto».
   Nell'imminenza del Giorno della memoria (che oggi ricorda la Shoah in gran parte dei Paesi occidentali), Israele - riferisce l'Ansa - ha lanciato l'allarme sulla crescita del pregiudizio antiebraico con un rapporto del ministero della Diaspora discusso dal Governo, nel quale si indica un aumento (nel 2014 rispetto al 2013) del 100 per cento degli atti antisemiti in Francia, considerato oggi il Paese occidentale più pericoloso per gli ebrei, dove è più presente l'antisemitismo di matrice islamica. Secondo il rapporto, in Francia, dove gli israeliti rappresentano meno dell'1 per cento della popolazione, «i livelli di antisemitismo e violenza contro gli ebrei hanno raggiunto nuovi picchi». Tra le varie forme di antisemitismo, il dossier presentato al Governo israeliano indica appunto in testa quello di matrice islamica: «La fonte del nuovo antisemitismo non è solo quello tradizionalmente neonazista; la sorgente di larga parte dello spirito antiebraico in Europa arriva dagli europei di origine musulmana. La maggior parte degli incidenti riportati sono stati commessi da musulmani, specialmente nelle nazioni con larghe comunità islamiche».
   Oltre alla Francia, la ricerca ha preso in considerazione Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Australia, Turchia, Stati Uniti, Argentina e i Paesi dell'ex Unione Sovietica. Dopo aver ricordato i recenti tragici fatti avvenuti in Europa (prima e dopo la strage al settimanale «Charlie Hebdo»), il rapporto mette in guardia che «una delle maggiori minacce per gli ebrei arriva dall'islam radicale che si sta diffondendo nelle comunità musulmane nel mondo». Nello stesso giorno in cui è stato diffuso il rapporto curato dal ministero israeliano, l'Organizzazione sionista mondiale ha reso noti i risultati di un sondaggio - anch'esso ripreso dall'agenzia Ansa - effettuato tra gli ebrei della diaspora in vista del Giorno della memoria che in Israele si celebra in aprile o a maggio con il nome di Yom HaShoah. Dai risultati emerge che il 55 per cento degli intervistati in Europa sostiene di non sentirsi al sicuro nel proprio Paese e di avere paura di camminare in pubblico con indosso vestiti o simboli ebraici.

(L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2015)


Cinque palestinesi su sei sono convinti che vi sia Israele dietro gli attentati di Parigi

Miti complottisti alimentati dai mass-media dell'Autorità Palestinese.

Un sondaggio condotto dall'agenzia di stampa palestinese Ma'an dopo la serie di attacchi terroristici a Parigi dei primi di questo mese offre un risultato sorprendente: la stragrande maggioranza dei palestinesi intervistati ritiene che Israele debba aver giocato un ruolo in quegli attentati.
Dal sondaggio, diffuso la settimana scorsa dal quotidiano ufficiale dell'Autorità Palestinese Al-Hayat al-Jadida, emerge che l'84,4% dei palestinesi (vale a dire 5.142 intervistati su 6.090) ritiene che gli attentati alla redazione di Charlie Hebdo (12 morti) e al supermercato ebraico HyperCacher (4 morti) siano come minimo "sospetti" e che "dietro ad essi possa esservi Israele". Solo l'8,7% degli intervistati ritiene che "l'assassinio di cittadini francesi a Parigi sia stato una conseguenza naturale della diffusione dell'estremismo islamico in Europa" (Ma'an, 19.1.15)....

(israele.net, 28 gennaio 2015)


"ln Italia Ferramonti è diventato autostrada"

Intervista a Marcello Pezzetti

di Alessandro Ferrucci

 
Il prof. Marcello Pezzetti
Ogni anno, da decenni, Marcello Pezzetti accompagna giovani, meno giovani, scolaresche, politici, politici italiani e stranieri, sempre in quei luoghi, vicino a quei binari, tra le baracche, quel che resta della camera a gas, le zone da lavoro, e a tutti racconta la genesi, gli sviluppi, gli infiniti orrori di Auschwitz e degli altri campi. È inoltre il Direttore Scientifico del Museo della Shoah a Roma.

- Professore, lei è arrivato ad Auschwitz negli anni Settanta, quando ancora la "memoria" era valore lontano...
  La memoria di allora era frutto di un'altra storia: dentro al museo del campo non esisteva la parola 'ebreo' o 'ebrei'. Mai. Neanche una volta. Tutto era ridotto a una lotta tra fascisti e antifascisti. Attenzione: ho detto fascisti, neanche nazisti.

- Come mai questa scelta?
  Era un'interpretazione di tipo sovietico, era il loro modo di dividere il bene dal male, chi aveva vinto da chi aveva perso. Anche gli Stati Uniti di quegli anni distinguevano e riducevano la complessità tra libertà e oppressione comunista.

- Difficile non parlare di ebrei ad Auschwitz ...
  E non è neanche l'unico caso, ce ne sono altri più estremi, come nel campo di Vilnius, dove sono stati portati e sterminati solo ebrei, anche lì mai citati, per la popolazione erano stati confinati solo dei prigionieri politici. Peccato la presenza dei bambini, come spiegarla? Ci sono voluti anni per ebraicizzare, come giusto, la stona.

- Negli anni Settanta molte strutture del campo erano addirittura abitate dalla popolazione comune.
  Sì, una parte era adibita ad alloggi, come se nulla fosse e occupata da lavoratori polacchi. Allora, poi, non c'era neanche nulla nei paraggi per noi che andavamo lì per le ricerche. Con un collega dormivamo nella sauna, la stanza assegnata alle immatricolazioni durante l'occupazione nazista.

- In quegli anni, come venivate trattati dalla popolazione locale?
  
È necessario dividere il periodo di dominazione comunista, da quello subito successivo. Nel primo caso bene dai cittadini, ci vedevano come un germoglio di solidarietà europea, mentre avevamo qualche problema con i papaveri del regime. Insomma, i polacchi odiavano i sovietici.

- Subito dopo?
  Negli anni Ottanta la cultura è diventata polacco-centrica, c'è stata una appropriazione dei luoghi, una voglia di incidere sulla cultura. Poi anche quale che rigurgito antisemita legato alla crisi economica.

- Cosa c'entra?
  Quando l'ex fabbrica nazista dove lavorava Primo Levi, poi convertita all'industria farmaceutica, è andata in crisi, i lavoratori hanno dato le colpe agli ebrei.

- Che tipo di colpe?
  
Dicevano che andavano, sfruttavano il campo per le loro questioni storiche e poi andavano via. Insomma, lasciavano un'aurea negativa su quei luoghi.
L'Italia quest'anno ha donato un milione di euro alla Fondazione di Auschwitz.
Il nostro Paese è responsabile come alleato e complice, e non parliamo di collaborazionismo, non confondiamo. Alleati. E complici. Detto questo, diamo un milione ad Auschwitz, bene, ma dimentichiamo altri importanti luoghi.

- A cosa si riferisce?
  
A Fossili è stata restaurata una sola baracca, sui terreni di Ferramonti è stato possibile costruire uno svincolo dell'autostrada; quello di Bolzano non esiste più, terreni buoni per costruire dei condomini. Quindi, mi vuole spiegare dov' è la memoria italiana?

- E il padiglione italiano ad Auschwitz, dopo una lunga querelle, oggi è anche chiuso in attesa di un allestimento adeguato.
  Una vicenda lunga decenni, ora spero siano in grado di studiare un percorso all'altezza, non un percorso artistico (come quello appena tolto), ma didattico, nel quale sia possibile confrontarsi, denunciare le proprie colpe, ci vuole tutto l'impegno del mondo. Vedremo.

(il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2015)


Centoventimila ebrei in fuga dalla Francia. Il piano di Israele per accoglierli

Scuole, case, lavoro, tasse: ecco come Gerusalemme è pronta a far fronte a una nuova "Operazione Mosè".

ROMA - Sul tavolo del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri è arrivato un documento del Jewish People Policy Institute, l'ente addetto all'immigrazione in Israele affiliato all'Agenzia ebraica. Il dossier contiene il piano dettagliato per accogliere 120 mila ebrei francesi in dieci anni. Un quarto del numero totale di ebrei che oggi vivono in Francia.
   Secondo i dirigenti israeliani, Gerusalemme deve essere pronta non solo ad accogliere, ma anche a incentivare la partenza ogni anno di 30 mila ebrei dalla Francia. Quest'anno da Parigi dovrebbero partire in 15 mila, senza che Israele abbia fatto ancora nulla per attrarli. Un picco impressionante, considerando che degli 80 mila ebrei francesi arrivati in Israele dagli anni Settanta a oggi un decimo è arrivato soltanto nel 2014. Ieri è uscito un altro rapporto del ministero della Diaspora israeliano, discusso dal governo, secondo cui "la Francia è oggi la nazione più pericolosa per gli ebrei". Fra i capi della comunità ebraica francese che lasciano per Israele c'è anche Sammy Ghozlan, il fondatore del Bureau National de Vigilance contre l'Antisémitisme di Parigi.
   Il modello che Israele vuole prendere come esempio è quello usato per gli ebrei etiopi, i cosiddetti falasha, e l'''Operazione Mosè". Nel 1991 due Hercules C-130 e due Boeing 707 israeliani fecero la spola con l'aeroporto di Addis Abeba, e ogni volta ripartivano con alcune centinaia di profughi. L'operazione avvenne nel modo più discreto possibile, in una zona appartata dello scalo aereo. L'intera superstite comunità di ebrei etiopi, 33 mila persone, venne trasferita nel giro di trentasei ore. La differenza con la Francia è che le partenze avverrebbero alla luce del sole.
   Benefici fiscali, mutui bassi per l'acquisto di case, posti di lavoro adeguati, scuole capaci di accogliere i figli e località dove il loro inserimento risulterebbe più facile sono alcune delle misure che Israele sta per adottare per far fronte all'emergenza antisemitismo in Francia e all'alyah dall'Europa occidentale. L'immigrazione dalla Francia non è povera come quella dall'Etiopia, sono comunità colte ed emancipate, che potrebbero scegliere di abbandonare Parigi per andare nel Québec, negli Stati Uniti o in Sudamerica. Israele si prepara così ad accoglierli.
   Secondo la storica Esther Schely Newman, gli ebrei francesi sono discendenti da quelli tunisini, marocchini e algerini fuggiti negli anni Cinquanta dal Nordafrica e non si sono mai sentiti davvero parte della Francia. Hanno sempre concepito Parigi come una tappa per Israele. E gli ebrei francesi, con la loro esperienza nella finanza e nel biotech, potrebbero avere su Israele lo stesso effetto rivoluzionario che gli ugonotti fuggiti dalla Francia ebbero su Stati Uniti e Canada nel XVII secolo. Oggi ebrei francesi dominano già l'economia israeliana, come le telecomunicazioni con Michael Golan, la finanza con Julien Assous e le start-up con Jeremie Berrebi.
   Dov Maimon, uno dei ricercatori che ha redatto il rapporto governativo, si aspetta l'arrivo di 250 mila ebrei dalla Francia in dieci anni. Equivarrebbe alla metà della popolazione ebraica francese. Gran parte degli ebrei francesi ha scelto la città di Netanya come sua nuova patria. Sul sito internet del municipio è presentata come "la riviera israeliana".
   Non che Netanya non abbia conosciuto terrorismo, anzi. Nel 2002 fu teatro del peggior attentato suicida, con trenta morti nella hall di un albergo. Ma, dicono gli ebrei francesi, almeno in Israele possiamo lottare per non essere sbranati.

(Il Foglio, 27 gennaio 2015)



Smascheriamo l'antisemitismo per contrastare tutti i genocidi

Un appello all'Onu: l'orrore di ieri è direttamente collegato a quelli di oggi. Chi aveva nel cuore l'Olocausto ha percepito immediatamente la mostruosità dei massacri in Bosnia, in Ruanda e nel Darfur.

di Bernard-Henri Lévy

 
Se mi avete invitato qui oggi non è per cantare l'onore e la grandezza dell'umanità, ma per piangere, purtroppo, i progressi di quella inumanità radicale, di quella bassezza che si chiama antisemitismo. A Bruxelles, pochi mesi orsono, sono stati attaccati la memoria ebraica e i guardiani di questa memoria. A Parigi, solo qualche giorno fa, abbiamo sentito ancora una volta il grido infame «A morte gli ebrei» e i disegnatori sono stati assassinati perché disegnavano, i poliziotti per il loro lavoro e gli ebrei perché facevano la spesa e semplicemente erano ebrei. ln altre capitali, in Europa e altrove, la stigmatizzazione degli ebrei sta ridiventando la parola d'ordine di una nuova setta di assassini, a meno che non sia la stessa, sotto altre vesti.
   La vostra casa è stata edificata contro tutto questo. La vostra Assemblea aveva il sacro compito di scongiurare il risveglio dei terribili spiriti dell'antisemitismo. Ma essi sono di ritorno, e perciò siamo qui.
L'antisemitismo di oggi dice tre cose. Può operare su vasta scala solo se riesce a proferire e ad articolare tre enunciati odiosi, ma inediti, e che Il XX Secolo non è riuscito a squalificare.
  1. Gli ebrei sarebbero esecrabili perché sostenitori di uno Stato malvagio, illegittimo e assassino: è il delirio antisionista di chi è spietatamente contrario al ritorno degli ebrei nella loro terra storica.
  2. Gli ebrei sarebbero tanto più esecrabili in quanto fonderebbero il loro amato Paese su una sofferenza immaginaria o, perlomeno, esagerata: è l'ignobile, l'atroce negazione della Shoah.
  3. Infine, commetterebbero un terzo e ultimo crimine che li renderebbe ancora più detestabili; crimine che consisterebbe - evocando essi instancabilmente la memoria dei loro morti - nel soffocare le altre memorie, nel mettere a tacere gli altri morti, nell'eclissare gli altri martiri che gettano nel lutto il mondo odierno, e di cui il caso più emblematico sarebbe quello dei palestinesi: qui ci avviciniamo a quella imbecillità, a quella lebbra che si chiama competizione tra le vittime.
   Il nuovo antisemitismo ha bisogno di questi tre enunciati. E' come una bomba atomica morale con tre componenti. Riconoscerlo significa cominciare a vedere quel che vi spetta fare per lottare contro questa calamità.
   lmmaginiamo una Assemblea generale delle Nazioni Unite dove Israele abbia il suo posto, tutto il suo posto, quello di un Paese come gli altri, né più né meno colpevole di altri, con gli stessi doveri ma anche gli stessi diritti; e immaginiamo che gli si renda giustizia riconoscendogli, intanto, di essere ciò che è veramente: una autentica, solida e valida democrazia. Immaginiamo una Assemblea generale delle Nazioni Unite che, fedele al proprio patto fondatore, diventi la scrupolosa guardiana della memoria del peggiore genocidio mai concepito da quando esiste l'uomo. Immaginiamo che nel 2015, sotto la vostra egida e con l'aiuto delle più alte personalità scientifiche mondiali, si tenga la più completa, la più esauriente, la più definitiva delle conferenze mai riunite finora sul tentativo di distruzione degli ebrei
   Proviamo poi a sognare che da qualche parte, a New York, a Ginevra o a Gerusalemme, si tenga una seconda conferenza da dedicare a tutte le guerre dimenticate che affliggono le terre abitate, ma di cui non si parla mai perché non rientrano nel quadro dei blocchi, o dei gruppi, fra cui vi dividete. E che questa seconda conferenza, contraddicendo lo stupido e mostruoso pregiudizio secondo cui in un cuore c'è posto soltanto per un'unica compassione, riveli quella che è stata l'autentica verità dei decenni trascorsi: è quando si aveva nel cuore la Shoah che subito si vedeva l'orrore della pulizia etnica in Bosnia; è quando si aveva in mente quel campione dell'inumano che fu il massacro pianificato degli ebrei d'Europa che si capiva immediatamente quel che accadeva in Ruanda o nel Darfur. Insomma, lungi daI renderei ciechi davanti ai tormenti degli altri popoli, la volontà di non dimenticare nulla del tormento del popolo ebraico è ciò che rende rilevante, evidente, l'immensa afflizione dei popoli del Burundi, dell'Angola, del Congo, e di altri ancora.
   Adottando questo programma, lotterete contro l'antisemitismo reale. Riabilitando l'Israele, avvalendovi della vostra autorità per far tacere, una buona volta, i cretini negazionisti e andando in aiuto dei nuovi dannati della terra immolati sull'altare dell'ideologia antisionista, smantellerete una ad una ogni componente del nuovo antisemitismo. Al tempo stesso, difenderete la causa dell'umanità.
   Non sarei qui se non pensassi che questa sede sia uno degli unici luoghi al mondo, forse il solo, dove possa orchestrarsi la solidarietà degli ebranlés, dei 'percossi, di cui parlava il grande filosofo cèco Jan Patocka e che ha rappresentato il senso della mia vita. E quando, nel mio Paese, le più alte autorità dicono: «La Francia senza i suoi ebrei non sarebbe più la Francia», esse erigono una diga
contro l'infamia. E quando, nello stesso Paese, un capo di Stato e di governo su quattro vengono a sfilare per dire «lo sono Charlie, io sono poliziotto, io sono ebreo», alimentano una speranza su cui non contavamo più.
   La vostra stessa presenza qui, stamattina, la vostra volontà di rendere questo evento possibile e, forse, memorabile, attestano che in tutti i continenti, in tutte le culture e in tutte le civiltà si comincia a prendere coscienza che la lotta contro l'antisemitismo è un obbligo per tutti: è una grande e bella notizia.
Quando si colpisce un ebreo, diceva un altro scrittore, è l'umanità intera a essere gettata a terra. Un mondo senza ebrei non sarebbe più un mondo: un mondo in cui gli ebrei ricominciassero a essere i capri espiatori di tutte le paure e di tutte le frustrazioni dei popoli sarebbe un mondo dove gli uomini liberi respirerebbero meno bene e dove gli uomini sottomessi lo sarebbero ancora di più.
   Sta a voi, adesso, prendere la parola e agire.
   Sta a voi, che siete il volto del mondo, essere gli architetti di un edificio dove per la matrice di tutti gli odi lo spazio si assottigli.

(Corriere della Sera, 27 gennaio 2015 - trad. Daniela Maggioni)


L’errore fondamentale sta nell’aspettarsi qualcosa di buono dalle Nazioni Unite. L’ONU è il tentativo umano di ricostruire la Torre di Babele. Finirà male, naturalmente, ma non come la prima volta. Peggio. Molto peggio. M.C.


27 gennaio: l'eterna domanda: perché?

di Deborah Fait

 
REHOVOT (Israele) - Questa mattina, uscendo di casa, mi sono imbattuta in un gruppetto di bambini di scuola materna che nel bel mezzo di un viale alberato giocavano alle belle statuine. C'era la musica, i giochi, le risate, i trilli dei bambini. Erano belli, liberi e felici, cercavano di assumere le posizioni più strane prima che la musica cessasse di suonare per saltare e gridare di gioia non appena riprendeva. Si era formato un capannello di gente che li guardava sorridendo, io ho provato un sentimento di commozione difficile da spiegare, mi è venuto un groppo in gola, mi sono guardata intorno per vedere se anche gli altri provavano la mia stessa emozione e dalle loro espressioni ne ho avuto conferma. Bambini felici che, ancora adolescenti, dovranno andare soldati per difendere casa a causa di quel sentimento inesauribile che vuole gli ebrei morti. Bambini felici che non sanno che su di essi, sulle loro famiglie, sul loro paese, da 70 anni, è stata decretata una decisione di morte. Bambini felici che non sanno ancora che, prima, tutto il loro popolo era destinato a estinguersi respirando lo Zyklon B nelle "docce" dei campi di sterminio. Bambini felici e forti, i bambini di Israele, che dovranno difendere e difendersi non solo da missili, bombe e terrorismo ma anche dalle parole velenose e dall'ostilità di chi giustifca e ammira la mortale violenza palestinese.
   Forse, amici, non tutti capirete la mia emozione poiché non c'è niente di più logico e normale che veder giocare dei bambini, deve essere un loro diritto, ma, in quel momento, di fronte a quella gioiosa scena di vita quotidiana, la mia mente vedeva le immagini di altri bambini ebrei, immagini terribili che la TV italiana manda in onda, una volta all'anno, in prossimità del 27 gennaio, Giornata della Memoria. Quei Bambini di 70 anni fa. Quei bambini spaventati, terrorizzati, soli, bambini che non potevano capire l'odio e la morte, che entravano forse tranquilli nelle docce, forse tenendosi per mano, forse fiduciosi, forse pensando che li portassero a lavarsi per poi farli andare, belli e puliti, dalla mamma. "Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti" diceva il mostro nazista. Inconcepibile vero? Come può essere accaduto? Quelli che facevano il passo avanti, tutti, venivano portati alle docce e, senza la mamma, si addormentavano per sempre con nelle orecchie il terrore degli adulti.
   1.500.000. Come è facile scriverlo e quanto è difficile pensarlo! 1.500.000 bambini divorati dal mostro europeo non sazio. L'Europa ma non solo, forse tutto il mondo occidentale, sta rivivendo alla grande l'odio per il popolo ebraico. Gli ebrei stanno scappando ancora ed è un destino davvero crudele se pensiamo che, immediatamente dopo la Shoà, i sopravvissuti arrivati in Israele in cerca di un po' di pace e sicurezza sono stati attaccati dai paesi arabi solo 8 ore dopo la dichiarazione di indipendenza dello stato ebraico. Nessuna pace, nessuna sicurezza, un destino rivissuto nei secoli, di paura in paura, di morte in morte, di odio in odio, e l'eterna domanda: perché?
   Nel 1948, finita la guerra in Europa, lo sterminio ancora negli occhi e nella carne, ecco gli ebrei in balia dei paesi arabi che attaccarono il giovane stato nella speranza di risolvere una volta per tutte il lavoro di eliminazione ideato dai nazisti con Auschwitz e prima ancora dai governi antisemiti di tutta Europa attraverso i pogrom e prima ancora dalla Chiesa. Non c'è mai fine a questo virus tramandato di padre in figlio, un'eredità diabolica, un testamento... lascio ai miei figli l'odio per l'ebreo...
   Oggi dunque incomicia il teatrino annuale, rattristatevi perché si celebra la Giornata della Memoria. Oggi... domani è un altro giorno... La Memoria, il ricordo dei 6 milioni di ebrei passati per i camini o bruciati vivi nelle sinagoghe d'Europa o sepolti nelle fosse comuni dopo essere stati fucilati alla schiena. Che Memoria? Chi ricorda Babi Yar? 33.771 ebrei, cittadini ucraini, ammazzati in due giorni, il 29 e 30 settembre 1941. Come è possibile togliere la vita a 33.771 persone in 48 ore? Che Memoria? Chi ricorda i massacri di Odessa, 50.000 ebrei ammazzati? Non erano rinchiusi nei campi di sterminio, erano nelle loro case, nelle loro sinagoghe, li hanno ammazzati nella loro città, si sono voluti risparmiare la fatica del trasporto verso le camere a gas.
   L'Europa non è cambiata, esistono ancora odio, indifferenza, i migliori sono, diciamo, passivi, i peggiori sono accecati da livore e non sembra loro vero di lasciare ai musulmani il lavoro sporco. I musulmani uccidono, gli europei assistono alcuni contenti, altri indifferenti e aspettano il 27 gennaio per farsi vedere contriti, un paio di lacrimucce e tutto ricomincia il giorno seguente. Sì, gli ebrei sono in gabbia ancora una volta ma oggi esiste Israele. Vuoi mettere la differenza? Altro che Saint Louis, la nave con 930 ebrei in cerca di salvezza, respinta da tutti i porti, prima da Cuba, poi anche dagli USA per ritornare ad Amburgo, verso morte sicura. Altro che porte chiuse in faccia, altro che "Cosa ce ne facciamo di un milione di ebrei"...
   Oggi gli ebrei hanno Israele. La Francia, lo ha appena dichiarato Netanyahu, è il paese più pericoloso per gli ebrei, in Grecia ha vinto le elezioni un partito della sinistra radicale filopalestinese e il terzo partito di quel paese è il nazifascista Alba Dorata, La Turchia è definitivamente antisemita, i paesi del nord Europa sono quasi totalmente islamizzati, in alcune parti dell'Inghilterra vige la sharya, gli ebrei devono camminare rasente i muri, molti nascondono la kippà per salvarsi da aggressioni spesso mortali. Israele è circondato da paesi che ne chiedono l'eliminazione, l'America di Obama sta esprimendo la sua ostilità a Israele nelle accademie, nelle università, eminenti intellettuali condannano Israele, parlano di genocidio palestinese, cioè di un gruppo di persone che da 600/800.000 è arrivata a essere più di 10 milioni. L'America di Obama che, da alleata, sta diventando nemica. L'ONU che fa i processi a Israele per una guerra provocata da Hamas che per anni ha colpito la popolazione civile senza mai ricevere un rimprovero. Uno scandalo, una vergogna, uno schifo tutto europeo.
   Il mondo occidentale indifferente alla tragedia del terrorismo palestinese che in Israele ammazza i civili, solo i civili, che vuole eliminare una democrazia per congiungersi alla Stato Islamico di Al Baghdadi, che spera in una seconda Shoà. Giorni fa un arabo è salito su un autobus a Tel Aviv e ha accoltellato 12 persone, alcune ancora molto gravi e certi organi di informazione italiani hanno dato la notizia alla rovescia "Soldati israeliani sparano a un arabo perché aveva accoltellato...". Dopo: il silenzio, com'è d'uso in questi casi. Israele ha dovuto sopportare centinaia di attentati, ha pianto centinaia, migliaia di vittime innocenti, tanti bambini, ma nessuno in Europa ha mai avuto pietà. "Ve lo meritate, siete andati voi a "casa loro"...
   I movimenti pacifisti pronti a manifestare contro Israele in modo molto violento e mai venuti a portare un po' di solidarietà ai morti ebrei nei ristoranti o negli autobus, oggi tacciono di fronte alle violenze arabe e islamiche in Europa e in Medio Oriente, le giustificano e le banalizzano e non hanno vergogna di insultare gli ebrei nemmeno in prossimità del 27 gennaio. Ho letto sul web alcuni commenti talmente disgustosi da togliere ogni speranza, ecco uno dei più gentili: "Avete rotto con questi ebrei, a quando un Giorno della Memoria per il "genocidio" dei palestinesi?".
   Vorrei però lasciare a me stessa un barlume di speranza, non tutti sono uguali, non tutti sono pieni di odio, non tutti sono indifferenti o colpevolmente passivi, per caso ho letto sul web le parole di un amico sconosciuto:

"Questo è un blog personale, difficilmente scrivo di ciò che avviene nel mondo esterno, lo faccio solo in particolari ricorrenze. Tipo l'undici settembre. Stavolta mi cimento anche per "il giorno della memoria". Sì, perché oggi in molti simuleranno una lacrimuccia pensando ad Auschwitz, Mathausen, San Sabba (TS). Dico simuleranno perché in questo continente, ancora, a troppi, gli ebrei piacciono solo il 27 gennaio. Morti a milioni. Mentre ci sarebbe da tener da conto anche di quelli che ci sono ancora. Fiumi di parole per le vittime di Charlie, trafiletti per quelle del giorno dopo in un negozio kosher. La cultura ebraica è alla base di ciò che siamo oggi. Non a caso si parla di tradizione giudaico-cristiana, con quel trattino che ne sottolinea la continuità. Perché "loro" concedevano lo shabbat (il giorno di riposo) anche agli schiavi, già migliaia di anni fa. Perché "loro" facevano studiare anche le donne, da sempre. E a tutt'oggi ci vuole molto di più che parlar male della loro mamma perché arrivino a tirarti un pugno. Perché "loro" amano la vita più della morte ed è questo che dovremmo reimparare anche noi. Se avete coraggio, il video fa per voi.
Il video è una simulazione di un eventuale attacco dell'Iran a Israele. Alcune scene sono un po’ crude, ma in questa melliflua circostanza pensiamo che sia adatto.
Sono 5 minuti, niente di fronte all'eternità."

Never again! Pensavamo fosse vero invece erano solo parole. Il demone europeo ha passato la palla al demone islamico e adesso sta a guardare, sfregandosi le mani, aspettando che l'Iran attacchi il mio paese per distruggerlo come promesso. Never again non vale più, non vi crediamo più. Domani, 28 gennaio, ricomincerete a guardare indifferenti, cattivi, ma Israele c'è ed è forte, paziente, troppo paziente, ma forte e coraggioso, si difenderà sempre e difenderà sempre gli ebrei del mondo, pronto a portarli in salvo. E gli ebrei continueranno a chiedere: Perché gli ebrei piacciono solo il 27 gennaio? Never again? Non vi crediamo più.

(Inviato dall'autrice, 27 gennaio 2015)


Quei cartelli in Argentina: "Ebrei fuori, qui non vi vogliamo"

ROMA - Può capitare in questi giorni a Buenos Aires di ricevere di resto una banconota da due pesos con su scritto a penna: "Fuori gli ebrei dalla Patagonia". Passeggiando per l'amena località del Bols6n, cielo limpido e grandi boschi nel profondo sud argentino, ci si imbatte in cartelli stampati, firmati Comitato di solidarietà con la Palestina: "Ebrei fuori, qui non vi vogliamo". Appaiono qua e là svastiche sui muri. Sono settimane che la comunità ebraica di Bariloche, la città più turistica della Patagonia, denuncia un'ondata di antisemitismo. All'agenzia di notizie locale Noticias de Bariloche risultano numerose denunce per attacchi antisemiti.
   La notte tra domenica e lunedì della settimana scorsa un hotel famoso nella zona dei laghi del Chubut, in Patagonia, a Lago Puelo, è stato circondato da un gruppo di gente del posto che prima ha lanciato molotov e ha sparato proiettili contro le pareti dell'albergo al grido "ebrei di merda!", poi è riuscito a entrare, ha coperto di insulti antisemiti e derubato gli ospiti dell'albergo: una comitiva di turisti israeliani. Racconta il proprietario dell'hotel, Sergio Polak: "E' stato un assalto, varie ore di terrore. Gridavano 'ebrei schifosi, ci state rubando la Patagonia'''. Dice che l'incubo è durato a lungo perché non c'erano agenti di polizia in zona. Non è il primo raid del genere, è stato solo il più violento. "I primi episodi sono di marzo dell'anno scorso - ha raccontato Polak al giornale argentino la Nacion - hanno cominciato incendiando la recinzione, poi hanno dato fuoco a due bungalow dell'hotel. Credo sia l'effetto della campagna in corso contro il turismo in arrivo da Israele, qualcuno fa girare la voce che non si tratti di turisti, ma di soldati israeliani".
   Dice al Foglio Daniel Muchnik, intellettuale ebreo di Buenos Aires: "Sta tornando a circolare la vecchia teoria cospiratrice che accusa gli ebrei argentini di volersi appropriare insieme a Israele della Patagonia. Uno dei suoi teorici fu un professore della facoltà di Diritto di Buenos Aires, Walter Berveraggi Allende. E' una teoria folle, già stata emblema del nazionalismo fascista d'Argentina che negli anni Trenta e Quaranta cercava di impedire con ogni pretesto l'ingresso di rifugiati ebrei in fuga dal nazismo". L'impronta degli attacchi di questi giorni, sostiene Muchnick, "è quella delle campagne antisemite dei vecchi gruppi nazifascisti d'Argentina, per esempio di quelle portate avanti dall' Alianza Libertadora Nacionalista y Tacuara. Da quel gruppo vengono molti dirigenti Montoneros degli anni Settanta". I Montoneros, movimento politico argentino che ebbe il suo boom di militanza tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, non erano un corpo compatto, avevano dentro l'organizzazione un'estrema destra e un'estrema sinistra, una contro l'altra armate. Quest'ultima confluì, in parte, nella lotta armata contro il regime militare ('76-'82), l'altra accolse molti reduci della militanza pro nazista. A quella si riferisce Muchnik.
   "Il raid contro l'hotel di Chubut - assicura - ha il sapore rancido dell'antisemitismo del vecchio nazionalismo. Non vedo un pericolo jihadista immediato qui, ma non escludo possano sorprenderei attacchi fatti con gente locale finanziata con soldi in arrivo dall'Arabia Saudita, dal Qatar o dall'Iran. Non siamo un'isola perduta". Ma c'è o non c'è un'emergenza antisemitismo in Argentina? Risponde Muchnik: "C'è un antisemitismo strisciante. Viene da lontano. Non ci fu sorpresa infatti per le due terribili stragi all'ambasciata di Israele, nel 1992, e alla Arnia, la mutua ebraica, nel 1994. Per compiere quei due attentati fu utilizzata manodopera argentina. Dall'estero possono essere arrivati i finanziamenti e i mandanti, ma c'era gente di qui coinvolta. L'antisemitismo ora è manifesto nella polizia, in alcune pieghe della burocrazia statale e nel nostro ministero degli Esteri nonostante l'attuale ministro degli Esteri Timerman, sia ebreo". C'era Timerman alla marcia di Parigi dopo la strage, ma ha dovuto partecipare come singolo cittadino. Non c'era una delegazione ufficiale argentina. La presidente argentina non l'ha autorizzato a partecipare in sua vece. Altri governi latinoamericani hanno mandato delegazioni delle proprie ambasciate a Parigi in rappresentanza ufficiale. Buenos Aires no. "Una vergogna nazionale" dice Muchnik. E' in questo bell'ambientino che si svolge l'indagine sulla morte del giudice Alberto Nisman.

(Il Foglio, 27 gennaio 2015)


Carteggio Federazione Italia-Israele / Ministro Gentiloni

Il Presidente della Federazione Associazioni Italia-Israele ci ha inviato per conoscenza il testo di una lettera da loro inviata al Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sui temi del riconoscimento della Palestina come Stato e della classificazione di Hamas come organizzazione terroristica, insieme con la risposta del Ministro. Molto volentieri mettiamo questo materiale a disposizione dei nostri lettori. NsI

                                                                                                   Preg.mo On.
                                                                                                   Paolo Gentiloni
                                                                                                   Ministro degli Affari Esteri    
                                                                                                   Roma
Cuneo, 8 gennaio 2015

Gentile Ministro,
come Le è noto, il Parlamento Europeo si è pronunciato, in data 17 dicembre, a favore del riconoscimento dello Stato della Palestina e della costituzione di due Stati per due Paesi, con il ritorno alle linee di confine del 1967, e la Corte di Giustizia ha deliberato di rimuovere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. A breve la Camera dei Deputati discuterà di tre mozioni, presentate dal Movimento 5 Stelle, Sinistra e Libertà e Gruppo Misto, mirate al riconoscimento dello Stato della Palestina da parte dell'Italia.
AI riguardo, Le esprimo tutta la nostra preoccupazione, motivata anche dal crescente antisemitismo che si sta manifestando a livello europeo, e sottopongo alla Sua cortese attenzione le nostre valutazioni, confidando che possa tenerle presenti nell'esercizio delle Sue alte responsabilità....


*

Risposta del Ministro

Roma, 23 gennaio 2014

Egregio Presidente,
mi riferisco alla Sua cortese lettera dell' 8 gennaio scorso, nella quale evidenzia opportunamente la complessità della questione mediorientale e soprattutto l'urgenza che le Parti riprendano il negoziato diretto quale unico possibile percorso per pervenire a una soluzione complessiva e durevole del contenzioso israelo-palestinese. Sul perseguimento di questo obiettivo, basato sulla soluzione dei due Stati, si concentrano i nostri sforzi, in pieno coordinamento con i partners europei, l'alleato statunitense e i principali attori regionali. Vanno scoraggiate tutte le iniziative, da una parte e dall'altra, suscettibili di deteriorare la collaborazione tra israeliani e palestinesi, in primis quella esistente nel cruciale comparto della sicurezza....

(Notizie su Israele, 27 gennaio 2015)


Roma - Museo della Shoah, consegnata la sede provvisoria al Ghetto

Il sindaco ha ceduto alla Fondazione le chiavi della Casina dei Vallati. Marino: "Dobbiamo accelerare il percorso per il riconoscimento e il mantenimento della Memoria".

Il sindaco Ignazio Marino e Leone Paserman
ROMA, 26 gen - Il Museo della Shoah avrà nel Ghetto ebraico della capitale una sede temporanea in attesa della realizzazione del Museo definitivo a Villa Torlonia. E oggi, alla vigilia del 27 gennaio Giornata della memoria, a consegnare simbolicamente le chiavi della Casina dei Vallati il sindaco di Roma Ignazio Marino. "Oggi è un giorno molto importante perché vogliamo non solo avviare ma accelerare il riconoscimento e mantenimento della memoria - commenta Marino - Un percorso non solo importante ma faticoso. Senza la memoria saremmo un'umanità meno completa e meno felice. Ieri ho riletto le parole di Primo Levi che parla di un segnalibro della memoria. Per me quel segnalibro è rimasto nel padiglione 20 di Auschwitz dove le persone venivano uccise con un'iniezione al cuore. Pensate che cosa terribile, ripetuta tante volte ogni giorno. Tutto questo, che è frutto di una cultura ormai è cancellata nel nostro continente, deve essere mantenuto nella nostra memoria. E trasmetterla ai nostri figli e ai nostri nipoti. Per me è un onore ed una gioia consegnare le chiavi della Casina dei Vallati".
A ricevere le chiavi della sede temporanea, il presidente della Fondazione del Museo della Shoah, Leone Paserman. "Sono veramente emozionato di ricevere queste chiavi - ha detto i Paserman - Questo spazio bellissimo ci consentirà di aprire subito al pubblico ed esporre la documentazione, le interviste e i filmati che la Fondazione ha raccolto dal 2008 in sei anni e mezzo di attività". Presenti alla cerimonia il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, il rabbino capo della Capitale Riccardo Di Segni e alcuni sopravvissuti ad Auschwitz tra cui Sami Modiano e Piero Terracina.
Il sindaco Marino ha poi ricordato che "domani saranno 70 anni dall'apertura dei cancelli di un luogo terribile come Auschwitz. Credo sia importante per Roma dedicare un edificio in un luogo così simbolico: siamo al centro di un quartiere dove avvenne il terribile rastrellamento del 16 ottobre 1943. Oggi- ha proseguito Marino- consegniamo quest'edificio affinché possa essere il luogo dove coltivare la memoria".

(la Repubblica, 26 gennaio 2015)


Rapporto choc di Israele sulla Francia. «Nel 2014 mille episodi di antisemitismo»

Il sondaggio in Italia sulla Giornata della Memoria: «Rischia di diventare un rito vuoto»

ROMA - L'analisi che appare nel prossimo numero di Pagine ebraiche, il periodico dell'ebraismo italiano, parla chiaro. L'attenzione è inevitabilmente rivolta al peso della Giornata della Memoria del 27 gennaio nella coscienza collettiva italiana: «Abbassare la guardia e considerarla un dato acquisito potrebbe costituire un grave pericolo. Resta necessario al contrario intensificare il lavoro di informazione e cultura, gli investimenti sull'educazione, lo sforzo di sottrarre la Memoria della Shoah al quadro retorico e celebrativo dove vengono spesso relegate le attività istituzionali presenti sul calendario ma poco avvertite nella coscienza della popolazione».
   Ma perché il periodico ebraico elabora un'analisi così preoccupata? Perché teme che la ritualità possa prendere il posto di una reale comprensione della tragedia della Shoah? La redazione ha collaborato con l'Istituto di ricerche SWG Lab per realizzare i primissimi dati 2015 sulla percezione della Memoria tra gli italiani con il rapporto «Scenari di un'Italia che cambia. Speciale per il giorno della Memoria»,
   Ed eccoci ai dati. Secondo l'anticipazione del rapporto pubblicata su Pagine ebraiche, la percezione del coinvolgimento nella Giornata della Memoria sta calando rispetto al 2014. L'anno scorso alla domanda «Secondo lei gli italiani si sentono molto-abbastanzapoco-per niente coinvolti verso la celebrazione del Giorno della Memoria», l'accoppiata molto-abbastanza totalizzava il 42%. Quest'anno scende al 39%. Secondo Pagine ebraiche la variazione, pur non essendo enorme in termini percentuali, appare «comunque significativa, e soprattutto allarmante se letta in una prospettiva temporale di una Memoria sempre più sbiadita». Ovvero: il tempo che passa (quest'anno siamo al 70o anniversario della liberazione di Auschwitz) e la progressiva, inevitabile scomparsa dei testimoni diretti può appannare la Memoria e consegnarla, appunto, al pericolo della ritualità adombrato dall'analisi di Pagine ebraiche.
   
Parallelamente, nel sondaggio raddoppia la quota di chi risponde «Non serve più a nulla» alla domanda legata al senso della celebrazione del 27 gennaio. Cresce anche il numero di chi giudica «retorico» o «inutile» l'appuntamento annuale. Secondo l'analisi del periodico «dietro l'insofferenza rischiano di celarsi sentimenti oscuri e preoccupanti, rischia di mettere radici la tentazione dell'intolleranza, della negazione della Storia».
   Resta solida, al contrario, la convinzione che esista ancora, in Italia, un sentimento antisemita: lo pensa il 44% degli Intervistati; ma anche qui si registra una differenza degna di analisi, perché nel 2014 a pensarlo era il 46%.
   Da Gerusalemme arriva intanto il rapporto del ministero della Diaspora israeliano in cui si legge che «la Francia è oggi la nazione più pericolosa per gli ebrei». Secondo lo studio statistico, durante la guerra di Gaza dello scorso luglio-agosto 2014 il numero di atti antisemiti in Francia è aumentato del 400% rispetto allo stesso periodo del 2013. Ancora: nel 2014 in Francia sono stati registrati ben 1.000 episodi legati all'antisemitismo.
   Per quanto riguarda invece l'antisemitismo islamico il rapporto segnala che «la maggior parte degli incidenti riportati sono stati Commessi da musulmani, di più nelle nazioni dove ci sono larghe comunità musulmane». Inoltre, «l'antisemitismo islamico si sta rivelando, tra le forme di antisemitismo, quello guida nel mondo occidentale».
   Il documento ha messo in luce anche la continua emersione di forme di antisemitismo su Internet, inclusa la ricomparsa delle vecchie teorie su un ipotetico complotto ebraico globale per la conquista del mondo, compresi i Protocolli dei Savi di Sion.

(Corriere della Sera, 26 gennaio 2015)


Oltremare - Senza 27 gennaio

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Io che sono cresciuta senza 27 gennaio, la Memoria non l'ho mai persa lo stesso. L'ho cercata e la cerco continuamente, in generazioni, lingue e nazionalità diverse. Sarà stata una buona educazione, forse. La fortuna di nascere a Torino con Primo Levi ancora vivo a pochi isolati. E oltre a lui, altre facce e voci di racconti di quegli anni. I partigiani, i nascosti, le staffette, i sopravvissuti. Non che tutti parlassero, anzi; ma c'erano, e quell'esserci era il racconto.
Fino a pochi anni fa, il 27 gennaio per noi italiani era al massimo il 16 ottobre, suo opposto e nemesi: deportazione contro liberazione. Il 27 gennaio è una Memoria imposta, come se quel giorno d'inverno nella Polonia occupata fossero state delle immaginarie truppe europee a buttare giù i cancelli e liberare quelli che ancora si potevano liberare.
È un artificio, la sfacciata volontà di ricordare la liberazione di un campo della morte (sia pure di quello più assassino e rappresentativo) invece che la deportazione verso quel campo. Perché? Per fingere che ci sia stata allora una altrettanto forte volontà di fermare o perfino evitare lo sterminio? Domanda ridicola più che retorica.
Se ogni paese o ogni città e villaggio osservasse una propria data, vera e storica, in cui ricordare le vere e storicamente accertate stragi fasciste e naziste, e le proprie deportazioni di ebrei e antifascisti per via di rastrellamenti o delazioni, non sarebbe più presente, il ricordo? Più vero e feroce, che è quello che serve davvero, poi, per ispirare paura. Eterno monito.
La lontananza geografica del 27 gennaio è uno dei motivi per cui il Giorno della Memoria rischia ogni anno di diventare un baraccone di tuttologia dello sterminio. Laggiù nel gelo da qualche parte del centro Europa non è qui, non è la casa accanto, quella da cui sono stati trascinati via degli ebrei qualsiasi, buoni o cattivi, ricchi o poveri, belli o brutti. E non sono ritornati. Senza 27 gennaio e con migliaia di pietre d'inciampo, ecco la vera Memoria.

(moked, 26 gennaio 2015)


"Siamo noi dietro il filo o piuttosto loro?"

La storia di Etty Hillesum, scrittrice olandese di origine ebraica, vittima della Shoah

di Anna Cerofolini

"Condivideremo onestamente il freddo e il buio e la minestra di piselli e il filo spinato, e forse sapremo anche sopportare insieme ogni cosa". Con queste parole Etty Hillesum descrive il futuro, all'amico Osias Kormann, in lettere 1942-1943, nel suo spostarsi tra Amsterdam e Westerbork, il campo di smistamento, in Olanda " l'ultima fermata prima di Auschwitz" dove si occupava di accudire i malati.
   Etty nasce nel 1914, e a ventisei anni inizia a scrivere il suo Diario e le sue lettere, sono gli anni in cui i nazisti diedero vita alla prima grande retata di ebrei olandesi, costringendoli ad appuntare sui loro abiti la stella gialla e portandoli ad Amsterdam con l'intento di deportarli nel più breve tempo possibile in Polonia e dichiarare così l'Olanda "esente da giudei" .
   Nelle sue lettere traspare il desiderio di tornare, ogni volta che si allontana per problemi di salute, al campo di prigionia, perché chi crede che esiste qualcosa di positivo in tutte le situazioni: "Può affermarlo solo se personalmente non sfugge alle circostanze peggiori".
Quello di Etty Hillesum é il racconto di chi sa di possedere un amore illimitato verso l'umanità: tedeschi, olandesi, ebrei e non ebrei. Di chi sente di dover donare questo sentimento, di chi crede che dal mondo un giorno spariranno i fili spinati, e che li vive come: "Una questione di opinioni". Di chi si chiede se: Siamo noi dietro il filo o piuttosto loro.
   Il suo riuscire a reperire delle calzature per - la ragazza senza scarpe - costretta in un letto e che ora può di nuovo affrontare il fango, un fango talmente presente nel campo che: "Fra le costole bisogna possedere un gran sole interiore" per non arrendersi.
La sua forza nel vivere l'arrivo dei genitori e del fratello, un padre che racconta felice come un fanciullo per non essere calpestato nell'inferno delle grandi baracche.
   La sua ambizione di riportare alla luce a Westerbork la biblioteca custodita in una cantina, che fa pensare ai Bücherverbrennungen, il rogo dei libri del delirio nazista, la memoria della vita oscurata dalle fiamme dell'orrore, e appartiene solo a chi crede fermamente che malgrado: "Le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute" si deve continuare a vivere la propria vita in modo ricco di significato o altrimenti è più giusto morire. Di chi crede ancora alla vita in cui il termine deportazione non aveva alcun senso.
   Forse perché in quel luogo di prigionia è ancora possibile farlo, e la convivenza forzata appare sopportabile, quasi un privilegio rispetto alla visione di quei treni con il loro carico di uomini, donne, invalidi, bambini, malati, anziani che a migliaia vengono rastrellati e davanti ai quali: "Ci si vergogna di esser stati presenti senza averlo potuto impedire".
   Accettare di dover partire per la Polonia, accettare il proprio destino, pensare che: "I propri fratelli di razza olandesi faticano sotto un cielo ignoto, o stanno imputridendo in una terra ignota", ricordare che alcuni sono partiti ridendo o pieni di coraggio, diventa insopportabile per il pianto dei neonati strappati alle loro culle, ma non spezza la speranza che quel treno per la prima volta possa non partire che ogni deportazione venga interrotta.
   "Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma molto forti e calmi, e così Mischa" Etty gettò fuori dal treno questa cartolina postale il giorno in cui lei e la sua famiglia furono deportati, era il 7 settembre 1943.
   Etty Hillesum mori a Auschwitz il 30 novembre 1943.

(Articolo 21, 26 gennaio 2015)


Non ricordiamo solo tragedie e genocidi ma l'esempio dei Giusti di ogni tempo

Gabriele Nissim: insegniamo ai giovani il coraggio delle idee

di Claudia Cangemi

Gabriele Nissim
MILANO - Mai come quest'anno la Giornata della Memoria assume un significato di drammatica attualità. Nei giorni in cui il fanatismo tenta di mettere a tacere con la violenza qualsiasi pensiero dissenziente, si alza ancora più forte la voce di chi vuole riportare l'attenzione su quanti nella storia hanno fatto propria la celebre frase di Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo». Instancabile assertore di tale principio è Gabriele Nissim, Ambrogino d'oro 2014, che a Milano ha creato dodici anni fa il Giardino dei Giusti. «E importante insegnare ai giovani - ha detto in occasione della consegna dell'onorificenza del Comune - che il valore fondamentale della politica è la prevenzione dei genocidi, di ogni forma di totalitarismo e intolleranza. Vivere con il gusto della pluralità, sapendo che non può esserci una verità unica nel mondo ( ... ). Ecco perché i Giusti sono i primi a comprendere quando il mondo prende una brutta piega, quando qualcuno vuole eliminare le differenze in nome di un pensiero unico».

- Gabriele Nissim, cosa significa per lei la Giornata della Memoria?
  «Dovrebbe cambiare la definizione: non, della Memoria ma delle Memorie. E molto importante che il ricordo sia qualcosa di vivo, e non ci si stanchi mai di cercare di capire insieme, partendo dalle storie di tutte le persone che hanno avuto il coraggio di opporsi all'ingiustizia, in qualsiasi momento e parte del mondo».

- Non solo Shoah, dunque
  «Assolutamente. I Giusti sono individui che hanno sfidato il potere in ogni parte del mondo o momento della storia. Il 6 marzo prossimo nel Giardino di Milano sarà piantato un albero in ricordo di una avvocatessa siriana attivista per i diritti umani, Razan Zaitouneh, rapita con il marito e due colleghi nel dicembre 2013. Di lei non si sa più nulla. Un altro albero sarà dedicato a Ghayath Mattar, un giovane siriano ucciso perché distribuiva volantini pacifisti e stava diventando troppo popolare. E poi ci sono Francesco De Luca, ufficiale della Guardia costiera che ha salvato molte vite di migranti, e Rocco Chinnici, giudice ucciso dalla mafia nell'83».

- Attualità e memoria si mescolano.
  «Certo. I rischi delle celebrazioni sono essenzialmente due: svuotarle di significato attraverso una ripetitività sterile e retorica. E suggerire l'idea che l'Olocausto sia stato un evento tanto terribile quanto inevitabile. Il che suscita un senso di fatalismo e negatività che è quanto di più sbagliato. Non bisogna mai stancarsi invece di proporre esempi positivi: anche nella Germania nazista ci furono persone che tentarono di opporsi».

- Cosa vorrebbe far capire ai giovani?
  «Che non bisogna mai cedere al facile conformismo, ma avere il coraggio di pensare in modo critico e prendersi la responsabilità di correre dei rischi per sostenere ciò in cui si crede anche se tutti affermano il contrario. Questo è il vero eroismo, altroché superpoteri. Il sonno della ragione (e aggiungerei della coscienza) genera mostri».

- I Giardini dei Giusti si moltiplicano in tutto il mondo. E quello di Milano vorrebbe crescere…
  «Sì, abbiamo proposto un ampliamento e cerchiamo fondi per realizzarlo, ma la burocrazia è terribilmente lenta. Eppure il Comune dovrebbe andar fiero di essere un esempio a livello europeo. Dovrebbe crederci di più».

(Il Giorno, 26 gennaio 2015)


Off-shore nel Mediterraneo Israele vince la sua sfida per l'autonomia energetica

Con le ultime scoperte di metano lo Stato ebraico copre il fabbisogno interno e riuscirà con l'export a finanziare un fondo sovrano come i vicini arabi: ma ora è spiazzata la forte industria del fotovoltaico hi-tech.

di Filippo Santelli

TEL AVIV - Il boia dell'Isis in mano non tiene il coltello ma la pistola di una pompa di benzina. Tra i manifesti all'entrata del teatro Habima di Tel Aviv è quello che spiega meglio cosa significa per Israele non dover più importare petrolio. "Fuel Choices", al suo secondo convegno, è il programma del governo che vuole spingere il trasporto alternativo, gas, biodiesel e elettrico, al 30% entro il 2020 e al 60 entro il 2025. «Non possiamo dipendere dalle scelte dei sauditi», dice il responsabile Eyal Rosner. Sul tavolo 350 milioni di dollari per finanziare startup del settore: in due anni ne sono nate 150. La nuova indipendenza parte dal metano: 900 miliardi di metri cubi sul fondo del Mediterraneo. Il bacino di Tamar ha cominciato a pompare nel 2013, Leviathan parte nel 2018. Bastano per 50 anni di consumi interni e avanzano per l'export. Tocca al governo decidere come gestire l'abbondanza tra mille polemiche. Sul monopolio di Delek, campione locale, e degli alleati americani di Noble: di recente l'esecutivo ha aperto a altri operatori, tra cui Edison. E sull'utilizzo delle royalty, a regime oltre 5 miliardi di euro l'anno, che molti volevano incanalate nell'economia nazionale: «Rischieremmo una iperinflazione», risponde il ministro dell'Energia Silvan Shalom. Finiranno in un fondo sovrano che le investirà all'estero. Si è litigato pure sulla quota da concedere all'export, poi fissata al 40%. Trovare compratori però si rivela difficile. Ci sono lettere d'intento con Palestina, Giordania e Egitto, ma i governi locali prendono tempo. Così lo scorso dicembre Shalom è arrivato a Roma per offrire il metano all'Europa, via Italia, attraverso una condotta da 5 miliardi di euro che Bruxelles dovrebbe finanziare. Ma la prima opzione resta vendere agli Stati vicini.
  Il mercato interno, in ogni caso, è servito. Il gas, con cui oggi Israele alimenta il 42% della produzione elettrica, dovrebbe salire al 65 entro il 2020. Un altro 25% verrà dal carbone, importato da Polonia e Australia, amici fidati. Con le rinnovabili, la cui fetta dovrebbe arrivare al 10%, ecco l'indipendenza. Sull'innovazione verde il Paese sta concentrando ricerca e capitali: un dollaro pubblico per ogni dollaro privato. «Rispetto alle start-up software abbiamo bisogno di investimenti maggiori e più pazienti», dice Eli Rozinsky, fondatore di Evr Motors. La sua turbina eolica ultraleggera è quasi pronta. Lo sviluppo lo sta completando all'interno di Horizon, l'incubatore green-tech creato dal gruppo israeliano Rotem e dalla francese Alstom. Nel parco industriale si sperimentano le nuove tecnologie. Enstorage, spinoff dell'università di Tel Aviv partecipato da Siemens, sta testando una mini unità di batterie a idrogeno per immagazzinare energia. A fianco svetta la parabola di Heliofocus. Servono occhiali scuri: la luce riflessa dagli specchi raggiunge i mille gradi, usata per produrre vapore. È il solare termico, efficienza al 40%, ben sopra il fotovoltaico. La società ha raccolto 50 milioni di dollari da Israel Corporation e dall'utility cinese Sanhua. E in Cina sta installando le prime tre parabole. Sul mercato interno la quota delle rinnovabili resta minima: l'obiettivo del 10% entro il 2020 è la metà di quello europeo e non è detto che venga raggiunto, dall'attuale 2%. La strategia del governo è sbilanciata sul metano: i nuovi giacimenti hanno permesso di tagliare del 15% le tariffe elettriche, e le rinnovabili rischiano di finire fuori mercato. Però Eran Miller nel parco fotovoltaico del kibbutz Ketura, mostra la sua Ecoppia: con il cellulare le spazzole rotanti si mettono in moto, scorrendo lungo i pannelli solari e rimuovendo la polvere del deserto. «Pulendoli ogni notte, si evita la perdita di efficienza. I mercati? Luoghi aridi, come il Cile o il centro Asia». Non Israele.

(la Repubblica, 26 gennaio 2015)


Viaggio nella storia della presenza ebraica in Puglia

La Puglia è stata per secoli tappa importante di un percorso che, a partire dall'antichità, ha visto l'ebraismo espandersi e diffondersi in tutto il Mediterraneo.

di Antonio Verardi

 
I legami tra il mondo ebraico e la Puglia sono bimillenari.
La nostra terra, infatti, è stata tappa importante di un percorso che, nell'antichità, ha visto l'ebraismo espandersi e diffondersi in tutto il Mediterraneo.
Si è potuta accertare, attraverso numerose fonti storiche, l'esistenza di colonie ebraiche in Italia meridionale già al tempo della Roma repubblicana: gli ebrei sbarcavano di solito a Brindisi e a Pozzuoli e restavano in terra d'Otranto, in Puglia e in Campania, come liberi cittadini, o come schiavi impiegati nella coltivazione dei latifondi romani.
Ma fu dopo la distruzione della città di Gerusalemme da parte dell'imperatore Tito nel 70 d.C., con la conseguente dispersione del popolo ebraico, che si determinò lo stabilirsi definitivo in Italia meridionale, e quindi in Puglia, di un grande numero di ebrei.
Queste comunità, sia pure attraverso tutta una serie di vicissitudini, continuarono a svilupparsi economicamente e culturalmente nel corso dei secoli, migliorando progressivamente le proprie condizioni di vita.
Una serie di epigrafi funerarie ritrovate a Bari, Brindisi, Venosa, Lavello, Taranto e Matera, tutte in lingua ebraica, dimostrano che, fin da tempi antichi, le comunità ebraiche pugliesi si servivano della loro lingua originaria, il che si può spiegare accettando l'ipotesi di una grande intensità di rapporti fra la Palestina e la Puglia.
I centri principali dell'ebraismo pugliese furono Bari, Oria, Venosa e Otranto.
In particolare, l'importanza di Bari e Otranto, è dimostrata da quanto fra i dotti ebrei europei si diceva delle due città: "da Bari esce la legge e la parola di Dio da Otranto".
Al tempo dei Normanni, le comunità giudaiche erano sempre più numerose e rigogliose; fra queste, furono particolarmente importanti quelle le città marinare come Bari, Barletta, Brindisi, Gallipoli, Giovinazzo, Monopoli, Taranto e Trani.
Volendo seguire le tracce della presenza giudaica in Puglia e scovare i resti più vistosi di quell'antica cultura, potremmo partire proprio da qui.
Già nella prima metà dell'XI secolo si narra di una numerosa comunità ebraica presente a Trani, nella "Giudecca", un quartiere dedalo di vicoli e cortili, in gran parte visibili ancora oggi: siamo nella parte più alta della zona vecchia, adiacente le mura longobarde, nei pressi del porto e della cattedrale.
E' qui che vivevano gli ebrei, perfettamente integrati nel tessuto urbano e nelle attività quotidiane della città.
La presenza degli ebrei entrò in crisi con l'arrivo degli Angioini, intorno alla fine del XIII secolo, fino a scomparire definitivamente con il dominio della 'cattolicissima' Spagna nel meridione, che nel 1510 impose l'espulsione degli ebrei da Trani.
A testimonianza di una presenza viva e numerosa, a Trani c'erano ben quattro sinagoghe, poi trasformate in altrettante chiese, dedicate a SS. Quirico e Giovita (poi S. Anna), S. Maria di Scolanova, S. Leonardo Abate e S. Pietro Martire.
La chiesa di S. Anna e quella di S. Maria di Scolanova sono tutt'oggi esistenti, mentre delle altre due si hanno solo testimonianze documentarie, che ne ipotizzano la collocazione dell'una nei pressi di S. Anna e dell'altra in via Cambio.
Merita senz'altro una visita la Sinagoga Scolanova di Trani (sec. XIII), convertita prima in chiesa di Santa Maria e poi ritornata sinagoga nel 2005. All'edificio, splendido nella viva pietra tranese, si accede tramite la scalinata esterna a ridosso dell'ala occidentale. All'interno è possibile ammirare un dipinto di origine bizantina che raffigura la Madonna dei Martiri, protettrice dei marinai. La facciata principale monocuspide si apre, invece, su Via e Piazza Sinagoga, quest'ultima ospitante la meglio nota "casa del rabbino".
Tappa d'obbligo è però la 'Sinagoga Grande', convertita in Chiesa di Sant'Anna e oggi sezione ebraica del museo diocesano di Trani. Edificata nel 1246-47, costeggia Via della Giudea, cioè quella che era la strada principale dell'antico quartiere ebraico tranese. Della sua struttura originaria si conservano i muri perimetrali, un'epigrafe, la cupola incastonata nel tamburo ottagonale e, sulla facciata, un piccolo timpano a cuspide. Pregevoli anche gli elementi di periodi successivi come l'altare ligneo settecentesco, l'abside medievale, le decorazioni seicentesche e il campanile.
Oggi l'edificio custodisce alcuni reperti della storia ebraica cittadina. Nella cripta sono presenti alcuni cippi tombali provenienti dai cimiteri della comunità ebraica della città, mentre nella zona superiore si conservano copie di documenti e due eccezionali reperti: una Mezuzah (contenitore che racchiude una pergamena) risalente al XII - XIII sec. e frammenti pergamenacei di un'antica Bibbia del XIV secolo.
Un altro importante centro che testimonia la presenza ebraica in Puglia è quello di Manduria.
É nel centro storico della cittadina salentina che si trova l'antico quartiere ebraico, inizialmente integrato nel tessuto abitativo locale. Anche Manduria aveva la sua Sinagoga: divenuta nel XVII secolo casa padronale, conserva oggi il caratteristico portale con 14 elementi decorativi floreali, divisi al centro da una maschera, forse di valenza propiziatoria. Il declino della comunità ebraica manduriana iniziò con la creazione del Ghetto, a seguito della bolla di Paolo IV nel 1555 che intendeva difendere la cristianità: il quartiere ebraico venne isolato dal resto della città e sono ancora visibili i tre grandi archi in tufi che serravano il Ghetto. Un'antica tradizione ci fa sapere che le autorità locali della città, alle ore 24 di ogni sera, serravano a chiave quelle porte, riaprendole allo spuntar del sole del mattino seguente: era questo un provvedimento necessario per impedire agli ebrei la propaganda notturna della propria religione.
Ancora nel Salento, si trova la "Porta degli Ebrei", che conduceva alla giudecca della comunità ebraica di Oria (BR) e che dà accesso ad un quartiere medievale tortuoso, di piccole case, botteghe, balconcini nascosti. Dietro questa porta, si sviluppava una fiorente comunità ebraica, nota in tutto il Mediterraneo medievale, per l'eccelsa levatura culturale che la carattrizzava. La piazza ivi prospiciente è dedicata, per esempio, a Shabbetai Donnolo, figlio della città ed esperto esegeta, nonché medico e astronomo.
In questo viaggio sulle orme degli ebrei di Puglia non è possibile dimenticare il Gargano.
Senz'altro curiosa è la storia della comunità ebraica di San Nicandro Garganico (FG) e del suo fondatore Donato Manduzio: un bracciante agricolo che, agli albori del fascismo e dell'avvento delle leggi razziali, decise di abbracciare la parola dell'Antico Testamento e degli ebrei al tempo di Mosè.
Infine, va citata l'incantevole Vieste (FG). Anche qui, nell'antico rione ebraico, costellato di archi medievali e piccole vie, ancora si respira la vita degli artigiani e dei commercianti ebrei.
Una vita tormentata ma, senza dubbio, anche a distanza di secoli, colma di fascino.

(Pugliain.net, 25 gennaio 2015)


Scuse alleate per non colpire Auschwitz

«Avremmo dovuto scagliarci su Auschwitz e le linee ferroviarie. Dio ci perdoni per questo tragico errore», confessò il senatore americano George McGovern, che era stato pilota dei bombardieri che rasero al suolo le città tedesche e le industrie belliche nei territori controllati dai nazisti. Tra queste la fabbrica della Ig Farben, che impiegava manodopera proveniente dal vicino lager. Perché dunque l'attacco non avvenne, sebbene gli stati maggiori alleati sapessero con sicurezza da fine giugno 1944 che ad Auschwitz-Birkenau era in atto il più atroce degli stermini? Attorno a questa domanda ruota la bella inchiesta storica Bombardate Auschwitz (Il Saggiatore, pp.178, € 16) scritta da Arcangelo Ferri, giornalista Rai appassionato e brillante. La risposta è duplice. Da un lato l'antisemitismo presente anche nei Paesi democratici frenava l'iniziativa dei politici che non volevano dare un appiglio alla propaganda nazista, che li accusava di condurre una guerra in favore degli ebrei. Dall'altro considerazioni «tecniche», secondo le quali non si potevano distogliere energie dagli obiettivi militari; e poi, anche volendo, i grandi bombardieri non erano adatti ad attacchi di precisione, mentre quelli medi non avevano l'autonomia di volo sufficiente. Scuse che non reggono all'analisi dei fatti, perché un attacco alle ferrovie e al campo, dove in quel secondo periodo del 1944 era pianificata la morte di 125 mila ebrei ungheresi al mese, non avrebbe inciso sull'enorme potenza di fuoco alleata e perché azioni di precisione erano già state compiute con successo in Francia Notizie circostanziate giravano già dal 1943, ma la burocrazia dei ministeri e degli apparati militari ebbe la meglio sulle generose dichiarazioni di Churchill e Roosevelt. Un nome merita la maglia nera, l'americano Samuel Miller Breckinridge Long, che dopo aver respinto una nave carica di ebrei, vinse il braccio dì ferro con il segretario del Tesoro, Henry Morgenthau, e con John Pehle, capo del War Refugee Board, paladini dell'intervento.

(Corriere della Sera, 25 gennaio 2015)


Quel tasso (non lieve) di antisemitismo che proviene dagli illuministi

di Antonio Gurrado

Ritratto di Voltaire
Se vi sembra che sia poco coerente col retaggio dei Lumi la tentazione antisemita che sta attraversando la Francia, vuol dire che avete perso un bel pezzo di storia della cultura francese: l'atteggiamento dell'illuminismo nei confronti degli ebrei è stato a dir poco ambiguo e per questo ha infiammato il dibattito nei secoli successivi. E' un problema che si pose già Heinrich Graetz, forse il più grande storico dell'ebraismo, il quale nel 1868 cercò di giustificare l'avversione mostrata dagli illuministi ascrivendola all'ostilità per il giudaismo come radice del cristianesimo, esacerbata da esperienze non esaltanti di alcuni philosophes con singoli ebrei dell'epoca. Nel 1927 il periodico newyorchese "The Menorah Journal" pubblicò un articolo in cui Herbert Solow individuava le radici dell'antigiudaismo illuministico in un atteggiamento edonistico, parossisticamente antigiansenista, portato alle estreme conseguenze.
  Il culmine della diatriba viene inevitabilmente raggiunto con la Seconda guerra mondiale. In pieno regime di Vichy esce a Parigi "Voltaire antijuif" (1942), raccolta di passi ferocemente antiebraici ma accuratamente decontestualizzati il cui curatore è Henri Labroue, deputato radicale convertito all'antisemitismo militante; la pubblicazione gli procura la cattedra di storia del giudaismo alla Sorbona. I postumi sono a lungo termine e arrivano fino allo snodo decisivo del 1968, quando a Parigi l'editore Calmann-Lévy pubblica il terzo volume della monumentale "Storia dell'antisemitismo" di Léon Poliakov, che individua nell'illuminismo un gradino decisivo della progressiva degenerazione che porta a Hitler; mica per niente il volume in questione s'intitola "Da Voltaire a Wagner". Poliakov scrive da ebreo non credente e questo scetticismo non manca di fargli rinvenire nel corrosivo spirito illuminista tracce "dell'inquieto temperamento ebraico, dell'anima ebraica negatrice ed eterna". Questo spiegherebbe perché l'apologia degli ebrei scritta nel 1762 (in francese) dall'economista portoghese Isaac de Pinto consistesse in un capolavoro di antigiudaismo: la difesa degli ebrei sefarditi passava paradossalmente per una devastante requisitoria contro gli askenaziti, tacciati dei peggiori e più ritriti stereotipi.
  Sempre nel 1968, ma a New York, il rabbino Arthur Hertzberg pubblica un apposito "The French Enlightenment and the Jews", la cui tesi è che l'ostilità degli illuministi non sia che il naturale sviluppo di una tradizione antisemita radicata nella cultura dell'antica Roma, che i philosophes cercavano di trasporre nella riforma della civiltà francese del Settecento. Per Hertzberg questo lato nero dell'illuminismo resta inscindibile dal versante luminoso e tollerante che di lì a poco avrebbe portato all'emancipazione degli ebrei francesi nel corso della rivoluzione.
  Il libro di Hertzberg è il più duro attacco sferrato dall'ebraismo all'illuminismo e ha per bersaglio una tendenza critica di segno opposto che era sorta in Francia qualche anno prima grazie soprattutto allo storico e giornalista Pierre Aubery. A questa corrente bisogna dare qualche ragione: è vero che un Montesquieu scrisse sempre in difesa degli ebrei dell'epoca, e che perfino Voltaire mitigò il proprio furibondo antiebraismo con un benché freddo riconoscimento razionale dei diritti degli ebrei, e soprattutto è vero che la categoria di antisemitismo non può essere applicata al Settecento poiché anteriore all'emancipazione e quindi anacronistica; ma è vero anche che i philosophes non mostrarono alcuna curiosità intellettuale nei confronti della cultura giudaica, con la singola eccezione di d'Argens che fu l'unico di loro a sapere un po' di ebraico.
  Questa corrente è riuscita a prevalere nel corso degli anni '90, instaurandosi come interpretazione scientificamente adeguata dei rapporti fra illuministi ed ebrei, anche se non sono mancati sussulti contrari: nel 1997 l'editore Claudio Gallone pubblicò a cura di Elena Loewenthal un pamphlet in cui decontestualizzava alcuni brani antiebraici di Voltaire, col titolo "Juifs" e il sottotitolo "Il manifesto dell'antisemitismo moderno a cura del padre della tolleranza". Non rigorosissimo ma piuttosto efficace.

(Il Foglio, 25 gennaio 2015)


"Il silenzio del Consiglio di Sicurezza dà luce verde ai terroristi e all'istigazione contro Israele"

Lettera aperta dell'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite.

A sua eccellenza Cristiàn Barros Melet, Presidente del Consiglio di Sicurezza.
«Scrivo per richiamare la vostra attenzione sull'ultimo attentato terroristico contro civili israeliani. Mercoledì mattina, dodici cittadini israeliani sono stati selvaggiamente accoltellati da un terrorista palestinese su un autobus di Tel Aviv.
Il terrorista, che ha aggredito uomini e donne innocenti, era arrivato dalla città di Tulkarem, ma non era solo. Su quell'autobus insieme a lui c'erano, a guidare la sua mano assassina, anni e anni di calunnie e di istigazione all'odio contro Israele, inculcati in lui dai leader palestinesi così come dai regimi canaglia che finanziano e celebrano ogni attentato terrorista contro gli ebrei, vale a dire l'Iran e il Qatar....»

(israele.net, 25 gennaio 2015)


Con questo articolo ha inizio un commento a puntate di Marcello Cicchese al libro "Giuda" di Amos Oz.
Gli articoli appariranno sotto forma di lettere all'autore.




«Amos, Amos, perché mi deridi?»


25 gennaio 2015
Caro Amos,
Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco   

Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz   
ti scrivo come semplice lettore del tuo ultimo libro da poco uscito: "Giuda". Naturalmente tu non mi conosci, ma non ha importanza, anzi è bene, affinché quello che sento di dover esprimere, le valutazioni che desidero fare sul tuo libro, e a partire dal tuo libro, dipendano soltanto dal testo e non da fattori di altro genere, come potrebbe avvenire se ci conoscessimo personalmente.
   Erano diversi anni che non leggevo romanzi, anche se l'ho fatto molto in gioventù. In un certo periodo della mia vita mi sono dedicato in modo particolare ad una letteratura che certamente anche tu hai praticato e conosci: i classici russi dell'Ottocento. Qualcuno ha detto che tu sei il Dostoevskij del Medio Oriente, ed effettivamente mi è parso di ritrovare qualcosa del suo stile in certe tue introspezioni di personaggi enigmatici e un po' ambigui, nei loro tesi colloqui su questioni di fondo, anche se però gli scritti del romanziere russo, forse perché allora ero giovane, mi hanno impressionato ed appassionato molto di più. Certo, rispetto al celebre colloquio del fratelli Karamazov sul Grande Inquisitore di Siviglia, il soliloquio che tu fai fare a Giuda su Gesù in un intero capitolo mi è sembrato molto debole.
   Ma il motivo per cui mi sono deciso a leggere il tuo libro, e adesso a scriverne, è molto semplice: si trovano in esso due temi fondamentali di comune interesse: Gesù e Israele. In questo ordine, per me; in ordine inverso, immagino, per te.
   Prima però, a beneficio di chi eventualmente leggesse queste righe senza aver letto il libro, e per poter fare in seguito i dovuti riferimenti al testo nei commenti, vorrei riassumere in breve le vicende del tuo personaggio principale: Shemuel Asch.
Shemuel è uno studente dell'Università di Gerusalemme che nel periodo a cavallo tra il '59 e il '60 in cui si svolge la storia colleziona una tale serie di colpi di sfortuna, batoste, delusioni, inganni, autoinganni, insieme a sue personali ingenuità e balordaggini che, leggendole, non ho potuto fare a meno di pensare a un personaggio forse a te sconosciuto ma noi italiani ben noto: Fantozzi. Ma no, non voglio dire che il tuo Shemuel è un Fantozzi in salsa israeliana, ma forse qualcuno, certamente un po' superficiale, potrebbe ricavare questa impressione se si limita ad osservare il nudo e crudo succedersi dei fatti, senza scorgere in essi quegli elementi evocativi e parabolici che certamente sono presenti nelle tue intenzioni di autore, e con un po' di attenzione si possono anche riconoscere.

- MA ESAMINIAMO DAPPRIMA I FATTI NUDI E CRUDI
  Shemuel è un giovane di sinistra desideroso di rivoluzionare il mondo, e a questo scopo partecipa alle attività di un circolo dal nome significativo: "Rinnovamento socialista". Ma proprio in quei mesi accade che il mito staliniano crolla: il Ventesimo congresso del partito sovietico denuncia i crimini di Stalin. Le opinioni nella diaspora marxista si dividono, il circolo del Rinnovamento socialista si spacca, alcuni membri escono. Ideologicamente, Shemuel starebbe dalla parte della maggioranza, ma poiché tra i dissidenti ci sono le sole due ragazze del circolo, lui non vede alcun senso a restare e molla tutto.
Fine dell'esperienza politica.
   Shemuel ha una ragazza di nome Yardena. Quello che di lui piace a Yardena è "la sua inermità e quel che lei stessa descriveva con l'immagine di un cane festoso ed esuberante, un cagnone che le stava sempre incollato per farsi coccolare e sbavare sulle gambe" (p.17). Alla fine però Yardena si stufa. Dopo aver ascoltato un altro dei suoi interminabili concioni politici sul partito laburista e affini, afferra Shemuel, lo trascina in una camera, lo violenta sessualmente e alla fine lo pianta. Andrà a sposare il "suo ex ragazzo, un idrologo diligente e taciturno [...] grande esperto di conservazione dell'acqua piovana" (p.17).
Fine dell'esperienza amorosa.
   Shemuel sta quasi per terminare la sua promettente tesi di dottorato dal titolo "Gesù in una prospettiva ebraica": una ricerca che lo aveva elettrizzato per "la potenza dell'ardita intuizione balenata nel suo cervello" (p.18). Proprio in quei giorni viene a sapere che la sua geniale idea era già stata pubblicata prima che lui nascesse. Delusione e conseguente decisione: abbandona gli studi universitari.
Fine dell'esperienza scientifica.
   Shemuel però può in parte consolarsi con il fatto che avrebbe dovuto comunque lasciare l'Università per un semplice motivo: i soldi. Pochi giorni prima suo padre aveva avuto un dissesto economico e quindi non solo non poteva più finanziare i suoi studi, ma proprio non poteva più mantenerlo.
Fine di una vita libera e finanziariamente protetta.
   Adesso Shemuel deve inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario.

- E QUI COMINCIA UN'ALTRA SERIE DI GUAI
  Piantato in asso da Yardena, Shemuel casca quasi subito nelle grinfie di un'altra donna. E' una vedova di oltre quarant'anni che vive insieme al suocero in una casa un po' appartata di Gerusalemme dall'aria vagamente misteriosa. Il suocero, di nome Gershom, è un settantenne gravemente invalido che a stento riesce a muoversi ma possiede una grande cultura ed è intellettualmente molto vivace. Tra i suoi mali si potrebbe dire che c'è anche la logorrea, perché ha un bisogno quasi fisico di parlare, concionare, questionare con qualcuno, cosa che in parte gli riesce per telefono tormentando certi amici che non compaiono mai nel romanzo. Per risolvere i suoi problemi di menage domestico, e non solo, la vedova ha trovato un sistema ben congegnato: offre vitto e alloggio, insieme a un modesto stipendio mensile, a studenti universitari disposti a trascorrere cinque ore serali in compagnia del suocero. Sono ricercati studenti universitari per tre motivi: devono essere abbastanza istruiti da poter dialogare col ciarliero e colto suocero; devono essere abbastanza squattrinati da essere disposti ad accettare uno stipendio basso; devono essere abbastanza giovani da poter soddisfare, in misura moderata e controllata, i frustrati appetiti sessuali della vedova. Avendo circa il doppio degli anni degli studenti che passano per la sua casa, la vedova non può essere fisicamente attraente come le giovani ragazze, ma in compenso possiede una misteriosa forza di attrazione, che attraverso uno studiato gioco di nascondimenti e concessioni riesce prima o poi a far cadere nella rete il malcapitato studente che in quel momento si trova al suo servizio ed è in una posizione di debolezza finanziaria e psicologica. Se lo porta a letto due o tre volte e poi lo scarica, perché - dice - gli uomini per lei sono interessanti soltanto fino a che restano estranei. Poi basta. Una maliarda dunque, di prima categoria nel suo genere.
   La vedova si chiama Atalia, e qui mi chiedo se sia un nome dato a caso o se non faccia riferimento a un inquietante personaggio biblico. Nella Bibbia Atalia è una donna pagana che per sei anni è riuscita a dominare illegittimamente sul regno di Giuda dopo aver fatto uccidere tutti i suoi nipotini (tranne uno) per evitare che il regno potesse esserle tolto. Sua madre è la famigerata Iezebel, la diabolica figlia del re dei Sidoni, moglie del re Acab, la perfida regina pagana che sterminò i profeti dell'Eterno nel regno del Nord. Degna di lei è la figlia, la "scellerata Atalia" (עתליה המרשעת), come la indica la Bibbia (2Cronache 24:7): un'inquietante donna che con il suo solo nome getta un'ombra cupa sulla figura della vedova del romanzo.
   Naturalmente Shemuel, come previsto, cade nella rete della maliarda. Il vecchio Gershom, ormai assuefatto a quelle scene, l'aveva avvertito: «La nostra Atalia ti sta già conquistando. Senza muovere un dito lei riesce a incantare. So che ama tanto la propria singolarità. Gli uomini, ipnotizzati si avvicinano a lei e lei li allontana nel giro di poche settimane. A volte ne basta una» (p.84). E qui Gershom fa una citazione biblica: "Tre cose sono difficili per me e una quarta non comprendo ... più di tutto la traccia dell'uomo in una donna" (Proverbi 30:18). A me però sembra più adeguata un'altra citazione dei Proverbi: "Ella lo sedusse con le sue molte lusinghe, lo trascinò con la dolcezza delle sue labbra. Egli le andò dietro subito, come un bue va al macello, come uno stolto è condotto ai ceppi che lo castigheranno, come un uccello si affretta al laccio" (Proverbi 7:21-23).
   Shemuel segue poi, regolarmente, il destino che gli era stato preparato fin dal momento in cui era entrato in quella casa: dopo pochi mesi viene gentilmente accompagnato alla porta. Il tutto però senza cattiveria, senza malanimo, perché l'inoffensività disarmante del giovane universitario fa sì che alla fine le persone lo prendano in simpatia. Ma non oltre. Un tenero, amabile imbranato: così appare a chi gli sta vicino l'eroe del nostro romanzo.

- SI ARRIVA INFINE ALLA PARTE FINALE DELLA STORIA
  Shemuel decide di lasciare Gerusalemme e si avvia verso la stazione degli autobus con l'intenzione di prendere quello per Beer Sheva, perché ha letto sul giornale che stanno costruendo una nuova cittadina nel deserto, sul bordo del cratere di Ramon.
   Qui si direbbe che l'autore voglia far uscire di scena il protagonista con l'insistente sottolineatura della sua candida svagatezza.
   Shemuel si mette in coda per fare il biglietto, e dopo una decina di minuti s'accorge di stare nella fila sbagliata.
   Dopo aver fatto il biglietto, s'accorge che il suo autobus partirà soltanto un'ora dopo.
   Arrivato a Beer Sheva, va a vedere quando partirà l'autobus per la nuova cittadina sul bordo del cratere di Ramon e viene a sapere che l'ultimo autobus per Mitze Ramon è già partito e che il prossimo ci sarà soltanto il giorno dopo alle sei.
   Dovrà adattarsi a passare un'intera notte a Beer Sheva, una cittadina che lui non conosce e dove non c'è nessuno che conosce. Il quadro è desolante: tutte le persiane nella via che sta percorrendo sono chiuse. Ad un tratto però il suo cuore si apre alla speranza:
   «Alla finestra di un secondo piano comparve una giovane donna, bella, con un vestito leggero colorato: si sporse fuori con il busto, i seni vigorosi schiacciati contro il davanzale, i lunghi capelli sciolti, per stendere una camicia bagnata. Shemuel la guardò da sotto. Carina, gentile, cordiale e forse anche ben disposta, gli parve quella donna. Decise di rivolgersi a lei, di chiederle, per favore, se poteva consigliargli dove andare, cosa fare... Ma mentre cercava le parole adatte la donna finì di stendere, chiuse la finestra e sparì. Shemuel rimase dov'era, in mezzo alla via deserta» (p.326).
   Dopo poche righe il romanzo finisce.

Ma non è certo in questo finale fantozziano che si può trovare la chiave interpretativa dell'opera. Qualcosa del genere si può trovare invece nella penultima esperienza di Shemuel, poco prima dell'ultima amara delusione.
   In uno dei cortili delle scarrupate case presso a cui passa senza sapere dove andare, "c'era un albero di fico un po' smunto e Shemuel, che amava i fichi, si fermò lì davanti in cerca di due o tre frutti primaticci. Che non c'erano né potevano esserci, perché nessun fico dà mai frutti al principio della primavera, prima che venga la festa di Pasqua." (p.326). Un'altra balordaggine di Shemuel - penserà qualcuno -, che non sa nemmeno in quale stagione si possono trovare fichi maturi. Ma non è così.
    Qui abbiamo invece una sfumata ma evidente allusione a un episodio della vita di Gesù raccontato nei Vangeli. Non è la prima volta che nel libro si accenna a questo episodio evangelico; ne aveva parlato in precedenza Giuda, nel suo lungo soliloquio su Gesù:
   "Qualche giorno fa, mentre stavamo venendo a Gerusalemme, scendendo da una di quelle colline gli è venuta improvvisamente fame. Si è fermato davanti a un fico, di quelli che si coprono di foglie molto prima che maturino i frutti. Noi ci siamo fermati con lui. Si è messo a cercare tra le foglie con tutte e due le mani, voleva un frutto da mangiare, e visto che non ha trovato nulla, ha maledetto il fico. In quel preciso istante tutte le foglie dell'albero sono cadute. Sono rimasti solo il tronco e i rami, nudi e morti. Perché l'ha maledetto? Che male gli aveva fatto? Non aveva nessun difetto, quel fico. Nessun fico dà mai i frutti, non può dare i frutti, prima della festa di Pasqua" (p.292).
   Ecco dunque il collegamento: l'esperienza di Shemuel rinvia a quella di Gesù: qualcosa di importante avviene prima del tempo. Proprio questa potrebbe essere la chiave di lettura del libro. Il lento svolgersi degli avvenimenti intorno al goffo Shemuel appare disseminato di allusioni storiche ed evocazioni paraboliche: tutto il romanzo può essere visto come un'unica parabola. Il suo nome potrebbe essere: "La parabola del buon citrullo".
  Ma di questo parleremo in una prossima occasione.
  Shalom,
  Marcello
fine 1a puntata - continua


(Notizie su Israele, 25 gennaio 2015)


Israele: "La Francia è il paese più pericoloso per gli ebrei"

Il rapporto del governo. Netanyahu: "Serve più vigore dai governi contro l'antisemitismo"

TEL AVIV
- "La Francia è oggi la nazione più pericolosa per gli ebrei". Lo rivela un rapporto del ministero della diaspora israeliano discusso oggi dal governo, nel quale si indica un aumento del 100% di atti antisemiti nel paese. Inoltre, "l'antisemitismo islamico si sta rivelando,tra le forme di antisemitismo, quello guida nel mondo occidentale". Secondo il rapporto, durante la guerra di Gaza dello scorso luglio-agosto 2014 il numero di atti antisemiti in Francia è aumentato del 400% rispetto allo stesso periodo del 2013. Per quanto riguarda invece l'antisemitismo islamico il rapporto segnala che "la maggior parte degli incidenti riportati sono stati commessi da musulmani, di più nelle nazioni dove ci sono larghe comunità musulmane". Il rapporto ha preso in considerazione oltre la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio, l'Olanda, la Germania, l'Australia, la Turchia, gli Usa, l'Argentina e i paesi dell'ex Unione Sovietica.
Il primo ministro Netanyahu ha invitato i governi di tutto il mondo a impegnarsi con più vigore contro l'antisemitismo. E, in risposta alle forti critiche avanzate al suo viaggio il 3 marzo negli Usa, ha ribadito che andrà "ovunque sia invitato" per portare la posizione di Israele sul nucleare iraniano. "Noi peraltro dobbiamo facilitare l'immigrazione ebraica nella terra d'Israele".

(Quotidiano.net, 25 gennaio 2015)


Il rischio islamizzazione pericoloso quanto i terroristi

Troppe moschee, troppi centri religiosi. Questa sfida la vinceremo se non ci limiteremo a dare la caccia agli attentatori. Va abbattuta la strategia dei «fedeli servitori di Allah».

di Magdi Cristiano Allam

Altro che porgere l'altra guancia! L'ennesima decapitazione, l'ennesimo attentato sventato, l'ennesima strage di innocenti, l'ennesima rivelazione sul reclutamento di connazionali nelle fila dei terroristi islamici, l'ennesima scoperta di imam che predicano odio, violenza e morte nelle nostre moschee, l'ennesima identificazione di un sito jihadista che propaganda la loro guerra santa. Ormai i «fedeli servitori di Allah» ci menano colpi bassi a ritmi da stordimento perenne. A meno che non ci siamo del tutto rincretiniti al punto da esserci rassegnati a sottometterei all'islam, votati al suicidio per pura vigliaccheria e senza neppure ambire in cambio al paradiso islamico con le 72 vergini eterne, è arrivato il momento di prendere atto che siamo in guerra e che in guerra si può vincere o perdere, ma non far finta che non ci riguardi.

LEZIONE NUMERO UNO - Saremo irrimediabilmente destinati a perdere la guerra scatenata dal terrorismo islamico fintantoché ci limiteremo a intercettare la punta dell'iceberg, ossia il singolo attentatore l'attimo prima che imbracci il kalashnikov, lanci una bomba o si faccia esplodere con una cintura imbottita. Innanzitutto perché i riscontri concreti per prevenire gli attentati sono pressoché inesistenti in una struttura che non è gerarchica ed è priva di una catena di comando, ma rassomiglia ad una piovra dai mille tentacoli dove ogni cellula è formata da un pugno di terroristi che concordano tutto direttamente senza lasciare tracce. In secondo luogo perché la vera arma del terrorismo islamico privatizzato e globalizzata da Bin Laden è l'aspirazione al martirio. Dobbiamo ammettere che siamo del tutto disarmati di fronte alla lucida follia di chi, con il sorriso in bocca, ci dice «noi amiamo la morte così come voi amate la vita». In terzo luogo perché anche qualora dovessimo reprimere una singola cellula, resterebbero vive e attive tutte le altre centinaia votate a una guerra di logoramento, essendo ciascuna cellula del tutto autonoma.

LEZIONE NUMERO DUE - Per vincere la guerra del terrorismo islamico dobbiamo distruggere l'iceberg, ossia la filiera dove, nel nome di Allah che s'incarta nel Corano ed emulando Maometto, si pratica il lavaggio di cervello che trasforma le persone in bombe umane la cui massima aspirazione è morire uccidendo il maggior numero possibile di nemici dell'islam. Questa filiera si sostanzia di moschee, scuole coraniche, gruppi che indottrinano alla loro guerra santa e addestrano alle armi, mass- media e siti jihadisti. Concretamente significa che, se si intercetta - come è avvenuto recentemente a San Donà di Piave - un imam che invoca l'aiuto di Allah per annientare gli ebrei, non ci si deve limitare ad espellere l'imam, ma bisogna chiudere la moschea e denunciare il centinaio di fedeli che la frequentavano abitualmente perché erano parte integrante di un disegno eversivo.

LEZIONE NUMERO TRE - Questa guerra la potremo vincere solo decretando lo stato d'emergenza perché è ormai endogena, cioè si sviluppa all'interno dell'Europa, ed è autoctona, perché i terroristi sono cittadini europei, in un contesto di globalizzazione del terrorismo islamico.

LEZIONE NUMERO QUATTRO - Dobbiamo prendere atto che l'obiettivo di sottometterci all'islam, ottemperando alla volontà di Allah e all' esempio di Maometto, è condiviso da tutti ì musulmani anche se lo perseguono con mezzi diversi: la conquista fisica e mentale dell'Europa diffondendo in modo capillare le moschee, le scuole coraniche, gli enti assistenziali e finanziari islamici, i tribunali sharaitici, i centri studi, accreditando l'islam come religione di pari valore del cristianesimo ed affermando il reato di islamofobia; la conquista demografica grazie al più elevato tasso di natalità che culminerà nell'avvento dell'islam al potere per via democratica; la conquista territoriale attraverso l'invasione degli immigrati favorita dall'abolizione del reato di clandestinità, il ricongiungimento familiare e l'eventuale adozione dello ius soli che riconoscerà la cittadinanza a tutti coloro che nascono sul territorio nazionale; la conquista economica assecondando l'arbitrio della finanza e degli Stati islamici che condizionano la loro disponibilità alla crescente islamizzazione dell'Europa.

CONCLUSIONE: il vero nemico non sono i terroristi ma è l'islam, la guerra in corso la vinceremo solo se non ci limiteremo a dare la caccia ai singoli attentatori ma se sconfiggeremo la strategia complessiva di islamizzazione dell'Europa su cui sono d'accordo tutti i musulmani militanti, i sedicenti moderati, gli integralisti e i terroristi.

(il Giornale, 25 gennaio 2015)


La persecuzione contro gli ebrei e la figura di Guelfo Zamboni

di Gabriele Zelli

A Forlì, in corso Diaz, all'altezza del numero 79, una piccola targa posta sul ciglio della strada e montata su un sostegno di metallo ricorda l'esistenza, in quell'edificio, dell'albergo del Commercio che per un breve periodo di tempo fu adibito a campo di concentramento provvisorio degli ebrei della provincia destinati alla
Gli ebrei italiani tornarono a essere perseguitati, nonostante la loro partecipazione al Risorgimento, al fatto che fossero integrati nell'Italia unita, che avessero combattenti nell'esercito italiano della Grande Guerra, con la promulgazione delle leggi razziali del 1938.
deportazione nei lager. Gli ebrei italiani tornarono a essere perseguitati, nonostante la loro partecipazione al Risorgimento, al fatto che fossero integrati nell'Italia unita, che avessero combattenti nell'esercito italiano della Grande Guerra, con la promulgazione delle leggi razziali del 17 novembre 1938, seguite da altri provvedimenti sempre più restrittivi e brutali.
   A Forlì furono censite e schedate quindici famiglie (quarantadue persone in tutto) di cui una sola, quella dei Saralvo, composta interamente di ebrei. Queste famiglie si ritrovavano ai margini della vita cittadina, impedite ad esercitare la professione, espropriate dei beni, con i figli cacciati dalle scuole e sottoposte ad una campagna di stampa denigratoria organizzata dal fascismo. Con l'occupazione tedesca dell'Italia e la formazione della Repubblica sociale italiana la persecuzione divenne deportazione nei campi di sterminio del centro Europa, così come si verificò in tutti i paesi sotto il controllo dell'esercito tedesco.
   In molti casi centinaia di ebrei evitarono le conseguenze dei lager grazie alla solidarietà e al contributo fattivo di cittadini romagnoli che si resero protagonisti sia in Italia, sia in altri paesi di gesti di coraggio. Fra questi va segnalato Guelfo Zamboni nato a Santa Sofia nel 1897, ultimo di otto figli di una famiglia che traeva sostentamento da un'attività di carattere artigianale. Rimase orfano giovanissimo in seguito alla morte prematura dei genitori e insieme agli altri fratelli dovette affrontare anni difficili. Dimostrò attitudine per gli studi. Per poterli proseguire iniziò a lavorare molto giovane guadagnandosi in questo modo anche da vivere. La Prima Guerra Mondiale lo vide combattere in qualità di soldato di fanteria dal 1916 al 1918 conquistando una Medaglia di bronzo al Valor Militare e una Croce al merito di Guerra quando rimase gravemente ferito. Al termine del conflitto continuò gli studi e si laureò in Economia e Commercio nel 1925. Subito dopo intraprese la carriera diplomatica presso l'ambasciata italiana a Berlino e questo gli consentì di imparare in modo fluente la lingua tedesca.
   Nel 1942 fu nominato Console Generale per l'Italia a Salonicco, città occupata dalla Germania nazista. A quel tempo la città ospitava la più grande comunità del mondo di ebrei sefarditi stimata in 56.000 persone, molti di origine italiana. Zamboni appena vi giunse si adoperò per evitare che gli alleati tedeschi trattassero gli ebrei ancora presenti com'era capitato a quelli di origine polacca e ucraina già avviati verso i campi di concentramento. A metà del 1942 però la situazione precipitò e Zamboni si dovette limitare a proteggere gli ebrei italiani dopo che Adolf Eichman, il funzionario tedesco considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista, inviò il suo vice ad Atene con il
Per salvare gli ebrei italiani Zamboni organizzò un treno dove li fece salire con destinazione Atene. Fece carte false, nel senso letterale del termine, affinché sul convoglio salissero anche diverse decine di ebrei che nulla avevano a che fare con il nostro paese.
compito di deportare tutta la comunità ebraica di Salonicco; cosa che avvenne tra il mese di marzo e quello di agosto del 1943.
Per salvare gli ebrei italiani Zamboni organizzò un treno dove li fece salire con destinazione Atene. Fece carte false, nel senso letterale del termine, affinché sul convoglio salissero anche diverse decine di ebrei che nulla avevano a che fare con il nostro paese, ma ai quali il Console riconobbe la cittadinanza italiana con il pretesto di chissà quali legami familiari. Rilasciò certificati che attestavano la nazionalità italiana con sopra scritto a mano "provvisoria" anche a persone che non parlavano e non capivano neppure la nostra lingua. "Certo che erano documenti falsi, ebbe a dichiarare Zamboni, ma li contrassegnavo con la scritta "provvisoria - in attesa di conferma". Per strappare ai tedeschi questo consistente gruppo scrisse numerosi telegrammi, svegliò nel pieno della notte il capo della rappresentanza italiana e riuscì a procurare documenti di identità falsi a 280 ebrei che riuscirono a raggiungere la capitale ellenica, situata allora nella zona di occupazione italiana, sfuggendo al controllo tedesco e alla sicura deportazione. Il loro numero raggiunse alla fine i 350.
   Zamboni lasciò Salonicco poco tempo dopo. Un ufficiale italiano, suo collaboratore, il capitano, Lucillo Merci, che svolse funzioni di collegamento con le forze tedesche, annotò in un diario tutta la vicenda che fu riportata alla luce dopo decenni, nel 1992, due anni prima della morte di Zamboni, quando gli fu conferito il titolo di Giusto tra le Nazioni.
   Da ricordare che dopo il Secondo conflitto mondiale Zamboni continuò la carriera di diplomatico a Baghdad e in Thailandia dove svolse le funzioni di Ambasciatore fino al 1961.

(4Live, 25 gennaio 2015)


"Che fastidio può dare? La memoria va coltivata"

La visita di Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti ai lager

Il treno della memoria in Piazza Castello a Torino
Piero Terracina
Piero Terracina è un testimone della Storia. È uno degli ultimi venti sopravvissuti ai lager ancora in vita in Italia. Lui e la sua famiglia erano riusciti a scampare ai rastrellamenti nel ghetto ebraico di Roma. Si erano rifugiati e stavano pregando, quando due delatori fascisti portarono le SS a bussare anche a quella porta: «Era la sera del 17 maggio 1944. Stavamo recitando le preghiere della Pasqua ebraica. Ci dissero di prendere tutto quello che avevamo. Sapevano perfettamente che saremmo andati a morire. Erano assassini ed erano anche ladri». Quella notte - con i genitori, due fratelli, una sorella, lo zio e il nonno - fu caricato su un vagone simile a quello che oggi è simbolicamente esposto in piazza Castello, davanti alla mostra dedicata a Primo Levi. Era un vagone chiuso dall'esterno. Diretto ad Auschwitz.

- Signor Terracina, cosa ricorda della deportazione?
  «lo credo che la parola calvario non basti per spiegare. Su quel vagone eravamo 64 persone. La sete faceva perdere la testa. Era già primavera inoltrata, incominciava a fare caldo. I bambini piangevano e invocavano acqua ad ogni stazione».
Quante fermate, prima dell'arrivo?
«Due. La prima ad Ora, in provincia di Bolzano. Ci dissero di fare i nostri bisogni sulle banchine. In tutto eravamo 600 persone. Mio nonno non ce la faceva a piegarsi sulle ginocchia ... ».

- La seconda fermata?
  «Dopo altri due giorni di viaggio indicibili, in mezzo alle nostre lordure, con l'angoscia dei genitori che non potevano alleviare le sofferenze dei bambini, arrivammo a Monaco di Baviera. La Croce Rossa Internazionale ci diede un piatto di minestra, lavarono i carri con gli idranti. Tutti vedevano questi treni che attraversavano l'Europa, ma nessuno faceva niente ... »

- Qual è la prima immagine del campo di sterminio?
  «Le scintille che uscivano
dalle ciminiere dei forni crematori come tante stelle cadenti. Non capivamo ... Era il massacro del popolo ebraico».

- Lei e la sua famiglia?
  «Ci allinearono subito in file diverse. Mio padre salutava con la mano, mia madre mi diede la benedizione alla maniera ebraica. Non li rividi mai più. Così come i miei fratelli e mia sorella. L'ottanta per cento dei deportati passava immediatamente per le camera a gas. Il tempo medio di sopravvivenza degli altri era tre mesi».

- Lei resistette fino al 27 gennaio 1945.
  «Sono sopravvissuto per caso. Nessun destino. Era tutto violenza e morte. La morte era sempre fra noi. Durante gli appelli, in cui dovevamo restare impalati in mezzo alla neve. Durante le punizioni. Quando ci bastonavano senza motivo. Quando ci obbligavano a guardare le impiccagioni».

- Lei dove era stato rinchiuso?
  Nelle baracche del campo. Era separato da un altro campo con filo spinato e corrente ad alta tensione. Dall'altra parte c'erano famiglie che avevano conservato gli abiti e i capelli. C'erano tanti bambini, molti dei quali nati proprio in quel recinto. Facevano musica, ogni tanto. E io pensavo che dove c'erano bambini potesse esserci futuro».

- E invece?
  «La notte del 2 agosto del' 44 li abbiamo sentiti urlare e piangere. I cani abbaiavano, la confusione durò due ore. Alle 4,30 del mattino diedi un'occhiata dall'altra parte del filo spinato: non c'era più nessuno. Solo un silenzio innaturale. Un silenzio doloroso e agghiacciante. Quello era il blocco degli zingari - dei nomadi, dei rom - ed erano stati tutti assassinati. Quel giorno i forni crematori furono accesi alla massima potenza».

- Cosa pensa delle polemiche sull'opportunità di tenere questo vagone simbolico qui, in piazza Castello, per tutto il tempo della mostra?
  «Che fastidio dà? Che problemi crea? Penso che sia una polemica inopportuna e sbagliata. La memoria va coltivata ogni giorno».

- Cosa ricorda della giornata del 27 gennaio 1945?
  «Quando arrivarono i soldati sovietici a liberarci non ci fu neanche una scena di giubilo. Solo silenzio. Un silenzio totale».

(La Stampa, 24 gennaio 2015)


Ecco i leader islamici nostrani

Il Centro Antiterrorismo di Israele indica figure radicali e poco concilianti che «promuovono» la fede musulmana.

di Francesca Musacchio

Predicano versioni Wahhabite e Salafite dell'Islam, odio razziale, intolleranza religiosa e promozione della jihad attraverso il reclutamento di martiri, fondi ed armi. Alcuni dei leader sociali e religiosi della comunità islamica italiana sono finiti sotto la lente di ingrandimento del dossier del Centro internazionale antiterrorismo israeliano, ultimato con la collaborazione di Michele Groppi, che ha ampliato e aggiornato uno studio del 2011 presso l'ICT di Herzliya, sotto la supervisione del dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg. Tra i leader e le figure sociali radicali, o che in qualche modo hanno mostrato idee vicine a quelle radicali, il dossier individua alcuni soggetti.

HAMZA ROBERTO PICCARDO
L'ex segretario dell'Ucoii, Hazma Piccardo, secondo lo studio del Centro antiterrorismo israeliano, «è considerato uno dei leader più radicali in Italia. Negli ultimi anni ha ripetutamente mostrato ostilità verso l'Occidente, gli ebrei, i cristiani, il movimento femminista, ed è stato accusato di giustificare la jihad e il terrorismo islamico. Nonostante la sua incapacità di apprendere l'arabo antico, la versione del Corano edita da Piccardo è la più diffusa tra i musulmani in Italia, con più di 100.000 copie vendute». Cinque dei commenti alle Sure del Corano scritti da Piccardo, si legge ancora nel dossier, «rappresentano un vero marchio di fabbrica della sua ostilità nei confronti dell'Occidente». In aggiunta ai commenti religiosi, prosegue il dossier, «Piccardo fu al centro di accese critiche per le sue visioni riguardo la guerra in Iraq nel 2003. Schieratosi apertamente contro la violenza e la Jihad, Piccardo, tuttavia, giustificò l'attacco di Al Qaeda contro i soldati italiani a Nassiriya, in cui 17 militari italiani e cinque iracheni persero la vita. In quella circostanza, Piccardo affermò che «oggettivamente, quelli che hanno attaccato i soldati italiani in Iraq sono da considerarsi come guerriglieri, non come terroristi, altrimenti è come ai tempi della guerra coloniale, quando ai selvaggi non era nemmeno concesso l'onore delle armi».

LUIGI AMMAR DE MARTINO
È il presidente dell'organizzazione sciita Ahl Al-Bait. Di lui il Centro antiterrorismo israeliano scrive: «De Martino è anche l'editore di una rivista intitolata Puro Islam, la quale sostiene apertamente la rivoluzione iraniana e i suoi principi radicali. In particolare, De Martino ha espresso il suo sostegno a Hezbollah, appoggiando la loro vicinanza e alleanza con l'Iran, nonché la lotta armata contro Israele. In un articolo di Puro Islam, De Martino scrisse che ìla lotta di Hezbollah in tutti questi anni è stata combattuta in nome della religione in modo chiaro, definito e preciso e non è un caso che la guida di Hezbollah è anche la nostra guida: Seyed Ali Khamenei, Wali Faqi dei musulmani, che noi salutiamo con onore». In più, in un'intervista rilasciata a una radio locale nel 2006, De Martino definì Israele come un governo sionista che, egli auspicava, «sarebbe stato sopraffatto dagli uomini e la storia».

ABUDUR-RAHMAN ROSARIO PASQUINI
È il leader principale del Centro Islamico di Milano e Lombardia. «Dagli anni '80 - scrive il dossier - Pasquini è stato l'editore delle Edizioni Calamo, pubblicando, inoltre, una rivista chiamata Messaggero dell'Islam, i cui articoli hanno spesso attaccato il cristianesimo e i modi decadenti occidentali. Condannando ogni forma di violenza, Pasquini, ciononostante, dichiarò che i seguaci di altre religioni sono figli di Adamo ingannati dal nemico dell'uomo, ovvero Satana. Stando a Pasquini, l'Islam era, quindi, il percorso da intraprendere per la vera liberazione di ogni sorta di potere dell'uomo su un altro uomo, in quanto nessuno, se non Allah, possiede il diritto di essere il Signore dell'uomo».

ADEL SMITH
In lista c'era anche il leader dell'Unione dei Musulmani in Italia morto l'anno scorso. Lo studio dell'antiterrorismo israeliano scriveva di lui: «Negli ultimi anni Smith mostrò a più riprese la sua ostilità verso il cristianesimo, i valori occidentali, la giornalista Oriana Fallaci, i gay e le femministe e lo Stato d'Israele. In un'intervista rilasciata nel 2006, Smith affermò che la lontananza dall'Islam significava il buio. Difatti, secondo Smith, era innegabile che Islam fosse il futuro e chiunque avesse appoggiato forze che demonizzavano l'Islam non era altro che ingannato da forze ancor più potenti che non cercavano la giustizia, ma, bensì, i propri interessi egoistici, come la Chiesa Romana e il Papato».

KHALID CHAOUKI
Nel dossier del Centro antiterrorismo israeliano è finito anche il deputato marocchino del Pd: «Nonostante le sue numerose affermazioni contro il terrorismo e l'intolleranza religiosa - si legge - nel marzo del 2013 suscitò numerose polemiche per aver sponsorizzato, attraverso la sua pagina Facebook, la canzone di un rapper anche lui marocchino, chiamata "Ius Music", inneggiante alla violenza e al terrorismo, anche contro gli italiani. Per di più, il deputato sarebbe anche comparso nel video della canzone in veste di un preside severo che punisce, umiliandolo, un bambino italiano per aver scritto sul muro a scuola».

(Il Tempo, 24 gennaio 2015)


Carmelo Zaffora e la storia degli ebrei di Sicilia

di Lia Messina

 
Carmelo Zaffora
Carmelo Zaffora, siciliano, psichiatra, pittore e poeta, è autore di Golem siciliano (Besa, 2006), storia di Simone l'orafo, membro della comunità ebraica di Gangi, di un romanzo storico sul filosofo di origini ebraiche Avraham Ben S'hmuel Abulafia, Le Confessioni di Abulafia (Vertigo, 2013) e di Theophanie (Carthago 2014).
Colpiscono sempre gli autori eclettici, che spesso svolgono professioni impegnative e hanno tanta energia vitale da dedicarsi anche a plurime espressioni creative. L'autore di questa settimana non solo esercita la sua attività di medico psichiatra, dirigendo un Dipartimento di Salute Mentale, ma dipinge e pubblica poesie e testi impegnativi sugli ebrei siciliani. Mi sembra d'obbligo chiedergli innanzitutto se di tutte queste attività ce n'è una che considera come principale rispetto alle altre o se la gerarchizzazione è del tutto estranea al suo modo di vedere se stesso; e, subito dopo, se in ordine di tempo è venuta prima la pittura o la poesia.
L'arte in generale nasce da un'esigenza espressiva. Per me si tratta di un unicum all'interno del quale convivono vita pratica, esperienze esistenziali, vissuti personali, formazione culturale. Il mezzo espressivo attiene alla predisposizione individuale attraverso la quale la "voce narrativa", sia essa visiva, poetica o del racconto, trova la strada. Nessuna arte è impersonale; l'artista attinge dal proprio sé ogni ispirazione che, congenialmente, viene collocata dentro la propria personale visione del mondo.
In ordine di tempo è arrivata la pittura, poiché ho avuto in dote naturale una buona mano per il disegno. Successivamente la poesia (La finta macchia, 1989, con prefazione di Dacia Maraini, Sikanie Poleis, 1994 e Ananke 1997 ) con interventi culturali molteplici e traduzioni all'estero.

- In che cosa sono diverse, per te, la scrittura poetica e quella narrativa?
  La poesia, credo, è equilibrio musicale trasformato in parola. La parola è suono, armonia, immaginazione e trasformazione. Ogni lettera deve trovarsi nel posto giusto, ogni frase possedere completezza e sintesi, ogni pensiero concorrere alla completezza armonica.
La prosa invece è più un lavoro di progetto, di disciplina, di ordine. Scrivere non è facile. Nella narrativa c'è più riflessione, meno spontaneità e più mestiere. Bisogna possedere il dono del sapere raccontare. Esistono persone che sanno scrivere bene e non hanno niente da raccontare, altri hanno tante cose da raccontare ma non sanno scrivere. Tra questi due estremi si gioca la capacità di trasformare in arte una storia.

- Sulla presenza degli ebrei in Sicilia hai già scritto due opere, “Golem siciliano” e “Le confessioni di Abulafia”. Come è nato il tuo interesse per queste tematiche e, in particolare, per i personaggi di Simone l'orafo, di Gangi, e di Avraham Abulafia, fiilosofo?
  Una delle mie nonne, che non ho conosciuto, all'imbrunire di ogni venerdì accendeva due candele in direzione di Gerusalemme: era l'avvento dello shabbath. A distanza di secoli dall'editto di Granada del 1492, che decretò la drammatica fine delle 52 comunità dell'isola di Sicilia, in lei sopravviveva la memoria dell'appartenenza. In questa abitudine si inscrive il mio interesse per l'ebraismo siciliano e per la damnatio memoriae a cui è andato incontro. Un uomo di cultura, penso, deve sapere cosa farsene del proprio sapere. Io l'ho reificato in questi due romanzi: Golem Siciliano, dedicato proprio alla tragedia derivata dall'Editto di Granada, e Le confessioni di Abulafia, centrato su uno dei pilastri della mistica ebraica: Abulafia appunto, il quale trascorse gli ultimi dieci anni della sua esistenza in Sicilia, dove fondò numerose scuole di Kabbalah. Nella nostra terra scrisse i suoi libri più importanti che, dal XIII secolo a tutt'oggi, arricchiscono la cultura sapienziale del mondo intero.
Il mio lavoro più recente, Theophanie, è una raccolta di racconti sul mito e la spiritualità siciliana, illustrate da Shoshannah Brombacher di New York.

  - Una persona di multiforme ingegno come te deve aver letto molto. Cosa ami leggere? Ci sono autori che consideri fondamentali nella tua formazione? Ti piace fare incursioni in libreria o sei almeno in parte da annoverare nella schiera dei lettori di ebook?
  Elencare i libri formativi è arduo. Mi sovvengono Borges, Kavafis, Ritsos, Platone, Rilke, Dostoevskij, Miller, Hemingway, Oz, Singer, Mishima, lo Zohar o Libro dello splendore. Nelle librerie mi sento a casa e vi trascorro il mio relax esplorativo. Non sono ancora (e forse mai sarò) annoverato tra i fruitori di ebook. Mi piace la fisicità della carta, con la possibilità che il libro ti cada di mano, mi piace piegarlo per metterlo in tasca, scrivere a margine riflessioni o altro. Sarà un fatto romantico ma è così. Per le nuove generazioni, forse, queste preferenze non saranno più le stesse e quindi le biblioteche, come noi le intendiamo, probabilmente andranno a scomparire.

- Progetti letterari in cantiere?
  Un racconto su Baruch Spinoza che viene visitato da Leibniz e un'altro sul dibbuk, lo spirito maligno che nell'ebraismo si incorpora in un'altra persona.

Grazie, Carmelo, per il tuo tempo e le tue risposte.

(Pendolibro 2014, 24 gennaio 2015)


Scontro totale tra il Mossad e Netanyahu sulle sanzioni americane all'Iran

L'intelligence israeliana avrebbe lanciato un avvertimento al Congresso americano invitandolo a non approvare ulteriori restrizioni commerciali contro l'Iran.

di Hortensia Honorati

Il Mossad sembra prendere le distanze e addirittura remare contro al premier Netanyahu. L'intelligence israeliana infatti non concorda sulla necessità di nuove sanzioni all'Iran, in discussione al Senato Usa, e lo avrebbe fatto sapere ai membri del Congresso di Washington.
Una posizione totalmente agli antipodi rispetto alle intenzioni del primo ministro d'Israele che appoggia invece la bozza del senatore repubblicano Mark Kirk e del democratico Robert Menendez, nel quale è previsto un sensibile inasprimento delle sanzioni se l'accordo sul nucleare iraniano non dovesse essere siglato in via definitiva entro il 30 giugno.
Il segretario di stato John Kerry avrebbe citato lo stesso Mossad, secondo il quale ulteriori restrizioni commerciali "sarebbero come lanciare una bomba sul processo di pace", un messaggio affidato alla delegazione americana in visita in Israele la settimana scorsa.
Il presidente americano Barack Obama ha già detto di essere pronto a porre il veto su qualsiasi legge contenente nuove sanzioni contro l'Iran, sostenendo che una simile mossa "assicurerebbe tutto tranne che far avanzare i negoziati". Ma il leader del Congresso, il repubblicano John Boehner ha annunciato ieri di aver invitato Netanyahu a parlare al Congresso per convincere il legislatore Usa della necessità di nuove sanzioni contro l'Iran.

(In Terris, 24 gennaio 2015)


Ebrei in fuga, europei sterili. E i musulmani si moltiplicano

di Fiamma Nirenstein

Le statistiche Pew sono sempre affidabili, quiete. Ma i risultati alle volte risultano allarmanti. Il dato di base che il Pew Forum stavolta ci comunica dice: la popolazione musulmana nell'Ue cresce dell'1 per cento ogni decennio. Beh, l'1 per cento, che vuoi che sia. Ma guardiamo meglio. Per esempio, in Germania già ne1 2010 i musulmani tedeschi erano circa 4,8 milioni, circa il 5,8 della popolazione, in Francia sarebbero poco meno di 5 milioni, il 7,5 per cento della popolazione e altre statistiche puntano già a 6. In Inghilterra 3 milioni, in Italia 2 milioni e 200mila. E non in molti Paesi europei non si classificano gli abitanti per religione. L' età media dei musulmani europei immigrati è di 32 anni, quella dei cristiani 42. Insomma sono vigorosi e giovani, attivi ideologicamente e credenti, fautori di zone separate, corti islamiche, costumi shariatici. Nel 2030, saranno 1'8 per cento della popolazione europea. L'Inghilterra si aspetta un raddoppio, in Italia cresceranno fino a 5 milioni e mezzo. Fra l'altro, ogni musulmana fa 2,2 bambini, le europee l,5. La popolazione musulmana, ha un senso dell'identità che può diventare autoreclusione e che rifiuta la nostra cultura. Birmingham che ha una popolazione musulmana del 21,8 per cento ha cambiato pelle, a Malmo in Svezia gli ebrei se ne sono andati. La popolazione musulmana in parte risente dell'ondata islamista, e i gruppi violenti si moltiplicano. Ne1 2006 lo storico Daniel Pipes ha denunciato l'esistenza di 751 zone proibite in Francia. Senza ostilità, pure è evidente che l'islamizzazione è un grave problema: gli ultimi attacchi hanno avuto a che fare con islamisti. Siamo fiduciosi nelle smentite prossime venture dell'Islam moderato.

(il Giornale, 24 gennaio 2015)


L'Obama dell'inchino ora è odiato pure a Riad

Il pasticcio iraniano di Barack

di Carlo Panella

Sono passati sei anni dal ridicolo inchino di Barack Obama di fronte a re Abdullah, in occasione del loro primo incontro a Londra, nel 2009. La Casa Bianca smentì la gaffe, che però incarnava tutta la confusione del presidente nei confronti del Protocollo e dei rapporti col Medio Oriente. Quell'inchino simboleggiava perfettamente la «svolta» che Obama avrebbe illustrato nel suo «storico» discorso ad al Azhar il 4 giugno successivo. Mano tesa ai regimi islamici, anche ai più autoritari, da parte degli Stati Uniti non più potenza globale con responsabilità planetarie, ora intenzionati a disinteressarsi di Medio Oriente. Il tutto con poche idee, ma confuse, sulla natura dell'islam e ancor meno sulla natura eversiva del regime degli ayatollah iraniani.
   Quell'inchino da dilettante, segno di indubbio provincialismo, fu solo il prima degli strafalcioni mediorientali di Obama, che hanno prodotto conseguenze clamorose. Riad considera oggi la Casa Bianca, per 60 anni alleato più ferreo e fidato, poco meno di un ingombrante avversario e punisce gli Usa in modo perfido. Re Abdullah, poco prima di morire ha infatti convinto tutti gli Emiri del Golfo, a portare il prezzo del brent a 48 dollari al barile. Un attacco diretto alla politica energetica di Obama, tutta puntata sulla autonomia metanifera grazie allo shale gas. Manna per gli Usa, che però ha il difetto di costi di estrazione così elevati da essere competitivo solo col petrolio a 70-80 dollari al barile. Non solo, il petrolio a 48 dollari mette in crisi l'Iran che ha un budget tarato sul petrolio (il 75% del suo Pil) a 100 dollari e lo rende ancora meno disponibile a un accordo sul nucleare.
   Da mesi, i sauditi non nascondono più le loro critiche salaci alla politica Usa di appeasement con l'Iran e di «non intervento» nei confronti di Assad. E fanno di più: Riad oggi opera di pieno concerto - anche se in modo sotterraneo, con l'abituale ipocrisia - con Israele oltre che, ovviamente, con l'Egitto. In sfregio a Obama che ha pessimi rapporti con Gerusalemme. La politica di appeasement di Obama nei confronti dell'Iran spaventa tanto Gerusalemme che Riad, certe - a ragione - che permetterà da qui a poco agli ayatollah di disporre di un arsenale atomico, equamente puntato su Israele e sui sauditi.
   Obama è infine considerato a Riad inaffidabile anche nel contrasto al Califfato Nero. Re Abdullah aveva allontanato dai centri di comando i ministri sauditi che incoscientemente, pur di abbattere il regime di Assad, avevano fornito aiuti ad al Baghdadi e ora il suo successore e fratello Salman lo combatterà con vigore. Ma, per non dispiacere all'Iran, Obama intralcia l'unica strategia praticabile: l'alleanza dei Paesi sunniti, sauditi ed egiziani in testa. Alleanza che confligge con l'esistenza stessa del regime teocratico iraniano. Un caos, non l'unico di questa Amministrazione.

(Libero, 24 gennaio 2015)


In Occidente tira un'aria di abiura di Israele. L'abbandono degli ebrei

Il disprezzo negli occhi di Obama, la crisi con la diaspora, le inchieste dell'Aia e il disinteresse di Francesco.

di Giulio Meotti

ROMA - "Netanyahu ci ha sputato in faccia". Questo, ieri, il commento della Casa Bianca alla notizia che il premier israeliano Benjamin Netanyahu parlerà al Congresso degli Stati Uniti, senza essersi consultato con la presidenza e con Foggy Bottom. Invitato dallo speaker John Boehner, il 3 marzo "Bibi" riceverà un'altra nuova standing ovation a Capitol Hill. Soltanto Winston Churchill finora ha parlato, come Netanyahu, per ben tre volte al Congresso. Il presidente Barack Obama e il segretario di stato John Kerry ricambieranno il favore rifiutandosi di incontrare Netanyahu durante il suo soggiorno in America, trincerandosi dietro la scusa che il protocollo impone di non favorire candidati alle elezioni in altri paesi. Una piccola bugia. Shimon Peres da primo ministro israeliano un mese prima delle elezioni volò in America per incontrare Bill Clinton.
   Fra Bibi e Barack regna il puro disprezzo. George Will, editorialista del Washington Post, ha chiamato Netanyahu "l'anti Obama", la nemesi del presidente americano. Il quotidiano israeliano Maariv ha commentato così il modo in cui l'Amministrazione Obama riceve la delegazione da Gerusalemme: "Non c'è
Non c'è esercizio di umiliazione che gli americani non abbiano tentato con il primo ministro e il suo entourage. Bibi ha ricevuto alla Casa Bianca lo stesso trattamento riservato al presidente della Guinea Equatoriale" .
esercizio di umiliazione che gli americani non abbiano tentato con il primo ministro e il suo entourage. Bibi ha ricevuto alla Casa Bianca lo stesso trattamento riservato al presidente della Guinea Equatoriale" .
"A pain in the ass", un rompicoglioni, fra le molte traduzioni più o meno eleganti, è il modo in cui Obama ha chiamato Netanyahu. Obama si è fatto fotografare con le scarpe sul tavolo nello Studio Ovale mentre era al telefono con Netanyahu per redarguirlo sulla costruzione di una manciata di case per i coloni (mostrare le scarpe è il gesto di maggiore insulto in medio oriente). Quando Obama ha visitato Israele, due anni fa, appena sceso dall'Air Force One ha abbracciato il presidente Peres, ma ha solo stretto la mano a Netanyahu. L'esperta di linguaggio del corpo, Tonya Reiman, ha detto che Obama mostra "disprezzo negli occhi" per Netanyahu. E quando durante una visita di Bibi a Washington, il premier israeliano ha risposto picche alle richieste della Casa Bianca di riprendere il processo negoziale con i palestinesi, Obama si è alzato e ha detto: "Vado a cena con Michelle e le ragazze".
   Ma è un disprezzo dai risvolti politico-strategici, sullo sfondo di una crisi senza precedenti fra Gerusalemme e Washington. Israele dipende dagli americani sul piano militare e diplomatico. Gli Stati Uniti contribuiscono alle spese militari israeliane per il venti per cento (Israele riceve aiuti americani più di ogni altro stato dalla Seconda guerra mondiale a oggi). Nessun altro paese si interessa a proteggere il diritto all'esistenza degli israeliani quanto gli Stati Uniti, che bloccano spesso risoluzioni anti israeliane al Consiglio di sicurezza degli Stati Uniti. L'asse Israele-America ha dominato la scena internazionale dal 1948 a oggi. Eppure, l'America neoisolazionista di Obama sembra voler fare a meno dello stato ebraico, non lo tratta come un asset ma come un problema da gestire o da risolvere. Come ha scritto l'analista israeliano Gerald Steinberg: "Netanyahu è un pessimista che vede i pericoli di ciò che Thomas Hobbes descriveva come 'la guerra di tutti contro tutti' nell'anarchia della politica internazionale. Israele è uno stato ebraico solitario e vulnerabile in un ambiente mediorientale ostile e pericoloso". Obama, invece, "è un ottimista come Immanuel Kant, ritiene che le controversie possano essere superate attraverso il compromesso. Per lui l'uso della forza militare è l'ultima delle possibilità, riservata a pochi sociopatici come Osama bin Laden e il leader dei talebani". Netanyahu oggi chiede agli Stati Uniti un nuovo round di sanzioni all'Iran per fermarne il programma nucleare. Obama risponde con la minaccia di veto a una eventuale decisione bipartisan del Congresso.
   Ma non è soltanto in crisi il rapporto fra Israele e l'America. E' a pezzi il legame fra la Diaspora europea e Israele. Ai capi della comunità ebraica francese, straziata dalla strage al supermercato kasher e da altri casi spaventosi di giudeofobia, non è piaciuto l'invito di Netanyahu a emigrare in Israele, a chiudere la parentesi dell"'esilio" in Europa, la galut. Sul Wall Street Journal, Bret Stephens scrive che "è tempo di fare le valigie per gli ebrei francesi". E' vero, Israele beneficerà di questa ondata di alyah, specie ora che l'emigrazione è in una crisi nera. Ma Gerusalemme perderà anche un pilastro nel suo rapporto con l'Europa, ovvero la presenza di forti comunità ebraiche in un continente dove l'antisemitismo si è rifatto il lifting.
   Una Europa gravemente malata di israelofobia. Ieri, per citarne uno, l'ex ministro dell'Economia olandese Herman Heinsbroek ha rilasciato una intervista in cui sostiene che sarebbe bene spostare gli
"E' stato un errore storico dare agli ebrei un loro stato in mezzo all'islam. Date piuttosto agli ebrei un loro stato negli Stati Uniti". Non siamo molto lontani da quanto propongono gli ayatollah iraniani.
ebrei da Israele agli Stati Uniti: "E' stato un errore storico dare agli ebrei un loro stato in mezzo all'islam. Date piuttosto agli ebrei un loro stato negli Stati Uniti". Non siamo molto lontani da quanto propongono gli ayatollah iraniani. Quando l'accademico tedesco August Rohling, verso la fine dell'Ottocento, disse che agli ebrei si dovevano lasciare i diritti dell'uomo ma privarli di quelli del cittadino, che occorreva bandirli dalla vita politica e civile, concorse a creare le premesse delle future, atroci persecuzioni. Oggi si tenta di fare lo stesso con l'abbandono di Israele.
   Pochi giorni fa lo stato ebraico è scomparso dalle mappe geografiche della Harper Collins, la maggiore casa editrice in lingua inglese del mondo.
   Il riavvicinamento del Vaticano con il popolo ebraico dopo la Shoah, e soprattutto dopo la "Nostra Aetate", ha avuto luogo a due livelli, che il Vaticano tiene spesso distinti: quello teologico e quello politico. Ogni passo in avanti sul primo livello è spesso controbilanciato da una regressione sul secondo, come se i due movimenti fossero sincronizzati. Più vicino il Vaticano sembra
andare verso il dialogo con l'ebraismo, più forte cresce l'indifferenza per Israele. I pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si erano contraddistinti per l'afflato verso il popolo ebraico: la permanenza di Israele come parte del disegno di Dio per arricchire il mondo, per renderlo un posto migliore per i suoi figli. Israele come rivendicazione dello spirito e dei valori biblici. Il pontificato di Francesco è freddo, poco interessato a Israele e al suo destino, se non ostile come quando il Papa si è fatto fotografare sotto la barriera israeliana e lo slogan che lo paragonava al ghetto di Varsavia.
   Il progressivo isolamento di Israele nelle sedi internazionali ha fatto sì che la cultura dei diritti fondata dall'ebraismo sia oggi usata contro gli stessi ebrei, dalla Convenzione di Ginevra alle accuse di "crimini contro l'umanità". La Corte internazionale dell'Aia ha appena aperto una inchiesta su Gaza che potrebbe trascinare Israele sul banco degli imputati. La proverbiale lentezza e miopia dei magistrati dell'Aia svanisce non appena si tratta dello stato ebraico (la Corte ha già condannato Gerusalemme per aver eretto un muro di difesa dagli attacchi terroristici). A marzo, la commissione di William Schabas presenterà all'Onu l'atteso rapporto sulla guerra di Gaza. E non sarà un bel sentire per Israele. Intanto, i terroristi di Hamas, non più sotto mora nella lista nera dell'Unione europea, possono rivendicare gli "eroici" accoltellamenti dei pendolari ebrei a Tel Aviv.
   Se continua così, fra pochi anni lo stato ebraico sarà trattato alla stregua di un "rogue state". Uno stato canaglia. Neanche fosse la Corea del nord. Il veleno dell'odio ha ripreso a circolare in questa internazionale del rancore, assieme al disagio pre-nucleare che cresce ogni giorno a Gerusalemme. Ovunque in occidente si sta offuscando la realtà dello stato ebraico, in attesa della scomparsa di questa enclave vulnerabile vista come un mero incidente di percorso della storia.

(Il Foglio, 24 gennaio 2015)


«Herman Heinsbroek ha rilasciato una intervista in cui sostiene che sarebbe bene spostare gli ebrei da Israele agli Stati Uniti: "E' stato un errore storico dare agli ebrei un loro stato in mezzo all'islam. Date piuttosto agli ebrei un loro stato negli Stati Uniti".»
La proposta di spostare gli ebrei da una parte all'altra del mondo è l'inizio del genocidio. Era questa l'intenzione iniziale di Hitler, trasformatasi poi, "per dolorosa necessità", in un processo di sterminio. Quanto alla politica di Obama verso Israele, si conferma quanto si può trarre dalla Bibbia: l'America si avvia a sparire dalla scena della politica mondiale. Il compito affidatole da Dio per il popolo ebraico è finito. M.C.


Israeliano e palestinese collaborano per salvare la vita a una civetta

Il volatile notturno dopo uno scontro con un aquilone aveva un'ala incastrata in un pezzo di plastica e sostava, immobile su un reticolato nei pressi dell'insediamento di Har Adar.

di Maurizio Molinari

 
GERUSALEMME - Veder israeliani e palestinesi cooperare in Cisgiordania di questi tempi è cosa assai rara ma ad innescare l'eccezione è stato un grande esemplare di civetta. Il volatile notturno dopo uno scontro con un aquilone aveva un'ala incastrata in un pezzo di plastica e sostava, immobile su un reticolato nei pressi dell'insediamento di Har Adar. Yosef Elihau, guardia della sicurezza dell'insediamento, passandogli davanti con l'auto ha prima pensato ad una statua ma ha scelto poi di tornare indietro per appurare meglio la natura di un oggetto che gli sembrava "praticamente perfetto".
E' stato lo spostamento della pupilla del volatile a svelare che non si trattava di una statua e la guardia ha così allertato il servizio di emergenza dei parchi della Cisgiordania, che è sotto la responsabilità dell'Autorità palestinese. Poco dopo è arrivato Eyad Beduwan, uno degli operatori di emergenza che vive in un villaggio vicino all'insediamento di Har Adar. Assieme si sono avvicinati alla civetta, di grandi dimensioni, prendendola a quattro mani per posizionarla dentro un grande asciugamano.
Il passaggio seguente è stato il trasporto del volatile allo Zoo Safari di Ramat Gan, poco fuori Tel Aviv, dove un team di veterinari ha staccato la plastica dall'ala, la civetta è stata accudita e rifocillata. E dopo 24 ore di cure, proprio Yosef e Eyad l'hanno riportata dove l'avevano prelevata, rimettendola in libertà, dopo il calar del tramonto. Dimostrando che almeno sul salvataggio di una civetta di bellezza statuale la pace può essere fatta.

(La Stampa, 24 gennaio 2015)


Israele: partiti arabi al voto in lista unita

TEL AVIV
- Con uno sviluppo senza precedenti negli ultimi decenni, i tre maggiori partiti arabi hanno deciso di presentarsi con una lista unica alle prossime elezioni politiche israeliane, il 17 marzo. L'accordo formale è stato sottoscritto la scorsa notte, al termine di trattative laboriose, e la presentazione dei candidati della nuova lista avverrà oggi a Nazareth. Al primo posto ci sarà Ayman Odeh, che è succeduto la settimana scorsa a Mohammed Barake alla guida della lista comunista Hadash.
La ragione immediata della fusione elettorale fra la corrente marxista, quella islamica e quella più marcatamente nazionalista palestinese vi è la adozione in queste elezioni di una più elevata soglia di ingresso alla Knesset (parlamento): cosa che ha fatto temere che una parte dei voti dell'elettorato arabo potessero andare perduti. Nelle previsioni aggiornate, la lista unitaria - che include due donne e un comunista ebreo - aspira ad ottenere almeno un decimo dei 120 seggi della Knesset.
"Questa lista - ha commentato Jamal Zahalka, leader della lista Balad - è la nostra risposta alla Destra razzista e a quanti volevano eliminare la rappresentanza politica degli arabi in Israele".

(Corriere del Ticino, 23 gennaio 2015)


Calciomercato Roma, Salah antisemita?

Il presidente del Maccabi Italia protesta. Ma la Comunità Ebraica: "Nessuna interferenza"

ROMA - Il possibile acquisto di Mohamed Salah da parte della Roma suscità già polemiche nella Capitale. Il presidente del Maccabi Italia, Vittorio Pavoncello, ha scritto su 'Twitter': "Noi ebrei come potremmo continuare a tifare @OfficialASRoma se dovesse ingaggiare un antisemita? #nosalah". Il riferimento è a un episodio risalente a una partita di Champions League del 2013, prima della quale il giocatore si rifiutò apparentemente di salutare come da tradizione i rivali del Maccabi Tel Aviv.
Il portavoce della Comunità Ebraica di Roma, Fabio Perugia, ha però smontato la polemica attraverso i microfoni di 'Rete Sport': "La comunità ebraica della capitale non intende in alcun modo interferire nelle scelte della As Roma riguardo i giocatori da inserire nella rosa. La stessa comunità ebraica di Roma è certa che il comportamento di qualsiasi giocatore che dovesse vestire la maglia della Roma sarà ispirato agli alti valori sportivi e morali che muovono la società e la sua proprietà".

(calciomercato.it, 23 gennaio 2015)


Ventimiglia - Secondo incontro per l'Associazione Culturale Italia-Israele

di Stefania Orengo

Maria Teresa Anfossi, la presidente ha detto: "L'associazione ha lo scopo di far conoscere Israele e il suo popolo, la storia, l'economia, la politica sociale ed è vista come un modo per creare l'amicizia fra noi italiani e il popolo di Israele".
Si è svolta ieri la seconda riunione dell'Associazione Culturale Italia-Israele, presso la sede di Ventimiglia, il Caffè Noir. La presidente Maria Teresa Anfossi ha comunicato un vasto programma di eventi per i mesi a seguire, fra cui l'importante appuntamento del 19 maggio in cui sarà ospite dell'Associazione lo scrittore e giornalista israeliano Michael Sfaradi, che presenterà il suo nuovo libro: "I Lunghi giorni della Artic Sea".
L'Associazione è nata il 6 dicembre 2014 grazie all'idea, alla passione e al sostegno dei soci fondatori: Maria Teresa Anfossi (presidente), Lidia Naso (vice presidente), Mario Raimondo, Salvatore Visconti e Jacob Choukroun. La presidente tiene a ribadire il messaggio che ha visto la nascita di questa amicizia culturale fra Italia e Israele: "L'associazione ha lo scopo di far conoscere Israele e il suo popolo, la storia, l'economia, la politica sociale ed è vista come un modo per creare l'amicizia fra noi italiani e il popolo di Israele".

(SanremoNews, 23 gennaio 2015)


Ecco perché Pechino si tiene alla larga dal fuoco israelo-palestinese

di Michelangelo Cocco

Quasi non passa giorno che dalla Cina o da Israele non viene annunciato un nuovo accordo bilaterale tra i due Stati: economico, o scientifico, nel campo dell'istruzione… Tuttavia per capire quanto durerà la "luna di miele" tra due paesi complessi come la Cina e Israele non è sufficiente sommare le intese che Pechino e Tel Aviv stanno sottoscrivendo negli ultimi tempi. Per cercare di capire i tanti e contraddittori fattori che entrano in gioco in questa "nuova" relazione (nell'ambito di un Medio Oriente in trasformazione) abbiamo intervistato il professor Yoram Evron, sinologo ed esperto di difesa del Dipartimento di Studi Asiatici dell'Università di Haifa.

- Professor Evron, quella che si sta sviluppando tra Cina e Israele è una relazione davvero così vantaggiosa per entrambi i paesi? Non intravede possibilità di attriti tra Israele e Stati Uniti in conseguenza del rafforzarsi del rapporto tra Pechino e Tel Aviv?
  Si tratta di una situazione win win, perché è molto chiaro, sia alla Cina sia a Israele, quali sono i limiti di questa relazione economica. Mi riferisco al fatto che tra Stati Uniti e Israele c'è un'intesa su quale tipo di tecnologia può e quale invece non può essere "trasferita" a Pechino. In seguito agli scontri del passato tra Stati Uniti e Israele proprio su questa questione, Israele è diventato molto rigoroso, e la Cina ne è consapevole. Perciò entrambe le parti non superano la linea rossa e il loro rapporto procede senza intoppi. Netanyahu ha sottolineato a più riprese che quella con la Cina è una relazione importante, soprattutto per l'economia israeliana. Può darsi che il premier israeliano abbia sempre enfatizzato la dimensione economica del rapporto bilaterale, ritenendo che i due Stati non possono procedere su altri aspetti, men che mai su quello degli armamenti. È altrettanto chiaro che quelli occidentali - che sono stati i principali mercati di destinazione per l'export israeliano, nonché la sua principale fonte di finanziamento - non sono nelle stesse buone condizioni di salute in cui versavano in passato, mentre la Cina e altre economie orientali sono in crescita. E questa è la seconda ragione per cui è stata tanto enfatizzata la relazione economica di Israele con la Cina. È tuttavia molto difficile stabilire quanto di questi avanzamenti nella relazione bilaterale sia attribuibile a Netanyahu, perché, in generale, tutti i progressi nella relazione bilaterale tra Israele e Cina (non soltanto quelli in ambito economico) dipendono soprattutto da Pechino. Spetta alla Cina decidere a che velocità far avanzare il rapporto di amicizia con Israele. Certo, a partire dalla seconda metà del 2013, si è registrata una notevole accelerazione della dimensione economica del rapporto bilaterale. Ma, anche se l'export israeliano verso la Cina da allora continua a crescere, resta tuttora al di sotto del suo potenziale. Se misuriamo le esportazioni da Israele verso la Cina in relazione all'export israeliano nel suo complesso, esse risultano al di sotto del loro potenziale. Così come, per quanto riguarda gli investimenti di Pechino in Israele, essi rappresentano una porzione molto piccola degli investimenti cinesi nel mondo.

- Quale contributo potrebbe dare la Cina per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese? Ci sono segnali di un reale impegno cinese in quel ginepraio?
  Non ci sono indicazioni che la Cina voglia realmente impegnarsi in questa questione. Ovviamente, le cose possono cambiare e Pechino in futuro potrebbe decidere di mostrarsi più attiva su questo fronte. La posizione della Cina comunque, finora, è stata molto chiara: già dal 1988 si è espressa in favore di uno Stato palestinese. Ha sempre pronunciato il suo sostegno alla causa palestinese. E tuttavia, finora, non è andata molo oltre quella dichiarazione di principio: la sua assistenza finanziaria ai palestinesi è rimasta molto limitata. E negli ultimi conflitti (a Gaza, ndr) ha fatto appello alla moderazione da entrambe le parti, ma non ha stigmatizzato né fatto alcuna pressione su Israele affinché esercitasse moderazione. Per Pechino è importante mantenere l'equilibrio: affermando, da un lato, il suo appoggio ai palestinesi ma, dall'altro, senza mai andare oltre questo sostegno di principio… per dirla molto semplicemente, credo che la Cina non voglia rimanere coinvolta in questo casino. Non è nei suoi interessi, perché ha visto che gli Stati Uniti e altre potenze mondiali non sono riusciti a risolverlo e non ritiene di avere l'autorità per fare di meglio. Inoltre la Cina è alle prese soprattutto con seri problemi interni - il suo modello di sviluppo, questioni ambientali, etc. - e il conflitto israelo-palestinese rappresenta per Pechino un problema piuttosto remoto.

- Crede che la riluttanza di Pechino nell'affrontare la questione possa essere in parte legata ai suoi problemi con la minoranza degli uiguri musulmani?
  Non credo: se uno Stato palestinese indipendente servisse alla sua politica, Pechino lo sosterrebbe comunque. E invece non ha alcun motivo per mettere le mani nel fuoco. Non si tratta di una questione legata alla sua minoranza islamica del Xinjiang (gli uiguri) ma all'equilibrio di interessi della Cina.

- Da Israele, come si guarda all'ascesa della Cina?
  Israele ha realizzato che si tratta di uno dei fenomeni più importanti del XXI secolo. E che - nonostante Israele, tradizionalmente, si concentri sul suo "ambiente circostante" (il Medio Oriente, ndr), non può ignorare questo fenomeno. L'Asia e l'Asia orientale sono al di fuori della politica estere e delle strategie di Israele. Tuttavia l'ascesa della Cina è un fatto troppo grosso per essere ignorato, per questo Israele sta investendo energie per migliorare la sua relazione con la Cina. Il problema è che si trova di fronte a degli ostacoli, anzitutto gli Stati Uniti e il rapporto di questi ultimi con la Cina. Israele non vuole mettere a rischio il suo rapporto con gli Stati Uniti o irritare di nuovo gli Stati Uniti a causa della Cina. Netanyahu ha dichiarato che l'ascesa della Cina rappresenta uno degli sviluppi più importanti nel mondo. Parlava di economia, ma probabilmente pensava anche ad altri aspetti. Il problema è che Israele non è una potenza mondiale, è a malapena una potenza regionale: non fa parte del suo dna politico, strategico e diplomatico impegnarsi in processi così distanti.

- E come la Cina vede Israele, è interessata solo alla sua tecnologia?
  La Cina considera Israele importante per due aspetti fondamentali. Anzitutto, l'accesso alla tecnologia. Secondo, il ruolo e la posizione di Israele nel Medio Oriente. Gli interessi di Pechino nell'area stanno crescendo, e con essi la sua dipendenza dalla Regione. Quindi gli sviluppi politici in Medio Oriente sono importanti per la Cina. E Israele è un attore regionale importante con il quale la Cina vuole tenersi in contatto, perché può rappresentare una preziosa fonte d'informazioni e know how su come affrontare il terrorismo islamico. Infine, per la Cina Israele è importante per la relazione di quest'ultimo con gli Stati Uniti. La Cina - nel tentativo di acquisire lo status di potenza mondiale e avere un ruolo più importante in Medio Oriente - può essere interessata a mostrare di "avere accesso" non più soltanto ai rivali degli Stati Uniti, ma anche ai suoi alleati. E lo stiamo vedendo chiaramente, in Medio Oriente, dove Pechino sta costruendo ottimi rapporti con l'Egitto, l'Arabia Saudita, la Turchia e forse anche Israele. Tutti tradizionali alleati di Washington.


Questo articolo fa parte di una serie dedicata al rapporto bilaterale sino-israeliano e alla posizione di Pechino sul conflitto israelo-palestinese.

(cinaforum, 23 gennaio 2015)


Nazioni Unite su antisemitismo, i contenuti e l'ipocrisia di Ban Ki-moon

di Micol Anticoli

"Non abbiamo bisogno di altri monumenti che commemorano gli ebrei assassinati in Europa, abbiamo bisogno di un impegno forte e duraturo per salvaguardare gli ebrei che vivono in Europa. Tra poche settimane, diventerò nonno per la prima volta. Mi addolora sapere che mia nipote nascerà in un mondo macchiato ancora dall'antisemitismo."
Queste le parole dell'Ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite durante la prima e storica conferenza sull'antisemitismo all'Assemblea Generale dell'ONU.
Questo organo internazionale è nato nel dopoguerra per porre la basi affinché ciò a cui si era assistito durante la Shoah non dovesse più ripetersi, salvo poi lavarsene le mani per sessanta anni e lasciare gli ebrei di tutto il mondo in balìa di nuove e vecchie forme di antisemitismo. Nella memoria collettiva degli ebrei è ancora nota, ad esempio, la risoluzione non vincolante approvata nel 1974 dalla stessa Assemblea Generale (poi annullata nel 1991) che paragonava il sionismo al razzismo....

(Progetto Dreyfus, 23 gennaio 2015)


Paura e voglia di Israele. La comunità ebraica francese dopo gli attentati

 
Lutto, ma anche paura. Il recente attacco che ha fatto quattro vittime in un supermercato kosher ha risvegliato antichi timori in parte della comunità ebraica di Parigi. Lasciare la Francia e trasferirsi in Israele, l'estrema risposta di alcuni. Il malessere a cui danno voce i clienti di un negozio kosher di fronte a quello dell'attenato ha contorni precisi.
   "In Europa assistiamo a fenomeni che ci fanno pensare che l'antisemitismo stia riprendendo vigore - ci dice una donna, che preferisce restare nell'anonimato -. E questo non solo in Francia. Qui non pensavo che sarebbe avvenuto in tempi così rapidi. Dal sequestro e l'assassinio di Ilan Halimi, nel 2006, ero già traumatizzata. Poi nel 2012 c'è stato l'attentato al liceo ebraico di Tolosa: mia figlia è sposata con un ragazzo del posto e basta farci un giro per rendersi conto come nessun giovane voglia ormai restarci. Nessuno. Tutti vogliono ormai andarsene. Hanno paura".
   Un senso di insicurezza che affonda le radici nel caso di Ilan Halimi, un giovane ebreo torturato e ucciso quasi 9 anni fa. Per molti un trauma, a partire del quale niente è più stato come prima. L'accresciuta sicurezza intorno a sinagoghe e scuole accresce il senso di minaccia. E anche tra chi in Francia era da sempre, comincia a farsi strada l'ipotesi di mollare tutto.
   L'Agenzia Ebraica per Israele propone un biglietto di sola andata per Israele. 'L'Aliyah', il diritto all'accoglienza per i fedeli residenti all'estero, è una soluzione sempre più gettonata. Lo scorso anno gli ebrei francesi che ne hanno beneficiato sono stati 7.000, più del doppio del 2013. A convincerli, motivi di ordine economico e familiare. Ma non solo.
   "Dopo eventi come quelli a cui abbiamo di recente assistito, registriamo di solito un'impennata di iscrizioni alle nostre serate - ci dice il direttore Daniel Benhaim -. E' stato così per esempio durante l'estate. I fatti
Possiamo sempre dirci che sono eventi legati al conflitto israelo-palestinese. Ma l'odio contro gli ebrei si manifesta ormai quasi apertamente, è diventato tal- mente evidente da creare un vero senso di disagio, un vero malessere".
di Sarcelles, quelli della sinagoga della Roquette, i canti 'morte agli ebrei' a Place de la Republique hanno lasciato il segno. Possiamo sempre dirci che sono eventi legati al conflitto israelo-palestinese. Credo però che oggi, per molti ebrei, questo non sia il vero motivo. L'odio contro gli ebrei si manifesta ormai quasi apertamente, è diventato talmente evidente da creare un vero senso di disagio, un vero malessere".
Lasciare tutto e voltare pagina non è però una scelta facile. Da Israele Olivia ha riportato foto e ricordi che ora custodisce gelosamente nel suo cellulare. Ci ha vissuto un anno e ci è di recente tornata anche in vacanza. La sua vita è però ormai in Provenza, dove i figli frequentano una scuola ebraica. Trasferirsi negli Stati Uniti o in Israele è sempre stata una vaga ipotesi, a cui la recente cronaca rischia di regalare più precisi contorni.
   "Si verifica un evento drammatico? Cerco una soluzione. I miei bambini hanno un problema? Cerco una soluzione. Sul lavoro c'è qualcosa che non va? Cerco una soluzione. E ora è come se dovessi trovare una soluzione - dice -. Quanto fanno il governo e le istituzioni sfugge al mio controllo. Cosa posso fare, allora? Nel mio piccolo, devo trovare una soluzione. A una prima occhiata, partire e trasferirsi in Israele può sembrare semplice. Poi a mente fredda, quando si è di nuovo immersi nela vita di tutti giorni, ci si rende però conto che non è così facile. Non sarebbe una soluzione. E poi… io sono francese!".
   L'accoglienza che negli scorsi giorni la comunità ebraica di Parigi ha riservato al primo ministro Benjamin Netanyahu conferma il forte legame di molti sia con Israele, che con la Francia. Sentimenti che spingono in direzioni opposte, convivendo in un fragile equilibrio che la paura rischia ora di alterare.
   Roger Cukierman è il presidente del CRIF, il Consiglio di Rappresentanza delle Istituzioni ebraiche in Francia.
   "Trovo comprensibile che molti ebrei vogliano andarsene - ci dice -. Le cifre aumentano e continueranno a farlo. Se avete dei bambini, dovete scegliere se mandarli nelle scuole pubbliche - dove finiscono per farsi insultare dai figli degli immigrati - o in quelle private, dove sono protetti dall'esercito e dalla polizia. E non è piacevole neanche vivere così, costantemente sotto la minaccia e con dei soldati armati di mitra per proteggervi".
   Di tutt'altro avviso è Pierre Stambul, presidente dell'«Unione degli ebrei francesi per la Pace». Dalla sede della sua associazione parla di un allarmismo, alimentato ad arte da ambienti dell'estrema destra israeliana.
   "C'è tutta una schiera di propagandisti che sostiene che gli ebrei sono in pericolo - dice -, che siamo alla vigilia di una nuova 'Notte dei cristalli', che qui non c'è sicurezza e bisogna tornare in Israele… Anzitutto, a questa gente dico che se c'è un paese dove gli ebrei non sono in sicurezza è proprio Israele. E le cose non cambieranno finché al popolo palestinese si negherà il diritto di esistere e ci si accanirà contro di lui. Restiamo, quindi, restiamo! Non c'è ragione di parlare di nuova 'Notte dei cristalli', di antisemitismo galoppante in Francia. No. In Francia esiste il razzismo, perché esistono correnti razziste in diversi ambienti. A essere colpiti sono però soprattutto gli arabi, i neri, i rom. Oggi si orienta anche contro gli ebrei e questo è molto pericoloso. Dobbiamo quindi batterci tutti - e tutti insieme -, qualunque sia la nostra origine, contro ogni forma di razzismo".
   Proprio la lotta a ogni forma di razzismo e discriminazione è la battaglia a cui Elie Buzyn ha consacrato la vita. Sopravvissuto ad Auschwitz, ha da allora poi tenuto a tornarci in numerose occasioni con degli studenti, per offrire loro la sua testimonianza sui campi di concentramento. Un dolore e un orrore, che settant'anni dopo lo aiutano però ancora a relativizzare.
   "Credo che la stragrande maggioranza della popolazione francese non sia antisemita - dice -. E' invece aperta, democratica. L'antisemitismo di oggi è piuttosto dovuto a piccoli gruppi, molto bene organizzati e strutturati. Ed è contro questi gruppi che bisogna intervenire, per evitare il propagarsi dell'antisemitismo".
   Un primo, incoraggiante, messaggio è arrivato dalla marea umana che ha invaso numerose città francesi, in occasione delle marce di solidarietà, organizzate dopo gli attentati di Parigi. "L'amore è più forte dell'odio", recitavano i cartelloni in piazza. Ma anche della paura, ci dice la figlia di Elie Buzyn.
   "Alla manifestazione avevo portato un'enorme bandiera francese - racconta -. All'improvviso ho avuto una specie di rivelazione. Mi sono detta: 'Ma non è possibile! Non possiamo lasciargli questo bellissimo paese. Certo che no!'. I miei nonni materni sono arrivati dalla Polonia prima della guerra, mio padre s'è trasferito in Francia più tardi… Durante questa enorme mobilitazione in favore della libertà, quando ero a Place de la Bastille, mi sono detta che forse non avevo mai avuto così poca voglia di lasciare la Francia. Questo per dire che i recenti attentati non solo non hanno imbavagliato la libertà d'espressione, come abbiamo visto nella mobilitazione internazionale provocata dall'assassinio dei disegnatori di Charlie Hebdo. Che gli ebrei abbiano paura è un dato di fatto, ma sono anche certa che siano attaccati alla Francia. Io per lo meno lo sono. E anzi, il mio attaccamento è ora anche più forte".
   Il calore della piazza è certo un balsamo, ma che non guarisce da dubbi e paure. Come sentirsi a casa in un paese ferito e messo a nudo dai recenti attentati, l'interrogativo a cui la comunità ebraica francese prova ora a rispondere.

(euronews, 23 gennaio 2015)


Il Presidente della Comunità Ebraica di Torino non è Tullio Levi

Sul giornale La Stampa è stata pubblicata ieri una lettera che noi abbiamo riportato. Il vicepresidente della Comunità Ebraica, Emanuel Segre Amar, ha inviato al Direttore di La Stampa, e a noi per conoscenza, la seguente precisazione.

Gentile Direttore,
Mi permetto di segnalare alla redazione del giornale da lei diretto che il dr Tullio Levi non è più il presidente della Comunità Ebraica da quasi 4 anni, da quando cioè la carica è stata assunta dall'ing. Giuseppe (Beppe) Segre che mi legge in copia.
Il prossimo 1 marzo si svolgeranno nuove elezioni a seguito delle quali verrà nominato un nuovo presidente (Segre non si ricandida).
Ritengo che questa informazione possa essere utile alla sua redazione.
Colgo l'occasione per inviarle cordiali saluti
Emanuel Segre Amar

(Notizie su Israele, 23 gennaio 2015)


Sgarbo di Obama. Non riceverà Netanyahu

Schiaffo chiama schiaffo. Sale la tensione tra Obama e il leader di Israele mentre nel ParIamento di Washington si fa incandescente la battaglia sulle nuove sanzioni contro l'lran che la Casa Bianca è pronta a bloccare col veto presidenziale. L'annuncio di una visita di Benjamin Netanyahu al congresso concordata senza coinvolgere la Casa Bianca era stato preso da Barack Obama come un intervento
a gamba tesa dei repubblicani, ma anche del premier israeliano: «Il protocollo - aveva detto a il portavoce Josh Èarnest suggerisce che il leader di un Paese contatti quello di un altro Paese quando intende recarsi in visita. In questa circostanza sembra che ci sia allontanati dal protocollo». L'ufficio di Netanyahu ha comunque chiesto un incontro alla Casa Bianca, ma allo sgarbo israeliano Obama ha risposto con durezza: non solo non riceverà Netanyahu, ma ha praticamente bollato come inopportuna la sua visita fissata per il 3 marzo, due Settimane prima delle elezioni politiche in Israele.
Ieri, infatti, la portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Bernadette Meehan, ha spiegato il «no» all'incontro Obama-Netanyahu con una prassi da lungo tempo seguita dalla presidenza; non si invitano leader che sono anche candidati a breve distanza dalle elezioni «per non dare l'impressione di voler influenzare il processo democratico in un Paese straniero». Porta chiusa in faccia anche al Dipartimento di Stato: mercoledì, a caldo, John Kerry aveva detto che Netanyahu è il benvenuto. Ieri, però, è stato chiarito che nemmeno il capo della diplomazia americana lo riceverà. Ora fonti del governo Usa cercano di minimizzare: nessuna rottura, Obama e Netanyahu si sentono spesso, solo una questione di opportunità. Si sentono spesso, ma non si amano. E in questo momento l'Iran è un macigno tra di loro: Israele preme per la linea dura con le nuove sanzioni. La Casa Bianca spera ancora nella difficile intesa e considera un inasprimento dell'embargo un sabotaggio del negoziato che riprende proprio oggi in Svizzera.

(Corriere della Sera, 23 gennaio 2015)

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Netalyahu e Obama: nuova rottura

di Fiamma Nirenstein

Il rapporto fra Obama e Netanyahu, sempre molto teso, è arrivato a un punto quasi di rottura. Il presidente del congresso John Boehner in nome della leadership bipartisan ha invitato il primo ministro di Israele a parlare al Congresso senza avvertire Obama. Solo Winston Churchill ha parlato per ben tre volte al Congresso americano; inoltre il premier parlerebbe il 3 marzo, in visita a Washington per il congresso dell'Aipac, e le elezioni avranno luogo il 17. Bibi ha incassato con grande soddisfazione annunciando di avere accettato l'invito. Il discorso di Netanyahu al Congresso, anche secondo gli interessi dei repubblicani che sono favorevoli alle sanzioni all'Iran, sarà molto centrato sulla necessità di bloccare il pericolo atomico degli ayatollah con le sanzioni. Invece Obama, come ha detto anche nel Discorso sullo stato sull'Unione, non vuole sanzioni per favorire un accordo. Netanyahu, in prima fila nella lotta contro il terrorismo, ritiene che gli americani possano cadere nella trappola iraniana. Obama adesso lancia fulmini ormai inutili: il suo portavoce ha parlato di prassi inusuale, e ieri sera è arrivata la notizia che Obama non incontrerà Netanyahu perché «non si incontrano capi di Stato o candidati in prossimità delle loro elezioni così da evitare l'apparenza di influenzarle». Ma l'influenza si sentirà lo stesso.

(il Giornale, 23 gennaio 2015)


StoreDot carica il telefono in meno di 30 secondi

E‘ stata sviluppata una batteria per smartphone che ricarica letteralmente a "velocità della luce", utilizzando nanotecnologia: Una start-up israeliana ha progettato una batteria che può essere ricaricata in meno di 30 secondi.
StoreDot ha dimostrato i suoi pionieristici progressi al simposio Microsoft‘s Think Next a Tel Aviv, caricando completamente uno smartphone Samsung S4 da una batteria esaurita... in soli 26 secondi. La batteria stessa è fatta di strutture biologiche e funziona utilizzando cristalli soli 2 nanometri di diametro, costituiti da catene di aminoacidi chiamati peptidi, che hanno proprietà fisiche e chimiche uniche.
"Le batterie sono solo uno dei settori che possiamo ricostruire con questo nuovo materiale. Si tratta di una nuova fisica, nuova chimica, un nuovo approccio ai dispositivi", ha detto il dott. Myersdorf, fondatore di StoreDot.
Le batterie non saranno disponibili in commercio fino alla fine del 2016. Il prototipo mostrato a Tel Aviv è troppo grande e deve essere compatibile con i dispositivi mobili sottili di oggi, prima che possa raggiungere gli scaffali. Anche allora, le batterie costerebbero circa il doppio del costo delle batterie ricaricabili medie..
StoreDot nacque da una costola del dipartimento nanotecnologie dell‘Università di Tel Aviv. Inizialmente, la sua attenzione era sulla ricerca del Morbo di Alzheimer, ma la società è ora più tecnologicamente orientata, starebbe anche esaminando la possibilità di utilizzare i cristalli come alternativa agli schermi al cadmio.
L‘anno scorso i venture capitalist hanno investito £ 3.500.000 in StoreDot per aiutarla a sviluppare la sua nuova tecnologia, e Samsung dice di essere uno dei sostenitori.
Si dice anche che StoreDot lavora in coesione con Eesha Khare, un adolescente americano che ha sviluppato un supercondensatore in grado di caricare un telefono cellulare in soli 20 secondi.

(SWZ, 23 gennaio 2015)


La Comunità Ebraica di Roma dona il risarcimento della sentenza per offese antisemite

«Questo gesto richiama la nostra attenzione e sollecita il nostro impegno per contrastare ogni forma di discriminazione nel pieno rispetto della dignità di ogni persona umana». Così il rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, Franco Anelli, si rivolge al presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, in una lettera di ringraziamento inviata a seguito della decisione «di devolvere al reparto oncologico del Policlinico A. Gemelli la somma che il Tribunale di Roma ha stabilito vi fosse corrisposta quale simbolico risarcimento per le gravi offese di stampo antisemita diffuse da esponenti di un movimento neofascista e xenofobo», «È, questo - scrive Anelli -, l'esito della vostra determinazione nel sostenere una battaglia di civiltà fondamentale per l'intera collettività».

(Leggo Roma, 23 gennaio 2015)


Centri islamici e rischio Jihad (III)

Ecco le organizzazioni più radicali per il Centro Antiterrorismo israeliano. Alcune hanno legami «pericolosi»

di Francesca Musacchio

Venti organizzazioni islamiche presenti in Italia. Di queste, dieci sono quelle considerate «a rischio» per quel che riguarda la sicurezza nazionale. A rivelarlo il dossier del Centro internazionale antiterrorismo israeliano , ultimato con la collaborazione di Michele Groppi, che ha ampliato e aggiornato uno studio de1 2011 presso l'ICT di Herzliya, sotto la supervisione del dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg.
Nella parte dedicata alle strutture dell'Islam italiano lo studio, in continuo aggiornamento sulla situazione della comunità islamica del nostro Paese, prende in esame alcuni degli aspetti più inquietanti del
I quartieri generali della Lega Musulmana ed il Centro Culturale Islamico d'Italia sono amministrati dall'Arabia Saudita. L'Iran dirige il Centro Islamico Europeo a Roma. L'Ucoii vanta contatti decennali con la Fratellanza Musulmana».
fenomeno. «Non vi è alcun dubbio sul fatto che la radicalizzazione della comunità islamica rappresenti una potenziale seria minaccia - si legge - Alcune organizzazioni sociali e religiose sono legate ad attori pericolosi o potenzialmente pericolosi. Per esempio, i quartieri generali della Lega Musulmana ed il Centro Culturale Islamico d'Italia sono direttamente amministrati dall'Arabia Saudita. L'Iran, invece, dirige il Centro Islamico Europeo a Roma, mentre l'Ucoii vanta contatti decennali con la Fratellanza Musulmana». Il dossier, però, va oltre individuando in alcune figure la chiave della radicalizzazione. «Visioni radicali - spiegano gli autori - hanno penetrato varie moschee ed organizzazioni sociali. In certi casi, l'estremismo si limita alla retorica, ma in altri, invece, sostiene attivamente o passivamente il terrorismo. Un certo numero di leader sociali e religiosi predica versioni Wahhabite e Salafite dell'Islam, odio razziale, intolleranza religiosa e promozione della jihad attraverso il reclutamento di martiri, fondi ed armi. Complessivamente, le organizzazioni radicali sono quasi una decina». Un panorama inquietante e complesso, a cui il Centro antiterrorismo israeliano fa corrispondere una lista di nomi e personaggi suddivisi in due grandi blocchi: le organizzazioni sciite e quelle sunnite. Tra queste il dossier puntai l'attenzione su quelle che ritiene abbiano «legami pericolosi o potenzialmente pericolosi».

CENTRO ISLAMICO EUROPEO
Rappresenta la voce più importante della Repubblica islamica dell'Iran in Italia. Situato a Roma, è direttamente amministrato dall'ambasciatore iraniano presso la Santa Sede. Il Centro sostiene la politica di Teheran rispetto a temi sia di natura geopolitica internazionale come la crisi siriana, la questione palestinese e il programma nucleare iraniano, che di dialogo e pace col mondo cristiano.

UCOII
Nel dossier israeliano è considerata una delle organizzazioni sunnite più radicali in Italia. In aggiunta ai suoi legami con la Fratellanza Musulmana, i leader dell'Ucoii sono stati anch'essi spesso oggetto di controversie. Dopo aver giustificato la jihad e gli attacchi terroristici contro i soldati italiani a Nassirya, ne1 2006, l'Ucoii pubblicò un manifesto in cui comparava Israele al nazismo, presentando visioni negazioniste dell'Olocausto. Nota per le sue prese di posizione contro l'assimilazione dei valori occidentali, ha affrontato ripetute accuse di istigazione all'odio razziale durante svariati suoi sermoni. Inoltre, è stato dimostrato che certi membri hanno avuto contatti con i membri estremisti della banca Araba-Svizzera Al Taqwa Arab, rea di aver sostenuto finanziariamente Osama Bin Laden. Si crede che la banca araba-svizzera abbia fornito ingenti quantità di fondi
dell'Ucoii con lo scopo di rafforzare la sua influenza e leadership sul territorio italiano. Al giorno d'oggi, Ucoii è la più grande organizzazione musulmana in Italia, la quale controlla oltre il 70% delle moschee in tutta la penisola.

UNIONE MUSULMANI D'ITALIA
Nonostante conti tra le sue fila solo poche dozzine di membri' l'Unione fondata da Adel Smith ha suscitato gravi controversie in passato. Per il rapporto del Centro antiterrorismo israeliano. rappresentata dall'unica voce del suo leader, l' organizzazione ricevette una discreta copertura mediatica in seguito ad affermazioni e atti provocatori da parte dello stesso Smith. Fortemente legato a movimenti di estrema destra, Smith sosteneva apertamente l'estremismo islamico e la rivoluzione iraniana. Si rese noto, per di più, per libri decisamente provocatori come «L'Islam Castiga la Fallaci» e «Guai a Voi, Scribi e Farisei», «Il Dovere di Odiare Israele». Il primo libro attacca la ex giornalista Oriana Fallaci per i suoi commenti e giudizi sull'Islam e gioisce della sua morte dopo una lunga lotta col cancro. Smith raggiunse il suo picco di notorietà in seguito alla sua campagna contro i simboli religiosi cattolici nelle scuole pubbliche, definendo il crocifisso come un piccolo cadavere durante la trasmissione televisiva di Bruno Vespa Porta a Porta.

ALHAL BAIT
È una organizzazione radicale sciita. Oltre ad una versione purista dell'Islam sciita, l'organizzazione sostiene apertamente la politica dell'Iran e i principi fondamentali della rivoluzione islamica. Tra le sue vaste pubblicazioni, spiccano libri dal titolo Puro Islam e Imam Khomeini. Vita, Lotta, Messaggio. Il sito di Al Bait mostra svariate immagini di Imam e ayatollah ed altre figure che ispirano sentimenti anti-israeliani e filo- palestinesi.

(Il Tempo, 23 gennaio 2015)


Calcio - Gli ebrei non vogliono Salah nella Roma

di Gabriella Rita Russo

Mohamed Salah, centrocampista egiziano del Chelsea, potrebbe diventare un giocatore della Roma a breve. L'accordo con i Blues, che chiedono 1 milione e mezzo per il prestito immediato, ancora manca. Un emissario della società giallorossa, secondo quanto emerso nelle ultime ore, si trova a Londra e la trattativa prosegue. Il suo possibile arrivo ha scatenato la reazione della comunità ebraica presente nella Capitale. Il presidente del Maccabi Italia Vittorio Pavoncello via Twitter ha sentenziato: "No a Salah alla Roma. Non dev'esserci spazio per i razzisti. Come potremmo continuare a tifare Roma se dovesse ingaggiare un antisemita?".
Essendo musulmano Salah scelse di non dare la mano ai giocatori del Maccabi Tel Aviv durante una partita di coppa disputata con la maglia del Basilea. Al ritorno disse di voler vincere per "non permettere alla bandiera sionista di sventolare in Champions League".
Salah, dunque, ha affrontato apertamente questioni extracalcistiche, ma la differenza tra antisionista e antisemita, nel 2015, dovrebbe essere più chiara a tutti.

(Voci di sport, 22 gennaio 2015)


No, la differenza tra antisionista e antisemita non è affatto chiara. Tutt’altro. Anzi, col passar dei giorni i due aggettivi tendono ad assomigliarsi sempre di più. M.C


Record di musulmani in Italia (II)

Città per città, l'onda dell'Islam in Italia. Il Centro Antiterrorismo di Israele fa la conta dei fedeli di Allah in Italia. Nel 2030 saranno oltre tre milioni.

di Francesca Musacchio e Antonio Angeli

 
 
Nel 2030 gli immigrati musulmani in Italia saranno 3 milioni, pari al 5,4% della popolazione nazionale, con un aumento del 102%. Una comunità in rapida espansione, quindi, grazie all'immigrazione massiccia, avvenuta soprattutto nell'ultimo anno, e ad un tasso di natalità superiore a quello degli italiani. Nel 2013, il 6,6% totale dei bambini nati in Italia sono musulmani (pari al 42% delle nascite dei cittadini stranieri), giungendo fino al 10,5% nel nord ovest e al 9,6% nel nordest. NeI 2014, i cittadini stranieri provenienti da paesi musulmani ammontano all'incirca a 1.650.000, equivalente al 33% del totale degli stranieri (39% dei maschi stranieri e 25% delle donne straniere), pari a 12% della popolazione italiana, a cui si aggiungono 60-70.000 convertiti, che a loro volta sono pari al 4-5% della popolazione musulmana.
  Secondo lo studio del Centro internazionale antiterrorismo israeliano, ultimato con la collaborazione di Michele Groppi, che ha ampliato e aggiornato uno studio del 2011 presso l'ICT di Herzliya, sotto la supervisione del dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg, che ha raccolto i dati sull'immigrazione nel nostro paese, queste cifre sono destinate a raddoppiare nel giro di pochi anni.
  Già rispetto al 2011, infatti, i musulmani sono cresciuti con un tasso pari al 5%, ovvero di 71.111 unità. Il dossier, oltre alle cifre, propone anche un altro scenario inquietante, tutto interno l'Islam italiano, che frena l'integrazione e il controllo. «I musulmani in Italia si legge - sono divisi su linee culturali, politiche e religiose. Stati stranieri, moschee ed organizzazioni culturali competono per avere una loro rappresentanza e status quo. Il risultato è una miriade di organizzazioni sparse per tutto il Paese. Tale frammentazione incide sulla rappresentanza istituzionale dell'Islam edil suo rapporto con lo Stato italiano, con cui, a causa della costante competizione tra loro, le maggiori organizzazioni islamiche non hanno ancora trovato un'intesa». La comunità musulmana è composta al 58% da individui di sesso maschile, sempre in netta superiorità numerica rispetto alle femmine in ogni gruppo nazionale preso in esame, ad eccezione di quello indonesiano. Seppur vi siano più maschi che femmine, in confronto al 2011, sono le donne musulmane a crescere con tassi percentuali più elevati rispetto agli uomini, contribuendo maggiormente all'incremento totale del 5%.
  La metà dei cittadini musulmani presenti in Italia, poi, viene dal Nord Africa, in particolare da Egitto, Tunisia e Marocco, la seconda più grande comunità musulmana in Italia (454.773 persone, 29% dell'intera comunità islamica), solo dietro a quella albanese (495.709 unità, 32% totale). Il nord Italia, dunque, rimane la parte del paese dove la presenza dei musulmani è maggiore. Qui si trova anche il maggior numero di moschee, anche quelle considerate ad alto rischio. Dal 2001 ad oggi, infatti, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Le 3 città principali interessate al fenomeno, sono state Milano (considerando anche zone vicine come Brescia, Cremona e Varese), Napoli e Bologna. A Milano, in particolare, è avvenuto più del 50% degli arresti totali (106 su 200, circa), con un picco di 20 fermi in una sola retata nel 2007. A Napoli e Bologna sono stati incarcerati il 12% e il 10% dei terroristi. Nord ovest e nel nord est, rispettivamente col 39% e 27% del totale, detengono il primato di immigrati. Non a caso, spiega ancora lo studio, le regioni che contano il maggior numero di musulmani sono Lombardia (26,5% del totale dei musulmani), Emilia-Romagna (13,5%), Veneto e Piemonte (9%). In relazione al rapporto tra la comunità musulmana e quella straniera presente in regione, sono Valle D'Aosta, Emilia-Romagna e Liguria - rispettivamente col 42%, 39% e 37% - a vantare le percentuali maggiori di cittadini musulmani.
  Infine, in relazione al rapporto tra la comunità musulmana ed il totale della popolazione in regione, è l'Emilia-Romagna a vantare il tasso percentuale maggiore, in quanto 4,7% dei suoi abitanti sono musulmani. Un analogo scenario si verifica a livello provinciale, dove, in termini assoluti, le provincie di Milano, Roma, Brescia, Bergamo e Torino contano il maggior numero di residenti provenienti da paesi musulmani - in quella milanese quasi 120.000, di cui 44.981 egiziani, nella romana quasi 90.000, di cui 32.245 cittadini del Bangladesh e nella torinese 53.007, di cui 27.626 marocchini.

(Il Tempo, 22 gennaio 2015 - II continua)

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L'lslam radicale è legge. Monitorate 108 moschee

La maggior parte al nord, 20 gli imam «estremisti». Undici centri coinvolti in vicende terroristiche.

Venti imam radicali, 108 moschee che hanno mostrato idee radicali, mentre 11 di queste risultano, direttamente o indirettamente, coinvolte nel terrorismo. Sono i dati choc che emergono dallo studio del Centro internazionale antiterrorismo israeliano, ultimato con la collaborazione di Michele Groppi, che ha ampliato e aggiornato uno studio del 2011 presso l'ICT di Herzliya, sotto la supervisione del dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg.
  Il dossier, non ancora ultimato ma in continuo e costante aggiornamento, e che analizza la situazione della comunità islamica in Italia, specifica che «le moschee più radicali si trovano nelle regioni settentrionali come Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna e Toscana, il cui numero è pari a, rispettivamente, 12, 11, 10, 10 e 6 centri radicali. In Campania, Lazio, Umbria, Marche - si legge - i luoghi di culto ritenuti radicali ammontano, rispettivamente, a 8, 13, 3 e 12 . Nel Meridione, Puglia, Sicilia e Calabria contano, rispettivamente, 8, 14 e 11 centri radicali. Particolarmente radicali sono le moschee di Torino, Cremona e Varese, ma anche quelle di Vicenza, Udine, Venezia e Latina». Un panorama complesso e in continua evoluzione, che al momento, secondo il Centro internazionale antiterrorismo israeliano, in totale, è composto da almeno una ventina di organizzazioni principali, centinaia di luoghi di culto, più di 100 moschee, 159 centri islamici e decine di scuole coraniche. Le 11 moschee, che in qualche modo sarebbero state coinvolte negli anni in vicende terroristiche sono situate a Milano, Cremona, Firenze, Bergamo, Varese, Brescia, Napoli, Vicenza e Roma. La radicalizzazione di certi ambienti, poi, passa necessariamente per le figure leader di moschee e organizzazioni. Anche su questo aspetto, lo studio curato da Groppi, pone l'accento su «un certo numero di leader sociali e religiosi» che «predica versioni Wahhabite e Salafite dell'Islam, odio razziale, intolleranza religiosa e promozione della jihad attraverso il reclutamento di martiri, fondi ed armi. Complessivamente, le organizzazioni radicali sono quasi una decina, gli imam radicali una ventina».
  La comprensione del processo di radicalizzazione, dunque diviene vitale nel contrastare il terrorismo. Uno degli elementi più significativi che alimenta il processo di radicalizzazione, secondo il dossier, è l'ideologia jihadista salafita, quel fattore motivazionale che spinge giovani uomini e donne, nati o residenti in Occidente, ad intraprendere una jihad autonoma e distaccata attraverso atti di terrorismo contro i paesi ospitanti. L'ideologia è, in sostanza, alla base del movimento radicale, dell'identificazione dei problemi e delle lotte, del reclutamento e della chiamata alle armi. Il dipartimento di Polizia di New York, ha individuato quattro fasi nel processo di radicalizzazione: la pre-radicalizzazione, l'auto-identificazione, l'indottrinamento e la jihadizzazione o azione. Fra. Mus.

(Il Tempo, 22 gennaio 2015)


Cinque domande sull'islam
Per ritrovarci tutti in Paradiso


Lettera a Mario Giordano

Caro Giordano, vorrei sottoporle cinque domande alle quali qualsiasi imam non può che rispondere "sì":
  1. islam significa sottomissione alla legge di Allah ed agli hadith (parole ed azioni attribuite a Maometto)?
  2. un infedele è chi non crede in Allah?
  3. il mondo è diviso in tre territori: - dar al-islam o territorio dell'islam; - dar al-harb o territorio della guerra abitato dagli infedeli; - dar al-suhl o territorio soggetto al pagamento di tributi (Jiza) in cambio della cessazione provvisoria delle ostilità?
  4. è vero che la maggioranza degli imam e delle autorità religiose islamiche hanno decretato la guerra santa (Jihad), dovere religioso collettivo o individuale, e che uccidendo un infedele ci si assicura un posto in Paradiso?
  5. lei vuole andare in Paradiso?
Quindi: i nostri sacerdoti ci dicono che per andare in Paradiso noi dobbiamo amarvi mentre voi, per fare la stessa cosa, dovete tagliarci la gola, perciò, per ritrovarci tutti in Paradiso, dobbiamo lasciare che voi ci uccidiate. Giusto?
Edoardo Simondi - Torre Pellice (To)

Ragionamento ineccepibile, direi. Eppure ho partecipato nelle ultime settimane a svariati dibattiti televisivi, in cui chi afferma queste semplici verità viene immediatamente definito un propagatore d'odio, fomentatore di stragi, agitatore di tensioni sociali. Sembra impossibile, eppure è così. Quelli arrivano a casa nostra, cominciano a sgozzarci o a farci saltare in aria (a secondo dei gusti), ammazzano, squartano, minacciano, pubblicano video terribili in cui annunciano che conquisteranno Roma spada in mano, mettono in rete spudorati manuali di addestramento per espugnare l'Italia e per sbudellare gli italiani, usano le moschee come centri di reclutamento per tagliagole a domicilio. Epperò il problema non sono loro. Macché. Il problema è chi dice che forse non è il caso di farci massacrare in silenzio. In effetti basta questa banale osservazione per far insorgere i difensori dell'Islam in servizio permanente effettivo e per fare arricciare il naso alle signorine buonasera dei talk Tv, quelle con il capello sempre in ordine del politicamente corretto, «i musulmani sono tanto buoni» e «bisogna volersi tutti bene», gente così ottusa da non capire quello che risulterebbe evidente anche a un paracarro mediamente evoluto. E cioè volersi tutti bene è un proposito fantastico, ma difficile da attuare con chi imbraccia un kalashnikov in una redazione di un giornale o massacra ebrei al supermercato. Un concetto semplice? Sicuro. Come il suo. Eppure non lo vogliono capire. Non gli entra proprio in testa. Mai vista tanta stupidità.

(Libero, 22 gennaio 2015)


Iran contro Israele: "Armeremo i palestinesi"

L'Iran ha intenzione di armare i palestinesi in Cisgiordania contro Israele. Lo ha dichiarato il Ministro della Difesa iraniano Hossein Dehghan che poi ha aggiunto: "L'armamento della Cisgiordania è un punto importante della politica dell'Iran e non mancheremo di portarlo avanti utilizzando tutte le nostre capacità".
Dichiarazioni simili erano già state rilasciate nello scorso novembre dal leader supremo della rivoluzione islamica Ali Khamenei. A peggiorare la situazione già estremamente tesa è arrivato l'attacco israeliano di domenica scorsa sulle alture del Golan con razzi lanciati da un velivolo durante il quale hanno perso la vita cinque ufficiali dell'esercito iraniano e il comandante della guardia rivoluzionaria, generale Mohammad Ali Allahdadi, insieme a sei militanti di Hezbollah. Questo evento ha scatenato una serie di reazioni veementi da parte di diverse autorità iraniane che sono tornate ad inneggiare all'annientamento di Israele e a quella che il capo del corpo d'élite, generale Mohammad Ali Jafari ha definito "la liberazione di Gerusalemme dal regime Sionista".
E durante la cerimonia funebre in onore di Mohammad Ali Allahdadi, primo generale a morire per mano di Israele, sono arrivate altre dichiarazioni che vanno sempre nella stessa direzione. Il ministro della Difesa ha ribadito che il raid non rimarrà impunito e che "la risposta sarà proporzionata all'attacco subito". Ha inoltre assicurato che valuteranno con cura "il luogo e il momento" in cui questa risposta arriverà.
Israele che ieri dovuto affrontare l'ennesimo attentato terroristico, avvenuto questa volta su un autobus di linea, si appresta dunque a vivere con maggiore apprensione le prossime ore, in attesa di capire quale sarà la risposta iraniana perchè a cercare vendetta ci sarà anche Hezbollah che nell'attacco di domenica ha perso sei dei suoi uomini.

(Diretta News.it, 22 gennaio 2015)


Tel Aviv e oltre, terrorismo incompreso

di Stefano Magni

 
Un uomo armato di coltello sale su un bus e aggredisce 11 persone. Non è un pazzo, non è malato di mente: è un atto di terrorismo. E avviene a Tel Aviv, capitale economica di Israele, lontana dai territori contesi, finora immune da questa strana Intifadah condotta da "terroristi fai da te".
L'attentatore, un palestinese di 23 anni, è stato ferito ad una gamba e arrestato, dopo che aveva attaccato i passeggeri sull'autobus e alla fermata, sul ponte di Maariv, nel pieno centro cittadino. Tre delle sue vittime versano in gravi condizioni, gli hanno subito ferite leggere. L'attentatore stesso non è in pericolo di vita e ha rilasciato la sua prima dichiarazione. Ha detto di aver attaccato per "vendicare Gaza". Per questo, Hamas, che ha il controllo su Gaza, lo ha definito già come un eroe. Per aver attaccato passeggeri disarmati, presi a caso e colti di sorpresa…
   La notizia ha ottenuto un certo rilievo nelle prime ore successive all'attentato, poi è scivolata nelle pagine interne dei siti di informazione, quelle dedicate al Medio Oriente, o agli esteri in generale. Ieri pomeriggio era già quasi difficile trovarla. D'altra parte, con le tragedie in corso, non c'è tempo e spazio per occuparsi di 11 feriti. Eppure dovremmo aver acquisito una certa sensibilità dopo l'attentato riuscito a Parigi e quello sventato per un pelo a Bruxelles, sempre nel cuore dell'Europa occidentale. E' lo stesso tipo di guerra strisciante condotta da "lupi solitari" con mezzi di fortuna: la loro auto, il loro coltello, la loro ascia, cose incontrollabili, usate da persone non identificabili e non tracciabili in anticipo. Questo gesto apparentemente folle non è un'azione pianificata da Hamas, ma eseguita volontariamente nel nome di Hamas: prima si fa l'attacco, poi si sceglie e si enuncia la firma. Esattamente come i terroristi parigini, che hanno prima completato i loro massacri e poi li hanno attribuiti ad Al Qaeda e all'Isis, a seconda delle loro ambizioni. Secondo il premier israeliano Benjamin Netanyahu (che è di destra e impopolare in Europa, ma non può che dire le stesse cose dei suoi predecessori di sinistra e centristi), Hamas, Al Qaeda, Isis ed Hezbollah sono tutti rami dello stesso albero. Il tronco ideologico è lo stesso. Le mire sono le stesse. E sono accomunati dalla ferrea volontà di uccidere ebrei purché ebrei, che si trovino su un autobus di Tel Aviv o in un supermercato kosher di Parigi poco importa.
   Ma se il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. E la reazione europea a questa nuova guerra terroristica è esattamente quella di guardare al dito. Se ad essere attaccata è la redazione di un giornale satirico, si guarda alle vignette che pubblicava. Se ad essere attaccati sono civili ebrei, si guarda a Gaza. Non si perde mai un'occasione per seguire le indicazioni dei terroristi, dando retta alle loro rivendicazioni, non badando mai alla loro ideologia, ai suoi scopi offensivi e ai tanti elementi che accomunano i bersagli che loro di volta in volta scelgono.
   Israele non otterrà giustizia, nemmeno dopo questo e tanti altri attacchi. La Corte Penale Internazionale sta piuttosto indagando sui presunti crimini commessi dall'Idf a Gaza. Mira a punire l'eccesso di legittima difesa, non l'offesa.

(L'Opinione, 22 gennaio 2015)


Comunità islamiche in Europa: troppo odio verso ebrei e occidentali

Lettera a Beppe Severgnini

Caro Beppe,
si fa presto a dire che i fondamentalisti musulmani sono una minoranza che va isolata e annientata perche' disonora il "vero" e pacifico messaggio del Profeta che viene spesso riassunto nella ormai tediosa espressione "Se uccidi un uomo, uccidi tutta l'umanita'". La realta' e' ben diversa. Lo dimostra la fanatica reazione nel mondo islamico di fronte ad un banalissimo "selfie" pubblicato su Instagram da Miss ISRAELE Doron Matalon con Miss LIBANO Saly Greige. In Libano si chiede che la miss libanese venga privata del titolo per essersi fatta fotografare con la miss israeliana: la «nemica». La Miss libanese, per tenersi il titolo, si è difesa dicendo che la Matalon ha scattato la foto «a tradimento». Come dire che se le fosse stato chiesto di fare un "selfie" con una collega di nazionalita' israeliana nel concorso di Miss Universo avrebbe rifiutato perche' "Noi musulmani non ci facciamo fotografare con dei luridi ebrei!".
A Londra, in Brick Lane, un ragazzo francese che gestisce una caffetteria nel cuore del quartiere musulmano dell'East End, per aver esposto un cartello con la scritta "Je suis Charlie" e' stato minacciato di morte dai "moderatissimi" musulmani dell'area: quelli che "quando uccidi un uomo, uccidi tutta l'umanita'".
Sempre a Londra quartieri ebraici e sinagoghe sono sotto la costante protezione della polizia per le continue minacce da parte di "estremisti islamici". In Francia, ben prima dei recenti fatti di Parigi, decine migliaia di ebrei si sono trasferiti (o si stanno trasferendo) in Israele, dove si sentono piu' sicuri (nonostante i razzi palestinesi). In Inghilterra si sta manifestando lo stesso fenomeno.
C'e' troppo odio verso ebrei e occidentali che serpeggia tra le comunita' islamiche europee. E non e' solo estremismo fondamentalista. Chi lo nega e si ostina a distinguere tra "fondamentalisti" e "moderati".
Isabella Faccin


(Corriere della Sera - Blog, 22 gennaio 2015)


Sfogli la lista nera antisemita e scopri tanti progressisti

di Giulio Meotti

Ogni anno il Centro Wiesenthal, che porta il nome del cacciatore di nazisti, pubblica la top ten dell'antisemitismo nel mondo. La sfogli e ti aspetti di trovarci imam, ayatollah, satrapi islamici, tiranni arabi. E ci sono. Il loro odio per Israele e gli ebrei è ossessivo, ipnotico.
   Ma poi, leggendo la lista, scopri che c'è qualcosa che non va. Scopri che quest'anno, un anno in cui gli ebrei europei sono ripiombati nella paura, il primo posto non è andato a un pasdaran, ma a un medico belga: "Mandatela qualche ora a Gaza, vedrete che poi non sentirà più alcun dolore", ha risposto il medico umanitarista alla richiesta di assistenza di una novantenne ebrea, la signora Bertha Klein. Il giuramento di Ippocrate evidentemente non si applica agli ebrei. Scorrendo la lista ci trovi il leader della Linke tedesca, Gregor Gysi (un'esponente politica tedesca non l'ha presa bene e ha fatto causa al Centro Wiesenthal) e Björn Söder, leader socialdemocratico di Stoccolma, che ha chiesto agli ebrei di abbandonare la loro identità per diventare appieno dei bravi cittadini svedesi.
   I peggiori antisemiti risiedono in Europa e non sono tutti come Amedy Coulibaly. E' la brava gente dello spettacolo e della cultura. Come il musicista greco ed eroe antifascista Mikis Theodorakis. "Tutto quello che accade oggi ha a che fare con i sionisti". Come il regista danese Lars von Trier, che oltre alla ninfomania ha una particolare predilezione per Hitler: "Non è quello che si dice un bravo ragazzo ma simpatizzo con lui un po'. Israele è un dito nel culo". Come il regista americano Oliver Stone, che ha biasimato "il dominio degli ebrei nei media". Come il commissario europeo al Commercio, il belga Karel De Gucht, che dice di "non sottostimare il potere della lobby ebraica". Come il vignettista brasiliano Carlos Latuff, il quotidiano norvegese Dagbladet e il medico Trond Linstad, premiato dalla Casa regnante norvegese con la medaglia reale. E ancora il giornalista tedesco Jakob Augstein, figlio del fondatore dello Spiegel, il commissario Onu Richard Falk, che ha giustificato il terrorismo contro lo stato ebraico come "diritto alla resistenza". O come l'American Studies Association, l'organizzazione accademica americana che ha bandito i docenti israeliani dai suoi convegni, e Roger Waters, cofondatore dei Pink Floyd, che ha disegnato una stella di Davide su un maiale in una mongolfiera promozionale durante i suoi concerti. E ancora la United Church of Canada e Alice Walker, Premio Pulitzer autrice del "Colore Viola", che ha definito Israele "peggio dell'apartheid sudafricana".
   Tra pochi giorni, sui nostri giornali e televisioni, si riattiverà lo stanco rito della memoria. Sarebbe bene riflettere, piuttosto, su un paradosso osceno. Sempre vinto dagli israeliani sui campi di battaglia, il mondo arabo islamico ha cercato di distruggere quella piccola oasi ebraica con la guerra aperta, fallendo. Hanno allora tentato con il terrorismo a bassa intensità, i mass media, la cultura e gli intellettuali. E qui sembra aver avuto successo.

(Il Foglio, 22 gennaio 2015)


Per capire il dramma del Medio Oriente occorre lo sforzo di un'analisi serena

Lettera a "La Stampa"

Il presidente della Comunità Israelitica di Torino ci scrive:
    "La mostra sul Medio Oriente allestita a Palazzo Lascaris sotto gli auspici dell'amministrazione provinciale di Torino impone alcune considerazioni.
    Ci si chiede innanzi tutto quali possano essere stati gli intenti che hanno ispirato gli organizzatori, al di là di quanto enunciato nel titolo «Una documentazione per capire il dramma del Medio Oriente»: richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla situazione del popolo palestinese? Tracciare un sommario excursus storico che aiuti a meglio capire il presente? Far meditare sugli orrori e sulle distruzioni che la guerra provoca?
    "Se così fosse questa iniziativa non potrebbe non raccogliere calorose adesioni e l'approvazione di chiunque sia sensibile a questi problemi.
    "Il fatto invece è che ancora una volta si è voluto ricalcare i soliti schemi, assai cari a un certo tipo di propaganda, che ripropongono Israele quale causa di tutti gli attuali e trascorsi travagli del Medio Oriente.
    "Perché se così non fosse si sarebbe fatto qualche accenno alle pesantissime responsabilità che i governanti dei Paesi arabi hanno avuto e continuano ad avere nella non soluzione del problema palestinese; si sarebbe spesa qualche parola sulle stragi di palestinesi compiute da giordani, da siriani, da cristiano-maroniti a partire dal famigerato «settembre nero» e via via, attraverso Tal el Zatar, Sabra e Chatila fino alle vicende di questi ultimi giorni che vedono i siriani ancora una volta intenti a sparare sui fratelli palestinesi.
    "Se veramente si vuole che il dramma del Medio Oriente venga "capito" e non "strumentalizzato", occorre abbandonare gli schemi propagandistici, guardare la realtà in faccia e compiere uno sforzo per una analisi serena e approfondita degli eventi".
    Tullio Levi
(La Stampa, 22 gennaio 2015)


Non ci si prova nemmeno a fare "un'analisi serena" del dramma del Medio Oriente. Quello che si vuole è propaganda menzognera contro Israele: l'attenzione caritatevole al "poveri palestinesi" è soltanto un modo per sublimare l'odio contro gli ebrei. Ormai questo dovrebbe essere chiaro, ma non è così per chi ha già sublimato dentro di sé questo odio. M.C.
"Il Museo della Resistenza contro Israele. Una mostra-choc a Torino".


Gli ebrei romani (e i carabinieri) a caccia della biblioteca trafugata

Perse le tracce di 7 mila volumi. Il sospetto che siano ancora tutti insieme, forse nell'Est.

di Paolo ContI

Io sono convinta che lo straordinario tesoro costituito dalla biblioteca della nostra Comunità non sia andato distrutto. E che sia ancora chiuso in chissà quale deposito. Ora il nostro compito è rintracciarlo. Ci vorrà tempo. Ci vorranno energie umane ed economiche. Ma ci riusciremo».
Alessandra Di Castro, raffinata antiquaria romana (l'attività di famiglia risale al 1878 e il suo negozio affaccia su piazza di Spagna), storica dell'arte, dirige da due anni il Museo ebraico di Roma. Ovvero il luogo che testimonia le radici della Comunità degli ebrei romani, radicata a Roma prima ancora della distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo, che nel 1943 subisce l'atroce rastrellamento del 16 ottobre: 1.259 deportati nei campi di sterminio. Ne torneranno appena 16, di cui una sola donna. E nessun bambino.
   La ferita mortale inferta alla Comunità ebraica dai nazisti nel 1943 non è solo umana, solo di sangue e di vite. Il 30 settembre negli uffici della Comunità si presentano due ufficiali nazisti che analizzano e mettono sotto sequestro sia i 7 mila pezzi storici della biblioteca della Comunità sia il fondo del Collegio rabbinico italiano.
   Non sono ufficiali qualsiasi: sono Pohl e Grunewald, studiosi di filologia semitica, membri dell'Err, l'Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, unità speciale incaricata di saccheggiare materiale di interesse culturale e politico nei Paesi occupati. Forse già conoscono l'importanza di quella miniera di sapere. Devono collaborare a uno dei folli progetti del regime nazista, la futura documentazione di una «civiltà scomparsa», quella ebraica destinata a perire con la Endlösung der Judenfrage, la Soluzione finale della questione ebraica, ovvero la Shoah. Il 14 ottobre arrivano i facchini della ditta di trasporti Otto e Rosoni per un primo carico dei libri, che si conclude il 23 dicembre. Il fondo del Collegio rabbinico riappare fortunosamente nel 1949, grazie alla Missione Italiana per le Restituzioni diretta dal quel formidabile intellettuale-detective che fu Rodolfo Siviero. Dei 7 mila volumi della Comunità chiusi in due vagoni partiti da Roma si perdono le tracce. Ne restano solo 25, tra cui un magnifico codice di Torà e Haftaròt del XVI secolo. Erano chiusi in una cassaforte e oggi sono gelosamente protetti nel Museo ebraico.
   Cosa conteneva la biblioteca? Lo sa bene la studiosa Serena Di Nepi, storica moderna a La Sapienza, autrice del saggio Sopravvivere al Ghetto, edito da Viella: «Un patrimonio unico, messo insieme nel primo Novecento quando vennero riunite le diverse raccolte delle antiche Cinque Scole con la costruzione del Tempio maggiore. Manoscritti miniati romani del XIII secolo, incunaboli, edizioni veneziane cinquecentesche, almeno il 25% della produzione totale dei «famosi stampatori Soncino, volumi arrivati a Roma dalla Spagna e scampati ai roghi dell'Inquisizione spagnola prima e poi di quella romana, Talmud e testi cabalistici, edizioni del primo '500 provenienti dalla Istanbul musulmana e risalenti all'unico periodo in cui fu permesso nella città di stampare testi ebraici». Manca un catalogo per una ragione storica legata all'atavico timore della Comunità ebraica romana di certificare i beni librari: risale al 1553, quando Paolo III Farnese ordinò il rogo delle copie del Talmud e di tutti i libri in ebraico.
   Nel 2002 il governo italiano istituì una Commissione speciale per il recupero che svolse una minuziosa e preziosissima indagine, stabilendo contatti con studiosi di mezzo mondo ma senza approdare a risultati. Nel 2009 il documento conclusivo raccomandava il proseguimento delle indagini e delle ricerche. Così ha deciso di fare oggi il Museo ebraico di Roma. Domenica 25 gennaio Alessandra Di Castro annuncerà al Jewish Heritage Museum di New York, durante una giornata di studi organizzata dal Primo Levi Center, la ripresa delle ricerche in collaborazione col Comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale.
   Dice Alessandra Di Castro: Intendiamo coinvolgere centri di studi, università, collezionisti privati. Abbiamo segnalazioni di volumi conservati in due importanti università americane, che potrebbero essere romani. Così come dobbiamo approfondire voci su intere casse ancora chiuse nell'area ex sovietica, tra Kiev, Minsk e Mosca. Non sappiamo dove arrivarono i due vagoni partiti da Roma con i nostri libri. Ma non è da escludere che siano finiti nelle mani degli allora sovietici quando liberarono i territori occupati dai nazisti. Il materiale può essere riconoscibile sia per il timbro della nostra Comunità sia per l'abitudine tipicamente ebraica di annotare a mano i volumi, lungo gli anni e i secoli».
   Scrive nella sua relazione Serena Di Nepi: «Con l'eccezione di due volumi "sospetti" conservati al JewishTheological Center di New York e di un volume clamorosamente ricomparso ad Amsterdam nel 2006, nessun altro volume è emerso né in collezioni pubbliche o private né sul mercato librario. Ciò induce a credere che la biblioteca si trovi da qualche parte, ancora tutta insieme e probabilmente nelle mani di qualcuno che ne intuisce il valore».

(Corriere della Sera, 22 gennaio 2015)


Dropbox compra CloudOn, startup israeliana specializzata in produttività cloud

Dropbox fa shopping e compra CloudOn, app che permette di gestire i documenti Word, Excel o PowerPoint direttamente nel cloud, via web e dispositivi mobile. I 30 sviluppatori passano alle dipendenze della società di San Francisco.

Dropbox ha comprato CloudOn, app da ufficio per la creazione, modifica e gestione di documenti Office via Internet e da dispositivi mobili con integrato supporto a vari servizi di storage, tra cui Box, Google Drive, OneDrive e lo stesso Dropbox. L'applicazione fortemente integrata con gli strumenti cloud è in circolazione da tempo (è sviluppata da tre anni) e potrebbe servire a Dropbox per reinventare il qualche modo funzioni specifiche per ambienti che usano applicazioni di videoscrittura, fogli elettronici e in generale strumenti di produttività in ottica web e cloud.
Ricordiamo che recentemente Dropbox ha stretto un accordo con Microsoft che permette agli utenti della suite Office di salvare, aprire, condividere documenti usando il noto servizio cloud. Gli sviluppatori di CloudOn affermano che l'app vanta circa 9 milioni di utenti, che con essa sono stati creati, modificati e condivisi oltre 90 milioni di documenti e che l'app è nella top 10 delle app di produttività in 120 paesi. I servizi cloud dedicati di CloudOn chiuderanno il 15 marzo, mentre a partire da oggi non saranno più accettati nuovi utenti. Dell'app CloudOn avevamo parlato a suo tempo qui.
Dropbox e CloudOn non hanno comunicato l'importo dell'acquisizione. Ricordiamo che CloudOn è una startup con sede in Herzliya, Israele: il team è composto di 30 persone, rappresentando così l'acquisizione più grande finora realizzata da DropBox. Nelle scorse ore il noto servizio cloud ha annunciato che non supporterà più il client Dropbox per OS X nei vecchi Mac con OS X 10.5 e inferiore. Sarà supportato OS X solo dalla versione 10.6.x Snow Leopard in poi.

(Macitynet.it, 22 gennaio 2015)


Una App per spiegare l'Olocausto ai bambini

Auschwitz, una storia di vento, realizzata dallo studio udinese Paragrafo blu, è un racconto in prima persona che avvicina i ragazzi al tema

di Giulia Zanello

UDINE - Da sempre la maniera migliore per raccontare una storia a un bambino è un libro. Non forse, però, nell'era di internet, quando sommersi da tv, smartphone e tablet, anche i piccoli diventano sempre più tecnologici. Così, nel 2015, a raccontare l'orrore della guerra, la deportazione e la tragedia della Shoah ci pensa l'app (made in Fvg) "Auschwitz, una storia di vento", che sarà disponibile sull'Apple store da domenica, a due giorni di distanza dalla giornata commemorativa delle vittime dell'Olocausto.
   Parole, immagini, colori. E poi suoni, musiche e animazioni in una fiaba multimediale che racconta la storia di due fratelli ebrei francesi, Jou Jou e Didier, deportati ad Auschwitz assieme al loro papà. Ad accompagnarli durante il viaggio nell'Europa occupata dai nazisti, dal treno carico di prigionieri all'arrivo al campo e alla selezione, ci saranno i giovani lettori, animando le scene e interagendo con oggetti e personaggi. E se guardare la realtà con gli occhi dei bambini significa mettere un piede nel mondo "libero" della fantasia, ecco che il deposito dei beni sottratti agli ebrei diventa un luogo di scoperta, la baracca una voliera di oggetti impazziti e il camino dei forni un drago minaccioso. Al racconto di finzione si accompagna poi una sezione di contenuti extra, con una cronologia dell'Olocausto, alcune cartine dei principali ghetti e campi di concentramento, una bibliografia e un elenco di film e documentari per eventuali approfondimenti.
   Ideatore del racconto multimedialie è un udinese, Franco Grego, ex insegnante di storia, da venticinque anni editor di saggistica e socio fondatore dello studio di Udine Il Paragrafo, che dal 1995 fornisce servizi di redazione, grafica e produzione cartacea e digitale ad alcuni fra i maggiori editori nazionali. La app, disponibile anche in inglese, inaugura l'avventura editoriale di "paragrafo blu", nuovo marchio di contenuti digitali, ed è stata realizzata in collaborazione con l'Università degli studi di Udine (da InfoFactory società spinoff dell'ateneo friulano). Le illustrazioni sono firmate da Giulia Spanghero, già sceneggiatrice per Disney Italia, designer per Trudi, illustratrice de "La lettura", inserto del "Corriere della Sera", mentre le musiche sono state composte da Giovanna Pezzetta e Leo Virgili, che da anni lavorano per avvicinare i piccoli alla musica e alla lettura attraverso corsi, letture teatrali, laboratori e libri-cd.
   «L'idea è nata un paio di anni fa - racconta Grego - quando mia moglie e io portammo i nostri bambini a visitare la casa-museo di Anna Frank ad Amsterdam. Benché li avessimo in qualche modo preparati, raccontando loro la sua storia e la persecuzione degli ebrei, rimasero molto turbati e cominciarono a rivolgerci domande semplici, a cui però era difficile rispondere».
Pur trattandosi di un racconto di finzione, Franco Grego ha cercato di fare in modo che ogni particolare del testo e delle illustrazioni trovasse riscontro nella realtà storica dei campi di concentramento. La difficoltà principale, racconta l'ex insegnante di storia, è stata trovare il registro giusto: «Volevo evitare ogni retorica. Ho scritto un testo e ho pensato a un racconto che fossero semplici, delicati ma al tempo stesso toccanti, che evitassero di calcare la mano sulla tragicità, sull'orrore».
   E il digitale, secondo Grego, presenta delle opportunità straordinarie. «Cercare di spiegare Auschwitz ai nostri figli non è stato facile, perché Auschwitz, come scriveva Hannah Arendt, è "qualcosa che noi tutti non siamo preparati a comprendere"».
   L'idea della app è nata per cercare di raccontare l'Olocausto ai bambini. Forse non sarà come sfogliare un libro vero ma tra una narrazione incalzante, l'animazione con un tocco delle dita e le musiche come parte integrante del testo, il lettore si "immerge" nella storia.

(Messaggero Veneto, 22 gennaio 2015)


Ci scopriamo ancora antisemiti

Nonostante la strage di Parigi

di Antonello Cannarozzo

A volte, leggendo le cronache dai giornali, mi sembra di essere come il "Il Piccolo Principe" di Saint-Exupéry, non capisco cosa succede, mi sembra tutto un po' folle, come qualche giorno fa, in un recente sondaggio realizzato nel Regno Unito da YouGov per conto del gruppo Campagna contro anti-semitismo (Caa), sono rimasto allibito per un antisemitismo duro a morire. È ancora vivo il ricordo dell' attentato di Parigi, ma in realtà è come se fosse successo nulla.
   Scopriamo che su 3411 inglesi di varia estrazione sociale, l'antisemitismo è vivo e vegeto. Una vera follia.
   Le accuse rivolte agli ebrei seguono sempre lo stesso cliché vecchio di secoli: amano il denaro più degli altri, un intervistato su sei è convinto che gli ebrei pensano di essere meglio degli altri e che i 270mila ebrei, residenti attualmente in Gran Bretagna, esercitino troppo potere nei media.
   Giorni fa, in un servizio televisivo si intervistavano alcuni ebrei romani sui fatti di Parigi e uno di loro ha detto una cosa che dovrebbe farci riflettere un po' tutti.
   "Oggi - dichiarava l'intervistato - tutti dicono Je suis Charlie, ma nessuno ricorda neanche di sfuggita che sono morti anche quattro ebrei innocenti, colpevoli solo di essere tali". Purtroppo è vero, la percezione ancora presente in molti, al di la delle parole di circostanza nelle cerimonie ufficiali, è che gli ebrei non sono in fondo cittadini come gli altri, ma una specie di corpo estraneo, una idea aberrante da condannare subito senza se e senza ma, perché può portare a conseguenze dolorose. Inutile ricordare la storia.
   Ciò che lascia più attoniti però, che mentre per noi un tale sondaggio è il classico "fulmine a ciel sereno", per gli ebrei sudditi di Sua maestà, la verità è ben conosciuta da tempo.
   "Se non vi sarà una tolleranza zero verso l'antisemitismo, questo crescerà e i britannici ebrei si porranno sempre più domande sul loro posto nel Paese", ha denunciato Gideon Falter, presidente del Caa, ed il portavoce del gruppo, Joseph Sacerdoti non ha esitato a lanciare l'allarme "la crescita dell'antisemitismo qui e in Europa, significa che gli ebrei sono sempre più spaventati".
   Secondo un altro sondaggio condotto dal 23 dicembre all'11 gennaio, sempre dall'associazione Campain Against Anti-Semitism (Caa), nei giorni della doppia strage di Parigi, questa volta rivolta agli ebrei, il 45% degli interpellati ritiene che nel Regno Unito per loro non c'è più futuro e addirittura il 58% in Europa e circa un quarto degli intervistati ha ammesso anche di aver pensato di lasciare il Regno Unito negli ultimi due anni.
   Quello della sicurezza del popolo ebraico è un tema purtroppo antico e ancora oggi molto discusso.
   Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha chiesto maggiore protezione dopo la strage al negozio kosher a Parigi, affermando che solo in Israele gli ebrei sono al sicuro.
   Ma non tutti tra gli ebrei sono d'accordo.
   A questa affermazione di Netanyahu, ha risposto il responsabile della comunità ebraica tedesca, Josef Schuster, durante un intervista radiofonica: "Gli ebrei non sono più al sicuro in Israele che in Europa" ha affermato "Proprio le persone in Israele sono minacciate dagli attentati terroristici: non considero la vita in Israele più sicura che in Europa, e in particolare in Germania". In fine, una breve considerazione in questo articolo.
   Quest'anno, ricordiamolo, ricorrono i 70 anni da quando le truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz, il 27 gennaio del 1945, e, purtroppo, sembra, da queste notizie, che non sia successo niente.

(italiani, 21 gennaio 2015)


Come stanno gli ebrei in Italia

E cosa provano dopo i fatti di Parigi e le minacce alle sinagoghe? Qui ce lo dicono loro stessi. E ci spiegano perché proprio quest'anno il ricordo della Shoah diventa più forte.

di Sara Scheggia

Il 27 gennaio la Giornata della Memoria avrà un significato speciale, non solo perché ricorrono i 70 anni dalla liberazione di Auschwitz. All'indomani della strage al settimanale Charlie Hebdo, l'uccisione di 4 ebrei in un supermercato kosher di Parigi ha riaperto la ferita dell'antisemitismo. Per paura di altri attentati, in tutta Italia sono state rafforzate le misure di sicurezza intorno a sinagoghe e scuole ebraiche. Abbiamo chiesto agli ebrei che vivono qui da noi che cosa
provano in questi giorni. E come si preparano a ricordare la Shoah.

VOGLIONO SINAGOGHE APERTE CONTRO IL TERRORE
«Non importa di che religione fossero i morti francesi: il dolore è lo stesso. Ma non dobbiamo farci prendere dall'angoscia, iniziare a chiudersi in casa significherebbe darla vinta ai terroristi» commenta Sara Cividalli, presidente della comunità ebraica di Firenze. «I fatti di Parigi ci hanno scosso. E vanno
a sommarsi alla sparatoria di qualche mese fa al museo ebraico di Bruxelles. Ricordando la Shoah, dovremo pensare a come favorire l'integrazione e il dialogo. Il primo passo sarà aprire a tutti le porte delle sinagoghe». Soprattutto alle scuole: «La violenza si isola con la conoscenza» aggiunge Daniele De Paz, presidente della comunità di Bologna. Ed Elad Dahan, studente israeliano che abita a Torino da 6 anni, dice: «In Italia il ricordo della Shoah è vivo: qui alcuni templi portano ancora le ferite dei bombardamenti. Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un anziano con un numero tatuato sul braccio». Per lui sono stati giorni difficili: parte della sua famiglia vive a Parigi. «Sono in ansia per loro» confida. «Se avessi figli avrei paura, perché le scuole ebraiche italiane sono obiettivi sensibili dei fondamentalisti».

NON VOGLIONO FUGGIRE IN ISRAELE
Nei giorni scorsi il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha definito Israele «la casa di tutti gli ebrei». Un messaggio che a molti è sembrato un invito a lasciare l'Europa «In Israele si va a studiare o cercare un lavoro, non per paura. Anche se ora c'è preoccupazione per possibili attentati, noi ebrei italiani ci siamo sempre sentiti protetti. Non abbiamo intenzione di fuggire» commenta Fabio Perugia, giornalista 30enne portavoce della comunità ebraica romana. «1127 gennaio sarà un'occasione per riflettere: rileggendo la storia capiremo che antisemitismo e razzismo hanno portato solo odio e distruzione». Le iniziative per la Giornata della Memoria sono tante (elencate sul sito dell'Unione delle comunità ebraiche italiane www. ucei.it/giorno della memoria). «C'è il rischio che il 27 gennaio si sfoghino i buoni sentimenti, mentre nel resto dell'anno si dimentichi ciò che è successo nei campi di concentramento. Ma stavolta sarà diverso» dice Simone Disegni, 27enne torinese che guida l'Unione dei giovani ebrei d'Italia. «La mobilitazione per i vignettisti uccisi e la libertà d'espressione è stata una grande prova di democrazia. Però mi chiedo: se ci fossero stati solo i morti nel supermercato kosher, lo sdegno sarebbe stato lo stesso? Spero non ci si abitui mai alle minacce agli ebrei».

(Donna Moderna, 21 gennaio 2015)


Perché l'islam dichiara guerra allo sport

di Fiamma Nirenstein

A volte il disgusto è più forte della voglia di capire. Vuoi solo girarti dall'altra parte e dire: questo non mi riguarda. Eppure ieri ci è toccato sopportare anche, fra tanti orrori, la notizia di 13 ragazzini iracheni massacrati dall'Isis per aver tifato la nazionale mentre giocava contro la Giordania. Lo sport piace all'islamismo, come obiettivo da aggredire però: lancia una fatwa mortale contro una squadra se vende un giocatore; uccide una coppia di fidanzati se guardano la finale dei mondiali; minaccia i calciatori cattolici; mette al bando gli sportivi ebrei, a volte ne massacra squadre intere come quella degli schermitori israeliani a Monaco, alle Olimpiadi del 1972.
Con fatica si trovano le ragioni di tanto odio, ma aiuta un po' una lista dottrinale denominata "Le cattive conseguenze della competizione sportiva". E' un testo lungo, ma nello specifico per il calcio i guai che ne derivano sono fra gli altri:
  1. spingere i giovani musulmani ad ammirare o amare un miscredente magari ad appendere un ritratto di un giocatore nella sua camera;
  2. distrarre dal pensare alla religione e alla responsabilità nel propagandarla (sappiamo come);
  3. invertire gli standard, considerare eroi sportivi che non stanno combattendo per il califfato;
  4. allontanare dalla fede come fa anche l'alcool;
  5. corrompere le comunità e i rapporti familiari;
  6. distruggere il controllo delle emozioni, tutte da conservare per la vittoria del califfato, eccetera.
Il punto più spiritoso: il rischio di intensificare l'odio e l'inimicizia fra le persone. Meglio ammazzarli subito quei 13 ragazzi, gli si evitano un sacco di guai. Nella lista si parla molto anche dei rischi che comporta lo stadio troppo pieno. Non scherziamo: la cultura di chi ha ucciso i ragazzi pensando di compiere un dovere religioso è una sentina di odio per la libertà, per la partecipazione, per la competizione, per l'entusiasmo, per la libertà di opinione, oltre che una forma di perversione criminale.
Prima di compiere l'esecuzione le milizie dell'Isis hanno annunciato con un megafono quello che stavano per fare. La pubblicità gli sta a cuore. Due giorni fa, hanno diffuso un video da Mosul, in cui si vede come vengono gettati dal tetto di un edificio dei giovani omosessuali. La punizione infatti secondo la sharia è l'esecuzione. Ragazzi uccisi perché avevano deciso di amare chi gli pare. Il nemico dell'Isis è sempre la stessa migliore amica dell'Occidente, la libertà.

(il Giornale, 21 gennaio 2015)


Domande scomode sull'antisemitismo

Quanto, del corale sentimento di solidarietà emerso dopo gli attacchi di Parigi, si sarebbe manifestato se l'eccidio avesse riguardato solo degli ebrei? E quanto pregiudizio rimane vivo nella società italiana?

di Ricardo Franco Levi e Alberto Melloni

 
La realtà non sempre si adegua alla norma, foss'anche alla più giusta tra di esse, specie quando ultra vires sostituisce il problema del risultato sicuro del conoscere con gli effetti incerti del ricordare. Ma se ci fosse stato ancora bisogno di ricordare quanto e come l'odio antiebraico non sia sparito e non sia stato espulso dalle viscere profonde della società e degli uomini, a suonare l'allarme e a risvegliare le coscienze ci hanno pensato i terroristi di Parigi, allungando con il massacro al supermercato kosher, nelle ore di preparazione dello Shabbat, la scia di sangue e di morte che avevano iniziato a tracciare con la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo.
  A tanto orrore ha risposto l'enorme, emozionata partecipazione alla marcia che ha percorso e bloccato Parigi e scosso l'intera Europa. E una speranza si è riaccesa. Per quanto scomodi, urticanti addirittura, alcuni interrogativi, però, sono legittimi, anzi doverosi, proprio per non rinunciare alla razionalità critica che è quella che nella storia europea ha permesso a ciascuna delle sue culture di essere più profondamente se stessa.
  Quanto della commozione, della condivisione di valori e sentimenti che si sono manifestati in quelle ore terribili è stato possibile grazie a quel «Je suis Charlie», il motto sventolato come impavida bandiera della
Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l'eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o ai bimbi della scuola che i terroristi volevano colpire?
libertà di espressione che ha saputo parlare dritto al cuore di tutti? Quanto ha pesato nell'eco e nell'emozione estesa da Parigi al mondo intero il fatto che le prime vite spezzate, spezzate come le matite subito assurte a simbolo dell'orrore, fossero vite di giornalisti, che ad essere colpito fosse stato il mondo dell'informazione? Quanto si sarebbe manifestato quel corale sentimento di fraternità se l'eccidio si fosse limitato ai quattro ebrei caduti sotto il fuoco omicida, o persino dei bimbi della scuola che i terroristi avevano progettato di colpire, ripetendo nella Ville Lumière l'orrore consumato nel 2012 a Tolosa? Avremmo visto, nelle strade, sui balconi, sulle prime pagine dei giornali, la scritta «Je suis Johan»? E noi, noi italiani, come avremmo reagito? Cosa avremmo pensato?
  Se vogliamo evitare il rischio di una stanca ripetizione, il Giorno della Memoria potrà, dovrà essere l'occasione per risposte vere a questi interrogativi. In un'ottica innanzitutto e prevalentemente italiana che la stessa data del 27 gennaio, con il riferimento ad Auschwitz che essa implica, non aiuta ad assumere. Come ha ricordato il ministro Giannini parlando agli studenti italiani ad Auschwitz pochi giorni fa, pur nel riconoscimento di quel luogo quale primo ed universale simbolo dell'orrore della Shoah, altri sono i luoghi, altre sono le date che parlano e devono parlare alle giovani generazioni della persecuzione contro gli ebrei italiani: l'aula della Camera dei deputati dove il 14 dicembre del 1938 furono all'unanimità approvate le leggi antiebraiche; il Ghetto di Roma dove avvenne il rastrellamento degli ebrei del 16 ottobre 1943; il Binario 21 della stazione Centrale di Milano da dove partivano i vagoni per la deportazione; il campo di Fossoli, ultima tappa prima di Auschwitz, la Risiera di San Sabba a Trieste, l'unico campo di sterminio in terra italiana.
  Qui, non meno che ad Auschwitz, è e sarà bene portare gli studenti per far toccar loro con mano (sì, con la mano passata, ad esempio, sul legno dei vagoni conservati nel Memoriale del Binario 21) la realtà e la radice profondamente italiane delle persecuzioni contro gli ebrei. Per aprire la porta a una conoscenza diffusa e a una comprensione più vera della storia, delle storie, delle responsabilità. Per superare gli stereotipi, le visioni rassicuranti, le verità di comodo: quella degli italiani brava gente, delle leggi razziali fasciste come frutto dell'obbligato accodarsi all'alleato nazista, della Chiesa avversaria del regime e impegnata, sotto la guida di papa Pio XII, a difesa e a protezione degli ebrei.
  Così sappiamo che non fu. Non in questi termini, non senza sfumature, oscillazioni e codardie che è troppo facile sospingere fuori dalla storia con una retorica del diabolico, generando un risentimento
Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti furono persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede ebbe un ruolo nell'ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso.
autoassolutorio sui nazisti o sui croati o sugli ucraini. Le norme antiebraiche italiane in alcuni aspetti persino peggiori di quelle tedesche. La polizia italiana ebbe un ruolo determinante nella cattura degli ebrei. La Santa Sede e il Cattolicesimo in generale che, non certo soli, ebbero un ruolo nell'ascesa al potere del fascismo e nella costruzione del suo consenso, s'illusero che tollerando la «parte cattiva» delle leggi razziste (che ci fosse la «parte buona» il portavoce del Papa lo sostenne privatamente anche dopo il 25 luglio 1943) avrebbe potuto svolgere la sua missione.
Ancora più in profondo, la propaganda e le argomentazioni fasciste a giustificazione e sostegno della legislazione antiebraica furono astutamente modellate sulla base di quell'insegnamento del disprezzo e quel diritto di segregazione iscritti nella storia dei cristiani: i cattolici della associazione «Amici Israèl» che li volevano ripudiare furono sciolti nel 1928, e dovettero attendere fino al 1959 e all'inizio del Concilio perché il ripudio del linguaggio della «perfidia» e dell'antisemitismo «di chiunque e quandunque» aprisse una via nuova.
  Quanto di questo substrato, di questi pregiudizi (sull'ebreo ricco ed avaro, potente nella finanza e nel mondo dell'informazione, corruttore della società, estraneo ed infedele alla nazione che lo «ospita») rimane vivo nella società italiana? E se sì, perché? Su questo sarà bene riflettere il prossimo 27 gennaio. Dopo la marcia di Parigi, il presidente del Consiglio Renzi ha detto: «Je suis Charlie, je suis juif, je suis européen». Siamo sicuri che le sue parole rappresentino davvero il comune sentire di tutti noi italiani? E se qualcuno facesse compilare agli italiani un'autocertificazione razziale come quella richiesta ad Albert Einstein al suo ingresso in America, scriveremmo tutti di essere di razza «umana»?

(Corriere della Sera, 21 gennaio 2015)


Il nuovo assedio di Israele

Il raid sul Golan siriano ha inviato un chiaro messaggio: Israele è pronto a premere il grilletto, se necessario

Di solito in Medio Oriente i cambiamenti non sono per il meglio. L'incidente di domenica scorsa appena al di là del confine tra Israele e Siria, in cui sono stati eliminati Jihad Mughniyeh e una cellula di terroristi che comprendeva libanesi e iraniani, è un esempio del nuovo Medio Oriente in cui ci troviamo a vivere. Oggi, i nemici d'Israele sono solo diventati più pericolosi, più estremisti e più frammentati.
Il "nuovo Medio Oriente" che ci era stato promesso non ha prodotto altro che la disgregazione delle nazioni arabe di questa regione. Siria e Iraq hanno già capito da tempo che il mantenimento della sovranità su tutto il loro territorio è cosa del passato. Sciiti contro sunniti, forze governative contro milizie estremiste: tutti stanno combattendo per il controllo del mondo arabo, la cui mitica unità è ridotta a pura chimera. E' persino difficile parlare di "mondo arabo", visto quello che sta accadendo in Siria, in Iraq, nello Yemen, in Libia. Va tutto a pezzi, e il vuoto lasciato dagli stati che sono crollati viene riempito da gruppi molte volte più pericolosi dei governi che hanno rimpiazzato. In effetti, i nostri nemici non sono diminuiti di numero, nel "nuovo Medio Oriente". Piuttosto, si sono moltiplicati....

(israele.net, 21 gennaio 2015)


Sinagoghe e l'alfabeto degli Ebrei al corso di SiciliAntica

La Sinagoga di Palermo
Nuova lezione al Corso di Cultura e Storia dell'Arte Ebraica organizzato da SiciliAntica in collaborazione con l'Istituto Siciliano Studi ebraici, UniPegaso, Officina di Studi Medievali e Fildis. Giovedì 22 gennaio 2015 alle ore 17,30, dopo la presentazione di Alfonso Lo Cascio, della Presidenza Regionale SiciliAntica, si terrà la seconda lezione dal titolo "Le sinagoghe di Terrasanta". Relatrice sarà Mariuccia Lo Presti, Docente presso la Facoltà Teologica "San Giovanni Evangelista" di Palermo.
Il giorno successivo, venerdì 23 gennaio, sempre alle ore 17,30, Francesco Bonanno, Docente di ebraico biblico presso la Facoltà Teologica "San Giovanni Evangelista" di Palermo affronterà il tema "L'alfabeto e i suoi simboli". Mentre Domenica 25 gennaio è prevista la visita guidata alla Giudecca di Palermo. Il Corso prevede nove lezioni dedicate alla presenza ebraica in Sicilia nelle diverse età storiche fino alla loro espulsione del 1492, le comunità nelle tre Valli in cui era divisa l'Isola, le loro sinagoghe, l'alfabeto e i suoi simboli, la letteratura e i manufatti.
Previste inoltre visite guidate a Mazara del Vallo, Marsala, Siracusa, Modica. Le lezioni si terranno a Palermo presso Unipegaso, Via Maqueda, 383 (Palazzo Mazzarino). Alla fine del Corso sarà rilasciato un attestato di partecipazione. Per informazioni ed iscrizioni: Tel. 346.8241076. E-mail: palermo@siciliantica.it

"Il Corso è una ulteriore tappa del percorso promosso da SiciliAntica, - commenta il presidente regionale di SiciliAntica, Alfonso Lo Cascio - iniziato diversi anni fa con la storia dell'Arte greca, e dedicato ai momenti più salienti del passato artistico e culturale dell'Isola. Proporre un lungo seminario di storia dell'Arte Ebraica significa riscoprire la grande ricchezza culturale di un popolo e approfondire un importante capitolo, ancora poco conosciuto, della storia della nostra Isola, quale quello dell'Ebraismo siciliano, che ha avuto un ruolo fondamentale nel delicato passaggio tra Medioevo ed Età Moderna. Alla fine del XV secolo la popolazione giudaica che abitava l'Isola si ritiene fosse composta da circa 37.000 unità con 44 comunità sparse per la Sicilia, e tra queste vi erano alcune molto ampie come quella di Palermo e Siracusa, che contavano circa 5000 ebrei ciascuna, Catania, Trapani, Marsala Sciacca e Messina con più di 2000 ebrei, e tra 100 e 1000 si aggiravano le comunità ebraiche di Caltagirone, Modica, Ragusa, Randazzo, Piazza Armerina ed altri. Una presenza variegata e significativa polverizzata dall'editto di Granata del 31 marzo 1492 con il quale i "Cattolicissimi" re spagnoli Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia hanno distrutto la comunità giudaica come aggregato storico di persone. Riscoprire la memoria attraverso un percorso culturale alla ricerca dei suoi segni artistici significa riallacciare i fili di una storia interrotta e rivisitarla attraverso lo stile dell'accoglienza, della tolleranza e del rispetto dell'altro".

(Quotidiano di Ragusa, 21 gennaio 2015)


I dati choc sull'Islam made in ltaly (I)

Dal Centro Antiterrorismo Israeliano il dossier sulla «nostra» filiera radicale e sui pericoli di attentati terroristici. «Homegrown è la definizione data ai terroristi integrati nella società civile. / 1

di Antonio Angeli e Francesca Musacchio

Venti organizzazioni, più di cento moschee, centinaia di luoghi di culto, 159 centri islamici, decine di scuole coraniche, innumerevoli siti internet e canali televisivi stranieri disponibili su TV satellitare. È questo il terreno in cui vivono e si nutrono di «odio» i terroristi definiti «homegrown», quelli che hanno tratto ispirazione e sostegno ideologico da Isis e Al Qaeda e oggi rappresentano una delle più insidiose minacce per l'Italia e per tutti i paesi occidentali.
   A lanciare l'allarme un capillare studio per il Centro internazionale antiterrorismo israeliano ultimato con la collaborazione di Michele Groppi che ha ampliato e aggiornato uno studio del 2011 presso l'ICT di
Si definisce «Homegrown» una persona che gode dei diritti sociali e legali, vive a stretto contatto con i valori e le credenze culturali del paese che la ospita, e mostra l'intento di fornire il supporto per un attacco terroristico all'interno della nazione in cui vive.
Herzliya, sotto la supervisione del Dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg. Nel dossier, che analizza lo sviluppo negli anni della comunità islamica italiana, tra processi di (mancata) integrazione e radicalizzazione di alcune realtà, il terrorista islamico «homegrown» è definito «una persona che gode dei diritti sociali e legali, vissuta a stretto contatto con i valori e le credenze culturali del paese che li ospita, e che mostra l'intento di fornire il supporto per commettere direttamente o indirettamente un attacco terroristico all'interno della nazione in cui vive». Questa definizione comprende quei musulmani che sono nati e cresciuti nelle società occidentali che, una volta sposata l'ideologia islamica radicale si dedicano alla pianificazione e attuazione di attacchi contro i paesi in cui vivono. I recenti attentati di Parigi, Sidney e Ottawa sono esempi eclatanti di tutto questo. Andando ancora più indietro nel tempo, non possono sfuggire l'attentato di Madrid, Londra, l'operazione Pendennis in Australia e 18 casi di Toronto avvenuti nel novembre 2005 e giugno 2006.
   Negli ultimi mesi, le minacce rivolte all'Italia da parte dello Stato islamico e di Al Qaeda sono numerosissime. Basti ricordare la rivista dell'Isis, Dabiq, che ha pubblicato nella foto di copertina piazza San Pietro con la bandiera nera del Califfato issata sull'obelisco. E il Papa, secondo le intelligence mondiali, è uno degli obiettivi dei terroristi di Abu Bakr al-Baghdadi. A peggiorare il quadro, il dossier elenca una serie di altri fattori di rischio presenti nel nostro Paese: i contatti tra musulmani che vivono in Italia con Arabia Saudita, Iran e Fratelli Musulmani egiziani; la presenza di imam e individui radicali; una capillare estensione dei luoghi di culto non autorizzati e associazioni islamiche sparse su tutto il territorio nazionale.
   Oltre che un tasso di immigrazione che è andato crescendo in modo esponenziale negli ultimi anni e che spesso risulta fuori controllo. Una trama di interessi e presenze che, ormai, fa parte del tessuto sociale e dove l'Islam ha un potere sottovalutato. Lo studio prende in esame quegli elementi che compongono l'indice di radicalizzazione della comunità musulmana come, ad esempio, «contatti pericolosi o potenzialmente pericolosi con agenti ritenuti radicali e/o violenti, organizzazioni sociali radicali, moschee e scuole coraniche radicali, leader sociali e religiosi radicali, organizzazioni impegnate in attività terroristiche, sostegno finanziario e logistico di attività terroristiche, attacchi terroristici o di tentativi di attacco terroristici sul suolo italiano, jihadisti italiani, arresti per reati di terrorismo, con rispettive sentenze ed espulsioni, e aggressioni e omicidi a sfondo culturale e religioso».
   Il rischio, dunque, per il Centro antiterrorismo arriva proprio da tutte queste realtà messe insieme che, spesso, sono fuori controllo. Ad allargare il divario tra musulmani e italiani, poi, «vi sono numerosi Stati esteri, moschee e organizzazioni culturali che competono tra loro in termini di egemonia, influenza, prestigio e rappresentanza a livello istituzionale»
(I - continua).

(Il Tempo, 21 gennaio 2015)


Alibaba investe nei codici Qr delle startup israeliane

di Sebastiano Carboni

La campagna di espansione di Alibaba fa tappa in Israele. Il colosso cinese dell' e-commerce punta su Visualead, società con sede a Tel Aviv specializzata nello sviluppo di codici da scannerizzare con gli smartphone. L'ammontare dell' investimento non è stato reso noto, ma, secondo quanto riporta il Wall Street Journal potrebbe essere di poco meno di 10 milioni di dollari. La startup israeliana, fondata nel 2012, ha da poco concluso un round di finanziamento da 2,4 milioni di dollari. La società fondata da Jack Ma vuole sfruttare la popolarità dei codici QR in Cina. Basti pensare che proprio uno di questi codici è il biglietto da visita di WeBank, la prima banca privata online cinese, ideata da Tencent. La partnership permetterà a Visualead di operare attraverso il servizio di Alibaba, denominato Mashangtao, per fornire codici ai venditori che usano le piattaforme e-commerce Taobao e Tmall, per concedere promozioni ai propri clienti o fornire loro ulteriori informazioni. Quello di Alibaba è inoltre l'ultimo di una serie di investimenti cinesi nell'industria tecnologica israeliana. Lo scorso dicembre era stata la volta di Baidu. Il motore di ricerca cinese aveva investito 3 milioni di dollari nella start-up Pixellot.

(Milano Finanza, 21 gennaio 2015)


Un 2014 radioso per l'industria cinematografica israeliana

Il settore ha conseguito risultati impressionanti lo scorso anno e spera in una replica nel 2015.

di Daniel Litani

L'industria cinematografica israeliana può rilassarsi per qualche istante poiché il 2014 pare essere l'anno migliore di sempre per il settore. La vendita di 1,6 milioni di biglietti nel corso dell'anno è la prova che il pubblico israeliano ripone davvero la propria fiducia nei film del Paese. I dati sono arrivati in un momento in cui l'industria cinematografica israeliana sta cercando di consolidare le sue prestazioni da record, nella speranza che questo successo non rimanga un caso isolato.
La ragione principale di questi risultati spettacolari è il fatto che l'industria ha dimostrato di saper produrre film di altissima qualità, affrontando tematiche che hanno destato l'interesse del pubblico tanto da totalizzare un numero impressionante di biglietti venduti.
   Zero Motivation è stato il film israeliano di punta, registrando quasi 590.000 presenze, ma di fatto, ben sette film hanno venduto più di 100.000 biglietti ciascuno. Talya Lavie, la regista, spiega il successo ottenuto dal film: "In primo luogo, ha un grande cast, e il pubblico è stato conquistato dai personaggi. Inoltre, penso che il film sia davvero autentico, e la gente in Israele ha sentito che era stato fatto per loro, e non per 'compiacere' occhi stranieri. Abbiamo una lunga tradizione di film militari in Israele, ma non molti su chi svolge un lavoro sedentario, quindi il film è stato significativo perché ha permesso a molti di indentificarvisi. Sono contenta che così tante persone abbiano potuto vedersi rappresentate, trovando il film divertente e triste allo stesso tempo".
  Mentre negli anni passati i temi dei film israeliani erano delicati e spesso focalizzati su argomenti quali il conflitto israelo-palestinese, il 2014 si è rivelato "l'anno della commedia". Oltre a Zero Motivation, altri tre film di successo erano commedie: Hill Start, Kicking Out Shoshana e The Farewell Party . Questo dimostra che la risata potrebbe essere il miglior rimedio per le pressioni della guerra che il pubblico israeliano ha vissuto.
  L'anno di successi sottolinea anche il crescente ruolo delle donne israeliane sulla scena locale. In passato, pochissime registe e produttrici si erano fatte notare all'interno dell'industria cinematografica israeliana; e invece, Zero Motivation, Gett: The Trial of Viviane Amsalem , The Farewell Party e Orange People sono tutti diretti da donne, e hanno anche riscosso notevoli consensi ai festival internazionali.
  Tradizionalmente, quando gli olivocoltori in Israele hanno un buon raccolto, l'anno successivo ne hanno uno disastroso. Tuttavia, l'industria cinematografica in Israele spera che il 2015 sia florido come il 2014, ma comprende anche la complessità di questo fragile settore e può solo sperare per il meglio.

(Cineuropa, 20 gennaio 2015)


Dall'Italia un fiume di denaro e di aiuti per Gaza

Sono in arrivo aiuti italiani a Gaza, dove circa 80.000 famiglie restano tuttora senza tetto. Lo ha annunciato il Console generale Davide La Cecilia che ha incontrato nella Striscia i quattro ministri ivi residenti del governo di unita' nazionale palestinese di Rami Hamdallah, formato su designazione del presidente dell'Autorita' nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen. Si tratta - ha spiegato La Cecilia al ministro della giustizia, Saleem Al Saqqa, a quello del lavoro, Mamoun Abu Shahla, al ministro per gli Affari Femminili, Haifa Al Agha e al suo collega ai Lavori Pubblici, Mufeeed Hassayneh - di uno dei due carichi, per un totale di 500 kit d'emergenza, consistenti in 250 'emergency shelters boxes' (tende, coperte, teli isolanti, cucine e fornelli da campeggio) in fase di distribuzione e allestimento a cura dell'Ufficio di Gerusalemme della Cooperazione Italiana e della Ong Acted.
   Dell'intero intervento - ha spiegato il Consolato - beneficeranno circa 500 famiglie, le cui case sono state distrutte o gravemente danneggiate nel corso del conflitto della scorsa estate.
   La Cecilia ha illustrato ai ministri l'impegno italiano a favore di Gaza ricordando il sostegno offerto a partire dal conflitto di quest'estate. Ad inizio agosto, e' stato organizzato un volo umanitario contenente 30 tonnellate di beni di prima necessità (per un valore di 350.000 euro) destinato alla popolazione della Striscia ed erogato contributi per 700.000 euro a favore di Agenzie Internazionali (Ocha, Oms e Icrc) per interventi nell'area. Successivamente, in occasione della Conferenza internazionale del Cairo di ottobre passato per la ricostruzione della Striscia l'Italia ha impegnato altri 18 milioni di euro: 15 milioni a credito d'aiuto per un programma di ricostruzione di abitazioni, 1 milione a favore di Unrwa, 200.000 euro ad Unmas per interventi di bonifica delle aree interessate da ordigni inesplosi e oltre 2 milioni di euro per interventi di emergenza. A questo ammontare - ha sottolineato il Consolato - si è aggiunto a dicembre un altro milione di euro, destinato sempre ad iniziative di emergenza nella Striscia.
   In questo ambito, le Ong italiane hanno appena avviato sei iniziative nella Striscia di Gaza nei tre settori di intervento fondamentali: acqua, salute e protezione dei rifugiati e degli sfollati.

(ANSAmed, 20 gennaio 2015)


Le bandiere dell'Isis sventolano a Gaza. E Hamas interviene arrestando i partecipanti

di Giulia Aubry

 
Bandiere dello Stato Islamico sventolate, numerose, in una manifestazione di protesta contro le vignette pubblicate da Charlie Hebdo, a Gaza. È questo quanto riportato da Vocativ.com. Il sito americano di informazione dal deep web riprende i contenuti, e le immagini, da un video pubblicato su youtube dalla media agency Watania, che (stando alle informazioni riportate sul suo sito) gestisce parte del mobile telefonico in Palestina.
La manifestazione si sarebbe svolta lunedì scorso e vi avrebbero partecipato solo alcune decine di persone. Ciò che però colpisce, nelle immagini diffuse sui social, è la presenza di numerose bandiere di Isis e di striscioni che inneggiano allo Stato Islamico e ai fratelli Kouachi, definiti da uno degli intervistati nel video "fratelli che hanno difeso l'onore di Maometto".
A quanto si può leggere in diversi articoli pubblicati dalla stampa internazionale, la manifestazione sarebbe stata organizzata da un gruppo affiliato a Salafia Al-Jihadia, un movimento salafita che opera a Gaza e che, recentemente, avrebbe ufficialmente dichiarato il proprio appoggio allo Stato Islamico denunciando addirittura l'operato di Hamas. A seguito della manifestazione, sempre secondo quanto riportato nel video e nell'articolo di Vocativ.com, alcuni dei partecipanti sarebbero stati arrestati proprio dalla polizia di Hamas.

(Il Messaggero, 20 gennaio 2015)


Ennesimo capitolo del duello Iran-Israele

di Maurizio Molinari

Dalle Alture del Golan a Buenos Aires è il nome dei Mughniyeh a descrivere il duello globale fra l'Iran e Israele che ha molteplici declinazioni, dal cyberspazio ai fondali sottomarini fino alle montagne del Kurdistan. Jihad Mughniyeh è il comandante degli Hezbollah responsabile del Golan che Israele ha eliminato domenica nel blitz che ha provocato la morte anche del generale dei pasdaran iraniani Mohammad Ali Allah-Dadi: entrambi perlustravano l'area di Quneitra progettando attacchi della nuova «Forza Galilea» dentro il territorio israeliano, fino alla città di Safed.
   Lo scenario di «blitz di Hezbollah in profondità dentro Israele» obbliga «Tzahal» a modificare i piani di difesa, ipotizzando una guerra di terra in Galilea: è la minaccia che Israele teme di più, sommandola ad attacchi terroristici come quello del 2012 a Burgas, in Bulgaria, realizzati dagli eredi di Imad Mughniyeh, padre di Jihad, già capo delle operazioni all'estero di Hezbollah, considerato l'ideatore dell'attentato di Buenos Aires del 1994 ed eliminato da un'autobomba a Damasco nel 2008.
   E' un duello senza tregua né confini che Israele combatte con truppe speciali e intelligence in più continenti, mentre sul fronte opposto l'Iran adopera Hezbollah e Forza Al Qods, ovvero le unità d'élite dei Guardiani della Rivoluzione, comandate da Qassem Suleimani che risponde solo alla Guida della Rivoluzione Ali Khamenei. I Guardiani della Rivoluzione sono a loro volta i protettori del programma nucleare iraniano, considerato una minaccia esistenziale da Israele che risponde su tre fronti: gli agguati agli scienziati, i virus cibernetici per lesionare gli impianti e una flotta di sottomarini «Dolphin» in grado di lanciare una risposta nucleare se Teheran dovesse riuscire a colpire lo Stato ebraico con un ordigno atomico. Se a ciò si aggiunge il sostegno di Teheran a Jihad islamica e Hamas, i programmi radio israeliani in lingua persiana, le pressioni di Netanyahu a favore delle sanzioni internazionali all'Iran e i tentativi dei droni iraniani di raggiungere la centrale atomica di Dimona si arriva a tratteggiare una sfida tesa alla continua ricerca del colpo del ko sull'avversario. Anche lì dove Israele e Iran quasi si toccano ovvero sulle montagne del Kurdistan iracheno, i cui peshmerga sono aiutati da entrambi a combattere contro i jihadisti sunniti dello Stato Islamico.
   
(La Stampa, 20 gennaio 2015)


L'ipocrita solidarietà con gli ebrei perseguitati

di Paolo Di Stefano

Ecco un bel libro da consigliare in attesa del Giorno della Memoria. Lo scrittore zurighese Charles Lewinsky lo conosciamo già: Einaudi ha pubblicato La fortuna dei Meijer, saga di una famiglia ebrea in Svizzera, e Un regalo del Führer, la storia di Kurt Gerron, attore tra i più amati nella Germania tra le due guerre, catturato in Olanda nel '43 e deportato a Theresienstadt, dove i suoi carcerieri gli chiedono di girare un documentario di propaganda. Che fare? Morire ad Auschwitz o collaborare?
   Circola ora un libretto di Lewinsky più smilzo, Un normalissimo ebreo, tradotto in italiano da Simona Sala per l'editore ticinese Abendstem. Un giornalista ebreo tedesco, Emanuel Goldfarb, viene invitato in una scuola per una lezione sulla sua cultura di appartenenza: Goldfarb non ne vuoi sapere e nell'intento di rispondere con una lettera di rifiuto, comincia a frugare nella propria storia personale e familiare, ma soprattutto a riflettere, in un lungo monologo, sul suo essere un normalissimo ebreo, anzi, sul suo non poter essere un normalissimo ebreo. Perché «Il normale ebreo in Germania è come un normalissimo rinoceronte nero in Africa». «Ci hanno cacciato e abbattuto troppo a lungo - dice -, siamo diventati un caso per animalisti (...). I rinoceronti si ammirano allo zoo, gli ebrei si invitano a lezione». Se il professore lo ha invitato per educare i suoi studenti alla tolleranza, lui non ci sta: è un'iniziativa onorevole e degna di lode, ma «io vorrei vivere in una Germania in cui si possa essere ebrei senza che la gente intorno senta automaticamente la necessità di essere tollerante». Matematica dalle 9 alle 10, tolleranza dalle 10 alle 11... «Questa costante solidarietà mi dà sui nervi. Non sopporto la gente che al mattino, appena sveglia, trascorre dieci minuti ad essere solidale ancora prima di lavarsi i denti».
   Non sopporta, «la faccia di circostanza da discorsi commemorativi del Bundestag». Non sopporta un Paese in cui le trasmissioni sulla shoah «passano in tv con la stessa regolarità e indifferenza di spot pubblicitari per salvaslip». Ricorda che da bambino ogni occasione era buona per scatenare l'antisemitismo o la malignità sugli ebrei. E il paradosso è che sua madre, ogni volta che il figlio non si comportava come doveva, si preoccupava che per gli altri questo potesse essere un pretesto: «Ogni volta che non salutavo una vicina di casa abbastanza gentilmente o arrivavo in ritardo a scuola ... ». Una responsabilità enorme, come sé la persecuzione fosse colpa sua.

(Corriere della Sera, 20 gennaio 2015)


La rabbia della umma esplode contro "Satana Charlie Hebdo"

Si preparano azioni legali contro il settimanale e cristiani sono bruciati vivi in Niger. E' la risposta dell'islam. Chiese distrutte, blogger frustati in Arabia Saudita e il giornale turco Cumhuriyet finito sotto protezione. I talebani invitano intanto a uccidere i giornalisti francesi sopravvissuti alla strage, mentre Hamas acclama i fratelli Kouachi come "eroi del raid di Parigi".

di Giulio Meotti

ROMA - Il mondo islamico è in fermento dopo il ritorno in edicola di Charlie Hebdo ed esplode la rabbia contro "i blasfemi". L'Organizzazione della Conferenza islamica, l'associazione di 57 stati impegnati a promuovere la "solidarietà musulmana", con sede a Gedda in Arabia Saudita, ha annunciato che "l'Organizzazione della Conferenza islamica sta studiando in Europa procedure disponibili per intraprendere azioni legali contro Charlie Hebdo", ha detto il segretario dell'Organizzazione, il saudita Iyad Madani.
   "La pubblicazione di Charlie Hebdo è una scelta idiota che richiede le necessarie misure legali", ha detto Madani. "Nessuna persona sana di mente, a prescindere dalla propria dottrina, religione o fede, accetta che le sue convinzioni vengano ridicolizzate". Ong e diplomatici europei sono già al lavoro, su pressione dei regimi islamici, per studiare l'introduzione di leggi contro l'''hate speech" che limiti la libertà d'espressione e criminalizzi "l'islamofobia". Foreign Policy l'ha chiamato "la Brigata della blasfemia". Dopo
Il segretario della Lega araba ha detto che sarà redatto "un quadro giuridico internazionale, che è vincolante per affrontare gli insulti alle religioni e assicu- rare che la fede religiosa e i suoi simboli siano rispettati".
aver partecipato alla marcia per onorare i morti di Parigi con il ministro per gli Affari esteri, Nizar bin Obaid Madani, l'Arabia Saudita ha ordinato la flagellazione del blogger Liberal Raif Badawi, condannato a mille frustate. Il segretario della Lega araba Nabil Elaraby ha detto che sarà redatto "un quadro giuridico internazionale, che è vincolante per affrontare gli insulti alle religioni e assicurare che la fede religiosa e i suoi simboli siano rispettati". Un numero impressionante di paesi europei - otto, tra cui la Danimarca, la Germania, l'Irlanda, e i Paesi Bassi - mantengono oggi una qualche forma di legge anti blasfemia. Per loro sarà più facile accogliere le richieste dell'Organizzazione della Conferenza islamica.
   Alla minaccia di azioni legali, la piazza islamica risponde incendiando chiese. Nel Niger, il cui presidente Mahamadou Issoufou era volato a Parigi per partecipare alla marcia dei leader internazionali dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo e nel supermercato ebraico, proteste islamiche hanno causato la morte di tre civili, di un agente e di un cristiano rinvenuto tra le rovine di una chiesa cattolica data alle fiamme. Era stato bruciato vivo. A Zinder, seconda città del Niger, due chiese erano state date alle fiamme, assieme al centro culturale francese e a numerosi negozi di cristiani da una folla che scandiva slogan come "Je suis muslim". Intanto, il governo senegalese bandiva Charlie Hebdo e Libération, reo di aver ospitato i giornalisti sopravvissuti alla strage. In Algeria, dove a migliaia hanno intonato "Siamo tutti Maometto", non è mancato il sostegno per i fratelli Kouachi, responsabili della strage nella redazione di Charlie Hebdo. "I Kouachi sono martiri" gridava una folla ad Algeri, assieme a slogan come "El chaab yourid daoula islamia", il popolo vuole uno stato islamico.
   In Turchia, la polizia antisommossa è stata dispiegata per proteggere gli uffici di un giornale laico che ha pubblicato l'ultima prima pagina di Charlie Hebdo con il profeta Maometto, Cumhuriyet. Il direttore del giornale, Utku Cakirozer, ha detto che "noi che abbiamo perso dei giornalisti negli attacchi terroristici, comprendiamo il dolore della strage a Charlie Hebdo. Il riferimento è a Ugur Mumcu, editorialista di Cumhuriyet assassinato dagli islamisti, noto per essere un uomo di sinistra (nel 1973 fu incarcerato dalla giunta militare di destra che aveva preso il potere), un oppositore dell'integralismo islamico e del separatismo curdo. La procura di Istanbul ha anche messo sotto processo due delle sue maggiori firme, Hikmet Cetinkaya e Ceyda Karan, per "istigazione all'odio". Il tweet turco di maggior successo in questi giorni è: "#UlkemdeCharlieHebdoDatlamaz". Ovvero: "Charlie Hebdo non può essere distribuito nel mio paese". Il giornale islamista Yeni Akit ha risposto ai colleghi della borghesia laica turca che "non hanno imparato la lezione", un avvertimento che si riferisce alla strage di Charlie Hebdo.
   L'ambasciata francese a Niamey ha chiesto ai propri cittadini di non recarsi al lavoro. A Lahore, in
In Israele, bandiere francesi sono state bruciate sulla Spianata delle moschee, mentre a Gaza veniva vandalizzato il centro culturale francese. Hamas ha commentato che dietro alla strage di Charlie Hebdo c'è "la mano sionista".
Pakistan, 10 mila sostenitori dell'organizzazione islamica Jamaatud-Dawa hanno urlato slogan tipo "Morte ai blasfemi". Il portavoce dei talebani pachistani del Ttp, Ehsanullah Ehsan, il gruppo responsabile della strage alla scuola costata la vita di oltre 120 persone, in gran parte scolari, ha "invitato a uccidere" i giornalisti di Charlie Hebdo. In Israele, bandiere francesi sono state bruciate sulla Spianata delle moschee a Gerusalemme, mentre a Gaza veniva vandalizzato il centro culturale francese. Hamas ha commentato che dietro alla strage di Charlie Hebdo c'è "la mano sionista", mentre il sito internet del movimento terrorista ha pubblicato le fotografie dei fratelli Kouachi e di Amedy Coulibalye la dicitura: "Gli shahidim (martiri) che sono stati inviati da Dio, gli eroi del raid di Parigi".
   In Iran, i mullah hanno chiuso il giornale Mardom-e-Emrooz, dopo che questo aveva pubblicato una fotografia dell'attore George Clooney e la scritta "Je suis Charlie". Il ministero degli Esteri iraniano è stato franco: "La libertà di parola è abusata in occidente e deve essere fermata". Intanto, in Francia, oltre ai giornalisti di Charlie Hebdo e al romanziere Michel Houellebecq, anche il polemista Eric Zemmour è finito sotto protezione. "Sono sotto protezione della polizia da dopo l'attentato, con due poliziotti che mi seguono dovunque. Non l'ho chiesto, lo subisco, è tutto" ha detto l'intellettuale francese. Anche l'intimidazione, assieme ai roghi e alle azioni legali, fa parte della campagna d'odio. Aumentata al massimo la protezione a Canard Enchainé, il settimanale della sinistra libertaria celebre per aver scoperto, fra altri scoop, i diamanti regalati da Bokassa a Giscard: "Ora è il vostro turno" hanno minacciato gli islamisti in una lettera al giornale francese, avvertendo che avrebbero fatto a pezzi i loro giornalisti "con una mannaia".
   
(Il Foglio, 20 gennaio 2015)


Israele al voto: guerra di spot sul Web

A meno di due mesi dalle politiche, i principali partiti iniziano a darsi battaglia: il Likud di Netanyahu punta su un video nel quale si vede il premier tentare di fare ordine in un asilo dove i bambini hanno i nomi dei rivali politici.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - In Israele è iniziata la guerra degli spot elettorali. A meno di due mesi dalle politiche, i principali partiti iniziano a darsi battaglia sull'etere inaugurando battute, slogan e attacchi destinati ad accompagnarli fino al giorno delle urne. Il Likud di Benjamin Netanyahu punta su un video nel quale si vede il premier tentare di fare ordine in un asilo dove i bambini hanno i nomi dei rivali politici. "Naftali, Yair smettetela!" grida Netanyahu verso due bambini indisciplinati con i nomi dei leader dei rivali di "Bait HaYehudì" e "Yesh Atid". E poco dopo si mette letteralmente le mani nei capelli davanti al disordine i "Yizhak" e "Tzipi", che evocano negli spettatori gli agguerriti rivali alla guida del centrosinistra. L'intento è contrapporre la solidità di Netanyahu alla riottosità dei rivali.
   Proprio per bersagliare Yizhak Herzog e Tzipi livni, il Likud lancia un secondo video - a disegni animati - che li mostra indecisi fino all'ultimo su chi deve fare cosa al fine di trasmettere un'immagine di incertezza dovuta alla precarietà della loro coalizione. I laburisti di Herzog rispondono con il videogame "Push the Bibi", ovvero "Allontana Netanyahu", che ironizza sugli spintoni dati da Netanyahu ai leader stranieri durante la marcia di Parigi al fine di riuscire ad essere in prima fila, vicino a Hollande e Merkel. La conclusione del videogame è: "Quando vince Bibi, perdono tutti". Ovvero, lui sa occuparsi solo i suoi interessi.
   Il partito conservatore-religioso "Bayit HaYehudi" punta invece su un video nel quale il leader Naftali Bennett si traveste da israeliano super-laico di sinistra andando in giro per Tel Aviv al fine di chiedere scusa, dimostrando la vocazione alla sconfitta dei laburisti. E dall'estrema sinistra il Meretz ribatte con un video in cui si dimostra rispetto per gli ultraortodossi, accusando quindi Bennett di aver offeso tutti coloro che si ritengono laici. Anche i religiosi di "Shas" sbarcano in tv, investendo su uno spot meno sofisticato ma assai concreto: denuncia la "povertà inaccettabile" di 2 milioni di cittadini.

(La Stampa, 20 gennaio 2015)


«L'islam estremista? E' un pericolo sottovalutato»

Il presidente dell'Unione Comunità Ebraiche, Gattegna: serve una reazione internazionale contro i fanatici dell'antisemitismo.

di Paolo Ferrario, inviato a Cracovia

Ogni volta che rimette piede ad Auschwitz viene pervaso da una «grande disperazione» e si sente «stretto come in una morsa». Eppure Renzo Gattegna presidente delle comunità ebraiche italiane, ormai da anni non rinuncia ad accompagnare i ragazzi delle scuole, come sta facendo in questi giorni che cadono esattamente a settant'anni dalla liberazione di Cracovia e del campo di sterminio diventato l'orrendo simbolo della Shoah. Eppure un altro fronte agita in questo momento il mondo ebraico. Rimanda ai fatti di Parigi. «Il pericolo dei fanatici finora è stato sottovalutato - osserva Gattegna -. Ora serve una reazione internazionale forte».

- Presidente Gattegna, partiamo da Auschwitz. Perché è necessario ritornare ancora qui?
  Il messaggio che emerge dalla visita ad Auschwitz è ancora molto attuale, perché il germe del razzismo e dell'antisemitismo non è ancora morto del tutto.

- Anche in Italia?
  Da noi, per fortuna, l'antisemitismo è molto ristretto, contenuto e controllato dalle forze dell'ordine. Ma basta ricordare che cosa è accaduto in Francia appena pochi giorni fa, per rendersi conto che c'è un antisemitismo di matrice estremista islamica che tende a colpire e provocare le comunità ebraiche. Che aggredisce per strada persone che portano la kippà o hanno segni di riconoscimento della loro religione ebraica. E questo, ripeto, succede in Francia, fuori dalla nostra porta di casa.

- Come è potuto accadere? Perché questi terroristi non sono stati fermati prima?
  Ripeto: finora il pericolo di questi fanatici è stato sottovalutato e hanno avuto abbastanza libertà di movimento e di organizzazione. Adesso che il pericolo è emerso e si è capito che intendono organizzare delle vere e proprie stragi, spero che ci sia un risveglio e una reazione internazionale forte che possa mettere queste persone in condizioni di non nuocere.

- Dopo questi fatti avete paura?
  
Parlare di paura ci ripugna. Noi ci sentiamo veri cittadini del nostro Stato, sappiamo che l'Italia ci considera cittadini perché abbiamo la Costituzione che è un modello di tutela delle minoranze. Non vogliamo essere condizionati dalla paura. Vogliamo continuare con le nostre tradizioni, con la nostra vita, senza modificarla perché possiamo temere che ci succeda qualcosa. Possiamo adottare delle cautele difensive, ma non vogliamo cambiare la nostra vita.

- Quanto sono importanti i testimoni diretti della Shoah?
  
Sono importanti per la loro capacità di penetrare nella mente dei giovani. Sono però ormai quasi tutti molto anziani e questo è un motivo in più per proseguire questo lavoro, perché quando un ragazzo sente quello che è successo dalla viva voce di chi l'ha vissuto, diventa esso stesso un testimone. Arriverà il giorno in cui i testimoni diretti scompariranno' ma ci sarà un grande numero di giovani che sarà in grado di testimoniare che questo è stato.

- Basterà per evitare che, con la scomparsa dei testimoni, anche la memoria della Shoah, a poco a poco, svanisca?
  
Dipende da noi, da come sapremo essere sempre vigili e attivi e contrastare tutte le forme di negazione dei diritti. Dobbiamo mantenere fermi i nostri principi democratici di libertà e uguaglianza.

(Avvenire, 20 gennaio 2015)


A proposito di Amos Oz

1978 - Amos Oz è uno dei fondatori di Peace Now. (Wikipedia)
2014 - Elena Loewenthal chiede ad Amos Oz: "E' possibile mettere nello stesso letto palestinesi
          e israeliani? Dire loro: adesso piantatela di odiarvi e amatevi?"
          Risposta: "Per ora no. La realtà non risponde al sogno. Per ora no». (Stampa, 20/10/14)
          Dopo di che Oz ha proposto un nuovo nome per il movimento pacifista: Peace Later.
 

Ricorso contro l'esclusione di Hamas dalla lista Ue delle organizzazioni terroristiche

Il Consiglio dell'Unione europea contesta la decisione della Corte di giustizia, arrivata per ragioni "procedurali" e non per valutazioni di merito, e studia misure per evitare in futuro altri annullamenti.

Il Consiglio Ue non si rassegna e presenta ricorso contro la decisione della Corte di giustizia europea di rimuovere Hamas dalla lista europea delle organizzazioni considerate terroristiche. La decisione era arrivata a dicembre per motivi strettamente "procedurali" e non per valutazioni nel merito: secondo il tribunale di Lussemburgo, l'iscrizione di Hamas nella lista nera era fondata "non su fatti esaminati e contenuti nelle decisioni delle autorità nazionali competenti" ma piuttosto su accuse "tratte dalla stampa e da Internet". Il Consiglio ha però deciso di contestare alcune delle conclusioni della Corte.
Come conseguenza dell'appello presentato, gli effetti della sentenza su Hamas sono sospesi fino alla decisione finale. Le istituzioni europee, fa sapere l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea, Federica Mogherini, stanno anche "studiando attentamente" altre misure da prendere per evitare, in futuro, altri possibili annullamenti nell'ambito del processo di revisione delle misure dell'Ue per combattere il terrorismo. Le misure, che prevedono anche il congelamento dei beni delle organizzazioni, sono infatti, sottolinea infatti Mogherini, uno "strumento essenziale" per "arginare il finanziamento del terrorismo".

(eunews, 19 gennaio 2015)


Argentina - Trovato morto il procuratore Nisman che accusò Fernandez sull’Iran

"Tutto indica che sia stato un suicidio". Lo ha detto il segretario della Sicurezza nazionale, Sergio Berni

È stato trovato senza vita Alberto Nisman, il procuratore che accusava la 'presidenta' argentina Cristina Fernandez di aver coperto l'Iran sul caso dell'attentato contro il centro ebraico di Buenos Aires del 1994, che costò la vita a 85 persone. Nisman sarebbe dovuto comparire oggi al Congresso per fornire i dettagli della denuncia nei confronti del capo di Stato e di alcuni suoi collaboratori. Il procuratore disponeva di registrazioni di conversazioni telefoniche tra le autorità iraniane e agenti dei servizi segreti argentini che, a suo avviso, dimostravano la sottoscrizione da parte del governo di Buenos Aires di un memorandum di intesa con Teheran che prevedeva la copertura dei sospetti in cambio di un aumento dei commerci bilaterali e di un favorevole scambio tra petrolio e grano. Il governo di Cristina Fernandez ha sempre smentito ogni legame e ha accusato il procuratore di mentire. Intanto, le indagini sul decesso di Nisman sono in corso.
Viviana Fein, pm che si occupa del caso, ha fatto sapere che nella casa dell'uomo è stata trovata un'arma, ma ha chiesto prudenza e cautela. Il corpo senza vita è stato trovato dalla madre del procuratore nel bagno dell'appartamento in cui viveva, in un edificio protetto dalla sicurezza privata nell'esclusivo quartiere di Puerto Madero, nella capitale Buenos Aires. Fein ha confermato ai media il ritrovamento di una pistola calibro 22.
"Tutto indica che sia stato un suicidio". Lo ha detto il segretario della Sicurezza nazionale dell'Argentina, Sergio Berni, commentando alle emittenti televisive locali la morte di Alberto Nisman. "Dobbiamo capire se polvere da sparo sarà trovata sulle sue mani", ha aggiunto. Intanto, l'autopsia è iniziata e la causa ufficiale della morte sarà annunciata nei prossimi giorni. "Era solo nell'appartamento e non ci sono testimoni", ha puntualizzato la procuratrice Viviana Feintold, parlando ai giornalisti.

(Romagna Noi, 19 gennaio 2015)


Natan Sharansky: "Aumenta l'intolleranza e sempre più ebrei lasciano l'Europa"

La parola all'ex dissidente sovietico scambiato con una spia russa nel 1986, oggi alla guida dell'Agenzia che si occupa dell'arrivo degli immigrati di religione ebraica in Israele e della loro integrazione nella società civile israeliana.

di Fabio Scuto

Natan Sharansky
GERUSALEMME - "È difficile pronosticare le decisioni future sulla base dello shock in cui si trova in questo momento la popolazione francese e particolarmente gli ebrei, e quanto questo potrà influenzare o meno la decisione di immigrare in Israele. Noi prevediamo un aumento esponenziale delle richieste di informazioni al nostro call center e delle prenotazioni degli incontri preliminari sull'argomento".
Seduto nel suo ufficio di King George Street, nel cuore di Gerusalemme, Natan Sharansky, l'ex dissidente sovietico scambiato con una spia russa nel 1986 al celebre check-point Charlie di Berlino Est e da allora emigrato in Israele, è certamente la persona più titolata per parlare di immigrazione. Dirige dal 2009 l'Agenzia Ebraica, l'ente che si occupa storicamente dell'arrivo degli ebrei in Israele e di favorire la loro integrazione nella società civile israeliana.

- I dati diffusi dall'Agenzia prevedono un incremento del 30 per cento di nuovi immigrati dalla Francia, dove vive la più numerosa comunità ebraica d'Europa. È una stima per difetto?
  "Le previsioni che abbiamo pubblicato si basano sul numero dei dossier aperti e dei procedimenti in corso in questo momento. Non pubblichiamo mai previsioni sulla base di sensazioni, ma solo sulla base di dati e documentazione. È molto probabile un incremento dell'immigrazione già nel corso di questo anno, al di là di quanto è stato previsto al suo inizio. Ci stiamo preparando a questa possibilità e prendiamo le misure necessarie per accogliere un numero di immigrati superiore al previsto".

- Ogni anno, negli ultimi 3 anni, il numero degli ebrei francesi immigrati è quasi raddoppiato (1900-3000-7000, 10 mila nel 2015). È il segno di un disagio, di un'ondata antiebraica in Europa?
  "Il numero dei cittadini francesi che hanno deciso di emigrare all'estero negli ultimi anni è in costante aumento, un milione e mezzo di cittadini francesi vivono in questo momento fuori dai confini della Francia: in Gran Bretagna, in Belgio, negli Stati Uniti o in Canada. L'emigrazione degli ebrei francesi si inserisce in questo fenomeno più generale. È chiaro tuttavia che la scelta di Israele deriva anche da altri elementi, che vanno al di là del fenomeno generale di espatrio dalla Francia. Gli ebrei che arrivano qui lo fanno per motivi personali, religiosi, culturali, spirituali - evidenziando in molti casi anche l'atmosfera di intolleranza ed i violenti incidenti antisemiti di cui sono vittime. Non generalizzerei parlando di un'ondata anti-ebraica in Europa, ma non vi è dubbio che vi sono posti in cui molti ebrei - non tutti - sentono di non essere bene accetti o sentono che sia preferibile andare a vivere in altri luoghi".

- I nuovi immigrati accedono ad un percorso facilitato per inserirsi nella società civile e nel mondo lavorativo?
  "Certamente. L'Agenzia Ebraica, congiuntamente al Ministero dell'Immigrazione e dell'Assorbimento, aiutano gli immigrati nell'apprendimento dell'ebraico (corsi speciali), nell'avviamento professionale, assistendoli con alloggi temporanei (centri di accoglienza), con prestiti agevolati per l'acquisto di una casa, per gli studi e per l'attività professionale, eliminando per quanto possibile gli impedimenti burocratici nel riconoscimento di titoli di studio esteri, al fine di un rapido inserimento nel mercato del lavoro. Ovviamente anche i servizi sociali sono coinvolti nell'inserimento degli immigrati, quando se ne riscontra la necessità".

- Qual è il numero complessivo degli ebrei che ogni anno decidono di emigrare in Israele, di fare l'Aliyah?
  
"Negli ultimi quattro anni, dal 2010 al 2014, sono arrivati in Israele circa 100 mila nuovi immigrati. Negli ultimi dieci anni sono arrivati 245 mila nuovi immigrati. Quindi si può senz'altro dire che l'affluenza è continua e persino in aumento ".

- Le parole di Netanyahu agli ebrei francesi "Israele è la vostra patria" hanno ferito la politica francese ed il presidente Hollande, il quale ha ribadito che "la Francia è la patria degli ebrei francesi". Lei che cosa ne pensa, qual è la patria degli ebrei?
  
"Non siamo interessati a polemizzare con il presidente francese, e certamente non vi è stata alcuna intenzione offensiva, né nei confronti dei francesi né nei confronti di chiunque altro. Si devono intendere le parole di Netanyahu nell'ambito del loro contesto corretto, che è quello del pubblico dibattito sionista ed israeliano. L'Aliyah in Israele è uno dei fondamenti dell'ethos sionista su cui si regge lo Stato d'Israele, e le cose sono state dette in questo ambito, anche se, disgraziatamente, a volte vengono recepite da angolature diverse, creando incomprensioni. Secondo me, la scelta di cambiare residenza e di trasferirsi da un Paese all'altro, che sia Israele o qualunque altro, è una decisione personale e sovrana di ciascuno e come tale deve essere rispettata. La mia scelta personale, ovviamente, le è nota ed i fatti parlano da soli".

(la Repubblica, 19 gennaio 2015)


L'Aia e l'assurda liturgia dei processi anti Israele

'L'Onu è quell'ente mondiale faraonico, costoso e inutile che si fa umiliare a Srebrenica e in Ruanda, mette a capo della commissione sui Diritti umani nazioni che i diritti umani li fanno a brandelli e chiama a dirigere la commissione sui Diritti delle donne Nazioni in cui le donne sono legalmente stuprate, fustigate e lapidate.
   Poteva forse la Corte internazionale di giustizia dell'Aia, che delle Nazioni Unite è emanazione, non emularne le iniziative grottesche? Certo che no. E infatti, invece di perseguire i tiranni sanguinari alla Mobutu, i professionisti della pulizia etnica, la Cina che ha massacrato il Tibet, i fanatici che stanno violentando le bambine in Nigeria e sgozzando gli insegnanti, i Paesi arabi «moderati» in cui è pratica corrente la decapitazione delle donne e la somministrazione di centinaia di frustate ai blogger «blasfemi», gli scherani di Hamas che ammazzano a gruppi i «collaborazionisti», ossia i dissidenti fucilati a Gaza come monito per chiunque osasse profferir parola, il carnefice Assad che usa armi chimiche e ha raso al suolo Aleppo trucidando migliaia di bambini, invece Insomma di operare con un minimo di decenza e di rispetto per la parola «giustizia» che campeggia sulle sue insegne, cosa fa la Corte dell'Aia? Apre a gentile richiesta di massacratori seriali un'inchiesta sui «crimini» di Israele che sarebbero stati commessi a Gaza. Assad al calduccio, protetto dall'Onu. Israele, alla sbarra.
   Finora l'inutilità della Corte internazionale si è manifestata secondo questo principio: accanirsi con i dittatori deposti e inoffensivi, come Mllosevic, ed emettere ridicoli mandati di cattura contro uno stragista come il presidente del Sudan Al Bashir, responsabile dei massacri del DaIfur. Ovviamente Al Bashir si fa beffe di quel mandato di cattura. Prendersela con chi non conta più niente è più facile, e giustifica le spese sostenute per tenere in piedi un tribunale che con molta saggezza gli Stati Uniti continuano a boicottare per non sottoporsi al riti di una tragica messinscena.
   Ora c'è un altro modo facile facile per guadagnarsi il consenso dei dittatori internazionali e dei teorici delle pulizie etniche: prendersela con Israele. A pochi giorni dalla strage nel supermarket kosher di Parigi, mentre i Parlamenti europei danno una mano ad Hamas, si inizia ad inscenare la grande liturgia in cui il malvagio Israele viene indicato come il male assoluto. E non c'è niente da ridere.

(Corriere della Sera, 19 gennaio 2015)


Netanyahu: "Totalmente capovolti i nobili obiettivi della Corte Penale Internazionale"

"I palestinesi manipolano cinicamente la Corte dell'Aia per negare allo stato ebraico il diritto di difendersi proprio da quei crimini di guerra che la Corte dovrebbe prevenire".

"Israele respinge la decisione assurda del Procuratore della Corte Penale Internazionale". Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in una dichiarazione diffusa sabato sera a seguito dell'annunciata decisione del Procuratore della Corte Penale Internazionale dell'Aia di aprire un'indagine preliminare sulla situazione in Palestina. "E' assurdo - ha spiegato Netanyahu - che la Corte dell'Aia ignori leggi e accordi internazionali in base ai quali i palestinesi non hanno uno Stato e lo possono ottenere solo attraverso negoziati diretti con Israele. Le regole della Corte Penale Internazionale - ha continuato il primo ministro israeliano - sono chiare: niente stato, niente procedimento, niente processo. E' assurdo che la Corte Internazionale persegua Israele, che ha uno dei più elevati standard di rispetto del diritto internazionale....

(israele.net, 19 gennaio 2015)


Oltremare - La rincorsa

di Daniela Fubini, Tel Aviv

La fase attuale sembra essere quella della rincorsa, in cui si fa un passo o due indietro, si puntano bene gli occhi alla bandierina del traguardo (il 17 marzo), e poi si affonda il piede nella sabbia sottile della pista e via, a chi corre più forte. Non più elegante, o più corretto, o col sorriso più smagliante: solo più veloce. È quello che conta all'arrivo, dove una manciata di millesimi di secondo, o un pugno di voti, fanno la differenza fra vittoria e sconfitta.
Tutti in fila a lisciarsi il pettorale, ottenuto dopo corse all'ultimo voto nei partiti, oppure piovuto dall'alto, come regalo del líder màximo, nei partiti che non fanno le famigerate primarie. Se fossi un politico, avrei il terrore sacro delle primarie. Luoghi in cui ogni sgambetto e fallo a gamba tesa può prodursi, di solito ad opera del migliore amico o del collega di una vita. Forse preferirei essere incoronata da un capo un po' megalomane, mantenendo intatti i rapporti con i compagni di partito. Salvo quelli che avrebbero voluto essere al mio posto, e allora siamo da capo. Sangue e arena.
In Israele queste elezioni, per essere che nessuno le voleva, si stanno dimostrando parecchio arzille. Fioccano i giornalisti, che lasciano la sedia da un lato dello schermo per comparire il giorno dopo dall'altro, sapendo che è un passaggio che non ammette ritorno. Politici temprati praticano il famoso salto del partito, approdando spesso a piedi uniti per essere poi abbattuti da critiche e sondaggi.
Al momento sono dati per vincenti Herzog e Livni, il 'Campo Sionista', nome malaugurante purtroppo; però il popolo, anche quello più affezionato o assuefatto a Nethanyahu, comincia a dare segni di stanchezza per la sua lunga permanenza al vertice, e potrebbe davvero finir bene per la sinistra, almeno a numeri. Perché poi, con 25 seggi su 120, altro che un centometrista scattante: ci vuole un prestigiatore, a metter su una coalizione che non crolli al primo giro di pista.

(moked, 19 gennaio 2015)


"Tre anni di concentramento in un Comune del Sud. Ebrei a Castrovillari (1940-43)"

A Castrovillari (CS), come a Ferramonti, negli anni 1940-43 vennero internati degli ebrei. Di questa presenza, però, non c'è stata memoria.
Per tale motivo l'associazione culturale Mystica Calabria intende celebrare e ricordare, con il patrocinio del Comune e della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, il Giorno della Memoria proponendo un evento particolare: la presentazione del libro del professore Luigi Troccoli, edito da Prometeo ed intitolato "L'internato in oggetto: Tre anni di concentramento in un Comune del Sud Ebrei a Castrovillari (1940-43)".
Il volume, prezioso per la ricerca storica e documentaria, precisa nomi, vita e destino delle famiglie internate a Castrovillari, recuperati e studiati, grazie ad una ampia documentazione di archivio, pubblicata ora per la prima volta.
L'appuntamento che porta a conoscenza la "traccia" è fissato per le ore 17.30 di martedì 27 Gennaio nella Sala 14 del Protoconvento francescano.
Dopo i saluti del commissario straordinario al Comune di Castrovillari, Massimo Mariani, e di Mario Vicino, scrittore nonché membro della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, ci saranno gli interventi di Francesco Panebianco, direttore del "Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia", di Tiziana Rizzo, studiosa della presenza degli Ebrei nella storia della Calabria e dell'autore che contribuiranno a rendere più interessante l'appuntamento su questa "impronta indimenticabile". Il tutto sarà moderato da Ines Ferrante, presidente dell'Associazione Mystica Calabria e caratterizzato dalla lettura di alcune lettere dei bambini (i semi da cui germoglia il futuro), internati a Castrovillari, a cura di Giuseppina Sisca e da intermezzi musicali di violino della giovane Monica Cafarelli.
Particolarmente attese sono le testimonianze di Giacinto Pernisco, Sara Marini Bloise ed Ester Alois, programmate per la serata.
Questa darà anche l'opportunità, a quanti presenzieranno oltre a chi lo vorrà, di visitare la mostra fotografico - documentaria sull'internamento, curata dall'associazione Mystica Calabria e dallo stesso autore del libro, e allestita nei chiostri superiori del Protoconvento per essere ammirata dalle ore 10 alle 12.30 e dalle 16 alle ore 19.30.

(strill.it, 19 gennaio 2015)


Blitz israeliano nel Golan contro Hezbollah: uccisi cinque miliziani

Le vittime viaggiavano su due auto delle milizie governative siriane. Per colpirli sono stati lanciati dei missili. Morto Jihad Mughniyeh, il responsabile delle operazioni nella regione.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Con un attacco di elicotteri Israele ha eliminato il comandante di Hezbollah responsabile del Golan siriano, assieme ad altri quattro miliziani. Il comandante ucciso è Jihad Mughniyeh, figlio di Imam Mughniyeh il capo delle operazioni di Hezbollah all'estero che venne eliminato a Damasco dall'esplosione di autobomba nel febbraio 2008.
   I cinque Hezbollah si trovavano a bordo di due vetture delle milizie governative siriane nei pressi delle fattorie Amal, a ridosso della città di Quneitra nei pressi del confine di Israele. Sono stati due elicotteri israeliani a colpirle con più missili, distruggendo completamente un veicolo e parzialmente l'altro. Fra i cinque Hezbollah uccisi c'è anche Mohammed Issa, comandante di campo conosciuto con il nome di battaglia di Abu Issa. Sono state fonti di stampa libanesi a dare la notizia del blitz israeliano, preceduto da sorvoli di jet sul Golan, probabilmente per raccogliere informazioni sui cinque Hezbollah.
   L'emittente libanese Mtv afferma che la cellula Hezbollah "si stava preparando a lanciare razzi contro Israele". Jihad Mughinyeh era considerato da Israele come il mandante di più attacchi lungo il confine israelo-siriano avvenuti nel corso del 2014. Hezbollah ha affermato che Jihad Mughinyeh era a Quneitra "a fini di ricognizione" ed ha reagito al blitz israeliano mettendo in allerta le proprie forze nel Libano del Sud. Poche ore prima del blitz il generale Itai Brun, capo del servizio ricerche dell'intelligence militare israeliana, aveva consegnato al governo un rapporto di fine mandato nel quale ritiene "probabile" un attacco jihadista contro Israele dal Golan nel corso di quest'anno, prevedendo che "nella prossima guerra libanese" Hezbollah "ci lancerà contro 1000 missili al giorno, tentando di impossessarsi di aree di territorio israeliano".

(La Stampa, 18 gennaio 2015)


Bruciata l’auto di un professore palestinese

Era stato denunciato per aver portato i suoi studenti ad Auschwitz.

di Giulia Aubry

È uscito di casa e ha trovato la sua macchina incendiata. Così ha immediatamente pubblicato la foto su Facebook scrivendo: «L'altra notte, la mia auto è stata data alle fiamme. E tutto quello che ho da dire è: l'Islam è la mia religione, e la moderazione sono la mia dottrina e il mio stile di vita».
Così ha risposto, a chi presumibilmente ha voluto lanciargli un avvertimento, Mohammed Dajani, palestinese, già professore di Studi americani presso l'università di Al-Quds e fondatore di Wasatia, un movimento politico-sociale che difende i concetti di moderazione, pluralismo, democrazia e giustizia così come vengono enunciati nel Corano.
   Dajani è diventato popolare anche al di fuori dei confini di Israele quando, nel marzo dello scorso anno, ha condotto un gruppo di 30 studenti palestinesi - primo caso nella storia - ad Auschwitz-Birkenau. La visita è stata raccontata solo a posteriori per motivi di sicurezza e rientrava in un più ampio progetto che vede coinvolte l'università palestinese (con sedi a Gerusalemme, Abu Dis, e al-Bireh) di Al-Quds, l'università tedesca Friedrich Schiller e l'università israeliana Ben Gurion e che ha come scopo quelle di far conoscere agli studenti di ciascun paese le sofferenze degli altri due. Pochi giorni prima della visita al campo di concentramento di Auschwitz un gruppo di ragazzi israeliani aveva visitato il campo di rifugiati di Dheisheh, a sud di Betlemme, dove vivono i palestinesi allontanati dalle loro case nel 1948 a seguito della nascita dello Stato di Israele, comunemente conosciuta in Palestina come la Nakba ("la catastrofe").
   Ma mentre le visite di studenti israeliani nei campi palestinesi, anche per questioni di prossimità territoriale, sono consuete, la visita dei giovani palestinesi ai campi di concentramento nazisti non aveva precedenti ed è nata dall'espressa volontà del prof. Dajani che, a seguito di un suo viaggio in Polonia nel 2011, aveva già pubblicato un testo dal titolo "Perché i Palestinesi dovrebbero studiare l'Olocausto".
   Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, al ritorno dal viaggio Dajani - che pure era stato espulso da Israele per 25 anni a causa delle sue attività in favore di Fatah in Libano, negli anni '70 ed '80 - sarebbe stato denunciato come traditore e collaborazionista ed espulso dal sindacato dei lavoratori dell'Università di Al-Quds, del quale però il professore non avrebbe mai fatto parte. A seguito delle pressioni ricevute, Dajani si è poi dimesso nel maggio dello scorso anno, ma continua a lavorare con la sua organizzazione all'apertura di un dialogo e di un contatto tra Israeliani e palestinesi che, come si legge nel sito di Wasatia, «possono superare le loro differenze attraverso il compromesso, la moderazione e il contatto umano».
Immediatamente la notizia di quello che si potrebbe configurare come un attacco al prof. Dajani ha fatto il giro del mondo sui social che, anche negli Stati Uniti supportano l'azione dell'accademico.

(Il Messaggero, 18 gennaio 2015)


Israele - "Hitler, ti ho sconfitto"

di Rachel Silvera

Michael e Marion Mittwochs
Michael e Marion Mittwochs, oltre ad essere una coppia allitterante e vagamente adatta a muoversi con grazia in un romanzo per signore, sono la nuova favola bella della vita vera.
I Mittwochs, nati entrambi in Germania rispettivamente 92 e 90 anni fa, sono scappati in Inghilterra durante la persecuzione nazista e hanno fatto l'aliyah nella nascente Israele. Dopo essersi finalmente incontrati nel kibbutz di Kvutzat Yavne vicino ad Ashdod, si sono prodigati ad accogliere chi fuggiva dalla sfilacciata Europa in tempesta e si sono trasferiti in Galilea.
Il kibbutz Lavi, di cui sono fondatori, ha visto il loro matrimonio come la prima di una lunga serie di unioni e li continua ad ospitare.
Insieme hanno avuto cinque figli che ogni giorno si prodigano per il paese che ha strappato i genitori dalla deportazione: il secondogenito è professore di Astrofisica alla prestigiosa università Technion di Haifa mentre la terzogenita lavora in una scuola di Gush Etzion e si occupa di bambini che richiedono cure e necessità particolari.
Una storia come tante che compongono il mosaico d'Israele se non fosse per un particolare che non ha lasciato indenni da una lacrima sul viso: martedì scorso a trovare i nonni quasi centenari è arrivato Gadi con sua moglie Noa ed il loro neonato; il centesimo nipote di Michael e Marion.
Il piccolo si chiama Dagan Raz e ha preso il nome dal dottor Dagan Wertman della brigata Golani, compagno di una vita di Gadi, ucciso nel 2009 durante l'Operazione Piombo Fuso.
Il bisnonno Michael ha accolto il piccolo Dagan con un gran sorriso ed ha affermato a gran voce: "Questa è la nostra risposta ad Hitler. Ci ha provato a spazzare via ed ecco che noi portiamo al popolo ebraico un centesimo nipote".
"Non è una mera questione di numeri - è intervenuta dunque Marion, come riporta Yediot Ahronot - piuttosto riguarda il fatto che tutti i nostri figli e nipoti siano rimasti a vivere in Israele contribuendo al paese".
Cento storie, cento speranze che non sarebbero mai esistite se Michael e Marion 70 anni fa non avessero scelto la strada apparentemente più impervia e faticosa che li ha condotti verso la vita.

(moked, 18 gennaio 2015)


Francia, l'esodo degli ebrei. "Troppa paura, andiamo in Israele"

«Non potevo più sopportare l'idea che in Francia si potesse morire solo per essere ebrei». Per questo Virginie e la sua famiglia sono partiti per Israele.

di Anais Ginori

PARIGI - «All'inizio mi sono detta: passerà». Ma la ferita non si rimarginava. «Non c'era niente da fare, guardavo la mia Francia che amavo tanto con occhi diversi. Era finita. Non potevo più restare nel mio paese come se niente fosse. Non sono partita per paura o perché vittima dell'antisemitismo. Ma per un chiodo fisso che non riuscivo a togliermi dalla testa. L'idea che in Francia si possa morire perché sei ebreo è diventata per me semplicemente insopportabile. È un'aberrazione che non posso più accettare». L'Aliyah, ovvero "l'ascesa", "l'emigrazione", il ritorno di Virginie Bellaiche è cominciato il 19 marzo 2012 con le immagini di un uomo con il casco, Mohammed Merah, davanti alla scuola Ozar Hatorah di Tolosa. Il grido: "Allah Akbar". I corpi a terra. Il rabbino Jonathan Sandler, trent'anni ucciso, insieme ai due figli, Arieh e Gabriel, cinque e quattro anni.
   Una bambina bionda, Myriam Monsonego, sette anni, a cui Merah spara alla tempia. Sono ormai sedici mesi che Virginie si è trasferita in Israele. E c'è una terribile ironia della sorte nel suo ultimo rientro in patria da allora. Era tornata a Parigi il cinque gennaio scorso. Qualche giorno di vacanza, il saluto ai genitori che non avevano capito quando aveva annunciato la partenza per Israele, a trentasette anni, con il marito e le due figlie, abbandonando lavoro, amici, una casa nel diciassettesimo arrondissement.
   Virginie è tra le migliaia di ebrei che hanno lasciato la Francia negli ultimi anni. L'attentato di Tolosa fu uno spartiacque: tremila nel 2013, settemila nel 2014 e quest'anno, dopo gli attentati, l'agenzia ebraica
All'epoca, Merah, come tutti chiamano gli attentati, poteva sembrare ancora un episodio isolato, per quanto atroce. Una barbarie racchiusa in una parentesi. Per due anni e mezzo la comunità ebraica francese ha sperato fosse così.
prevede più di diecimila nuovi immigrati. Non era mai successo dal 1948, anno di creazione dello Stato di Israele. La madre di Virginie aveva pianto. «Pensaci bene prima di mollare tutto» era stata la sua inutile preghiera. All'epoca, Merah, come tutti chiamano gli attentati, poteva sembrare ancora un episodio isolato, per quanto atroce. Una barbarie racchiusa in una parentesi. Per due anni e mezzo la comunità ebraica francese, la più numerosa d'Europa, ha sperato fosse così. «Non può succedere ancora» dicevano i genitori di Virginie.
E invece sì. Mercoledì sette gennaio due uomini hanno fatto strage nella redazione di un settimanale satirico urlando di nuovo "Allah Akbar", e lasciando dietro di sé dodici vittime. Quarantotto ore dopo, alle tredici di venerdì nove gennaio. Amédy Coulibaly è entrato nell'Hyper Cacher di Porte de Vincennes. Ha ucciso in pochi minuti quattro persone, anzi: quattro ebrei venuti a fare la spesa alla vigilia di shabbat. «Sono morti perché ebrei. Succede in Francia, nel 2015. È accaduto ancora», ripete Virginie.
   L'assedio, i morti e le facce stravolte degli ostaggi, e poi le preghiere alla Sinagoga. Un altro pomeriggio come quel 19 marzo del 2012. Un altro pomeriggio davanti alla tv a pensare che potevo essere io dentro a quella scuola, dentro a quel supermercato kosher. Virginie realizza di essere tornata per rivivere ciò da cui aveva provato a fuggire, mettendo la sua vita parigina e il suo "chiodo fisso" dentro a un container diretto a Ra'anana, nord est di Israele. Il 31 luglio 2013 Virginie atterrò all'aeroporto di Tel Aviv. All'arrivo trovò subito i documenti come nuova cittadina israeliana. Per preparare la sua carta d'identità, la funzionaria del ministero dell'Integrazione le chiese: «What's your name?», Lei ci pensò qualche secondo. Avrebbe potuto scegliere un nome ebreo, come fanno quasi tutti gli "olim", i nuovi immigrati. "Virginie", che andava di moda nella generazione di francesi nate negli anni Settanta, in fondo non le era mai piaciuto. «Virginie Bellaiche», rispose lo stesso. «Ho cambiato paese, ma sono sempre io. Nonostante l'Aliyah, il cambiamento più importante della mia vita, conservo la mia identità, le mie qualità e i miei difetti».
   La terra promessa non è dolce come se l'aspettava, anche se l'agenzia ebraica a Parigi ha agevolato il trasferimento con mezzi e fondi. Virginie parla ancora male ebraico nonostante l'"oulpan", il corso di lingua offerto dallo Stato. Non ha ritrovato un lavoro. Suo marito Laurent, avvocato, non può ancora esercitare la professione, dovrà passare un esame per ottenere l'equivalenza del titolo. Virginie ha messo da parte l'orgoglio, accettando impieghi sottopagati. «Una donna delle pulizie guadagna più di me che ho studiato e ho tante esperienze professionali». A Parigi, Virginie si occupava di community management su Internet. Aveva collaborato con una radio della comunità ebraica, intervistando le famiglie che partivano per
L'Aliyah comincia con una certezza. Per alcuni è profonda, antica. Si è formata in una famiglia sionista, è maturata negli anni, attraverso la scuola ebraica, i movimenti di gioventù. Per altri è una certezza recente e tormentata.
l'Aliyah. Per anni è stata un'ipotesi remota, lontana. Virginie era stata in Israele solo per le vacanze, senza particolari slanci. «L'Aliyah comincia con una certezza. Per alcuni è profonda, antica. Si è formata in una famiglia sionista, è maturata negli anni, attraverso la scuola ebraica, i movimenti di gioventù. Per altri, come me, è una certezza recente e tormentata».
Virginie non voleva andare a vivere a Gerusalemme, perché «troppo religiosa». Esclusa anche Tel Aviv, «poco adatta alle famiglie». Ra'anana è stata una scelta di compromesso. È una media città di ottantamila abitanti dove, dice la nuova immigrata, si può condurre un'esistenza «tranquilla». «Di Parigi mi manca la possibilità di andare in un cinema diverso ogni sera, mi manca il metrò, la musica. Di Parigi mi manca tutto, è lì che sono nata e cresciuta pensando che non me ne sarei mai dovuta andare».
   «È un sacrificio», dice ancora. «L'ho fatto per le mie figlie, affinché non vivano mai momenti di terrore come quelli che ho vissuto io nel marzo 2012. Molti dicono che Israele non è un paese sicuro. È vero. Ma morire laggiù perché sei ebreo, solo perché sei ebreo, almeno ha più senso». L'estate scorsa, quando è riscoppiata la guerra tra Israele e Hamas, Virginie ha trascorso lunghe notti nei rifugi con le due figlie, Anouk e Adèle, di sette e due anni. «Ci si abitua». Se fosse rimasta a Parigi, aggiunge, avrebbe trovato in questi giorni i militari a presidiare l'ingresso di scuole, sinagoghe, e qualsiasi altro luogo frequentato dalla comunità. «Ma non si può avere un poliziotto per ogni ebreo» commenta Virginie.
   «La Francia senza gli ebrei non è la Francia» ha detto il premier Manuel Valls dopo l'attacco del nove gennaio, mentre Benjamin Netanyahu ha lanciato un appello alla comunità per "tornare a casa". Virginie non vuole entrare nel dibattito politico in corso, segnato da un' ostilità latente che si insinua ormai tra i suoi due paesi. «Prima della mia Aliyah mi dava molto fastidio sentire dire da chi partiva che gli ebrei non hanno più nulla a che fare con la Francia. Mi astengo quindi da commenti del genere. Dico solo che per me era il momento. Non giudico quelli che restano».
   Virginie sottolinea come l'11 Settembre francese non sia il piano di terroristi venuti dall'Afghanistan o dall'Arabia Saudita. I fratelli Kouachi e Coulibaly sono come lei, trentenni francesi cresciuti in questo paese. Hanno imparato a leggere e scrivere nelle scuole della République, almeno una volta avranno dovuto sfogliare un libro di Voltaire o Victor Hugo. «Non so che pensare sul futuro degli ebrei in Francia. Ripeto solo quello che sento io da cittadina francese: ho smesso di crederci». I suoi nonni sono venuti dall'Algeria nel dopoguerra. «Se gli avessero detto che cinquant'anni dopo non ci sarebbero stati stati quasi più ebrei in Algeria non ci avrebbero creduto». Virginie sa che almeno per la sua famiglia l'Aliyah è una scelta irreversibile. Per darsi forza, ripete spesso una frase che le diceva la nonna: «Vai dove vai, muori dove devi». Tra qualche settimana, si sentirà meno sola. Dopo gli attentati della settimana scorsa, i suoi genitori inizialmente refrattari hanno deciso pure loro di fare l'Aliyah. Si trasferiranno a Netanya, non lontano da Ra'anana. «Mi dispiace, mi ha detto mia madre, ma anche io non credo più alla Francia». Quella della barbarie, è una parentesi che non si chiude mai.
   
(la Repubblica, 18 gennaio 2015)


Arte e memoria, ricordando Auschwitz

Nell'ambito delle iniziative per i 70 anni dall'apertura dei cancelli del lager, il luogo di culto ospita le opere di quattro artisti: Castellani, Carbotta, Stih&Schnock.

di Linda De Sanctis

 
Ostia Antica
Oggi, in occasione del Giorno della Memoria 2015, si inaugura nella Sinagoga di Ostia Antica l'appuntamento biennale di "Arte in memoria", a cura di Adachiara Zevi. Tre gli artisti chiamati quest'anno a trasformare un luogo di culto in luogo di cultura. Enrico Castellani propone una lastra di marmo bianco di Carrara, incisa, nelle due facce, da solchi neri che, incrociandosi, disegnano una griglia. Le due linee però, una verticale e una orizzontale, anziché incontrarsi ortogonalmente, curvano a 90o, riproponendo lo stesso andamento nella facciata posteriore. La giustapposizione dei piani si traduce così in continuità spaziale. L'idea, spiega l'artista, nasce dalla visita al cimitero ebraico di Ancona, dove le stele funerarie, di marmo bianco e di forma cilindrica, incise con iscrizioni ebraiche, sono distribuite sul terreno senza un principio ordinatore di ordine geometrico.
   Ludovica Carbotta, torinese dell'82, facendo ricorso alle sole testimonianze scritte sulla struttura e sulle funzioni della Sinagoga di Ostia Antica, ricostruisce in cemento la sinagoga in scala, realizzando un modello dove le suggestioni indotte dalla lettura dei testi si combinano con quelle tratte dalla fruizione diretta dei ruderi della Sinagoga.
   Stih&Schnoch, due artisti concettuali tedeschi, in "Sinergia", vogliono far conoscere la Sinagoga di Ostia Antica nel rapporto con altri luoghi di Roma significativi per la storia e la cultura ebraiche, come il Goethe Institute, la Scuola tedesca, la Casa della Memoria e della Storia, il Tempio Maggiore, le scuole ebraiche, la sinagoga Shirat-ha-yam di Ostia Lido, e mettere in moto una comprensione della storia ebraica, soprattutto in Germania, fortemente legata alla Shoah. Su un cartello di 190x140 cm un QR-code si staglia sullo sfondo di un antico mosaico pavimentale bianco e nero della Sinagoga.
Si tratta di un codice a barre bidimensionali, accessibile tramite gli smartphones, collegato con il sito web di "Arte in memoria". I moduli geometrici del codice si mescolano così in modo sorprendente con quelli del pavimento musivo creando una stratificazione semantica, una sorta di palinsesto della storia ebraica che raggiunge il pubblico a scala mondiale: il lavoro è infatti fisicamente visibile nei singoli luoghi che partecipano al progetto, ma anche via Internet.

(la Repubblica, 18 gennaio 2015)


Palestinesi lanciano uova sul convoglio del ministro degli Esteri canadese

RAMALLAH - Giovani palestinesi hanno contestato e lanciato uova sul convoglio del ministro degli Esteri canadese, John Baird, in visita a Ramallah per incontrare il suo omologo palestinese nella sede dell'Autorita' nazionale in Cisgiordania. Baird non e' stato colpito, ma una delle uova si e' infranta sul tetto della sua auto, al termine dell'incontro con il collega palestinese. "Non sei gradito", gridavano i manifestanti all'indirizzo del ministro canadese.
I movimenti giovanili, tra cui quello di Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, avevano chiesto di manifestare contro la visita di Baird, il cui Paese e' uno dei piu' convinti sostenitori di Israele. Nel 2012, il Canada era stato uno dei pochi Paesi che si era opposto al tentativo della Palestina di entrare in qualita' di Stato 'osservatore' all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Quest'estate, durante l'offensiva israeliana a Gaza, il governo canadese aveva riaffermato il diritto di Israele a difendersi. E nelle scorse settimane, Baird ha definito il tentativo palestinese di aderire alla Corte Penale internazionale come "preoccupante e pericoloso".

(AGI, 18 gennaio 2015)


Le vignette sono solo un pretesto per scatenare l'odio anticristiano

di Carlo Panella

Otto le chiese di Niamey, in Niger, bruciate ieri dai manifestanti musulmani, inferociti contro la vignetta della prima pagina di «Charlie Hebdo» dopo la strage: Maometto, con una lacrima, che dice «Tutto perdonato». La cattedrale è scampata alla distruzione perché presidiata dalla polizia (che ha lasciato distruggere le altre chiese). Tutto chiaro, dunque. Folle di manifestanti musulmani scendono nelle piazze di Niger, Pakistan, Algeria, Tunisia, Egitto, ovunque, e urlano odio per un'immagine di pace, di concordia, disegnata da un collega dei giornalisti di Charlie sfuggiti al macello di due musulmani. Tutto chiaro, perché i manifestanti si esprimono bruciando le chiese, che con «Charlie Hebdo», feroce con i preti e la Chiesa, nulla hanno da spartire. Tutto chiaro, perché a Istanbul in centinaia hanno manifestato davanti alla moschea Fatih, indisturbati, al grido «Noi siamo Kouachì», i musulmani che hanno maciullato i 12 di «Charlie Hebdo».
   Non sappiamo cosa ne pensi papa Francesco, se legga anche questo come un «pugno» rivolto a chi ha «offeso mia madre». Sappiamo però che Hollande ha detto una castroneria quando ha affermato che la strage di Charlie e il massacro antisemita dello Hyper Khasher, «non è islam».
   È islam invece, una parte dell'islam, certo non tutto l'islam. Ma è islam. La parte che oggi agisce, opera e uccide dell'islam. Una parte di centinaia e centinaia di migliaia di musulmani. Di milioni e milioni. Seguaci di uno scisma islamico che ha i suoi teologi star tv, come lo sheikh al Karadawi, che da al Iazeera, nel 2006, ha emesso la fatwa che condannava a morte i giornalisti di Charlie (eseguita dai fratelli Kouachi, fedeli servitori della sharia) e oggi incita i musulmani a urlare contro una copertina con un messaggio di pace e di perdono. Vignetta che aveva però il torto di riprodurre, senza alcuna offesa, l'immagine di Maometto. «Reato» meritevole di morte per questo islam. E questo islam scismatico brucia le chiese. Non certo, come dicono i buonisti del politically correct, perché simboleggiano l'invasione occidentale. Perché in Egitto, Tunisia e Algeria i cristiani abitavano ben prima che fossero invasi dai musulmani. Ma perché questo scisma islamico odia cristiani ed ebrei. Li odia da un millennio. E li massacra. In 5 mesi nel 2014 dei musulmani hanno massacrato 5.479 cristiani, 322 al mese! Grandi teologi di questo islam teorizzano che vi è un sesto Arkan, precetto, che obbliga i musulmani al Jihad, alla guerra contro cristiani ed ebrei. In molti stati arabi i cristiani non possono praticare, neanche di nascosto. In tutti gli stati islamici un musulmano non può convertirsi al cristianesimo, pena la morte (in 10 Stati) o gravi pene detentive.
   Nei roghi di Niamey e in queste scalmanate manifestazioni islamiche finisce così l'illusione buonista del «Je suis Charlie», esposto, in buona fede, anche da tanti musulmani, non solo francesi. Non è «tutto perdonato». Per molti musulmani è Guerra Santa.

(Libero, 18 gennaio 2015)


"Un convento a Gerusalemme". I diari ritrovati da Federico Steinhaus

Il documento copre il periodo che va dal 1929 al 1967 e racconta fatti e grandi piccoli L'autore, attraverso questa "cronaca minima", spiega l'origine del conflitto arabo-israeliano.

di Paolo Campostrini

Federico Steinhaus
C'è sempre un modo diverso di guardare a Gerusalemme. Tra il Muro del pianto ebraico e la moschea di Al Aqsa c'è appena lo spazio per una preghiera in solitudine. Il monte degli ulivi dei cristiani sfiora i "pardesim" gli agrumeti dei primi coloni israeliani. Ed è da "pardes" che viene la parola paradiso. È un paradiso affollato Gerusalemme. Tutti vogliono il loro. Ebrei, cristiani, musulmani. Ognuno ha piantato i suoi alberi. C'è una storiella che racconta di due vecchi amici che si incontrano nella città vecchia. Uno chiede: «Perché litigano sempre? L'altro risponde: "Perché sono in tre ma hanno un Dio solo"». I muezzin si sono sovrapposti ai rabbini. Armeni, cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, copti , litigano da un paio di secoli sugli orari delle funzioni più di israeliani e palestinesi. Ci sono anche le suore. Che hanno i loro conventi tra i vicoli e i giardini nascosti. Di uno di questi Federico Steinhaus, studioso e figura di prestigio della comunità ebraica altoatesina e non solo, ha scoperto casualmente un diario. Va dal 1929 al 1967 questo ingenuo "libro di bordo". Ed è diventato un libro: "Un convento a Gerusalemme. Genesi del conflitto arabo-israeliano" (di Federico Steinhaus, Europa edizioni, 15,90 euro) . Vi sono registrati fatti grandi e no, tutti insieme. Fatti spesso molto più grandi delle suore e dei loro problemi quotidiani. Ma è proprio questo livello che consente di cogliere, tra una comunicazione sulla spesa ed un'altra sulla sorte dei ragazzini ospitati nella scuola, la percezione che tanti uomini e donne hanno avuto delle vicende che a Gerusalemme si sono incrociate e dei conflitti che hanno portato alla nascita dello stato di Israele. E, in particolare, la percezione che di questo hanno avuto a lungo gli occidentali in generale e, soprattutto, i cattolici. Il 9 maggio del 1948 una suora annota:
La giornata è tranquilla. E' stata firmata una tregua a Gerico. Si dice che gli ebrei siano aiutati dalla Russia e si vedono chiaramente delinearsi gli intrighi comunisti». C'è da capirle. Per secoli i cristiani avevano convissuto con i musulmani dopo le atrocità delle crociate ed erano riusciti a garantirsi la possibilità di pregare nei luoghi di Cristo. Gli ebrei di ritorno , l'Exodus, rischiava di rompere quel pigro equilibrio. In quel convento c'erano suore francesi. La guerra che vedono dalle loro finestre è la prima guerra arabo-israeliana. Quella che doveva cancellare la stella di Davide. L'ultima, annotata sul diario, è quella del 1967. Quella della stella di Dayan. I "Sei giorni" che ridisegnarono il Medio Oriente. Il 14 giugno 1967 le suore scrivono: «La porta di Damasco si è aperta dinnanzi all'esercito israeliano. E' "Shavuot" , la Pentecoste ebraica. La strada è aperta dal monte Sion al Muro occidentale: migliaia di pellegrini vi si recano da mattina a sera a pregare». Il mondo è cambiato un'altra volta. Steinhaus annota fedelmente il diario ma lo inframmezza con note esplicative. Mette le parole delle suore, le loro piccole storie, tra la grande storia di quegli anni turbinosi. Si pone tante domande, cerca di dare qualche risposta. Come quella che spiega la riottosità del mondo cristiano nell'accettare la nascita di Israele. «Che - scrive - con la presenza stabile e organizzata degli ebrei in Palestina, avrebbe non solo ostacolato la pretesa esclusività della Chiesa su di essi ma anche svuotato la tesi che Dio avesse maledetto gli ebrei per l'eternità... minando la teoria della sostituzione in base alla quale la Chiesa predicava che Dio avesse annullato il patto con gli ebrei, sostituendolo con quella con i cristiani...». Ma anche sorpresa e curiosità, nelle note delle suore. E paura. Bombe, sequestri, arresti. La morte fuori e dentro le mura del convento. E sempre Gerusalemme sullo sfondo. Scrive Arrigo Levi, il grande giornalista-cronista della guerra del '67, nella prefazione: «Torno sempre col mio sguardo alle mura rosa di Gerusalemme. E a chiedermi quale sia il misterioso legame tra quel paesaggio che mi pareva e mi pare ancora "in cima al mondo", e lo straordinario patrimonio di pensieri, di visioni, di sogni che a Gerusalemme presero corpo e che, tradotti in parole eterne, hanno avviato su percorsi mai prima immaginati, la storia di tutti i popoli della terra».

(Alto Adige, 17 gennaio 2015)


TV2000: Domenica a "Soul" il Rabbino Riccardo Di Segni
   
È Riccardo Di Segni, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, l'ospite della puntata di "Soul" che andrà in onda domenica 18, alle 20.30, su Tv2000. Di Segni si racconta a Monica Mondo in un dialogo sereno e confidenziale ripercorrendo la storia della sua famiglia e degli anni vissuti da sfollati, periodo a cui risale l'amicizia con il futuro vescovo di Ancona, il cardinale Edoardo Menichelli. In un ragionamento sul colloquio con il mondo islamico che prende spunto dagli ultimi attentati a Parigi, il rabbino spiega che "la situazione in Italia, al momento, è notevolmente differente da quella francese; questo non significa che potrebbe cambiare… Io spero che cambi in meglio! In Francia è diversa la cultura, la mentalità, e c'è la presenza di milioni di persone di origine islamica che si sono radicate nel territorio e se ne sono appropriate. Questo determina nella comunità ebraica una sensazione d'insicurezza che si somma a quella ancestrale". Il rabbino non nasconde il timore della comunità ebraica di essere, ancora una volta, vittima della storia. "Alla paura - sottolinea - facciamo fronte con una consapevolezza maggiore, con l'attenzione a quel che avviene intorno a noi. Ammesso che la paura si possa controllare, ci vogliono consapevolezza, attenzione e rapporto con la realtà. E cercare di cambiare le cose, non essere mai passivi. La fede non è rassegnazione".

(Servizio Informazione Religiosa, 17 gennaio 2015)


La Sharia in Belgio: così mettono radici le cellule jihadiste europee

di Roberto Bongiorni

Pochi chilometri a nord di Bruxelles c'è una piccola cittadina da cui sono partiti davvero in tanti. Quasi che i quartieri degradati della sua periferia si fossero trasformati in una fucina di aspiranti jihadisti. C'è chi dice 30 - e sono i più prudenti - , chi 45, citando dati semi ufficiali, e chi parla di almeno 50-60 giovani musulmani reclutati, indottrinati e spediti a combattere tra le file dei gruppi estremisti islamici in Siria e in Iraq.
   Vilvoorde si è così guadagnata la fama di essere la città con il più alto numero di jihadisti per abitante in un Paese - il Belgio - che a sua volta detiene il primato in Europa: 400 aspiranti combattenti su 11 milioni di abitanti. Da anni si parla delle Fiandre come un terreno estremamente fertile per i gruppi radicali impegnati nel reclutamento. Ma fino allo scorso agosto, quando il flusso si è ingrandito finendo soprattutto nello Stato islamico, non si pensava che le cifre potessero assumere simili proporzioni. Né che la vicina Anversa, la città più grande delle Fiandre, fosse una delle basi delle cellule jihadiste europee.
   In questo centro portuale nasce Sharia4Belgium, l'organizzazione estremista che segna la svolta. Creato nel febbraio del 2010 come costola dell'organizzazione britannica Sharia4UK, il movimento si distingue subito per il suo attivismo e il suo dinamismo sui social media. Il leader indiscusso è Fouad Belkacem, (nome di battaglia Abu Imran). Il carismatico religioso ha un curriculum di tutto rispetto: 32 anni e già condannato tre volte. Comprende subito che Sharia4 può far presa facilmente sui giovani musulmani emarginati.
   E si distingue per la ferocia delle sue invettive - Lui , che incitava a condannare a morte gli omosessuali in prigione, e che ribadiva di aver pregato più volte per Osama Bin Laden, non esitava a diffondere l'obiettivo del gruppo: imporre la Sharia nel Belgio. Personaggio accorto, Belkacem sapeva che il reclutamento dei giovani più vulnerabili non doveva avvenire nelle moschee e nei centri islamici, sempre più sorvegliati dalle forze dell'ordine, ma con un discreto invito - il dawah - fatto per conoscenze a degli incontri privati.
   Il reclutamento seguiva così un percorso molto rigoroso: uno studio quasi ossessivo del Corano, interpretato tuttavia nella maniera più radicale, la lettura strumentale di altri testi islamici, e infine un primo , basilare addestramento per divenire Syrièstrijder, guerrieri della Siria.
   Secondo le ricerche di giornalisti specializzati i primi reclutamenti avvenivano soprattutto tra le fasce di giovani disoccupati, spesso dediti alla droga, con alle spalle precedenti per microcriminalità. Ragazzi frutto della quarta generazione dell'immigrazione, spesso con passaporto belga, che non parlavano una parola di arabo e che non la impareranno mai. Nemmeno sul fronte, dove il battaglione di jihadisti belgi si è distinto per l'uso esclusivo della lingua fiamminga.

(Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2015)


Roma - Allerta terrorismo, il rabbino ammette: "Al ghetto c'è meno gente"

di Letizia Ricciardi

Dopo le stragi di Parigi è ormai difficile sentirsi al sicuro. In tutta Europa il livello di attenzione è salito al massimo mentre continuano ad arrivare gli avvertimenti jihadisti che minacciano chi offende il Profeta ma anche i simboli dell'Occidente, della cristianità e della comunità ebraica.
A seguito degli attacchi terroristici che hanno colpito la Francia, a Roma il Vaticano e il ghetto sono diventati sorvegliati speciali e, a distanza di una settimana dalla stretta sui controlli, si avvertono ora le prime conseguenze.
"È un quartiere estremamente vitale, c'è sempre folla. Ma una diminuzione delle presenze c'è", ha ammesso il rabbino capo Riccardo Di Segni, accogliendo ieri il presidente del consiglio comunale Valeria Baglio e il minisindaco del Centro Sabrina Alfonsi.
Dello stesso avviso anche Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, ora alla ricerca di una soluzione. "La pedonalizzazione deve essere un'occasione di rilancio, per coniugare sicurezza, esigenze dei residenti e commercianti e aspetti culturali" ha suggerito Pacifici in relazione alla proposta dell'amministrazione di rendere off limits per le auto l'intero quartiere.
Il progetto, a quanto pare, è sostanzialmente definito, ma l'ultima parola spetta alla questura.
Alcuni commercianti inoltre vorrebbero la possibilità di transito sulla strada e le possibili difficoltà per i fedeli che si recano in sinagoga di mattina e di sera. L'ipotesi prevede di allargare i marciapiedi cancellando i parcheggi attuali, trasformando il ghetto in un salotto della città.

(Roma Capitale News, 17 gennaio 2015)


Il Libano e Oriana mi hanno mostrato l'anima nera araba

Io, ex filoarabo, ho cambiato idea dopo aver lavorato in Medio Oriente e compreso il loro odio. Ma la scrittrice aveva capito tutto con anticipo.

di Paolo Guzzanti

 
Oriana Fallaci                                                           Paolo Guzzanti
Era il 1982 quando partii per seguire la guerra in Libano ed entrare in contatto con il vicino Oriente arabo e musulmano. Ero allora filoarabo e antisraeliano, un po' come tutta la gente di sinistra. Fu un'immersione totale in una cultura, un mondo che credevo di conoscere, ma di cui mi resi conto di non sapere nulla.
   Soltanto cliché, buoni e cattivi, e piatte banalità. Così viaggiai in Siria, in Giordania, in Egitto e in Israele, mentre alternavo i miei viaggi in America Centrale, il Salvador, il Nicaragua, il Belize. Dopo un paio d'anni mi resi conto con stupore che le mie antiche opinioni e persino i sentimenti avevano preso una piega imprevista. Provavo pena, frustrazione, saltuariamente i miei sentimenti e le mie opinioni si andavano modificando in maniera radicale. Il bello dei fatti è che ti sfidano e ti trasformano.
   Che cosa mi stava succedendo? Ero gradualmente entrato in contatto con un lato sempre più oscuro della società araba musulmana. Ogni giorno di più Corrado Cantatore, allora giovane capitano della nostra intelligence, mi portava ai suoi sottilissimi meeting a base di tè verde dolcissimo con la foglia di menta per barattare la loro neutralità, la protezione in cambio della nostra sicurezza. Sia sciiti che sunniti erano legati dallo stesso filo di rabbia, di afflizione, di desiderio di castigo nel sangue pieno di una frustrazione inconsolabile.
   Mi andavo rendendo conto, come ogni giornalista occidentale costretto a superare posti di blocco col cuore in gola e una canna di kalashnikov in faccia, di essere considerato un infedele, un nemico, un
Vedevo in moltissimi giornalisti intorno a me un'ossessiva variante della sindrome di Stoccolma, l'istinto che spinge l'ostaggio a solidarizzare col persecutore: giornalisti che si flagellavano chiedendo scusa per essere occidentali.
estraneo, un possibile ostaggio, un mercante. Per ben due volte fui sottoposto alla finta fucilazione, una volta da parte dei palestinesi in fuga da Tripolino di Siria e la seconda volta da una pattuglia siriana il cui ufficiale in comando era sicuro che io fossi ebreo per i miei colori «zinzi» da galileo. Vedevo in moltissimi giornalisti intorno a me un'ossessiva variante della sindrome di Stoccolma, l'istinto che spinge l'ostaggio a solidarizzare col persecutore: giornalisti che si flagellavano chiedendo scusa per essere occidentali. Intuii che il futuro sarebbe stato sempre peggiore e lo scrissi.
Una sera mi telefonò a Beirut la mia collega Miriam Mafai, grande giornalista scomparsa da un anno, e mi passò Oriana Fallaci, che ancora non conoscevo. Oriana fu dolorosamente gentile e asciutta. Stava scrivendo Insciallah , e mi disse che conservava i miei articoli perché mostravano i fondali di cartone di una guerra che noi europei cercavamo di evitare, ma che sarebbe invece stata inevitabile. «Andrà sempre peggio, vedrai», mi disse Oriana. «Vogliono impedirci di usare la nostra libertà e ci riusciranno, con la nostra complicità».
   Vedevo giorno dopo giorno che quel mondo arabo musulmano marciava a ranghi serrati in un vicolo con un'unica via d'uscita: una guerra corrosiva e senza fine al nostro Occidente, cui apparteniamo con riluttanza, mettendo a ferro e fuoco i nostri principi, affogando nei sensi di colpa. Il mondo arabo islamico mi sembrava ignorare il senso di colpa, o, meglio, il rimorso, così come ignora l'umorismo che sembra provocare in quella cultura una densa angoscia.
   L'angoscia cominciai a provarla io quando mi resi conto che moderati ed estremisti, fondamentalisti irosi e placidi commercianti, sembrano avere un conto aperto con la nostra stessa esistenza al mondo.
Nessun arabo che io abbia intervistato, conosciuto e con cui abbia fatto amicizia, chiedeva democrazia e libertà, ma solo vittoria, distruzione dei nemici interni e degli occiden- tali. Volevano tutti una vittoria «sui crociati», cioè su di noi.
Potremmo salvarci sottomettendoci e convertendoci, meglio ancora suicidandoci. Nessun arabo che io abbia intervistato, conosciuto e con cui abbia fatto amicizia, chiedeva democrazia e libertà, ma solo vittoria, distruzione dei nemici interni e degli occidentali. Volevano tutti una vittoria «sui crociati», cioè su di noi. Era impossibile parlare di storia attraverso i secoli, perché la storia nel mondo arabo è piatta come un disco e non va avanti, ma va in circolo. Rividi Oriana Fallaci, già malata e autoreclusa negli uffici della Rizzoli sulla 57ma a New York, sopra una delle più belle librerie del mondo, oggi scomparsa. Oriana era affettuosamente sgarbata, sentiva la vita sfuggirle ed era sicura che la sua battaglia non sarebbe servita a nulla: la muraglia dell'ipocrisia occidentale avrebbe fatto da schermo a tutte le gesta assassine, gli attentati, le minacce, la conquista del territorio europeo attraverso remunerate trattative ignobili e segrete. Un paio di volte riuscii a convincerla a sedersi davanti a una minestra kosher in un bar. Poi lei se ne andò, frustrata e triste di fronte all'impotenza dell'ipocrisia, di fronte all'«idòla theatri» della politica politicante. Aveva visto e descritto la mattina dell'11 Settembre 2001 ed era sicura che quella dichiarazione di guerra sarebbe stata negletta e che il mondo si sarebbe adattato. Citammo insieme Il Rinoceronte di Jonesco, commedia in cui tutti diventano rinoceronte adeguandosi alla nuova moda biologica e pochi umani muoiono resistendo chiusi a chiave nelle loro case.
   Così, oggi siamo più adattati ed adatti a sopportare: se gli islamici uccidono con un colpo alla nuca i bambini che vanno a scuola, o rapiscono duecento ragazzine di un liceo in Nigeria per avviarle al mercato della carne, la maggior parte dei musulmani certamente disapprova, ma l'indignazione cala e cala anche la nostra voglia di reagire, di dire di no.
   Gli arabi musulmani detestano che la civiltà occidentale abbia inventato la Storia mostrata come un vettore con la direzione e il verso del progressivo miglioramento della vita e della convivenza. Il tempo storico dei musulmani arabi è invece piatto. Il mondo ideale per loro sarebbe un eterno presente scandito dalla preghiera e dall'obbedienza passiva.
   Quando a Roma alcuni anni fa un arabo mi fracassò la macchina fotografica mentre riprendevo il mercato natalizio di piazza Navona urlando che non avevo il permesso di riprendere immagini delle persone, cercai vanamente di spiegargli che mi trovavo nel mio Paese, nella mia città e che parlavo la mia lingua a casa mia. Mi rise in faccia e quando mi rivolsi a una pattuglia dei vigili urbani, risposero che era meglio imparare ad adattarmi, perché il futuro sarebbe stato loro e noi avremmo rischiato la galera, una querela, o peggio.

(il Giornale, 17 gennaio 2015)


Parte da Crotone il vino per gli ebrei nel mondo

Una delegazione di rabbini ha verificato il tipo di produzione avviato nell'azienda De Luca ed ha scelto questo vino prodotto secondo riti e regole dell'Antico Testamento.

di Giulia Veltri

L'assaggio di vino da parte di alcuni rabbini
CATANZARO - Quello stesso vino che nei secoli prima di Cristo veniva offerto ai vincitori delle Olimpiadi, oggi sarà sulla tavola degli ebrei di tutto il mondo, da Israele agli Stati Uniti. A settembre, per la vendemmia, a Melissa - in provincia di Crotone - è arrivata una missione di rabbini per testare il livello di purezza dei vini De Luca. Per la prima volta in Calabria, tra le poche aziende del Mezzogiorno, saranno etichettate bottiglie "sacre", prodotte cioè secondo le regole e i rituali dell'Antico testamento. Merito di Vincenzo De Luca, 43 anni e a capo di una piccola azienda vinicola nata nel 1994 a Melissa, un paese che sorge su una collina di fronte al mar Jonio.
E' un'esperienza importante di come l'agricoltura possa rafforzare le proprie prospettive economiche e di come i giovani possano investire in questo settore.
Qui nel settimo secolo avanti Cristo sono approdati i coloni greci e hanno fondato la città di Crotone, qui Pitagora ha creato una scuola di matematica e di ragionamento e qui da secoli sorgono vigneti forti e pregiati - come il gaglioppo e il greco di Bianco - coltivati ancora oggi secondo le tecniche degli antichi Bruzi.
   Sulle colline di Melissa c'è l'azienda De Luca che dalla prossima vendemmia, dopo l'estate, convertirà l'intera produzione - circa 200mila bottiglie - da ordinaria in kosher, da "normale" in "pura". Nuovi macchinari, nuovi prodotti di lavorazione del vino e nuove tecniche di vendemmia. Il tutto per ottenere il marchio kosher e sfondare una barriera del mercato.
   «L'idea - racconta il titolare - mi è venuta in mente a New York, nel corso di un evento dedicato al vino. Non siamo ebrei, non abbiamo alcuna ispirazione religiosa ma solo logiche imprenditoriali stanno dietro alla decisione di produrre vino kosher. Al mercato americano riserviamo una parte della nostra produzione e alcuni clienti ci hanno chiesto prodotti kosher. Mi sono subito informato su regole e costi e ho deciso di investire. Per noi ora si aprirà un bacino importante di forniture e richieste. Ne abbiamo già molte dagli Stati Uniti, dove il mercato dei vini kosher muove 250 miliardi di dollari, ad Israele».
   Il rapporto vino e religione nell'ebraismo è molto importante perché un ebreo osservante può bere vino kosher solo se è stato realizzato con i sacri metodi del kasherut, ovvero le regole religiose dell'Antico Testamento in materia enogastronomica.
   Un vino, per ottenere il marchio di purezza, deve seguire particolari tecniche di lavorazione: tutti gli impianti (vasche, pigiatrici, pompe) devono essere lavati con acqua e soda, persone di religione ebraica devono partecipare alle fasi della spremitura e dell'imbottigliamento e le uve utilizzate non devono essere più vecchie di cinque anni.
   In Italia i prodotti kosher sono realizzati e sono molto presenti a Roma e nelle regioni settentrionali, dove esistono supermercati dedicati al cibo ebraico. Quanto al vino, in Italia a farla da padrona sono le grandi aziende di produzione vitivinicola. In Calabria per l'etichetta De Luca si tratta di una scommessa: «Dobbiamo affrontare dei costi aggiuntivi rispetto alla produzione ordinaria - spiega Vincenzo De Luca - che variano dai 4 ai 7mila euro all'anno. Affrontiamo volentieri questo rischio, però, perché siamo confortati dalla domanda del mercato e dal fatto che la nostra filosofia di fondo sia l'investimento e l'innovazione in azienda. Ci crediamo e siamo pronti ad affrontare gli ostacoli che ci separano dal nostro obiettivo».
   «I giovani calabresi - aggiunge il proprietario delle cantine di Melissa - dovrebbero avere più intraprendenza e dinamismo e scovare le tantissime opportunità offerte dal nostro territorio. Io sono fiero di rappresentare il made in Italy. So che la Calabria è una terra difficile e impegnativa ma ognuno di noi dovrebbe mettere a frutto ciò di cui siamo circondati. La piattaforma dell'agroalimentare può rappresentare una miniera d'oro, se solo i calabresi se ne accorgessero».

(il Quotidiano, 17 gennaio 2015)


Iniziativa EDIPI per il Giorno della Memoria

Sedico (Belluno), 1o febbraio 2015 - ore 10:30

Per il 1o di febbraio è in programma un incontro speciale presso la Chiesa Cristiana Evangelica "Movimento Cristiano Evangelico per il Veneto" (via Cal de Messa 2) curata dal past. avvocato Gino Mazzoccoli sul tema di Israele e la Shoà.

Approccio Evangelico alla Giornata della Memoria 2015;
la memoria del dolore come percorso di speranza 
ovvero
quale futuro ci possiamo attendere dal passato  

sarà l'argomento che verrà sviluppato anche con interventi dell'assemblea.
Relatori: past. Ivan Basana, presidente EDIPI (www.edipi.net) con la moglie Andie.
Per l'occasione verrà presentata la nuova edizione della pubblicazione di Derek White "La strada verso l'Olocausto - Una breve indagine sull'antisemitismo cristiano".
Questa nuova e terza edizione si avvale dell'incisiva prefazione di Rinaldo Diprose dell'Istituto Biblico Evangelico Italiano (IBEI) e anche dell'originale postfazione di Marcello Cicchese, direttore del sito Notizie su Israele (www.ilvangelo-israele.it).
Per informazioni tnt@bhb.it - 3475788106

(EDIPI, 17 gennaio 2015)


«Antisemitismo, Parigi campanello d'allarme»

Il vice ambasciatore d'Israele alla presentazione del libro di Fracalossi, «Rifiutare il pregiudizio».

di Erica Ferro

TRENTO - L'importanza del ricordo, il dolore - necessario, tuttavia - della memoria. Come spesso si rammenta, ma forse non abbastanza, in certe occasioni rievocare il passato non è un esercizio sterile, un vuoto rituale privo di significato: «Serve da monito per il presente, e soprattutto per il futuro». Lo ha ribadito ieri il vice ambasciatore di Israele in Italia Dan Haezrachy, intervenuto nel corso della presentazione del volume di Renzo Fracalossi «La scuola dell'odio», che analizza la storia dell'antisemitismo in Europa. Una storia che, nonostante il «mai più» adottato come una sorta di mantra da tutto il mondo al termine della seconda guerra mondiale, non appartiene solo al passato. È presente e viva, come hanno dimostrato gli attentati di Parigi poco più di una settimana fa. Ma in questi «tempi bui», secondo Fracalossi, esiste una speranza ed è legata alla «tolleranza» e al «rifiuto del pregiudizio».
   All'incontro, moderato dal direttore del Corriere del Trentino Enrico Franco e al quale hanno partecipato anche lo storico Vincenzo Calì e l'epidemiologo Benedetto Terracini, ha assistito una platea numerosissima. In prima fila anche il sindaco di Trento Alessandro Andreatta, l'assessore alla cultura Andrea Robol, il pm Pasquale Profiti, il comandante provinciale dei carabinieri Maurizio Graziano, il procuratore generale della corte d'appello Giovanni Pescarzoli. L'aula magna della Fondazione Bruno Kessler è gremita. E che il libro di Fracalossi sia stato presentato proprio nella sede dell'istituto che ha «come vocazione lo studio delle scienze religiose e della storia conciliare - secondo Calì - è anche un segno che lascia ben sperare nella volontà di Trento di riscattare il proprio passato con un rinnovato impegno nel farsi pro motrice del dialogo interreligioso». Il «passato» trentino, anch'esso recente, si è nutrito del culto del «beato Simone», testimonianza delle persecuzioni subite dalla comunità ebraica, dello stereotipo dell'omicidio rituale, la verità storica ristabilita solo nel 1965.
   Secondo Terracini, membro della comunità ebraica di Torino, «la capacità di superare quello che è successo negli ultimi giorni risiede nello stimolare e nel provocare i giovani a fare domande». «L'educazione è fondamentale per cambiare la situazione attuale» gli fa eco Haezrachy.
   «Sono passati settant'anni dalla Shoah e vediamo cose che mai avremmo immaginato nel cuore dell'Europa - afferma il vice ambasciatore - In Italia la comunità ebraica è meno a rischio che in altri Paesi, le autorità sono sensibili alla situazione: non c'è paura, piuttosto consapevolezza. I fatti di Parigi sono un campanello d'allarme, mostrano come, ancora una volta, delle persone siano state uccise solo perché ebree».
   il diplomatico ricorda come «il radicalismo islamico sia la fonte principale di antisemitismo in Europa», come «Internet sia un nuovo campo di battaglia» e che «la lotta contro l'antisemitismo non è importante solo per ricordare il passato, ma anche per proteggere i diritti e le libertà dei cittadini».

(Corriere del Trentino, 17 gennaio 2015)


Il violino della Shoah in concerto

Fu salvato da Auschwitz, il 28 verrà suonato a Cremona.

di Gilberto Bazoli

Il violino della Shoah
CREMONA - Il violino della Shoah sopravvissuto a un lager nazista e il mandolino scampato alla Grande Guerra. Dopo un lungo silenzio, faranno risuonare la loro voce insieme il 28 gennaio a Cremona, all'indomani della Giorno della Memoria. Il 26, il ministro alla Cultura Dario Franceschini sarà in città per presentare l'iniziativa. Il suo staff si era mosso appena saputo del progetto.
   La prima parte della serata sarà dedicata al mandolino, dal cui interno sono sbucate due fotografie che ritraggono un gruppo di soldati tedeschi detenuti nel campo di prigionia inglese di Dorchester. Toccherà poi al violino con intarsiata la Stella di Davide. Lo strumento ha una storia particolare e struggente: apparteneva a Maria, un'ebrea italiana di 22 anni che, insieme al fratello minore Renzo, venne deportata nel lager di Auschwitz. La ragazza si teneva stretto il suo violino, ma poi lo affidò a Renzo, pensando che avrebbe avuto più probabilità di salvare se stesso e quello strumento per lei così prezioso. E così fu: Maria morì, Renzo riuscì a tornare a Torino.
   Dietro il miracolo del doppio rocambolesco ritrovamento c'è Carlo Alberto Carutti, milanese, imprenditore-mecenate di 91 anni, che ha regalato i due strumenti al Museo civico di Cremona, dove hanno arricchito le Stanze della musica, una raccolta che ripercorre quattro secoli di storia della liuteria attraverso una sessantina di «pezzi», tutti donati da Carutti. Il violino (come il mandolino) è stato restaurato e sarà uno dei protagonisti del film-documentario «Il Maestro», del regista Alexandre Valenti, in uscita nel 2015. Una co-produzione italo-francese su un altro miracolo: la copiosa produzione musicale, nonostante le condizioni di vita disumane, nei campi di concentramento.

(Corriere della Sera, 17 gennaio 2015)


Israele - Video-art irride il culto ebraico: è bufera

Nella settimana seguita alla strage nella redazione di Charlie Hebdo, la liberta' di espressione artistica su temi religiosi diventa materia di polemica anche in Israele. A scatenare le bufera e' stata l'esibizione nel Collegio Sapir (a Sderot) di un video-art che a mo' di 'provocazione' mostrava con tono irriverente oggetti di culto ebraico: il talled (manto rituale), la mezuza (piccolo cilindro di metallo con una benedizione, da apporsi agli stipiti delle porte), la menorah (il candelabro), e i filatteri.
   A sparare a zero su questo genere di arte figurativa e' stata per prima la radio dei coloni, Canale 7, che ha parlato di «plateale offesa a quanto vi e' di più sacro» per gli ebrei osservanti. Poi sono insorti altri ambienti religiosi e oggi, poco prima dell'inizio del riposo sabbatico, il Collegio Sapir è stato costretto ad alzare bandiera bianca. Il suo presidente Omri Yadlin ha fatto uno sorta di mea culpa ammettendo di aver compreso in ritardo la «profondita' delle ferita» inferta agli studenti religiosi di quel centro accademico. Il video dell'artista Gil Yefman e' stato rimosso da una mostra dedicata alla liberta' di espressione. Potra' ancora essere visionato: ma in forma privata e solo su richiesta.
   La composizione di Yefman - esposta in passato a New York e a Tel Aviv - mostra un uomo discinto, dai tratti femminei, mentre si stringe filatteri alle gambe e al petto (invece che sul braccio e sulla fronte, come vorrebbe l'ortodossia). Sulle mutande nere, che ostentano una delicata stella di David, indossa poi un gonnellino ricavato da un talled. L'uomo si passa inoltre sulle labbra una buona dose di rossetto e si applica due mezuzoth come orecchini. E i suoi capelli sono acconciati nella forma di un candelabro ebraico. L'accostamento fra erotismo e rito religioso - ha spiegato Yefman - era un riferimento legato a una poesia del poeta nazionale israeliano Haim Nahman Bialik, 'E sera sia', che e' peraltro citata nel video. Gia' 30 anni fa un'altra poetessa israeliana, Yona Wollach, trovo' opportuno provocare «il perbenismo israeliano» facendosi fotografare accanto a un uomo atletico che indossava solo filatteri al braccio. Come allora anche oggi le proteste sono state immediate e accese.
   Nelle settimane scorse il Collegio Sapir aveva allestito una mostra sulla 'Forza delle Parole' per misurarsi con una serie di episodi d'intolleranza politica e religiosa verificatisi in Israele. «Intendiamo incoraggiare il pluralismo e la tolleranza» aveva spiegato il Collegio. Ma l'opera in questione ha sollevato una marea di critiche: anche perche' qualcuno ha rilevato che ebrei internati nei lager furono costretti dai nazisti in senso di disprezzo a indossare biancheria intima ricavata dai loro manti rituali. In definitiva il Collegio Sapir ha dovuto cosi' fare retromarcia. «Volevamo solo aprire un dibattito - afferma adesso 'contrito' Yadlin - certo non volevamo ferire i sentimenti di alcuno».

(Online News, 17 gennaio 2015)


Bolzano - Pietre in ricordo degli ebrei deportati

Sono state messe davanti alle case dove le famiglie hanno abitato per anni, prima di diventare vittime della follia nazista.

di Antonella Mattioli

BOLZANO. «Il negozio di cereali, farina e generi alimentari di mio zio Renzo doveva essere qui, dove oggi c'è la sede di una banca». Cesare Finzi, classe 1930, cardiologo ebreo-ferrarese, si commuove quando l'artista Gunter Demnig, pianta davanti all'ingresso del civico 16 di via Cassa di risparmio, cinque pietre nelle quali sono scolpiti i nomi di Renzo Carpi, sua moglie Lucia Rimini e dei tre figli, Alberto, Germana e Olimpia.
 
   «I miei zii e i miei cugini hanno abitato per anni in questo palazzo nel cuore di Bolzano, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Reichenau. Non abbiamo più saputo nulla, se non che Olimpia, nel 1944, pochi giorni prima di compiere quattro anni, è morta in una camera a gas di Auschwitz. Questa è la sua ultima foto: la rivedo così, sorridente».
   Oltre alle cinque pietre che ricordano la famiglia Carpi ieri, nell'ambito del progetto sostenuto dal Comune, dall'Archivio storico e dall'Anpi, ne sono state messe altre dieci per non dimenticare altrettante famiglie ebree, che hanno vissuto a Bolzano e sono state spazzate via dalla follia nazista.
Obiettivo dell'iniziativa - alla quale ha partecipato anche una delegazione di studenti della quinta A del liceo Pertini - hanno spiegato l'assessore Patrizia Trincanato, il presidente dell'Anpi Orfeo Donatini e il responsabile dell'archivio storico Hannes Obermair: evitare che il tempo cancelli la storia di tante persone normali che un giorno del settembre del 1938, dopo l'emissione delle leggi razziali, hanno scoperto all'improvviso di essere "diverse" e quindi di non poter più andare a scuola, non poter più lavorare, in una parola non avere più diritto di vivere.
   Il 22 agosto 1938 l'"Ufficio centrale demografico", che poco dopo il 5 settembre divenne la "Direzione generale per la demografia e la razza" impose, nell'ambito delle prime misure antisemite adottate dall'Italia e valide sull'intero territorio, un censimento della popolazione ebrea. Il 12 ottobre 1938 ne furono pubblicati i risultati anche sul quotidiano "La Provincia di Bolzano": in Alto Adige erano registrati 938 ebrei, di cui 69 residenti a Bolzano.
   Era l'inizio della fine.
   Grazie alle ricerche fatte in questi anni dalla Comunità ebraica di Merano assieme all'Archivio storico e all'Anpi, si è riusciti a rimettere assieme tasselli di vite spezzate di famiglie ebree, residenti a Bolzano, deportate e morte nei campi nazisti.
   È così che si è scoperto che Aldo Castelletti, originario di Mantova, abitava al civico 44 di via Rosmini, ex Casa Ina, con la famiglia. Dopo l'arresto le due figlie furono rilasciate e scapparono in Svizzera, mentre il capofamiglia, che all'epoca aveva 52 anni, venne deportato nel 1943 nel campo di concentramento di Reichenau e da lì ad Auschwitz.
   Charlotte Landau-Neuwohner e la figlia Felicitas abitavano al civico 8 di via Leornardo da Vinci: una vita normale la loro fino al 1939 quando vennero condannate a 10 giorni di carcere e ad una multa di 100 lire per un ritardo nella "dichiarazione di appartenenza linguistica": era l'inizio di un incubo che avrebbe portato entrambe, nell'aprile del 1944, ad Auschwitz.
Adalgisa Ascoli lavorava come commessa e abitava al numero 8 di vicolo delle Erbe. Nel 1941 aveva presentato la dichiarazione di "appartenenza alla razza ebraica", il 17 settembre del 1943 il mondo le crollò addosso: prima l'arresto, poi la deportazione. Non si sa neppure con esattezza dove: forse nel campo di Flossenbürg, forse in quello di Auschwitz. Quello che è certo è che dall'inferno non è più tornata.
   Adolf Schwarz ha vissuto tra Budapest, il Trentino e Bolzano, al civico 1 di via Leonardo da Vinci, dove c'era l'albergo Posta. L'inizio del calvario il 4 giugno del 1944: aveva 73 anni e venne rinchiuso nel campo di concentramento di Fossoli; il 2 agosto di quell'anno era sull'ultimo treno in viaggio per Auschwitz. Josef Weinstein commerciava in abbigliamento tra Merano e Bolzano dove abitava al 17 di via della Mostra. Gli affari andarono bene fino al 1938 quando, in quanto ebreo, perse la licenza. Venne arrestato mentre, l'anno dopo, cercava di scappare verso Milano. Morì il 28 ottobe del '44 ad Auschwitz.
   Wilhelm Alexander Loew-Cadonna era un avvocato di origine viennese che abitava in piazza Erbe. Il 6 febbraio del 1944 venne arrestato dalle Ss e portato per l'interrogatorio nella caserma della Gestapo, quindi le torture nel campo di via Resia. Ad Auschwitz gli diedero il numero 199872.
Auguste Freund gestiva un negozio di porcellane e vetri in piazza Erbe. Un'attivita che aveva dovuto cedere dopo 20 anni a causa delle leggi razziali. Morì nel 1944 ad Auschwitz. Ada Tedesco abitava in via Portici, dove c'è oggi la sede del vecchio Municipio. Le sue tracce si perdono tra il campo di Reichenau e quello di Auschwitz. Bernhard Czopp era il veterinario del Comune di Bolzano e abitava al 18 di via Hofer, poi le leggi razziali decretarono la revoca della cittadinanza italiana: improvvisamente era diventato un appestato e non riuscì a sopravvivere all'Olocausto.

(Alto Adige, 17 gennaio 2015)


I Voltaire dell'Islam

Li avevamo i "musulmani moderati", ma sono stati eliminati dagli islamisti. Una lunga caccia alle streghe.

di Giulio Meotti

Li avevamo davvero i musulmani moderati. Non tipi dalla lingua biforcuta come Tariq Ramadan. Non i capi delle comunità islamiche occidentali, così rispettabili e rassicuranti in televisione. Ma gli intellettuali e i giornalisti islamici che hanno sfidato il terrore e che sono diventati dei martiri moderati. Prima di scatenarsi contro Charlie Hebdo e altre mosche bianche dell'irriverenza europea, gli islamisti hanno orchestrato una caccia alle streghe, da Algeri a Teheran, contro i musulmani laici che avevano osato sfidare il fondamentalismo islamico. Erano le menti più libere, gli scrittori più vivaci e ammirati, gli intellettuali più anticonformisti. Liste nere affisse sulle moschee. E giovanissimi sicari, come i due fratelli della strage di Parigi, che abbattono decine di uomini soli, senza armi, vittime facili, come "Charb" e gli altri vignettisti francesi.
   Kamel Daoud, scrittore algerino molto venduto in Francia, assieme agli onori delle lettere ha appena
Djaout, Sebti e gli altri grandi scrittori algerini uccisi: "Chi ci combatte con la penna morirà di spada" avevano promesso i jihadisti.
raccolto anche una condanna a morte da parte degli imam. Il suo romanzo, "Meursault", è oggetto di una fatwa e l'autore ha già dovuto annullare un ciclo di conferenze. L'imam Abdelfattah Hamadache, che guida i salafiti dell'Islamic Awakening Front, ha definito Daoud "apostata" e "nemico della religione". Dalla Francia per lo scrittore si sono mossi intellettuali come Bernard- Henri Lévy.
Un copione che in Tunisia si è riaffacciato un anno fa, con l'assassinio di Chokri Belaid, il "Matteotti tunisino". E che poche settimane fa si è portato via il professor Muhammad Shakil Auj, Gli imam delle madrasse lo avevano condannato a morte. Auj era il preside della facoltà di Studi islamici dell'Università di Karachi, la più importante del Pakistan. Si definiva "musulmano liberale", teneva lezioni sull'islam negli Stati Uniti e aveva scritto quindici libri sul Corano e l'islam, contro il letteralismo dei fondamentalisti, a favore del matrimonio fra musulmani e persone di diversa confessione, per l'abrogazione della "legge nera" sulla blasfemia che condanna a morte i cristiani come Asia Bibi.
   Daoud rischia di fare la fine di un grande scrittore algerino, Tahar Djaout, ucciso nel maggio del 1993 dagli islamisti di Algeri. Una delle gemme della sua eredità è un romanzo breve e agghiacciante intitolato "The Last Summer of Reason". Il manoscritto del libro, senza titolo, venne ritrovato tra le sue carte dopo l'assassinio. Il protagonista, Boualem Yekker, è un libraio in una città dominata da fondamentalisti chiamati "Vigilant Brothers", la cui smania per il potere è pari solo alla loro paura e all'odio per la creatività e la bellezza. I suoi libri forniscono a Boualem un'àncora di salvezza, almeno per un po'. Nel nuovo mondo dei "fratelli", i bambini sono educati per essere "esecutori ciechi e convinti di una verità che è presentata come una verità superiore. Non hanno nulla su questa terra: niente beni materiali, nessuna cultura, nessuna attività per il tempo libero, nessun affetto, nessuna speranza; i loro orizzonti sono bloccati". Djaout aveva previsto la sua morte pochi giorni prima dell'attentato: "La mia storia rischia di diventare una biografia". Aveva fondato una rivista culturale, Ruptures, dove sognava un'Algeria pacificata, prospera e disponibile allo scambio con le altre culture. Djaout odiava i fanatici. E lo diceva apertamente.
   E' stato ucciso anche il più famoso interprete di musica rai, Cheb Hasni, il simbolo dell'Algeria moderna che gli integralisti islamici giudicavano "blasfema" e che volevano cancellare. Le canzoni della musica rai
In Sudan, il regime islamico ha impiccato il teologo Mohammed Taha, contrario alla sharia e alla tradizione del Corano increato.
vennero bollate dagli islamisti come "un veicolo della cultura occidentale" per il modo aperto e spregiudicato con cui parlano dell'amore e delle aspirazioni dei giovani.
Il grande intellettuale egiziano Farag Foda era famoso per i suoi articoli di critica e per le satire taglienti sul fondamentalismo islamico. Prima della sua uccisione, era stato accusato di "blasfemia" dalla grande moschea-università di al Azhar e da alcuni imam, che rivendicarono la sua esecuzione anche in tribunale.
   Nell'Algeria degli anni Novanta, decine di intellettuali musulmani morirono assassinati dai terroristi. Il romanziere Làadi Felici fu ucciso nel suo studio con ancora la penna in mano. Il saggi sta Abderrahmane Chergou venne lasciato a morire dissanguato come un agnello. Il commediografo Abdelkader Alloula, direttore del teatro di Orano e interprete di Gogol', si beccò tre pallottole nel cranio. Lo scrittore Youcef Sebti venne sgozzato in casa sotto una riproduzione del "3 maggio 1808" di Goya. Sul comodino aveva ancora le bozze dell'ultimo romanzo,

- "Les illusions fertiles".
  Lo psichiatra Mahfoud Boucebci, vicepresidente dell'Associazione internazionale per la psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza, venne accoltellato a morte il 15 giugno 1993 all'ingresso dell'ospedale in cui lavorava, ad Algeri. Poco dopo il sociologo Mohamed Boukhobza fu legato e sgozzato davanti alla figlia nel quartiere Telemly, ad Algeri. Poi fu la volta del giornalista Ornar Ourtilane che aveva diretto il giornale in lingua araba El Khabar, di editorialisti di primo piano come l'inimitabile Said Mekbel e del redattore del giornale Le Soir d'Algérie Yasmina Drissi. Un totale di sessanta giornalisti sono stati uccisi da gruppi armati fondamentalisti tra il 1993 e il 1997, secondo il libro appropriatamente intitolato "Inchiostro rosso".
   "Coloro che ci combattono con una penna devono morire di spada", aveva ordinato il Gruppo armato islamico.
   In Sudan Mohammed Taha, l'unico intellettuale islamico anti fondamentalista, venne impiccato nella pubblica piazza nel 1985 per aver protestato contro l'adozione della sharia da parte del presidente Jaafar al Nimeiri. Nei suoi scritti e nelle sue conferenze, Taha proponeva una società multi culturale e multiconfessionale, guidata non dall'imperativo giuridico della sharia, bensì da quello etico di un islam
In Iran i pasdaran e i mullah hanno dissanguato, strangolato e tolto gli occhi a decine di scrittori, poeti e critici letterari.
aperto e cosmopolita, nel quale fosse abolito il principio del jihad. Taha dovette compiere un'operazione ardita: scardinare il dogma del Corano increato per riprendere la tradizione del movimento mutazilita, che sosteneva l'obbligo della continua interpretazione del testo sacro e ne contrastava la lettura formale. Nel 1951, nel suo testo più noto "Il secondo messaggio dell'islam", Taha aveva confutato apertamente il dogma del Corano eterno, le cui parole sarebbero preesistite allo stesso Profeta Maometto. A causa delle idee espresse in questo saggio, già nel 1965 Taha era stato rinviato a giudizio davanti a un tribunale sharaitico. Al processo, al quale non si era presentato, i giudici lo avevano condannato in absentia per apostasia, gli avevano imposto d'ufficio il divorzio dalla moglie e avevano ordinato il ritiro dei suoi libri. Nel 1985 il giudice al-Mikashfi dichiarò Taha colpevole e lo condannò a morte a meno che non avesse ritrattato le proprie idee e si fosse pentito.
   Poi ci sono quelli che, per non finire come i colleghi che abbiamo citato, sono diventati invisibili. Come Sayyid al Qemny, un famoso intellettuale egiziano noto come il "Voltaire arabo" (è l'Economist a ribattezzarlo così) per le sue critiche al mondo islamico. I fondamentalisti islamici avevano affisso il suo nome sulle porte di molte moschee. Nel 2005 Qemny ha annunciato il proprio "pentimento e dissociazione da tutte le blasfemi e scritte", nonché la decisione di "rinunciare alla scrittura definitivamente". Nella lista con Qemny ci sono il poeta yemenita Abdel Aziz al Maqaleh, reo di essere un promotore dell'innovazione poetica, e il marocchino Muhammad Abed al Jabri, reo di "essere un nemico dell'islam" solo perché propone una critica della ragione araba e una rinascita "averroista". Scampò per un pelo alla furia degli integra listi, colpito da numerose coltellate, il Balzac egiziano, Naguib Mahfouz, premio Nobel per la Letteratura ma troppo tollerante verso cristiani ed ebrei, troppo laico, troppo acceso nel suo solitario illuminismo arabo.
   Nell'Iraq post Saddam, i terroristi islamici e al Qaida hanno assassinato decine di accademici e intellettuali che, con le loro attività o le loro idee, osteggiavano il fondamentalismo islamista. Oltre ottanta gli studiosi assassinati nella sola università principale di Baghdad. Come il capo dell'Unione dei professori,
In Turchia, un albergo dove si erano riuniti intellettuali laici venne dato alle fiamme. Rimasero uccisi tanti poeti e letterati.
Essam al Rawi, assassinato all'uscita di casa. Come Najdat al Salihi, professore di Psicologia alla Mustansiriya University, ritrovato con un proiettile nel cranio sul ciglio di una strada. "L'uccisione degli intellettuali ha uno scopo molto chiaro - dissero dall'Iraqi Committee for Sciences and Intellectuals -: svuotare la terra di Babilonia, la terra di tutte le civiltà da ottomila anni ...''. Al Qaida ha "sistemato" uno dei più noti calligrafi del mondo islamico. Si tratta di Khalil al Zahawi, il principale cultore dell'arte della scrittura in caratteri arabi classici in tutto l'Iraq. Per studiare con questo celebre calligrafo gli studenti arrivavano da tutto il medio oriente. Chiunque volesse essere considerato un esperto nell'arte calligrafica aveva bisogno della sua approvazione.
   In Iran, l'elenco degli intellettuali islamici assassinati si ingrossa di anno in anno. Rahim Safavi, capo dei pasdaran integralisti, lo aveva promesso: "Dovremo tagliare la gola a qualcuno e la lingua a qualche altro", e fu di parola: Mohammed Puyandeh, scrittore, strangolato. Madjid Sharif, scrittore, ucciso. Daryiush Foruhar, pugnalato a morte e mutilato insieme alla moglie Parvaneh. Mohammed Mokhtari, poeta e linguista, strangolato. Ebrahim Zalzadeh, scrittore, assassinato. A Rahman Hatefi, romanziere e giornalista, tagliarono le vene in carcere e poi lo lasciarono morire dissanguato. A Mehdi Shokri cavarono gli occhi, perché aveva scritto un poema beffardo in cui sosteneva che l'immagine di Khomeini era apparsa in una luna piena. Quasi tutti avevano firmato il manifesto del 1994 che si batteva per la ricostituzione dell'Associazione degli scrittori, sciolta dal clero islamico.
   In Turchia, uno dei giornalisti e scrittori laici più rispettati del paese, Ugur Mumcu, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco per strada. I fondamentalisti islamici hanno rivendicato l'attentato. Poi, una trentina di esponenti della cultura laica della Turchia, riuniti si per una conferenza nella città turca di Sivas, hanno perso la vita in un incendio appiccato da una banda di fondamentalisti islamici che li accusavano di essere "atei" e quindi, secondo la logica dei fanatici, meritevoli di bruciare vivi. Come Aziz Nesin, uno scrittore e giornalista del quotidiano di sinistra Aydinlik, un uomo sulla "lista nera" degli integra listi islamici. Usciti dalla moschea dopo la preghiera, migliaia di fedeli musulmani assediarono l'hotel in cui scrittori e intellettuali si erano riuniti per commemorare il poeta Pir Sultan Abdal, impiccato nel XVI secolo perché sostenitore della rivolta contro l'oppressione ottomana. Nel rogo persero la vita numerosi poeti, scrittori, musicisti, intellettuali. Chi è morto asfissiato. Chi bruciando come una torcia. Fuori, i fanatici continuavano a scandire slogan e a scagliare sassi contro chi cercava di sfuggire al rogo. Morirono bruciati vivi Asim Bezirci, storico della letteratura, Metin Altiok e Behcet Aysan, i poeti della nuova generazione.
   La mattanza religiosa dei fondamentalisti islamici è stata dunque preceduta da questa razzia mentale, ideologica, anti volterriana. Woland, il diavolo di Bulgakov ne "Il maestro e Margherita", diceva che "i manoscritti non bruciano", a testimoniare la sopravvivenza della grande letteratura a un destino di distruzione. I fanatici islamici invece sembrano esserci riusciti. E di questo loro rogo purificatore in nome di Allah paghiamo adesso le conseguenze.

(Il Foglio, 17 gennaio 2015)


La Presidente dell'Assemblea Capitolina in visita al Ghetto

 
Valeria Baglio
ROMA - Valeria Baglio, presidente dell'Assemblea Capitolina, ha visitato oggi il Ghetto ebraico insieme con alcuni consiglieri di Roma Capitale e con la presidente del I Municipio, Sabrina Alfonsi. Baglio ha incontrato il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici. Tema sullo sfondo, il clima che si vive dopo i fatti di Parigi.
"Questi luoghi", ha detto Baglio, "hanno un significato particolare per noi, per la storia che lega la nostra città a Gerusalemme e alla comunità ebraica, per la memoria che vogliamo rafforzare". L'intento, ha spiegato la presidente dell'Assemblea Capitolina, è "creare una città davvero libera e sicura". In quest'ottica l'idea di "rafforzare il gemellaggio ideale con Gerusalemme, mettendo in pratica alcune iniziative insieme".
Il rabbino Di Segni, dal suo canto, ha sottolineato il carattere unico del Ghetto: "Un quartiere estremamente vitale. Un polmone pulsante della socialità romana, un punto d'incontro tra culture differenti". Un posto "per tutte le età e per tutti i palati, dove c'è folla e i ristoranti sono pieni". Uno stile quotidiano a cui il Ghetto non rinuncia, adoperandosi per continuare a "vivere normalmente e magari anche meglio".

(Roma Daily News, 17 gennaio 2015)


Doppio schiaffo a Israele

L'Aia avvia l'indagine su Gaza, la Boldrini gioca per la Palestina

La Corte penale internazionale dell'Aia ha annunciato ieri l'apertura di un'inchiesta preliminare per verificare se Israele abbia commesso crimini di guerra nel corso della campagna militare di autodifesa dello scorso giugno a Gaza. L'accettazione della domanda di adesione della Palestina alla Corte dell'Aia era stata comunicata dal segretario delle Nazioni unite, Ban Ki-moon, il 7 gennaio scorso, nel pomeriggio dello stesso giorno che aveva visto la strage nella redazione di Charlie Hebdo. L'annuncio di ieri - una messa sul banco degli indagati, se non ancora degli imputati, dell'unico stato democratico del medio oriente, bersaglio principale degli islamisti di tutto il mondo - era quindi atteso. Non si può dar torto al ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, che ha definito "scandalosa" la decisione della Corte dell'Aia.
   Va segnalato anche l'attivismo della presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini, che ieri - in assenza di un'indicazione della conferenza dei Capigruppo è lei a decidere - aveva messo all'ordine del giorno la discussione preliminare in Aula di quattro mozioni che riguardano il riconoscimento di uno stato palestinese da parte dell'Italia. Tre quelle a favore (di Sel, del Movimento cinque stelle e della deputata socialista Pia Locatelli, sottoscritta anche da svariati esponenti della sinistra pd) e una contraria, leghista. Mancano quelle delle formazioni maggiori (Pd, Forza Italia, area popolare), considerata l'inopportunità di un'iniziativa dall'evidente significato di stigmatizzazione di Israele, reo di volersi difendere. Il Jerusalem Post, ieri, notava che gli attacchi alla Francia sono arrivati una settimana dopo il sostegno accordato da Parigi alle richieste palestinesi all'Onu e dopo la mozione approvata a inizio dicembre dall'Assemblea nazionale che chiedeva il riconoscimento di uno stato palestinese. E due giorni fa, il premier turco Davutoglu è riuscito a dire che il primo ministro israeliano Netanyahu "ha commesso crimini contro l'umanità allo stesso modo dei terroristi che hanno compiuto il massacro di Parigi". L'Italia ha davvero bisogno di allinearsi a questa posizione?

(Il Foglio, 17 gennaio 2015)


Netanyhau attacca la Corte Penale Internazionale

GERUSALEMME - È "atroce" che la Corte penale internazionale abbia deciso di aprire un'indagine preliminare su possibili crimini di guerra commessi nei territori palestinesi lo scorso anno. Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in seguito alla decisione annunciata oggi dalla Cpi. "È atroce - ha affermato - che solo qualche giorno dopo che terroristi hanno massacrato degli ebrei in Francia, la procura generale lanci un'indagine sullo Stato ebraico, perché sta difendendo il popolo da Hamas, un'organizzazione terrorista alleata con l'Autorità palestinese e i cui criminali di guerra hanno sparato migliaia di missili contro i cittadini israeliani". Questa decisione, ha aggiunto, secondo quanto riporta il sito Ynet, "sfortunatamente trasforma la corte in parte del problema e non in parte della soluzione".
Sulla stessa linea anche il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman, il quale ha fatto sapere che Israele agirà "nella sfera internazionale per ottenere lo smantellamento" della Cpi che a suo avviso "rappresenta l'ipocrisia e mette le ali al terrore". Questo passo, ha aggiunto Lieberman, è una "decisione scandalosa il cui unico scopo è giudicare e arrecare danno al diritto di Israele di difendersi contro il terrore".

(Fonte: LaPresse, 16 gennaio 2015)


Mara Carfagna (FI): Voteremo contro il riconoscimento dello Stato di Palestina

Mara Carfagna
"In merito alla discussione sul riconoscimento dello Stato di Palestina, mi domando come si possa riconoscere uno Stato con due governi. Quale sarebbe, ad esempio, l'interlocutore di riferimento? Abu Mazen o forse i terroristi di Hamas? Ecco, Forza Italia voterà contro qualsiasi riconoscimento dello Stato di Palestina almeno fino a quando la Palestina non sarà disponibile a rinunciare al terrorismo come strumento di lotta politica. Questo e'un punto rispetto al quale siamo e saremo intransigenti. Se non trattiamo, come e' giusto che sia e voglio sottolinearlo, con Al Qaeda o l'Is non possiamo e non dobbiamo nemmeno cedere ai terroristi di Hamas che altro non sono che estremisti che puntano ad un solo obiettivo: l'annientamento degli ebrei e di Israele. In un momento così drammatico per la sicurezza e la libertà dell'Occidente,sarebbe un grave errore dimenticare che Israele costituisce la trincea della civiltà occidentale nel Medioriente contro ogni fondamentalismo. Se veramente Abu Mazen vuole il bene dei palestinesi si sieda ad un tavolo permanente di trattativa con la seria intenzione di arrivare ad una condizione di pace duratura che sia frutto di negoziati tra le parti interessate e non di imposizioni unilaterali". Lo dichiara in una nota la portavoce dei deputati di Forza Italia, Mara Carfagna.

(il Velino, 16 gennaio 2015)


Raid antiterrorismo in Belgio, è finita la tregua interna con il jihad

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri in Belgio ci sono stati più raid antiterrorismo della polizia a Bruxelles, a Verviers e a Vilvorde. Il contingente di jihadisti partiti dal Belgio e impegnati anche da anni nel jihad in Siria è uno dei più grandi, le armi usate negli attentati di Parigi venivano da Bruxelles: ieri questi due dati si sono incrociati, come se fosse finita una tregua non dichiarata tra jihadisti e stati europei. Il blitz più importante è avvenuto vicino alla stazione ferroviaria di Verviers, nei pressi di Liegi. Almeno due persone sono state uccise nello scontro a fuoco - e secondo i testimoni ci sono state anche esplosioni. Le operazioni di ieri sono cominciate per bloccare "attacchi imminenti" grazie a informazioni date da un trafficante d'armi che ieri si è costituito a Charleroi e che aveva venduto i due fucili d'assalto, la mitraglietta Skorpion e la pistola Tokarev al francese Amedy Coulibaly, incontrato a Bruxelles. Lui ha poi passato i due fucili kalashnikov ai fratelli Kouachi, che li hanno usati durante il massacro nella redazione del giornale Charlie Hebdo.
   Il resto delle armi è servito a Coulibaly per l'attacco al supermercato kosher di Porte de Vincennes. A quanto risulta per ora, i tre uccisi sono tornati dalla Siria e potrebbero aver fatto parte dello Stato islamico, ma non c'è conferma. Un uomo armato che ha gridato slogan religiosi in arabo e francese è stato visto nella stazione della metro di Ribancourt, a Bruxelles, dove è cominciata un'altra operazione. I volontari con passaporto belga andati a combattere in Siria e Iraq sono centinaia e all'inizio, nel 2012, si sono divisi in almeno un paio di grandi filiere. Una, quella dei più estremisti, era legata a Jabhat al Nusra e a un gruppo più piccolo, il cosiddetto Majlis Shura al Mujeheddin, che erano entrambi in contatto con il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi. Quando nell'aprile 2013 al Baghdadi ha annunciato la creazione dello Stato islamico in Iraq e Siria, il Majlis Shura si è fatto assorbire completamente dentro il nuovo gruppo, belgi inclusi. Grazie anche al contingente belga, al Baghdadi ha avuto fin dall'inizio un gruppo d'appoggio ben armato e molto ideologizzato per reclamare territorio in Siria. Il sito al Monitor ha intervistato quattro esperti della sicurezza israeliana, provenienti dal mondo dell'intelligence, che affermano che l'Europa dovrà aderire in fretta al modello di sicurezza israeliano. Il succo dei loro commenti è: anche voi in Europa avete capito, o capirete presto, che questa coabitazione con cellule estremiste clandestine che possono colpire da un momento all'altro non è possibile. Da voi, dicono gli israeliani, ci sono 28 stati diversi e 28 polizie che si parlano poco, è possibile partire dal Portogallo e arrivare in Lituania senza nemmeno un controllo. Dovrete presto, invece, prendere in considerazione l'idea di cominciare intercettazioni preventive di massa e anche quella di creare una rete di informatori all'interno delle comunità islamiche, per tenere d'occhio la nascita di frange terroriste. "Dovete avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, non potete andare a cercare i terroristi tra i calvinisti della Svizzera", dice l'ex consigliere per la Sicurezza nazionale Yaakov Amidror. "Nel mondo regolato dal codice penale, se qualcuno ascolta una banda di rapinatori progettare un assalto a una banca non può fare nulla, eccetto continuare con la sorveglianza. Nei casi di terrorismo, invece, quando così tante vite umane sono a rischio, non c'è altra scelta che un'azione preventiva, fino ad arrivare alle (cosiddette) detenzioni amministrative".

(Il Foglio, 16 gennaio 2015)


Lassana Bathily riceverà la nazionalità francese

È il ragazzo maliano e musulmano che ha salvato alcuni ostaggi al supermercato kosher di Parigi e poi ha aiutato la polizia: è diventato una specie di eroe.

 
Lassana Bathily, l'uomo che lo scorso venerdì ha salvato sei ostaggi durante l'attacco nel supermercato kosher a Porte de Vincennes, nell'est di Parigi, in cui è morto l'attentatore Amedy Coulibaly, riceverà la nazionalità francese. La richiesta è stata fatta da circa 300 mila persone che hanno sottoscritto una petizione online e l'hanno inviata al presidente François Hollande. Il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve ha annunciato che la cerimonia di assegnazione avverrà martedì 20 gennaio.

- Che cosa è successo al supermercato
  Venerdì 9 gennaio la polizia francese ha compiuto due operazioni, quasi in contemporanea. La prima è stata quella di Dammartin-en-Goèle, nel dipartimento di Senna e Marna: lì dalla mattina si erano barricati all'interno di un capannone industriale i due fratelli sospettati di avere compiuto due giorni prima la strage alla sede di Charlie Hebdo. La seconda è stata compiuta in un supermercato kosher a Porte de Vincennes. Poco prima delle 13:30 un uomo armato era entrato nell'edificio, aveva preso degli ostaggi ed era rimasto barricato per circa quattro ore. Intorno alle 17:15 la polizia aveva assaltato il supermercato, uccidendo il sequestratore. Si chiamava Amedy Coulibaly, aveva 33 anni, proveniva da Juvisy-sur-Orge, nella regione di Ile-de-France ed era ricercato dalla polizia francese da giovedì mattina per essere rimasto coinvolto in una sparatoria a Montrouge, a sud di Parigi, in cui era stata uccisa una poliziotta. Tutti i media francesi, nel raccontare questa storia, hanno parlato anche di un altro uomo: Lassana Bathily, il cassiere del supermercato.
Lassana Bathily ha 24 anni e si trovava all'interno del supermercato quando l'attentatore era entrato, aveva sparato ad alcune persone e aveva minacciato di ucciderne altre, sequestrandole. Diverse persone avevano cercato di scappare. Bathily le aveva viste correre giù per le scale, verso il piano di sotto, e le aveva aiutate a nascondersi in una delle due celle frigorifere in cantina scollegando il sistema di refrigerazione. Poi, senza essere visto dall'attentatore, era riuscito a scappare dal supermercato. All'inizio era stato ammanettato, ha raccontato. Poi, una volta chiarita la situazione, aveva dato alle squadre della polizia tutta una serie di informazioni utili all'assalto: l'arma del terrorista, la presenza di esplosivo, la topografia del negozio e il numero di ostaggi. Jean-Michel Fauvergue, a capo dei RAID (Recherche Assistance Intervention Dissuasion, corpo speciale contro la criminalità organizzata e il terrorismo), ha descritto Lassana Bathily come un «ragazzo molto intelligente» e «un tipo straordinario».

- Lassana Bathily
  Lassana Bathily è nato il 27 giugno del 1990 in un villaggio della provincia di Kayes nel Mali occidentale ed è arrivato in Francia nel marzo del 2006 per raggiungere il padre: «Mia madre non ha mai potuto unirsi a noi e attualmente è ancora in Mali» ha detto a France 24. Al suo arrivo ha anche avuto inizio il lungo percorso che deve affrontare qualsiasi altro immigrato. Dal 2007 al 2009 Lassana Bathily ha frequentato una scuola professionale, nel diciannovesimo arrondissement di Parigi, ottenendo il diploma di ceramista. Riuscito ad evitare l'espulsione nel 2009, nel 2011 ha finalmente ottenuto un permesso di soggiorno e così anche il suo primo contratto di lavoro. Dopo una prima esperienza, è stato assunto nel supermercato kosher dove lavorava ancora al momento dell'attacco. È un musulmano praticante che lavora in un negozio i cui clienti sono quasi tutti ebrei, ma ha raccontato che «nessuno ha mai fatto un commento» sulla sua religione. Lo scorso 7 luglio Lassana Bathily ha depositato la sua domanda di naturalizzazione, che ora riceverà come forma di riconoscenza da parte della Francia nei suoi confronti il prossimo martedì.
Domenica scorsa Hollande ha chiamato personalmente Bathily per congratularsi con lui per le sue azioni. Presente a Parigi durante la grande marcia repubblicana dell'11 gennaio, Bathily è stato citato e ringraziato pubblicamente anche dal primo ministro israeliano Benjamin Nethanyahu. Lui subito dopo l'operazione al supermercato aveva detto: «Non ho nascosto degli ebrei: semplicemente delle persone».

(il Post, 16 gennaio 2015)


Agente del Mossad infiltrato in Hezbollah

Crolla il mito dell'invulnerabilità di Hezbollah. Da anni un agente del Mossad si era infiltrato nel "Partito di Dio", diventandone il responsabile alla sicurezza.

di Matteo Carnieletto

Il Partito di Dio aveva sempre fatto dell'impenetrabilità il proprio vanto, ma qualcosa, nel sistema di sicurezza del movimento, è andato storto. Da mesi le voci riguardanti la cattura di una presunta spia israeliana all'interno di Hezbollah si rincorrevano sui media. Ora, però, il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, ne ha dato la conferma in un'intervista all'emittente tv Al Mayadeen: circa 5 mesi fa Hezbollah ha arrestato una "spia" che ricopriva un ruolo "sensibile" all'interno dell'organizzazione ed era "responsabile di uno dei dipartimenti all'interno di una delle unità di sicurezza di Hezbollah".
L'uomo, secondo quanto è emerso dalle numerose indiscrezioni che si sono succedute dopo l'intervista di Nasrallah, è stato identificato con Mohammad Shawraba. Entrato nelle file di Hezbollah in giovane età, avrebbe preso parte a numerosi azioni militari contro i militari israeliani in Libano, prima del ritiro delle forze dello stato ebraico nel 2000.
Secondo quanto scritto dal Jerusalem Post, Shawraba avrebbe deciso di collaborare con il Mossad perché frustrato da una mancata promozione all'interno del movimento sciita. Un'altra fonte libanese citata dal quotidiano israeliano ha raccontato di come il presunto agente del Mossad utilizzasse come copertura quella di "un ricco uomo d'affari che viaggiava tra la Spagna e l'Italia".
La sua collaborazione con l'intelligence israeliana, ha spiegato ancora la fonte libanese, proseguiva da "parecchi anni" e grazie al suo contributo il Mossad è stato in grado di fermare numerosi tentativi di Hezbollah di vendicare la morte del comandante militare dell'organizzazione, Imad Moughniyeh, ucciso in un attentato a Damasco nel 2008 e della cui responsabilità è sospettato Israele.

(il Giornale, 16 gennaio 2015)


Istigazione all'odio e terrorismo

Israele avvertiva, ma la comunità internazionale rimaneva sorda ai suoi allarmi

I recenti attentati terroristici a Parigi non sono venuti fuori dal nulla. Oggi più che mai la popolazione francese, e non solo, sembra capire che il terrorismo stragista che ha subìto è il risultato di un impianto ideologico: una combinazione di ideologia religiosa, sentimento di vendetta e stato d'animo bellicoso. Una costruzione psicologica che è stata tenacemente sviluppata dai capi delle organizzazioni jihadiste e dai loro agenti e che è stata sistematicamente inculcata nella mente dei militanti nei campi di morte in Iraq e in Siria, così come nelle capitali europee, nelle città americane, nelle aree di conflitto in tutto il mondo....

(israele.net, 16 gennaio 2015)


Memoria, la musica salvata

Il 27 gennaio 2015 saranno trascorsi settant'anni dall'apertura dei cancelli di Auschwitz. Una data importante, che tutta l'Europa si accinge a ricordare nel Giorno della Memoria.
   A Roma l'Unione delle Comunità Ebraiche italiane ha promosso, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, un progetto che ha come tema la musica scritta nei campi di sterminio, che è stata recuperata e salvata da Francesco Lotoro, musicista e musicologo che da trent'anni con incrollabile tenacia si è prefisso il compito di ridare voce a quelle partiture composte in uno dei momenti più tragici della storia umana, e che rischiavano di andare perse per sempre.
   Ideato e organizzato da Viviana Kasam, Marilena Francese e Marco Visalberghi in collaborazione con l'Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Fondazione Musica per Roma, il concerto è il proseguimento ideale de "I Violini della Speranza" che nel gennaio 2014 concluse a Roma il Giorno della Memoria con grandissimo successo di pubblico e di critica (il concerto sarà replicato a Berlino, dai Berliner Philharmoniker, il 27 gennaio 2015, alla presenza di Angela Merkel e dei membri del Parlamento tedesco).
   Lo Stato di Israele ha emesso un francobollo commemorativo.
   Nel concerto del gennaio 2014 si parlava dei violini che sopravvissero allo sterminio. Il prossimo concerto parlerà di persone, di musicisti, che nonostante le disumane condizioni di detenzione, trovarono la forza di comporre e di affermare la vittoria dello spirito e della creatività artistica sulla morte.
   "Tutto ciò che mi resta" il titolo, meravigliosamente interpretato dall'artista Mimmo Paladino, che ha creato le immagini utilizzate per la grafica del concerto, è ispirato a un poema di Emily Dickinson. "Questo note sono tutto ciò che restava ai prigionieri, ed è quasi sempre tutto ciò che di loro resta a noi" spiega Viviana Kasam.
   Molto più di un semplice concerto: l'evento, che si terrà all'Auditorium Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, il 26 gennaio 2015, inaugurerà il Giorno della Memoria secondo la tradizione ebraica di far cominciare ogni celebrazione dalla sera prima. Artisti di fama internazionale hanno aderito all'invito. Prima tra tutti, la grande cantante tedesca Ute Lemper che esordirà con Auschwitz Tango. Un momento di alto valore simbolico: l'artista tedesca è l'erede della grande Marlène Dietrich. "È un concerto a cui tengo moltissimo per motivi etici e personali" dichiara per poi sottolineare che nel suo repertorio sono comprese due canzoni yiddish e una scritta nei campi di sterminio, testimonianza del suo personale impegno nei confronti del mondo ebraico.
   Tornerà ad esibirsi anche la giovanissima violinista Francesca Dego, nota in tutto il mondo per il suo virtuosismo, e che partecipò l'anno scorso ai "Violini della Speranza", anche in ricordo e in omaggio alla sua famiglia materna, in gran parte sterminata dai nazisti. Quest'anno la violinista arriverà a Roma dalla Thailandia per prendere parte al concerto.
   Nei campi di sterminio i musicisti ebrei ebbero molti contatti e scambi con i rom, perseguitati anch'essi dai nazisti. Questa insolita collaborazione viene ricordata dal grande violinista rom Roby Lakatos insieme alla cantante Myriam Fuks, considerata una della massime voci yiddish al mondo; essi presenteranno musiche gitane rielaborate da compositori ebrei, in una esplosione di suoni, voci e strumenti.
   Il concerto ridarà voce ai musicisti ebrei che furono prigionieri e morirono nei campi, uomini disperati per i quali la musica rappresentava l'ultima possibilità di sopravvivenza spirituale, la suprema testimonianza di umanità contro chi li considerava, e li trattava, come esseri inferiori destinati a scomparire. È un miracolo che tanta musica potè essere scritta, sui ritagli di tessuto e su fogli di carta trovati chissà come e nascosti chissà dove, anche nelle infermerie, dove la sorveglianza era meno stretta perché le guardie avevano paura di infettarsi, composta nelle ore notturne, sacrificando le poche ore concesse al sonno. È un miracolo che tanta di questa musica sia riuscita a sopravvivere, trafugata da guardie complici (e che a volte per questo furono punite con le detenzione), trascritta da prigionieri politici che avevano qualche margine in più di movimento, ricordata e poi annotata da prigionieri che si salvarono, seppellita e riportata alla luce dopo la liberazione.
   Il repertorio è quanto mai vario: dalla classica al cabaret, dalle canzoni klezmer alla musica leggera, dai salmi ai cori dei deportati.
   Se queste opere sono tornate alla luce è grazie al lavoro appassionato di Francesco Lotoro, insignito dal Ministero della Cultura francese del titolo di Chevalier de l'Ordre des Arts et des Lettres, che è riuscito così a salvare dall'oblio quelle testimonianze che i nazisti avrebbero voluto cancellare insieme a tutto il popolo ebraico, che doveva essere annientato non solo fisicamente, ma anche culturalmente. La sua raccolta di musica concentrazionaria, che conta oltre 5mila pezzi, diventerà la prima sezione di un Museo della Musica Ebraica, che avrà sede in Puglia. Le storie dei musicisti, di come le loro opere furono scritte, salvate e ritrovate, verranno raccontata dall'attore Marco Baliani e durante il concerto saranno anche presentate in anteprima alcune scene del documentario di Marco Visalberghi (produttore di "Sacro Gra", che nel 2013 ha vinto il Leone d'Oro a Venezia). Il film, una coproduzione italo-francese, alla quale partecipano Rai 3, l'Istituto Luce, France 2 e France 5, sarà nelle sale cinematografiche a fine 2015.
   Il concerto, che ha ricevuto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana, nasce sotto l'egida della Presidenza del Consiglio, ed è promosso dall'UCEI con il sostegno dell'Università Ebraica di Gerusalemme. "Siamo convinti che la memoria debba essere conservata in modo non retorico" dice Renzo Gattegna, presidente UCEI, "e soprattutto valorizzando la cultura. Gli ebrei non vogliono essere identificati come vittime, vogliono che il mondo conosca il loro grande apporto all'arte, alla musica, alla letteratura. Il migliore omaggio che possiamo fare alle nostre vittime è ricordarne il valore e il coraggio intellettuale, anche nella tragedia".
   Trasmesso in diretta da Rai5 e in videostreaming sui siti www.tuttociochemiresta.it e www.lastmusik.com, il concerto è gratuito. I biglietti possono essere ritirati presso l'Info Point dell'Auditorium Parco della Musica a partire dal 18 gennaio 2015.

(moked, 16 gennaio 2015)


Premiato il maestro Francesco Lotoro, con le note dei campi di concentramento
«Suono le note scampate alla Shoah»


Se Hamas e Fatah ingannano l'Europa

di Bassam Tawil (*)

I due gruppi palestinesi, Hamas e Fatah, stanno dimostrando ancora una volta che in fatto di terrorismo sono dei maestri dell'ambiguità dicendo una cosa alla comunità internazionale, che di recente è stata buona con loro, mentre in "casa" affermano l'esatto opposto. La denuncia di Mahmoud Abbas degli attacchi terroristici di Parigi e la sua decisione di partecipare alla manifestazione contro il terrorismo tenutasi nella capitale francese è altresì un segno dell'ipocrisia e della politica dei due pesi e due misure di Hamas e Fatah.
   Hamas dovrebbe essere l'ultimo a denunciare le aggressioni contro i giornalisti e la libertà di espressione. Le sua forze di sicurezza nella Striscia di Gaza continuano ad arrestare e intimidire regolarmente i giornalisti palestinesi.
   Entrambi i gruppi da tempo denunciano all'estero gli attacchi terroristici mentre in terra natale fanno il possibile per reprimere e punire la libertà di espressione. I giornalisti palestinesi sono stati spesso presi di
La condanna di Hamas dell'attacco al settimanale francese Charlie Hebdo è coincisa con un docu- mento pubblicato dal gruppo palestinese per la difesa dei diritti umani Addameer, che ha accusato il movimento islamista di aver torturato alcuni alti dirigenti di Fatah nella Striscia di Gaza.
mira dalle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese (Ap) per aver postato delle riflessioni critiche su Facebook o per aver scritto pezzi che gettano discredito su Mahmoud Abbas e l'Ap.
La condanna di Hamas dell'attacco al settimanale francese Charlie Hebdo è coincisa con un documento pubblicato dal gruppo palestinese per la difesa dei diritti umani Addameer, che ha accusato il movimento islamista di aver torturato alcuni alti dirigenti di Fatah nella Striscia di Gaza.
Secondo il rapporto, i leader di Fatah sono stati privati dei loro indumenti lasciandoli in mutande e costretti a stare al freddo per diverse ore. Nel documento si legge altresì che coloro che conducono gli interrogatori per conto di Hamas li hanno picchiati con dei tubi di plastica e gli hanno gettato addosso dell'acqua gelata.
   Di fatto, solo l'anno scorso, quando era più vicina l'opportunità di essere accettati dall'Unione Europea, Hamas e Fatah hanno intensificato le intimidazioni, gli arresti e le torture dei giornalisti, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ma questa condotta non ha impedito ai due movimenti palestinesi di condannare la brutale uccisione dei giornalisti francesi del settimanale satirico Charlie Hebdo.
   Paradossalmente, Hamas, che ha condotto centinaia, se non migliaia, di attentati terroristici contro i civili negli ultimi 27 anni, si è precipitato a rilasciare una dichiarazione di condanna della strage dei giornalisti francesi. In questa dichiarazione, pubblicata in francese, Hamas ha detto che "condanna l'attacco contro il settimanale Charlie Hebdo e (…) e insiste sul fatto che le divergenze di opinione non possono giustificare le uccisioni".
   Tuttavia, Hamas, è stato molto attento a non condannare l'attacco terroristico al supermercato ebraico di Parigi - perché il movimento ritiene che gli attacchi contro gli ebrei siano legittimi. Condannare l'uccisione degli ebrei avrebbe significato che Hamas avrebbe anche dovuto denunciare i suoi stessi attacchi terroristici contro gli ebrei in Israele.
   Un altro paradosso è che poche ore prima che la dichiarazione fosse diramata alle redazioni dei media stranieri nella Striscia di Gaza, un sito web affiliato al movimento islamista, Al Resalah, ha twittato una foto dei tre terroristi francesi uccisi e li ha definiti "martiri".
   La foto è stata in seguito eliminata per evitare di causare ulteriore imbarazzo a Hamas, che ora sta facendo tutto il possibile per dimostrare alla Francia e agli altri paesi europei di essere degno della recente decisione della Corte dell'UE di rimuovere il movimento islamista dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
   La condanna di Hamas del terrorismo - che a quanto pare ha ingannato molte brave persone che sperano sinceramente che forse "è arrivato il momento" che Hamas si redima veramente - dovrebbe
Fonti vicino ad Abbas hanno detto che la sua lesta condanna degli attacchi terroristici di Parigi è do- vuta all'appoggio espresso dalla Francia alla richiesta avanzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese.
essere considerata come un tentativo di rabbonire l'Unione Europea e persuadere i suoi governi che avevano ragione a rimuovere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche.
Qualora si pensi che Hamas sia l'unico a compiere degli abusi, fonti vicino ad Abbas hanno detto che la sua lesta condanna degli attacchi terroristici di Parigi è dovuta all'appoggio espresso dalla Francia alla richiesta avanzata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese. "I palestinesi sono in debito con la Francia per l'appoggio che essa ha dato alla risoluzione palestinese al Consiglio di Sicurezza", hanno detto le fonti.
   "Speriamo che il popolo francese non cambierà la propria posizione verso la questione palestinese in seguito ai recenti attacchi terroristici di Parigi."
   L'Autorità palestinese dominata da Fatah da tempo reprime e punisce la libertà di espressione in Cisgiordania. All'inizio di questo mese, Fatah ha celebrato il 50o anniversario del suo primo attacco terroristico contro Israele postando un'immagine sulla sua pagina ufficiale di Facebook, che mostrava una pila di scheletri e teschi con la Stella di David incisa su essi. Come ha fatto Hamas, anche Fatah in seguito ha rimosso l'immagine, nel tentativo di impedire al mondo di vedere come i palestiniani siano orgogliosi del gran numero di ebrei uccisi nel corso degli ultimi decenni.
   Abbas è pronto a condannare gli attacchi terroristici solo se una mossa del genere soddisferà i suoi interessi. Dopo l'attacco a una sinagoga di Gerusalemme sferrato lo scorso novembre, solo in seguito alle forti pressioni esercitate dal segretario di Stato John Kerry, Abbas è stato costretto a rilasciare una dichiarazione di condanna.
   I membri di Fatah hanno poi ammesso che la condanna del loro leader non era affatto sincera e che è scaturita unicamente a seguito delle pressioni internazionali.
   In realtà, i media e gli alti dirigenti di Abbas continuano a magnificare i palestinesi che compiono attacchi terroristici come quelli perpetrati dai terroristi francesi. Essi non riescono mai a
a questo punto forse manca un "non"
parlare dei perpetratori come "martiri" ed "eroi". Nonostante la sua condanna degli attacchi terroristici contro Israele, Abbas non ha lesinato alcuno sforzo per elogiare i palestinesi che colpiscono gli israeliani. Un buon esempio dell'ambivalenza di Abbas è un episodio del novembre scorso, quando egli ha inviato una lettera di condoglianze alla famiglia di un palestinese che a Gerusalemme ha sparato e ferito gravemente il rabbino e attivista ebreo Yehuda Glick. Nella missiva, Abbas ha scritto che l'aggressore, poi ucciso nel corso di una sparatoria con la polizia, "andrà in paradiso da martire per aver difeso i diritti del nostro popolo e dei suoi luoghi santi".
   Hamas e Fatah cercano ancora una volta di ingannare gli europei e il resto del mondo, fingendo di stare dalla parte di chi si oppone alla violenza e al terrorismo. Questo sta accadendo in un momento in cui i gruppi continuano a giustificare il terrorismo e magnificano i terroristi.


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 16 gennaio 2015 - trad. Angelita La Spada)


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