Io sono stato ricercato da quelli che prima non chiedevano di me, sono stato trovato da quelli che prima non mi cercavano; ho detto: "Eccomi, eccomi", a una nazione che non portava il mio nome. Ho steso tutto il giorno le mani verso un popolo ribelle, che cammina per una via non buona, seguendo i propri pensieri.
Isaia 65:1-2

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E Davide divenne Golia
      Articolo OTTIMO!


Che cosa ha spinto Israele a trasformarsi in una superpotenza militare? La paura. Così il paese "un po' Rambo e un po' Primo levi" è diventato un modello per tutto il mondo.

Un popolo più simile agli italiani che agli spartani, ma costret- to dai nemici a combattere. Lo rac- conta il libro "The weapon wizards" Dal raid di Entebbe alla guerriglia umana in Cisgiordania, il mondo ha adottato tutte le terniche israeliane di antiterrorismo Il sistema di difesa antimissile venne avviato quando Saddam Hussein lanciò gli Scud su Tel Aviv. Oggi è un grande successo Israele è leader mondiale dei droni, responsabile del sessanta per cento del mercato. Esporta per sostenere la ricerca interna

 
Il regista francese Claude Lanzmann una volta ha detto che i paracadutisti israeliani sono di un altro tipo rispetto ai parà francesi: "La prova è che hanno ancora i capelli". L'autore del monumentale "Shoah" voleva dire che gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, venti volte più numerosi: per sopravvivere, Israele deve vincere subito e con un successo risolutivo. Lo scrittore Amos Oz ha dato forse la migliore definizione di Israele: "Di giorno è Rambo, ma di notte si trasforma in un fragile Primo Levi". La superiorità tecnica ha contribuito alle vittorie; ma è valsa soprattutto la volontà di non morire come popolo. Ancora oggi basta un annuncio convenzionale alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, spesso in autostop. Qualcuno, convinto di esaltare la stupefacente vittoria nella Guerra dei sei giorni, ha definito Israele "la moderna Sparta"; altri, meno benevoli, l'hanno definita "la piccola Prussia mediorientale", un paese militarista e sciovinista da tener d'occhio. Sono state le condizioni esterne, la feroce ostilità degli arabi, a costringere gli israeliani a dormire col fucile e guidare il trattore col mitra, a essere perennemente dei soldati. Se fossero stati riconosciuti dagli arabi come stato che ha diritto di esistere entro confini pacificati, gli israeliani avrebbero investito altrove i miliardi che sono stati costretti a spendere in armi.
  La popolazione d'Israele non ha, infatti, nulla in comune con l'immagine che ci siamo fatta degli spartani. Sono molto più simili agli italiani e piacerebbe loro vivere bene, in una casa confortevole, divertirsi e godersi la vita. Ma gli arabi non glielo consentono, e devono alternare i brevi momenti di esistenza piacevole alle guerre ricorrenti. Per la posizione geografica e la popolazione, Israele non può affrontare una guerra di logoramento. Deve vincere subito e bene. Nel 1967 due milioni e mezzo di israeliani hanno così sbaragliato in tre giorni trenta milioni di arabi forniti di mezzi bellici almeno tre volte superiori ai loro.
  Adesso un libro racconta come Israele è diventato una superpotenza militare. Si tratta di "The weapon wizards", i maghi delle armi, a firma di Yaakov Katz e Amir Bohbot, due giornalisti israeliani esperti di sicurezza. Israele è un paese di otto milioni di abitanti circondato da ogni lato da nemici che vorrebbero cancellarlo dalla mappa geografica: Hezbollah a nord, Hamas a sud, Bashar al Assad, Stato Islamico e Iran a est. Eppure questa piccola nazione ha costruito un sistema di difesa missilistico, una aviazione e una serie di apparecchi di intelligence per i quali è venerato in tutto il mondo e copiato dai militari degli Stati Uniti, tra molti altri. Israele è stato il primo paese occidentale a combattere contro le armi sovietiche in Egitto e Siria e il primo stato moderno ad affrontare il terrorismo suicida nelle sue strade, molto prima che New York o Londra, Madrid e altre capitali in Europa venissero sventrate dai kamikaze islamici.
  Da un possibile attacco militare contro l'Iran alla caccia di un sospetto terrorista in Cisgiordania, Israele affronta prima e più minacce rispetto alla maggior parte dei paesi ed è in continuo sviluppo nella sua tecnologia militare. Il virus Stuxnet, nel 2010, è stato uno dei primi attacchi informatici nella storia e si ritiene che sia stata l'opera di israeliani che volevano manomettere e rallentare il programma atomico iraniano. Essendo l'obiettivo dei terroristi di tutto il mondo, Israele è stato costretto a diventare una sorta di laboratorio militare. I passeggeri delle linee aeree commerciali israeliane, per esempio, sono stati le prime vittime dei dirottamenti internazionali al mondo. I commando israeliani hanno condotto il primo salvataggio di ostaggi di una compagnia aerea nel 1972 e poi di nuovo a Entebbe nel 1976. L'americana Delta Force è stata fondata proprio emulando quella leggendaria operazione israeliana in Uganda. Donald Trump sta studiando i modelli israeliani di "fence", i recinti di sicurezza, per costruirne uno al confine col Messico. Il Pentagono ha copiato le tattiche israeliane utilizzate durante l'Intifada per adattarle alla guerriglia urbana islamista in Iraq e in Afghanistan. Queste tecniche israeliane comprendono lo sviluppo di unità dell'esercito, come la "Shatzi", che hanno una conoscenza completa degli obiettivi da colpire (sono loro ad aver stilato la lista dei terroristi da uccidere a Gaza). E' israeliana l'azienda che produce i veicoli e che in Iraq e Afghanistan gli americani hanno usato per far fronte alle bombe nel sottosuolo. Si chiama "Plasan Sasa" e ha sede in uno sperduto kibbutz del nord, al confine col Libano. I suoi profitti, da 23 milioni di dollari nel 2003, sono passati a 500 nel 2011. Israele ha aperto la strada all'uso di elicotteri per operazioni mirate e ai droni, entrambi usati dagli Stati Uniti contro le cellule terroristiche in Pakistan e Yemen. C'è il sistema di difesa antimissile Iron Dome, concepito per intercettare razzi lanciati da Hezbollah dal Libano e da Hamas da Gaza. E ha raggiunto incredibili percentuali di successo.
  Durante gli otto giorni di guerra a Gaza nel 2012, le batterie di Iron Dome hanno abbattuto quasi 1'85 per cento dei missili in direzione di Israele. Durante l'operazione anti Hamas nell'estate del 2014, Iron Dome ha realizzato un 90 per cento di tasso di successo. La "cupola di ferro" è stata sviluppata dalla Rafael Defense Advanced Systems. La sede della società di missili è in Galilea, non lontano dal confine con il Libano. Molti degli ingegneri della Rafael vivono nel nord di Israele e hanno combattuto nella riserva durante la guerra del 2006 contro Hezbollah o hanno trascorso 34 giorni nei rifugi sotto gli attacchi missilistici. In altre parole, hanno molto più di una comprensione scientifica e meccanica della minaccia che essi stavano cercando di rendere inoffensiva.
  Negli ultimi trent'anni, per esempio, Israele è stato il numero uno al mondo come esportatore di droni, responsabili del 60 per cento del mercato globale (la quota degli Stati Uniti delle esportazioni mondiali è meno della metà). Per la sua volontà di vendere i suoi droni e molti altri prodotti tecnologici di difesa all'estero, tra cui la Cina, Israele è stato molto criticato. Ma lo stato ebraico ne ha sempre fatto una questione esistenziale. L'esercito israeliano non è mai stato sufficientemente grande da essere un acquirente autonomo in modo da incentivare le aziende locali a sviluppare armi o tecnologie. Israele deve esportare all'estero.
  Settant'anni fa, lo stato di Israele aveva un esercito che era poco più di un eterogeneo gruppo di irregolari, costretti a produrre proiettili in una struttura segreta costruita sotto un kibbutz. Oggi, l'esercito di Israele è ampiamente considerato come uno dei più efficaci e letali al mondo. Israele è oggi uno dei sei maggiori esportatori di armi, guadagnando miliardi ogni anno attraverso la vendita di attrezzature militari a Cina e India come a Colombia e Russia.
  "Come ha fatto Israele?", Katz e Bohbot si chiedono nel libro. "Qual è stato il segreto di Israele?". La risposta: cervello, grinta e la prospettiva della distruzione imminente. Circondato da nemici, Israele si è concepito come una nazione che deve, come ha detto Arieh Herzog, l'ex capo dell'agenzia di difesa missilistica di Israele, "innovare o scomparire". Un decimo oggi dell'export israeliano viene dagli armamenti e dalla tecnologia militare. Katz e Bohbot citano Shimon Peres: "Abbiamo bisogno di investire nei cervelli dei soldati, non solo nei loro muscoli". Katz e Bohbot sostengono che la cultura di Israele fatta di intraprendenza e informalità abbia offerto un vantaggio senza precedenti: "Ciò che rende unico Israele è la completa mancanza di struttura". L'assenza di gerarchia aiuta a stimolare l'innovazione. In Israele, i soldati si sentono liberi di discutere con gli ufficiali di alto rango. Così, per strada, tutti chiamano il premier Netanyahu "Bibi", il presidente Rivlin "Ruby" e il capo dell'opposizione Herzog "Buji". Non esistono formalità. Israele, si nota con orgoglio nel libro, è "diventato il primo paese a padroneggiare l'arte degli omicidi mirati", che sono ormai divenuti "lo standard globale nella guerra al terrore".
  Resta poi il fatto che l'esercito israeliano è unico per un altro motivo: costituisce un esercito di popolo e una scuola per tutta la società. Il problema urgente, addirittura angosciante, era l'integrazione di uomini e donne che avevano assorbito le secolari usanze dei popoli coi quali avevano vissuto; e bisognava farlo nel più breve spazio di tempo. Se non era difficile inserire nel rivoluzionario ordinamento statale israeliano gli immigrati che provenivano da paesi prosperi e progrediti d'Europa e d'America, gli ashkenaziti colti e razionalisti, poteva sembrare una impresa disperata il recupero di immigrati yemeniti, protagonisti di una vicenda favolosa. Erano cinquantamila gli ebrei dispersi nel lontano emirato d'Arabia, ancora affondati in un mistero medioevale. Non sapevano che cosa fosse la luce elettrica, non avevano mai visto una bicicletta o un orologio, i soli contatti col mondo esterno nei loro villaggi erano le carovane dei beduini.
  Il merito di una così radicale trasformazione, dicono gli israeliani, è stato dell'esercito, la più grande scuola di israelitismo, la sola capace di fondere in unità quasi armonica la gente di Israele che, non bisogna dimenticarlo, proviene da settantadue paesi fra Europa, Asia, Africa e America. L'esperimento ha dato i suoi frutti e lacerato anche il diaframma della lingua ebraica. L'esercito è stato efficiente sui campi di battaglia non meno che nella formazione della coscienza. La caserma come strumento di educazione alla democrazia.
  Israele è anche il primo paese al mondo a utilizzare i robot per sostituire i soldati in missioni come il pattugliamento della frontiera. Un veicolo a terra senza equipaggio, chiamato "Guardium", oggi pattuglia il confine con la Striscia di Gaza. Di fronte a terroristi che usano i tunnel per infiltrarsi in Israele, lo stato ebraico fa affidamento ai serpenti robotici per strisciare sotto terra. Questi sanno mappare le strutture, dando ai soldati un quadro preciso di una zona prima che il luogo sia preso d'assalto. Lo stesso sta accadendo in mare. L'appaltatore della difesa israeliano Rafael ha sviluppato una nave senza equipaggio chiamata "Protector" che viene utilizzata da Israele per proteggere i suoi porti strategici e pattugliare la costa mediterranea. Nel 2000, l'aviazione israeliana ha ricevuto la sua prima batteria anti missile, diventando il primo paese al mondo con un sistema operativo in grado di abbattere i missili nemici in arrivo. L'idea di creare questo sistema è nato a metà degli anni Ottanta dopo che il presidente americano Reagan chiese agli alleati di collaborare a sistemi che potessero proteggere il paese da missili nucleari sovietici in via di sviluppo. L'Arrow israeliano fu quella idea rivoluzionaria.
  A causa delle limitate dimensioni geografiche di Israele, tutti i missili balistici dispiegati nella regione - Siria, Iraq e Iran - potevano raggiungere qualsiasi punto all'interno del paese e rappresentavano una minaccia strategica e forse esistenziale. Gli sviluppatori israeliani avevano bisogno di un sistema in grado di abbattere i missili nemici dai paesi vicini e fornire protezione globale per il piccolo stato ebraico. Il programma ha avuto i suoi alti e bassi, ma ha ottenuto una spinta enorme di fondi dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, quando Saddam Hussein lanciò 39 Scud su Israele, paralizzando il paese e costringendo milioni di israeliani nei rifugi con le maschere antigas. Israele è stato anche il primo paese al mondo a utilizzare droni nelle operazioni di combattimento. Nel 1982 ha usato il suo primo drone da combattimento, chiamato "Scout", in Libano, dove ha giocato un ruolo chiave nel localizzare e neutralizzare le postazioni nemiche. Così nel 1986, Israele ha fornito alla marina degli Stati Uniti il suo primo drone, noto come il "Pioneer". Questi droni oggi volano quasi ogni giorno sul Libano, così come evitano che a Gaza si colpiscano palazzi pieni di civili.
  C'è la storia del "Talpiot", una parola che deriva da un verso del Cantico dei Cantici e che si riferisce a un castello, una fortificazione. E' l'unità tecnologica cardine di Israele. Ogni anno, migliaia provano a entrarvi, ma solo trenta vengono accettati. Dovranno sorbirsi nove anni di servizio, tre volte la lunghezza usuale della leva militare. L'unità è nata da un disastro della Guerra del Kippur nel 1973 . Israele fu trovato impreparato quando Siria ed Egitto attaccarono e oltre duemila soldati rimasero uccisi, e innumerevoli aerei e carri armati furono distrutti. Poco dopo la guerra, il colonnello Aharon Bet-Halachmi, capo del Dipartimento tecnologia della forza aerea, venne contattato da Shaul Yatziv, il fisico dell'Università di Gerusalemme, che gli suggerì di investire in laser. Molti ufficiali della Talpiot sarebbero andati a fondare compagnie quotate oggi al Nasdaq e avrebbero contributo, da privati, a rivoluzionare la tecnologia israeliana.
  Mentre state leggendo questo articolo, sui cieli dell'Afghanistan cinque paesi membri della Nato stanno impiegando droni di produzione israeliana per combattere contro i Talebani. Sono l'evoluzione di quei primi "giocattoli" usati da Israele sul Canale di Suez. Fu quando Davide divenne Golia.

(Il Foglio, 18 febbraio 2017)


Arrivano anche i Bnei Menashe

"Vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo"

Tre giorni fa 102 nuovi immigrati sono giunti in Israele, la loro nuova casa. Il loro paese di provenienza è l'India, si chiamano Bnei Menashe, i figli di Manasse, una delle dodici tribù di Israele andate disperse che nonostane i quasi tremillenni di esilio hanno mantenuto intatta la loro identità ebraica. Secondo Michael Fruend, responsabile dell'intera operazione per conto dell'organizzazione Shavei Israel, entro la fine dell'anno sarà previsto l'arrivo di altri 700 nuovi immigrati.

Storia degli ebrei in India
In India si distinguono tre comunità ebraiche che contano complessivamente circa 6.000 membri (1997), insediate in aree ben distinte: la comunità di Cochin, nel sud del subcontinente, i Bene Israel (Figli di Israele) nella zona di Bombay, e la comunità Baghdadi nei dintorni di Calcutta.
Non si sa a quando risalgano gli Ebrei neri di Cochin e i Bene Israel, ma si suppone che questi gruppi siano piuttosto antichi. Gli Ebrei Baghdadi e gli Ebrei bianchi di Cochin hanno un'origine più recente, legata all'espansione occidentale nella regione.
La particolarità delle religioni indiane, non missionarie e basate sulla realizzazione personale, ha consentito a queste comunità di strutturarsi in caste endogame ben inserite nel tessuto sociale indiano, senza subire alcuna persecuzione né forme di antisemitismo, se si esclude il periodo della colonizzazione portoghese, quando l'Inquisizione fu esportata in India, nei dintorni di Cochin.
La maggior parte degli Ebrei indiani sono emigrati in Israele dopo la creazione dello Stato.
Esistono poi altri due gruppi che rivendicano l'appartenenza ebraica: i Bnei Menashe, di lingua Mizo, che vivono a Manipur e nel Mizoram. Questi si sono proclamati ebrei negli anni 1950, e dicono di discendere dalla tribù di Manasse. I Bene Ephraim (o Ebrei Telogu) sono un piccolo gruppo che parla il telugu, la cui osservanza data dal 1981.

(Consulenza Ebraica, 17 febbraio 2017)


La minaccia di Hezbollah contro Israele

In seguito alle dichiarazioni di Trump sulla revisione della politica dei due stati con i palestinesi il leader del movimento libanese affila le armi.

di Marco Marano

Gli annunci del nuovo inquilino della Casa Bianca sul cambiamento di strategia americana relativa al conflitto israelo-palestinese, stanno avendo un effetto domino su tutto il mondo arabo. E' di poche ore la minaccia di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, l'organizzazione politico-militare sciita che rappresenta in Libano una sorta di stato parallelo a quello ufficiale. In seguito alla rinuncia del presidente Trump di sostenere la politica dei due stati, Hassan Nasrallah ha chiesto a #Israele di smantellare il reattore nucleare di Dimona, nel quale, accusa il leader, vengono progettate e costruite armi nucleari. Se questa richiesta non fosse accettata #Hezbollah si riserva di colpire gli impianti. Anche perché Israele non ha mai ratificato il trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari e per tale ragione non è soggetta ai controlli degli organi internazionali.

 La fine dei negoziati di pace
  I venti di guerra prospettati da Hezbollah, secondo le dichiarazioni del suo leader a Teheran durante i festeggiamenti per i 38 anni della rivoluzione iraniana, nascono dal fatto che la Casa Bianca ha messo fine ai negoziati di pace sul conflitto tra israeliani e palestinesi. Le parole di Trump sulla revisione del "dogma" dei due stati, sul fatto che i palestinesi devono riconoscere lo Stato ebraico e che la decisione spetta a Israele che deve negoziare il suo accordo, rappresentano appunto la morte del negoziato. Occorre ricordare che la politica dei due stati nasce dagli accordi di Oslo del 1993, rappresentata dalla famosa immagine di Clinton che favorisce la stretta di mano tra Rabin e Arafat. Fatta propria da una risoluzione delle Nazioni Unite e dal riconoscimento della comunità internazionale e dalla Lega Araba. In tal senso le richieste palestinesi individuerebbero il loro stato indipendente unendo Cisgiordania e Gaza con capitale Gerusalemme Est

 Il potenziale nemico
  Ma la fine dei negoziati di pace significa una nuova stagione di guerra ecco perché il movimento Hezbollah si sente minacciato da questa recrudescenza delle posizioni ufficiali, considerando Israele un nemico che potrebbe attaccarlo, incoraggiato magari dal presidente Trump. Proprio per questo Hassan Nasrallah ha voluto sottolineare che Hezbollah non ha paura di nessun nemico poiché la sua potenza risiede nel sostegno del popolo libanese. Infatti ha ricordato come in passato fu proprio Hezbollah a fermare Israele da un'aggressione nel suo paese. Il riferimento è alla seconda guerra del Libano del 2006, un conflitto durato circa un mese, scatenato da una operazione militare ebraica come reazione alla cattura da parte di Hezbollah di due soldati israeliani. Il conflitto si concluse con la mediazione delle Nazioni Unite.

 Lo scontro tra sunniti e sciiti
  Ma c'è un altro tema che va ad incrociarsi alle dinamiche sui rapporti tra israeliani e palestinesi e riguarda le regioni mediorientali conclamate come instabili che vede lo scontro tra l'Islam sunnita delle petro-monarchie arabe e quello sciita rappresentato da Iran, Siria ed Hezbollah. In tal senso Hassan Nasrallah ha messo in guardia Stati Uniti e Israele di non appoggiare l'Arabia Saudita nella guerra in Yemen, la quale è intervenuta pure in Bahrain per sedare le proteste popolari contro la famiglia regnante Al Khalifa

(Libero Gossip, 17 febbraio 2017)


Lieberman sfida Hamas. "Deponete le armi e costruiamo una nuova grande Gaza"

 
                              Avigdor Lieberman                                                           Yahya Sanwar
Una sorta di lettera aperta ai residenti della striscia di Gaza. Il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman ha scritto un intervento in arabo sul sito web del Coordinatore per le attività governative nei Territori che Israele.
Una lettera di progetti e proposizioni, il pieno rilancio di Gaza, delle attività produttiva e turistiche, un futuro diverso. Nel progetto la costruzionen di un nuovo porto e di un aeroporto, l'insediamento di una nuova rete industriale, insomma sviluppo e futuro con la creazione di 45 mila posti lavoro, una nuova vita. Ma tutto questo naturalmente ad una condizione. Mettere la parola fine allo stato attuale delle cose, finire la guerra di "posizione", il disarmo totale.
Hamas dovrebbe cancellare dalla sua Carta costitutiva l'articolo che propugna la distruzione di Israele.
Ma non solo: restituire i tre israeliani trattenuti a Gaza come ostaggi dopo esservi entrati di loro volontà (Abera Mengistu, Hisham al-Sayed e Jumaa Ibrahim Abu-Ghanima) e le salme dei due soldati Oron Shaul e Hadar Goldin, morti nella guerra anti-terrorismo dell'estate 2014.
Il guanto di sfida è stato lanciato. La Pace potrebbe essere a portata di mano… Ci sarà qualcuno disposto ad accettare la sfida? Appare poco probabile. L'elezione di Yahya Sanwar, 52 anni (uno dei leader più estremista e sanguinario dei terroristi, scarcerato da Israele nel 2011 nel quadro del ricatto per la liberazione dell'ostaggio Gilad Shalit), come capo di Hamas nella striscia di Gaza non promette nulla di buono. Anzi…

(Italia Israele today, 17 febbraio 2017)


Il Consiglio comunale di Modena contro la risoluzione Unesco su Gerusalemme


Approvato l'ordine del giorno della consigliera Di Padova (Pd) che ribadisce che la pace in Medio Oriente passa per il riconoscimento di pari dignità di tutte le religioni.


MODENA - Il Consiglio condanna la risoluzione dell'Unesco che definisce il Muro del Pianto luogo esclusivamente arabo, "ignorando millenni di storia della città di Gerusalemme", e ribadisce la "necessità di dialogo da ogni parte politica perché la pace in Medio Oriente passi per il riconoscimento di pari importanza e dignità di tutte le religioni", l'ordine del giorno approvato dal Consiglio comunale di Modena nella seduta di giovedì 16 febbraio.
Il documento, presentato da Federica Di Padova (Pd), e sottoscritto anche da Diego Lenzini e Marco Forghieri (Pd) e da Andrea Galli e Giuseppe Pellacani (FI), è stato approvato dall'assemblea con il voto a favore del Pd (escluso Tommaso Fasano che ha votato contro), di Forza Italia e di Idea-Popolo e libertà. Contrari il Movimento 5 stelle, Per me Modena, Sel e Fas-Sinistra italiana.
Il 18 ottobre 2016 l'Unesco ha approvato una risoluzione dedicata alla tutela del patrimonio culturale della Palestina e al carattere distintivo di Gerusalemme est, sulla quale l'Italia si è astenuta. Nella mozione, la consigliera Di Padova ricorda che la risoluzione è stata largamente criticata da rappresentanti della comunità ebraica, da molti governi e da ampie ed eterogenee fasce della società civile perché definisce il Muro del Pianto luogo esclusivamente arabo e utilizza il nome arabo per riferirsi alla moschea di Al-Aqsa, espungendo del tutto quello ebraico, cosa molto grave "perché il Muro del Pianto è luogo sacro per tutte e tre le religioni monoteiste ma il più sacro per la religione ebraica, in quanto costituisce l'unico legame con il Tempio costruito da Erode il Grande e distrutto dai Romani". Ricorda inoltre che il premier Matteo Renzi, pochi giorni dopo, definì la risoluzione "incomprensibile, inaccettabile e sbagliata. Non si può continuare con queste mozioni finalizzate ad attaccare Israele".
Su queste basi il documento approvato, oltre a condannare la risoluzione, chiede quindi che "non accada mai più che l'Unesco diventi cassa di risonanza di scontri politici e tensioni internazionali"; esprime solidarietà a Irina Bokova, direttore generale dell'Unesco, vittima di pressioni e minacce per aver affermato che "Gerusalemme deve essere vista come spazio condiviso di patrimonio e tradizioni per ebrei, musulmani e cristiani"; manifesta "piena sintonia con la posizione del Governo italiano per l'attività diplomatica svolta fino a questo momento per persuadere alcuni stati a passare da posizioni favorevoli all'astensione; incoraggia la delegazione italiana all'Unesco "affinché si esprima con voto contrario alla prossima scadenza relativa a questa risoluzione, se quest'ultima non dovesse cambiare nella sostanza".

(Comune di Modena, 17 febbraio 2017)


Torino - Il falò delle libertà. Insieme, per i diritti di tutti

di Ada Treves

Grande attesa, curiosità, emozione, impegno. Una grandissima folla a Torino ha voluto cogliere l'occasione del "Falò della libertà per i diritti di tutti", organizzato dalla Chiesa Evangelica Valdese, insieme alla Comunità ebraica e al Comune per ribadire il proprio no a ogni discriminazione. Il pastore Paolo Ribet ha ricordato alle migliaia di presenti il senso di una tradizione molto sentita nelle Valli Valdesi, dove ogni anno alla vigilia del 17 febbraio ci si raccoglie intorno ai falò per ricordare la concessione nel 1848 dei diritti civili e politici da parte di Re Carlo Alberto. Come ha ricordato il presidente Dario Disegni, la Comunità ebraica non poteva non rispondere con entusiasmo, per affiancare il Concistoro valdese in quella che è stata davvero una festa della libertà e per la libertà di tutti. Gli "Israeliti regnicoli" - ha ricordato Disegni - ottenevano poco più di un mese dopo, il 29 marzo, l'emancipazione con il regio decreto n. 688, con il quale venivano loro riconosciuti i diritti civili e la facoltà di conseguire i gradi accademici, mentre nei mesi successivi sarebbero stati poi riconosciuti l'ammissione alla leva militare, il godimento dei diritti politici e l'accesso alle cariche civili e militari. "Non va però dimenticato - ha continuato - che occorrerà attendere ancora un secolo da quel 1848, passando attraverso la vergogna delle leggi razziste del 1938, per vedere finalmente sanciti dalla Costituzione della Repubblica l'eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge senza distinzione di religione con l'articolo 3, il diritto di tutti di professare liberamente la propria fede religiosa, sancito dall'articolo 19 e il fondamentale principio dell'eguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose, con l'articolo 8, che segnerà finalmente il superamento dell'articolo 1 dello Statuto albertino, che riaffermava l'esistenza di una 'religione dello Stato', mentre gli altri culti esistenti erano 'tollerati conformemente alle leggi'". Molto apprezzati tutti gli interventi, e applauditissimo il discorso di Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro della chiesa valdese di Torino, che ha sottolineato il valore fortemente laico di una festa aperta a tutta la cittadinanza: "Ci siamo sempre occupati di diritti perché per molto tempo non ne abbiamo avuti. Se le 'Lettere Patenti' ci riconoscevano come cittadini, non ci permettevano tuttavia la libertà di culto. Solo cent'anni dopo, con la Costituzione della Repubblica, è arrivato il pieno riconoscimento. Per questo condividiamo il palco con tutti coloro che hanno patito o tuttora patiscono l'assenza di diritti: ovviamente gli ebrei, destinatari anch'essi di Lettere Patenti nel 1848, ma anche le associazioni LGBT, quelle per la laicità delle istituzioni e quelle per i rifugiati".
   A ricordare i secoli di discriminazioni e tragedie che hanno colpito tanto la minoranza ebraica quanto quella valdese, nella stessa piazza Castello dove ieri sera bruciava il grande falò - acceso in verità con grande fatica dai vigili del fuoco che hanno lungamente lottato con legna evidentemente inadatta - una targa, in memoria del predicatore valdese Gioffredo Varaglia, che nel 1558 vi fu messo al rogo.
   Moltissime le presenze istituzionali, a partire dal sindaco della città, che ha sottolineato più volte nel suo discorso come sia fondamentale il rapporto col prossimo, un valore che si deve sempre intrecciare al governo della città, "una città che è aperta e accogliente per chiunque voglia appartenervi". Il senso di comunità, ha ribadito, è anche quello che ha fatto riunire intorno al falò comunità anche molto diverse tra loro, ma tutte ugualmente impegnate per una città capace di coinvolgere tutti coloro che lavorano per il bene comune, e di fare rete, soprattutto in difesa dei più deboli. Molti i rappresentanti delle istituzioni cittadine, insieme al prefetto, ai rappresentanti delle tante organizzazioni che hanno preso la parola per ribadire il proprio impegno, tra cui l'assessore Giusta - che molto si è speso per la buona riuscita della serata - e il presidente del comitato interfedi Valentino Castellani. Tantissimi bambini, incantati dal fuoco e dal colorato drappello dei pirati pastafariani che non potevano far mancare il proprio appoggio a una simile iniziativa, molta attesa, calore e un poco di ironia per la difficoltà evidente con cui è stato acceso il falò - il pastore Ribet ha garantito: "L'anno prossimo la legna però la portiamo noi".
   E come monito per tutti restano le parole di Dario Disegni: "Riaffermiamo con forza che il diritto all'uguaglianza deve andare di pari passo con il non meno essenziale diritto alla diversità. Siamo qui per ribadire l'impegno civile di lottare perché nella nostra società vengano garantiti effettivamente a tutti i cittadini, e a tutti coloro che aspirano a divenirlo fuggendo da regimi totalitari e sanguinari, piena uguaglianza di diritti, indipendentemente dalla fede religiosa, dalla cultura, dalla condizione sociale, dall'orientamento sessuale".

(moked, 17 febbraio 2017)


Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro della chiesa valdese di Torino: “Per questo condividiamo il palco con tutti coloro che hanno patito o tuttora patiscono l'assenza di diritti: ovviamente gli ebrei, destinatari anch'essi di Lettere Patenti nel 1848, ma anche le associazioni LGBT, quelle per la laicità delle istituzioni e quelle per i rifugiati".
Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino: "Riaffermiamo con forza che il diritto all'uguaglianza deve andare di pari passo con il non meno essenziale diritto alla diversità. Siamo qui per ribadire l'impegno civile di lottare perché nella nostra società vengano garantiti effettivamente a tutti i cittadini, e a tutti coloro che aspirano a divenirlo fuggendo da regimi totalitari e sanguinari, piena uguaglianza di diritti, indipendentemente dalla fede religiosa, dalla cultura, dalla condizione sociale, dall'orientamento sessuale".
Consideriamo vergognoso questo tipo di commemorazione che esalta la “libertà” di orientamenti sessuali deviati rispetto a quello che ordina il Dio della Bibbia a cui entrambi i gruppi si riferiscono. Questa non è celebrazione della libertà che edifica, ma esaltazione del libertinismo che distrugge persone e società. M.C.



Abbandonati a passioni infami

Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: infatti le loro donne hanno cambiato l'uso naturale in quello che è contro natura; similmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri commettendo uomini con uomini atti infami, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento. Siccome non si sono curati di conoscere Dio, Dio li ha abbandonati in balìa della loro mente perversa sì che facessero ciò che è sconveniente; ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia; pieni d'invidia, di omicidio, di contesa, di frode, di malignità; calunniatori, maldicenti, abominevoli a Dio, insolenti, superbi, vanagloriosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza affetti naturali, spietati. Essi, pur conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette.
Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 1

 


Interessante conferenza al "Saluzzo" sulla "Pop Shoah"

di Barbara Rossi

Giovedì 16 febbraio, presso l'Aula Magna dell'I.I.S. "Saluzzo-Plana" di Alessandria, si è svolto un incontro - organizzato dallo stesso Istituto in collaborazione con il laboratorio Officinema e l'Associazione di cultura cinematografica e umanistica La Voce della Luna - con il prof. Claudio Vercelli, storico contemporaneista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed esperto sui temi della Shoah e del negazionismo.
Vercelli, a partire dalla sua recente pubblicazione Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico, in collaborazione con Francesca R. Recchia Luciani (edizioni Il Melangolo, 2016), ha approfondito con il pubblico degli studenti e degli interessati il fenomeno della riduzione della Shoah a "merce di consumo", evento mediatico manipolato e svuotato di senso, privo di un collegamento diretto con la realtà della tragedia storica cui fa riferimento.
Attraverso esempi tratti dal cinema e dai social media e rispondendo ai quesiti posti dagli studenti, Vercelli ha riflettuto sui meccanismi spesso ambigui di una "società dello spettacolo" in grado di modificare la percezione individuale e collettiva della Storia, falsificandola a scopi commerciali e ludici.
In questo senso, il rischio che tutto venga ricondotto ad Auschwitz e, nello stesso tempo, che Auschwitz si riduca a nulla, è molto elevato. Per questo - come sostiene Vercelli nel suo libro - "una riflessione sugli immaginari e sul loro 'buon uso' diventa quindi imprescindibile per cogliere il significato da trasmettere alle nuove generazioni in relazione alla cognizione di una catastrofe che ha segnato la storia umana e dei suoi riflessi sulla formazione di una coscienza civile".

(di Alessandria, 17 febbraio 2017)


La linea Maginot d'Israele

Parlano i consiglieri di Netanyahu: "Non ci ritireremo ancora per far entrare i terroristi e i palestinesi dimentichino Gerusalemme". Le opzioni oltre i "due stati".

di Giulio Meotti

 
                            La metropoli israeliana di Tel Aviv vista dall'insediamento di Peduel in Cisgiordania, dove dovrebbe sorgere lo stato palestinese.
                            Ogni ipotesi di ritiro da quelle terre oggi è impensabile.

ROMA - "Uno stato, due stati, è lo stesso". Con queste parole, alla sua maniera, Donald Trump sembra aver rimesso in discussione vent'anni di diplomazia in medio oriente nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese. "Fino a oggi tutto il mondo ha parlato di 'due stati', gli ultimi tre presidenti americani e sei segretari di Stato", dice al Foglio il generale Giora Eiland, l'ex comandante della brigata Givati, fu a capo del National Security Council del governo Sharon, il quale organizzò il ritiro dei coloni da Gaza nel 2005 e che oggi è uno dei più importanti strateghi dello stato ebraico in quanto: "Oggi nessuno, né gli israeliani né i palestinesi, potrebbero accettare quella soluzione così come fu delineata da Bill Clinton a Camp David. Israele ad esempio non può accettare che da Gaza alla Cisgiordania non ci sia la nostra presenza. Trump ha detto che accetta 'altro'. Bene. Ma cosa? Fra la soluzione dei due stati e un solo stato binazionale ci sono numerose alternative. L'apertura americana consente di immaginarle. La soluzione dei 'due stati' non aveva contemplato il fatto che la terra da spartire fra la Giordania e il Mediterraneo era troppo piccola e che la soluzione va cercata in tre deserti circostanti: Sinai, Giordania e Arabia Saudita. Ovvero in un accordo regionale. Fossi Israele coglierei l'opportunità e non mi accontenterei dello status quo". Ma quali sono queste alternative ai "due stati" e cosa ha in mente il premier Benjamin Netanyahu? Ne abbiamo parlato con i suoi consiglieri.
  Mercoledì sembra cambiata la posizione americana sugli insediamenti israeliani. Se sotto l'Amministrazione Obama il confine del 1967 sembrava invalicabile e ogni casa oltre la linea verde era un caso politico, in qualche modo oggi gli Stati Uniti tornano alla formula di George W. Bush contenuta in una lettera nel 2004 ad Ariel Sharon: il riconoscimento, de facto, dei "blocchi" di insediamenti. Netanyahu ha in mente uno "status minus", uno stato palestinese ridotto e "demilitarizzato" che riconosce quello ebraico. Israele conserva la sicurezza a ovest del Giordano, l'accesso ai confini, lo spazio aereo e mantiene una presenza in Cisgiordania. La costruzione della barriera difensiva è un altro punto di non ritorno. Il premier israeliano ha fatto suo, infatti, il piano disegnato da Ariel Sharon nel 1999, in cui Israele conserva due "fasce" verticali collegate da arterie che dovrebbero consentire la difesa del territorio israeliano di fronte a un attacco convenzionale da est.
  La fascia che costeggia il Giordano sarebbe profonda 15-20 chilometri, mentre quella disegnata a ridosso dell'hinterland di Tel Aviv sarebbe di circa sette chilometri. "Mentalità da linea Maginot", ha commentato il giornale della sinistra Haaretz. Lasciando Gaza, nel 2005, Israele abbandonò il "sentiero di Filadelfia", usato da Hamas per far entrare armi dall'Egitto nella Striscia. Un errore che Israele non ripeterebbe mai, per cui deve sigillare e controllare i confini. Netanyahu continuerà nel progetto di difendere Gerusalemme allargandone il confine meridionale, impedendo un autentico accerchiamento di Gerusalemme da parte dei palestinesi, che in caso contrario godrebbero di una continuità geografica fino al quartiere di Talpiot, in centro città. La sinistra israeliana, da Ehud Barak a Yitzhak Herzog, preferisce la formula dei "security arrengements" piuttosto che dei "defensible borders". E' il piano messo appunto un anno fa dal generale Amos Yadlin: Israele abbandona l'85 per cento dei Territori, trasferisce le aree A e B della Cisgiordania ai palestinesi, finisce la barriera di sicurezza e ricolloca i coloni fuori dal tracciato in Galilea, nel Negev o nei blocchi di insediamenti. Utopistica.
  Come utopistica è la soluzione di "un solo stato" con l'annessione totale dei Territori e la cittadinanza completa ai palestinesi. Sarebbe il cosiddetto "stato binazionale". Già nel periodo tra le due guerre, un piccolo ma importante gruppo di pensatori ebrei (da Martin Buber a Hannah Arendt) si batteva per uno stato binazionale. La logica del sionismo e la guerra sopraffecero i loro sforzi, ma l'idea è ancora viva tra ebrei e arabi frustrati dagli evidenti limiti del presente. L'essenza di questa visione, abbracciata oggi dal presidente israeliano Ruby Rivlin, da intellettuali ebrei americani come il compianto Tony Judt e da intellettuali palestinesi come Edward Said e Sari Nusseibeh, è la coesistenza in modi che richiedono di andare oltre lo stallo della rivendicazione e del rifiuto. Ma la stragrande maggioranza degli israeliani è contraria. Sa che i precedenti non sono stati felici e fortunati: Yugoslavia, Siria, Libano. Inoltre, il mainstream israeliano ha accettato di avere tre alternative: essere territorialmente grande, non ebraico e democratico; grande, ebraico e non democratico; piccolo, ebraico e democratico. Solo l'ultima appare come una via praticabile.
  C'è l'ipotesi lanciata da Moshe Dayan di una "annessione mascherata" attraverso una "federazione" con la Giordania e la nascita di una minoranza alleata, come in Irlanda, come in Canada. L'Intifada a cicli ha messo in crisi il progetto. C'è il piano "ad interim": visto che è un accordo definitivo è impossibile, israeliani e palestinesi dovrebbero accordarsi sulla situazione come è oggi sul terreno. Ma i palestinesi temono che "provvisorio" significherebbe "definitivo". C'è il "ritiro unilaterale parziale": in mancanza di accordo, Israele ridisegna i confini uscendo da alcune aree della Cisgiordania. E' quello che cercarono di fare Ariel Sharon ed Ehud Olmert dieci anni fa. Poi Hamas salì al potere a Gaza, piovvero i missili e non se ne è più parlato. C'è lo "status quo": non fare niente di radicale e innovativo, facilitare la vita dal basso, "gestire" il conflitto e le ondate di terrorismo. C'è il piano del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman: gli "scambi territoriali" come fecero francesi e tedeschi con l'Alsazia e la Lorena. L'idea è che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra.
  Israele dovrebbe cedere Umm el Fahm e il "triangolo" in Galilea nel futuro stato palestinese. C'è un problema: gli arabi israeliani vogliono vivere sotto sovranità israeliana, non arabo-islamica. C'è la "soluzione tre stati": Israele, Cisgiordania e Gaza, dividendo queste ultime. I palestinesi sono contrari, l'Egitto pure, perché teme di dover gestire la Striscia oggi nelle mani di Hamas. C'è il "piano di stabilità" del ministro dell'Educazione Naftali Bennett, leader della destra al governo: i palestinesi che vivono in alcune porzioni della Cisgiordania (Area A e Area B) dovrebbero "autogovernarsi", mentre Israele annetterebbe la zona dove vivono i coloni, garantendo ai residenti palestinesi piena cittadinanza israeliana. Mordechai Kedar, professore di arabo alla Bar Ilan University in Israele e per vent'anni nell'intelligence militare, ha teorizzato il piano degli "emirati": "Il medio oriente oggi è diviso fra due modelli", dice Kedar al Foglio. "Quello fallito nazionale di Siria, Iraq, Libia e Yemen, e quello di successo di Qatar, Dubai e Abu Dhabi. L'emirato e le tribù hanno successo perché sono stati omogenei. Lo stesso vale per i palestinesi: da Gerico a Hebron, ogni città ha la sua tribù. A Ramallah ci sono i Barghouti come i Masri a Nablus. Gaza da dieci anni funziona come stato, ha la sua legge, il suo esercito. Israele sa che uno stato palestinese in Cisgiordania finirebbe come la Siria. Ogni giorno l'Autorità Palestinese combatte contro il proprio popolo a Nablus e altrove, perché per i palestinesi è una creazione israeliana artificiale. E se diventasse stato, finirebbe come la Libia. Gli americani pensano da americani, ma qui c'è bisogno di una soluzione mediorientale. E questa non può basarsi sul nazionalismo arabo, che ha fallito ovunque".
  Cosa farà Netanyahu? "Bibi non vuole annettere altri territori, è problematico per la comunità internazionale e per Israele", dice al Foglio Efraim Inbar, docente alla Bar Ilan University e consigliere molto ascoltato dal primo ministro (Netanyahu tenne nella sua università il famoso discorso del 2009 sui due stati). "Bibi vuole partire dai fatti sul terreno, come i blocchi degli insediamenti. E' a favore di uno stato palestinese demilitarizzato, dai confini allo spazio aereo, soprattutto la Valle del Giordano, che deve restare sotto controllo israeliano, e i palestinesi devono dimenticarsi Gerusalemme. I palestinesi avevano la possibilità di avere uno stato, ma hanno fallito nel nation building, Hamas e l'Olp si fanno la guerra e hanno creato un regime corrotto e inefficiente. Nel frattempo lo status quo sta funzionando. I giordani entreranno forse nella partita con una federazione con i palestinesi. Dopo che Abu Mazen sarà fuori, l'Autorità Palestinese potrebbe sciogliersi. E in quel caso dovremmo avere a che fare con tante entità palestinesi. Dopo il ritiro unilaterale abbiamo capito che non è una buona idea. Ci siamo ritirati dal Libano ed è arrivato Hezbollah. Ci siamo ritirati da Gaza ed è arrivato Hamas. Questo è il medio oriente". Dove non esistono soluzioni "facili". E forse nessuna "soluzione".
  Perché, almeno finora, il conflitto non è stato sulla grandezza, ma sull'esistenza stessa di Israele. "Non c'è stato soltanto il ritiro da Gaza, ricordiamo cosa è successo con Oslo", dice al Foglio il generale Yaakov Amidror, per quattro anni a capo del National Security Council di Bibi Netanyahu: "In un mese, ci furono 122 israeliani uccisi. Un mese. Da terroristi provenienti dalla Cisgiordania. Poi siamo tornati nei Territori e il terrorismo è calato". Dopo la strage all'hotel Park Hotel di Netanya, Israele rientrò nelle città palestinesi. "La sicurezza da allora è cruciale per Israele", conclude il generale Amidror. "I palestinesi devono accettare che Israele possa intervenire per fermare il terrorismo in caso di necessità. Durante Oslo, i palestinesi avevano il controllo totale delle loro aree, molto più di oggi, e noi israeliani ci fidammo troppo di loro. Anche oggi, pur con una forte cooperazione fra Israele e le forze di sicurezza palestinesi, l'80 per cento dei terroristi non sono fermati dai palestinesi, ma dagli israeliani. Deve restare così". Negoziando all'ombra della linea Maginot.

(Il Foglio, 17 febbraio 2017)


Stranamente, in tutte queste congetture non si parla mai di Gerusalemme. Si preferisce fingere che una volta risolti altri problemi, la questione della capitale troverebbe una soluzione. Per il momento, nella legislazione israeliana si dice che Gerusalemme è “la capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele”. Il dilemma dunque è semplice: o i palestinesi accettano questa dizione o gli israeliani la modificano. Da qui bisognerebbe cominciare. Finché il dilemma resta aperto, dire che si sta lavorando per arrivare alla soluzione di “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza” è pura ipocrisia. Diplomaticamente necessaria forse, ma sempre ipocrisia. M.C.


Quella soluzione bella e impossibile

La soluzione a due stati non è stata cancellata mercoledì da Netanyahu e nemmeno da Trump: è stata cancellata negli ultimi venticinque anni dal rifiuto palestinese.

A conclusione di un articolo appassionante anche se un po' disordinato che abbiamo proposto su israele.net, Ira Sharkansky, professore di scienze politiche all'Università di Gerusalemme, scrive: "Ogni commento è ben accetto, ma si resista alla tentazione di offrire la ricetta per la soluzione: tanti vi hanno provato e ne sono usciti furiosi e frustrati". Condividiamo. Se c'è una cosa irritante per chiunque si occupi con onestà d'intenti e con qualche competenza dell'annosa questione israelo-arabo-palestinese è l'arrogante sicumera di chi è convinto d'avere la soluzione in tasca. Non fanno eccezione i tantissimi che da anni, anzi da decenni, vanno ripetendo come un mantra che l'unica soluzione di pace è la soluzione a due stati. E chiunque esprima qualche perplessità è per definizione "contro la pace". In questi anni abbiamo proposto su israele.net decine di articoli scritti da autori israeliani di varia estrazione e ispirazione che spiegano in modo pacato e argomentato, e con spirito pragmatico, i rischi, le controindicazioni, gli ostacoli che rendono assai problematica la soluzione a due stati....

(israele.net, 17 febbraio 2017)


17 febbraio, i protestanti festeggiano «la libertà»

Si ricorda l'estensione dei diritti civili ai valdesi

di Donatella Coalova

 
Carlo Alberto di Savoia
I protestanti oggi sono in festa per la ricorrenza del 17 febbraio in cui celebrano il ricordo delle "Patenti di grazia", concesse dal re Carlo Alberto il 17 febbraio 1848. Con questo decreto i valdesi vennero «ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici, a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università ed a conseguire i gradi accademici». Una petizione firmata, fra gli altri, da Roberto d'Azeglio, da Camilla Cavour e da 75 ecclesiastici cattolici, aveva chiesto la parità dei diritti civili per i valdesi. Il provvedimento del re, anche se non innovava nulla riguardo all'esercizio del culto, apriva di fatto la via alla libertà religiosa. Il 29 marzo 1848 fu emanato un analogo decreto per l'emancipazione degli ebrei.
   Nel ricordo di questi fatti, ogni anno i protestanti organizzano la "Settimana della libertà" che ha due momenti culminanti: la sera del 16 febbraio vengono accesi i tradizionali falò, nel ricordo delle fiamme usate nel 1848 dai valdesi come segnale per propagare la notizia delle "Lettere patenti", mentre la mattina del 17 si celebra un culto solenne. Accanto a questo, nelle valli piemontesi a forte presenza valdese c'è un ricco calendario di manifestazioni, con concerti, rappresentazioni teatrali, proiezione di film, momenti di fraternità conviviale, cortei accompagnati dalle bande musicali, fiaccolate, canti delle corali. In tutta Italia si tengono incontri, momenti di studio e riflessione, mentre si sta diffondendo l'usanza dei falò. Ieri sera per la prima volta ne è stato acceso uno anche a Torino, in piazza Castello: all'evento sono intervenuti il pastore Paolo Ribet, la presidente del concistoro Patrizia Mathieu, il presidente della comunità ebraica torinese Dario Disegni, la sindaca Chiara Appendino, il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino. Il vescovo di Pinerolo, Pier Giorgio Debernardi, era presente ieri sera all'accensione del falò di Pinerolo e stamani sarà al culto nel tempio di Torre Pellice.
   Numerose le conferenze in programma. La Commissione studi della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, come sussidio per questa settimana, ha preparato il libro "La coscienza protestante", a cura di Elena Bein Ricco e Debora Spini, con la presentazione di Massimo Aquilante. Il testo si focalizza sul cinquecentesimo anniversario della Riforma e appunto a questo argomento è dedicata buona parte degli incontri di questi giorni. Oggi a Firenze il pastore Giuseppe Platone interviene su "Valdesi e Riforma nel passaggio di Chanforan 1532"; a Pisa Adriano Prosperi parla su "Lutero 201 7: bilanci e riflessioni degli storici"; a Taranto il pastore Claudio Pasquet riflette su "I valdesi e la Riforma"; a Pinerolo conferenza del pastore Laurent Schlumberger, presidente della Chiesa protestante unita di Francia, su "Prospettive del protestantesimo nell'Europa di oggi". Domenica 19 a Bergamo intervento del pastore Feliz Kamba Nzolo su "Fuori dal "ghetto" europeo. L'eredità di Lutero, Zwingli e Calvino in Africa a 500 anni dalla Riforma protestante".
   Significativamente alcuni di questi incontri hanno un taglio ecumenico. Oggi a Udine l'associazione culturale evangelica "Guido Gandolfo" e il Segretariato attività ecumeniche (Sae) invitano a una tavola rotonda con il teologo valdese Paolo Ricca, l'archimandrita Athenagoras Fasiolo e il presidente del Sae, Piero Stefani su "La dimensione ecumenica della Riforma". Altre iniziative sono organizzate dal Sae a Milano, a Venezia e a Roma. Il 21 febbraio, a Vasto, nell'ambito del ciclo su "500 anni dalla Riforma protestante. I credenti interpellati dalla Parola", intervento di don Gianni Carozza e Gianna Sciclone, mentre il 23 febbraio, a Venezia, l'Istituto di Studi ecumenici san Bernardino organizza una giornata di studio su "La nozione di riforma e il presente come tempo di riforma".

(Avvenire, 17 febbraio 2017)


"
Significativamente alcuni di questi incontri hanno un taglio ecumenico". E' proprio così: significano che i protestanti storici si avviano ad essere interamente riassorbiti nel cristianesimo istituzionale cattolico-romano opportunamente allargato. In questa occasione allora vogliamo ricordare che nei "Regi Stati Sardi", anche dopo il 1848 operavano degli evangelici (non valdesi) che non erano stati affatto emancipati dai decreti di Carlo Alberto. Riportiamo uno stralcio di un nostro articolo del 14 marzo 2011:
    Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, promulgò il suo famoso Statuto che nel 1861 sarà assunto anche dal futuro Regno d'Italia. Il primo articolo suona così:
    Art. 1. La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi.
    I "culti allora esistenti" erano soltanto due: gli ebrei e i valdesi, che ancora oggi festeggiano quella data come un momento storico della loro "emancipazione". Gli evangelici liberi invece a quel tempo non si sentivano affatto emancipati, perché non rientrando tra gli "ora esistenti", potevano non essere tollerati, conformemente alle leggi.
    «I governanti liberali di Torino, compreso il Cavour, erano stati quanto mai renitenti ad abbandonare un'interpretazione restrittiva dell'art. 1 dello Statuto. Come è ben noto, questo articolo, mentre proclamava «religione dello Stato» quella cattolico-romana, sanciva che «gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi». Poteva dunque interpretarsi nel senso che non vi fosse tolleranza se non per i culti degli ebrei e dei valdesi, già esistenti nello Stato sabaudo, ed anche nel loro caso «conformemente alle leggi», comprese dunque le norme penali della legislazione sarda, che punivano la propaganda anti-cattolica. Molti evangelici, pertanto, erano stati vittime di processi e condanne per la loro attività proselitistica, oltre che di violenze brutali di folle fanatizzate dal clero.» (Giorgio Spini, “L'evangelo e il berretto frigio”, Torino, Claudiana, 1971, p. 9). «Oh, mia patria, sì bella e perduta!»

La richiesta di Netanyahu a Trump: sovranità israeliana sul Golan

Il premier ha suggerito a Washington di riconoscere l'annessione. Lo scopo è creare una zona cuscinetto anti-jihadisti ed Hezbollah.

Giugno 1967
Le Alture del Golan sono state occupate nel corso della guerra arabo-israeliana del 1967 e annesse da Israele nel 1980
Agosto 2014
Quarantacinque soldati di pace delle Fiji posizionati sulle Alture del Golan sono stati sequestrati da Al-Nusra.

di Giordano Stabile

Golan
C'è una parola che non è stata pronunciata nella conferenza stampa alla Casa Bianca di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Ma ha tenuto banco nell'incontro fra i due leader. Golan. Il campo di battaglia nelle guerre arabo-israeliane dove per decenni si sono confrontati Israele e Siria. Occupato nel 1967, annesso nel 1980, rimasto «congelato» fino al deflagrare della guerra civile siriana. Netanyahu ha chiesto a Trump di riconoscere l'annessione israeliana. Una richiesta impegnativa, un passo difficile, molto di più dell'eventuale spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme o del riconoscimento degli insediamenti. Ma, per Israele, più importante, e che mira agli equilibri futuri in Medio Oriente.
   Le Alture del Golan sono uno spartiacque strategico. L'esercito che ci sta in cima può scendere da un lato fino a Damasco, senza ostacoli. O dilagare verso il Lago Tiberiade e il cuore di Israele, dall'altro. Dal 1974 una missione Onu di osservatori faceva da cuscinetto fra israeliani e siriani. Fino all'agosto del 2014, quando 45 Caschi Blu delle Fiji vengono sequestrati dai combattenti di Al-Nusra, l'Al-Qaeda siriana. La missione Onu di fatto finisce lì e l'esercito israeliano si trova su una frontiera contesa fra ribelli moderati, jihadisti, alleati dell'Isis, unità regolari siriane e Hezbollah libanesi. Il Golan si ritrova al centro del dispositivo di sicurezza di Israele.
   Per questo Netanyahu ha insistito con Trump. Ha spiegato, secondo fonti israeliane, che l'annessione delle Alture è irrinunciabile, mentre in Cisgiordania non avrebbe senso «annettersi due milioni di palestinesi». Ma il premier ha anche «suggerito» al presidente un secondo passo. Applicare l'idea di John McCain sulle «no-fly-zone» al Sud della Siria al cosiddetto «triangolo druso» alle frontiere con Israele e la Giordania. La politica dell'Amministrazione Usa sulla Siria è in via di ridefinizione. McCain è un anti-russo e Trump vorrebbe tentare una collaborazione con Putin contro l'Isis sul territorio siriano. Ma le cose evolvono rapidamente e ci potrebbe essere spazio per una soluzione molto gradita a Israele. Un «zona-cuscinetto» che tenga fuori sia i gruppi ribelli islamisti sia Hezbollah.
   Israele ci sta lavorando dal 2014. Dopo la cacciata dell'Onu i ribelli stavano dilagando. Solo l'intervento di Hezbollah li ha contenuti. I miliziani libanesi hanno ripreso la città strategica di Quneitra e impiantato lì il loro quartier generale. Il fronte è fluido, i villaggi passano di mano in mano, anche perché i ribelli sono molto divisi.
   L'esercito israeliano osserva, a parte qualche raid contro postazioni dell'Isis e sui convogli diretti a Hezbollah. Punta sulla carta dell'aiuto umanitario per far breccia nella popolazione. I feriti, sia civili sia combattenti ribelli, vengono fatti passare al confine e curati negli ospedali israeliani. Almeno tremila in tre anni. Per ragioni umanitarie non si fanno distinzioni, e anche quelli di Al-Nusra vengono soccorsi. Ma i militari sottolineano le tante vite salvate. Compresa una bambina di 5 anni, che aveva bisogno di un urgente trapianto di midollo, curata in un centro specializzato di Haifa.
   Nei villaggi in mano ai ribelli manca tutto. Non c'è elettricità. I generatori, senza gasolio, sono fermi. L'inverno è rigido, le notti si va sempre sotto zero. L'esercito israeliano ha creato un'unità specializzata nell'assistenza ai civili. I militari notano che non ci sono più alberi, i contadini li hanno tagliati per scaldarsi con la legna. Fanno arrivare cibo, medicinali, vestiti pesanti e «18 tonnellate» di coperte. Una politica che comincia a far breccia soprattutto fra i drusi. Nei villaggi del Golan occupato, i ritratti di Assad cominciano a scomparire dai ristoranti. A Buqata compare la bandiera israeliana su una scuola ricostruita. I rapporti con i drusi, la comunità araba che meglio si è integrata in Israele, servono anche a estendere l'influenza più in là. Se davvero nasceranno le «zone cuscinetto» in Siria, sul modello di quella che la Turchia si è presa nel Nord, Israele giocherà la carta drusa per tenere lontani dal Golan i suoi due avversari arabi storicamente più temibili, la Siria ed Hezbollah.

(La Stampa, 17 febbraio 2017)


Perché l'intesa Trump-Netanyahu su Israele e Palestina non è sovversiva

di Marco Orioles

Nel commentare l'incontro di ieri alla Casa Bianca tra Trump e il premier israeliano Netanyahu, la stampa mondiale parla di una presunta "svolta" americana. Gli Stati Uniti, si sostiene, hanno voltato le spalle alla posizione storica del Paese circa il processo di pace tra israeliani e palestinesi: Trump avrebbe affossato la soluzione dei "due Stati per due popoli", così caldamente perseguita dai suoi predecessori e giudicata l'unica via da parte della comunità internazionale.
   Questa lettura si basa tuttavia su una visione distorta della posizione dell'amministrazione Trump e, soprattutto, prescinde del tutto da quanto hanno affermato lo stesso tycoon e Netanyahu in conferenza stampa. I due leader non hanno solo ribadito la stretta alleanza tra i rispettivi Paesi. Hanno anche delineato il percorso verso una possibile risoluzione del conflitto più spinoso e duraturo al mondo.
   La parola chiave è "deal", che Trump ha scandito più volte accanto al soddisfatto Bibi. La soluzione perorata da Trump punta su un coinvolgimento dei principali Paesi della regione che, come ha sottolineato Netanyahu, sempre più vedono in Israele un alleato piuttosto che un nemico. È per questo che Netanyahu ha affermato che vede molto prossima la luce in fondo al tunnel.
   Quanto alla formula concreta con cui dovrebbe realizzarsi la pace, Trump ha detto chiaramente che spetta alle parti interessate deciderla, sia essa nel solco degli accordi di Oslo - due Stati, per l'appunto - ovvero un singolo Stato in versione confederale con pieni diritti e magari la cittadinanza israeliana per i palestinesi.
   I prerequisiti perché si giunga ad un accordo sono tre e sono stati ribaditi in modo stentoreo da Netanyahu: riconoscimento dello Stato di Israele, fine della campagna di odio antiebraico fomentata sin nelle scuole dai palestinesi, e mantenimento del controllo militare sulla Cisgiordania da parte israeliana. Senza queste condizioni, infatti, il sorgere di uno Stato palestinese equivarrebbe all'avvento di un nuovo Iran dedito al perseguimento della distruzione di Israele.
   Il consenso Trump-Netanyahu è dunque tutt'altro che rivoluzionario e sovversivo. Il loro è un approccio ragionevole che poggia su una lettura corretta dell'attuale stallo del processo di pace. Fino a che i palestinesi non accetteranno la convivenza pacifica con gli ebrei di Israele, nessuna pace può essere all'orizzonte. La stampa farebbe bene ad accorgersi che alla Casa Bianca c'è un leader pragmatico e realista. Che non vuole inimicarsi il resto del mondo con politiche prevaricatrici, anzi.
   L'approccio di Trump ai problemi globali, incluso quelli del Medio Oriente, si basa proprio sul concetto chiave rinserrato nella mente di Trump: deal. Un accordo che, come ha detto Trump, comporterà dei "compromessi" da parte di tutti gli attori, Israele incluso. Che sia la volta buona?

(formiche.net, 17 febbraio 2017)


Hezbollah minaccia Israele dopo l'incontro Trump-Netanhyahu

Dopo l'incontro fra Trump e Netanyahu e le dichiarazioni secondo cui un solo stato israelo-palestinese è meglio di due sono stati gli Hezbollah a minacciare.
Il segretario generale dell'organizzazione integralista libanese, Hassan Nasrallah, ha affermato che le dichiarazioni di Trump e Netanyahu segnano la fine del processo di pace israelo-palestinese. Le politiche del presidente Trump sono confuse, ha aggiunto, ricordando che la forza del gruppo militante libanese è stata il principale deterrente contro l'aggressione di Israele a Beirut e minacciando esplicitamente, per la prima volta, di colpire gli impianti nucleari di Dimona in caso di guerra. Nasrallah ha fatto le sue affermazioni nel corso di una cerimonia per i 38 anni della rivoluzione iraniana.
Dimona è un centrale nucleare e Nasrallah ha detto che Israele dovrebbe smantellarlo. Ci sono sospetti che in quel luogo vengano effettuate produzioni nucleari militari di Israele che non ha mai ratificato il Trattato di non proliferazione e che non è dunque soggetto ai controlli dell'Aiea.
Trump ha affermato che il 'dogma', questo il termine che ha usato, dei due stati dev'essere superato nel perseguimento della pace in Medioriente.

(euronews, 16 febbraio 2017)


Gli USA potrebbero creare una NATO mediorientale con Israele in chiave anti-Iran

Gli Stati Uniti potrebbero creare in Medio Oriente un'alleanza militare sul modello della NATO in chiave anti-Iran, che potrebbe indirettamente minacciare la Russia.
Questo parere è stato espresso a RIA Novosti dall'analista militare e professore associato del dipartimento di Scienze Politiche e di Sociologia dell'Università di Economia "Plekhanov", il tenente colonnello Alexander Perendzhiev.
Il Wall Street Journal, riferendosi a diverse fonti nei governi della regione mediorientale, ha scritto che l'amministrazione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta negoziando con gli alleati arabi la formazione di un'alleanza militare diretta contro l'Iran sostenuta con informazioni d'intelligence da Israele. Secondo il giornale, nella coalizione possono entrare l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l'Egitto, la Giordania ed altri Paesi arabi.
Nell'articolo si osserva che l'alleanza avrà una peculiarità della NATO, che implica la difesa reciproca: un attacco contro uno dei membri del blocco militare sarà percepito come un attacco contro la coalizione nel suo complesso.
"Gli Stati Uniti possono creare in Medio Oriente un analogo dell'Alleanza Atlantica in chiave anti-Iran, che indirettamente minaccia la Russia: Teheran è il nostro alleato nella lotta contro il terrorismo internazionale", — ha dichiarato Perendzhiev.
Ritiene che le azioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump verso l'Iran fossero prevedibili.
Secondo l'analista, le prospettive di creare "una NATO mediorientale" non possono essere ritenute rosee.
"Possiamo aspettarci la creazione di una coalizione che ha obiettivi aggressivi contro l'Iran. Il discorso può riguardare non solo singole operazioni segrete, ma operazioni militari su vasta scala. Gli americani sono evidentemente disposti ad agire con mani di altri", — ha detto Perendzhiev.
Ha osservato che l'Iran è un alleato della Russia nella lotta contro il terrorismo internazionale e fa parte dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO).
"Di conseguenza, la Russia e la Cina dovrebbero sostenere questo Stato e non permettere di fare dell'Iran un territorio incontrollato, come è avvenuto dopo l'aggressione militare degli americani e dei loro alleati in Iraq e Libia," — suppone l'esperto militare.
(Sputnik, 16 febbraio 2017)


Gli occhi d'Israele a Gaza

GERUSALEMME - Le Forze di difesa israeliane ritengono che Hamas non abbia alcun interesse a impegnarsi in un altro conflitto militare con Israele, ma Tel Aviv conduce comunque un'intensa sorveglianza sulla Striscia di Gaza, 24 ore al giorno sette giorni su sette. Le Forze di difesa si avvalgono di sistemi come palloni aerostatici in grado di scattare fotografia ad elevatissima risoluzione, ma un ruolo fondamentale è attribuito all'unità di osservazione elettronica dell'Esercito israeliano, un reparto composto di sole donne che costituisce "gli occhi di Israele nella Striscia di Gaza". Per le donne soldato che passano tutto il giorno, ogni giorno, a osservare la Striscia di Gaza, è chiaro che la scena è cambiata dall'operazione militare Protective Edge. Hamas ha costruito avamposti militari lungo il confine e svolge anche pattugliamenti regolari, sia per consolidare il suo controllo sulla Striscia, sia per osservare ciò che sta accadendo sul lato israeliano. Le 130 operatrici dell'unità di osservazione elettronica devono essere in grado di monitorare e localizzare eventuali infiltrazioni terroristiche e mantenere al contempo una linea di comunicazione diretta e costante con le unità militari sul campo.

(Agenzia Nova, 16 febbraio 2017)


"Polizia, ammirazione profonda"

 
"Proviamo gratitudine per gli eroi del passato, le cui vicende ci danno fiducia e speranza. Ma sentiamo anche una profonda e sincera ammirazione nei confronti di chi, oggi, nella piena consapevolezza del proprio ruolo, tutela la sicurezza di ogni cittadino di fronte alle nuove minacce che insidiano il mondo libero e democratico".
Così la Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni intervenendo nel corso di una cerimonia alla Scuola superiore di Polizia organizzata in ricordo di Giovanni Palatucci, commissario reggente della questura di Fiume che fu ucciso a Dachau e che lo Yad Vashem ha voluto riconoscere "Giusto tra le Nazioni" per l'assistenza offerta agli ebrei perseguitati.
Ad accogliere la Presidente Di Segni il capo della Polizia Franco Gabrielli, che a proposito di Palatucci ha affermato: "Siamo orgogliosi di riaffermare i valori di cui quest'uomo è stato esempio e portatore".
Ad intervenire tra gli altri anche il ministro plenipotenziario dell'ambasciata israeliana Rafael Erdreich. Sul palco inoltre l'attore Sebastiano Somma, che ha interpretato Palatucci in una fiction di qualche anno fa.
    Di seguito l'intervento della Presidente Di Segni
    Signor Capo della polizia Gabrielli, illustri autorità,
    A nome di tutte le Comunità Ebraiche d'Italia vi ringrazio per l'invito a partecipare a questa cerimonia dedicata, e delicata, in ricordo di Giovanni Palatucci, che fu questore di Fiume e sotto la cui ala protettiva diverse famiglie ebraiche braccate poterono salvarsi dalle persecuzioni nazifasciste. Il suo esempio ci dimostra che è sempre possibile compiere una scelta, a volte spontanea, a volte anche riflettuta, ma che si sceglie tra bene e male, tra il bene di stessi e degli altri, tra il bene di singoli e il bene collettivo. Che l'indifferenza non deve mai divenire una opzione.
    Commemorando Palatucci in questa sede così significativa, idealmente ricordiamo e onoriamo tutte quelle figure che, vestendo la divisa, si adoperarono in tal senso.
    Poliziotti, carabinieri, finanzieri. La loro posizione e condizionamento di rigorosa sistematicità professionale rendeva ancora più arduo fare qualcosa senza attirare pericolose attenzioni su di sé, ma non per questo esitarono. Non per questo si tirarono indietro.
    Giusto e doveroso che il loro coraggio sia riconosciuto e costituisca un esempio per l'intera collettività, soprattutto per quelle nuove generazioni che sono chiamate a costruire il futuro del paese mettendo al centro del loro impegno il principio di legalità e il rispetto delle leggi, prima di tutte quelle non scritte ma comunemente sottoscritte della dignità e della sacralità di ogni vita umana.
    Valori che si rinnovano continuamente, davanti alle sfide, anche le piccole, che ogni giorno ci pone. Sfide che a volte trascuriamo di notare, nel prossimo che vive a fianco a noi, ma che vanno raccolte.
    Valori che oggi riaffermiamo in questo luogo, con emozione e commozione, interrompendo per una manciata di ore la vostra preziosa operosità della vostra missione, la frenesia della giornata lavorativa per fermarsi e dedicarsi ad una riflessione che ci riavvicina al senso più autentico del vostro lavoro, del vostro impegno quotidiano. Vostro che è fatto nostro.
    Proviamo gratitudine per gli eroi del passato, le cui vicende ci danno fiducia e speranza. Ma sentiamo anche una profonda e sincera ammirazione nei confronti di chi, oggi, nella piena consapevolezza del proprio ruolo, tutela la sicurezza di ogni cittadino di fronte alle nuove minacce che insidiano il mondo libero e democratico.
    È un'ammirazione a voi tutti che sento di esprimervi a nome dell'intero ebraismo italiano.
    Noemi Di Segni, Presidente UCEI
(moked, 16 febbraio 2017)


Palestina, svolta di Trump. «Due Stati? Non è detto»

New York - Vertice con Netanyahu, linea Obama bocciata. Netanyahu in visita alla Casa Bianca: «Donald l'amico più fedele di Israele». Per il presidente Usa si può arrivare comunque alla pace.

di Flavio Pompetti

Apertura sullo spostamento dell'ambasciata a Gerusalemme, «vorrei farlo, lo stiamo valutando» In prima fila il genero Kushner salutato dal premier israeliano: «Ti conosco da quando eri bambino»

 L'intesa
 
  «La soluzione dei due Stati è ancora possibile ma non è scontata». Sorride a pieno volto Netanyahu al termine della conferenza stampa che ha appena tenuto a fianco del presidente americano. Gli Usa hanno lasciato intendere che sono pronti a discutere di tutto con lo storico alleato, anche l'eventuale abbandono della teoria che vede Palestina e Israele vicini e sovrani nei rispettivi territori. Già prima che i due si vedano da soli nello Studio Ovale dettano pubblicamente la linea delle nuove relazioni tra Usa e Israele. Con Trump che supera il "dogma" dei due Stati nel perseguimento della pace in Medioriente. Il presidente americano si sgancia così da quello che era stato un "imperativo" per Washington e la sua politica nella regione fin dall'amministrazione Clinton. «Guardo ai due Stati, guardo a uno Stato. Mi piace quello che piace a entrambe le parti. Posso vivere con entrambe le soluzioni», afferma, sottolineando la necessità che siano direttamente le due parti, israeliani e palestinesi, a trovare una soluzione. «Credo che troveremo un'intesa, forse migliore di quanto si pensi». Una posizione che, già prima dell'incontro tra i due presidenti, era stata condannata dall'Autorità nazionale palestinese, che aveva avvertito: «Gli Usa restino fedeli alla soluzione dei due Stati»
Il confronto con l'ultima visita quasi due anni fa, è stridente. Netanyahu arrivò allora a Washington alla vigilia della firma dell'accordo sul nucleare iraniano. Obama lo trattò con freddezza, innervosito dall'invito che i repubblicani avevano fatto al primo ministro israeliano di pronunciare un discorso al Congresso sulla materia. Netanyahu ricambiò la scortesia, con un'arringa anti-iraniana che suonò come un'ingerenza indebita.

 L'appoggio mancante
  Tre giorni prima del suo arrivo nella capitale americana il premier israeliano ha perso un importantissimo punto d'appoggio con le dimissioni dell'ex generale Mike Flynn dalla poltrona di consulente presidenziale per la Sicurezza Nazionale. Flynn negli ultimi anni ha sviluppato un'avversione ossessiva per il regime di Tehran, e sarebbe stato il miglior alleato di Israele nella trattativa di vertice per la modifica del trattato, che Trump ha promesso di avviare. Al suo posto c'è invece la presenza rassicurante in prima fila nella platea di Jared Kushner. «Posso dirlo in pubblico che ci conosciamo
da quando eri un bambino?» gli ha sorriso l'ospite, che vanta un lungo e solido rapporto di amicizia con i genitori di Jarred.

 L'impegno elettorale
  Sarà il giovane genero di Trump a condurre le trattative per la riapertura di un accordo di pace tra Israele e la Palestina. «Ci vorranno concessioni da entrambe le parti» ammonisce Trump. «Diciamo che almeno questo è un punto di inizio» risponde Netanyahu che tiene diritta la barra sul riconoscimento da parte di Abbas dello stato di Israele, e del controllo della sicurezza per il suo stato della zona ad ovest del fiume Giordano.
Trump ha promesso in piena campagna elettorale che avrebbe ristabilito il primato dell'amicizia tra i due paesi e l'arrivo di Bibi e di sua moglie Sara è il coronamento dei desideri di tanti ebrei conservatori d'America. «Israele non sarà più bersaglio da oggi in poi di azioni unilaterali e di boicottaggio» ha promesso Trump all'amico, e Bibi l'ha ringraziato, sollevato da una promessa che sicuramente caratterizzerà gli interventi della missione americana all'Onu nei prossimi anni. I due leader hanno un asso nella manica, che il primo ministro israeliano ha anticipato durante l'incontro con la stampa, prendendo in contropiede lo stesso Trump. Le dinamiche della guerra all'Isis e dell'intervento in Siria hanno disegnato una nuova mappa dei rapporti internazionali, nella quale c'è un maggior consenso anti-iraniano nel mondo arabo.

 Lo scacchiere
  Nell'ambizione dei due leader c'è l'idea che un accordo su Israele e la Palestina potrebbe precludere ad un trattato più vasto, che possa riportare la pace e la sicurezza nell'intera regione. La premessa però è quella di un asse rafforzato tra gli Usa e lo stato ebraico, che non apre molte speranze per la disponibilità palestinese a dividere gli stessi traguardi.C'è appena tempo per un paio di domande da parte dei giornalisti, che Trump sceglie in modo selettivo tra le testate più filo governative. Scappa ugualmente una domanda sul "russiagate" e sui contatti sospetti tra la campagna elettorale repubblicana e i servizi di intelligence di Mosca. Trump è bravissimo ad aggirarla: torna a ricordare la vittoria di novembre, a condannare i «disseminatori di falsità» e a denunciare le «fughe criminali di notizie» che stanno affliggendo la sua squadra di governo ancora più del consueto, in una Washington quanto mai avvelenata.

(Il Messaggero, 16 febbraio 2017)


Il trumpismo applicato a Israele

Trump, confuso, a Netanyahu: fate voi con i palestinesi, io sarò "contento"

Incontrando Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, Donald Trump non ha insistito sulla soluzione a due stati della questione israelo-palestinese, che è stata incoraggiata dagli Stati Uniti per decenni, ed è alla base degli accordi di Oslo e di Camp David. Trump ha chiesto al premier israeliano di rallentare "un pochino" la costruzione degli insediamenti, ma non ha imposto una sua visione, ha detto: sarò "molto contento" dell'assetto che voi israeliani riuscirete a trovare con i palestinesi, "posso sopravvivere a una soluzione a uno stato", ma sostanzialmente: fate voi. Per la prima volta nella storia recente, l'Amministrazione americana non vuole guidare il negoziato israelo-palestinese, né forgiarlo, non impone soluzioni a tavolino, né quelle antiche che sono già fallite, né nuove (Trump resta affezionato all'idea di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, ma non insiste, non promette). Secondo il neo presidente americano, tocca ai diretti interessati determinare l'approccio migliore per trovare la pace, "ogni parte dovrà scendere a compromessi", e Washington lavorerà per agevolare il dialogo. Netanyahu ha ribadito che la questione degli insediamenti per lui non è rilevante ai fini della pace, e ha incassato il mandato a scegliere il prossimo passo con i palestinesi: il premier israeliano non credeva più nella soluzione a due stati, ma sa bene che quella a uno stato è ancor meno praticabile. Da dove si riparte, ancora non si sa.

(Il Foglio, 16 febbraio 2017)


Confederazione o un piano saudita. Ecco le strade per puntare alla pace

Il presidente Rivlin per confini aperti fra "entità" diverse, ma i moderati frenano

di Ariel David

Le ipotesi da cui partire
Confederazione
Caldeggiata dal presidente israeliano Reuven Rivlin questa soluzione prevede lsraele come Stato e «un'entità» autonoma palestinese. Lo Stato ebraico mantenerrebbe comunque il controllo su esercito e confini.
Annessione parziale
Il leader del partito di destra «Casa ebraica» Naftali Bennet propone l'annessione del 60% dei Territori e la creazione di autonomie palestinesi nel restante 40%. In alternativa l'annessione totale dando la cittadinanza ai palestinesi.
Mondo arabo
Da più parti in Israele si pensa a coinvolgere il mondo arabo nella trattava con i palestinesi. Ma il mondo arabo vuole prima di tutto il ritiro dai terrori occupati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese a tutti gli effetti.

TEL AVIV - Nella conferenza stampa a margine del suo primo incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente americano Donald Trump ha confermato che la sua amministrazione non considera la soluzione dei due Stati l'unica percorribile per porre fine al conflitto israelo-palestinese.
La dichiarazione rompe con le precedenti amministrazioni Usa e con il resto della comunità internazionale, che fin dagli accordi di Oslo del 1993 ritiene essenziale per il raggiungimento della pace la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele.
Con il protrarsi dello stallo nei negoziati di pace, alcune voci moderate hanno cominciato a valutare nuovi modelli, ma finora le alternative alla visione dei due Stati sono arrivate principalmente dalle frange estreme della politica israeliana e palestinese.
Quali sono le alternative che ora potrebbero trovare ascolto alla Casa Bianca? E quali i maggiori ostacoli alla loro realizzazione?

 Le ipotesi sul tavolo
  Una delle prime ipotesi è quella di una Confederazione o Stato binazionale. Questo modello è caldeggiato da diversi esponenti del partito di destra Likud, tra cui il presidente israeliano Reuven Rivlin. Un «falco» in politica estera, ma attento a garantire i diritti civili dei palestinesi, Rivlin è contrario alla creazione di uno Stato palestinese. In passato, ha lanciato la proposta di una confederazione composta da Israele e da «un'entità» autonoma palestinese, in cui lo Stato ebraico manterrebbe il controllo sull'esercito e i confini.
Questa settimana, durante un incontro con un'organizzazione pro-insediamenti, Rivlin si è invece dichiarato favorevole all'annessione di tutta la Cisgiordania, a patto che agli abitanti palestinesi sia concessa la cittadinanza israeliana. La soluzione dello Stato unico è appoggiata non solo da ambienti di destra, ma anche da esponenti dell'estrema sinistra e degli arabi israeliani.
Ovviamente è una soluzione che presenta criticità. È improbabile ad esempio che la dirigenza palestinese accetti una soluzione a sovranità limitata, e tantomeno un'annessione. L'ipotesi di uno Stato binazionale spaventa anche gli stessi israeliani moderati. Annettere la Cisgiordania e concedere la cittadinanza a quasi tre milioni di palestinesi altererebbe gli equilibri demografici del Paese e rischierebbe di segnare la fine d'Israele come Stato ebraico, aprendo possibili scenari di guerra civile.
C'è poi la via di una annessione parziale, ed è quella sostenuta dal ministro dell'Istruzione Naftali Bennett, leader del partito di estrema destra la Casa Ebraica: egli propone di annettere il 60 per cento della Cisgiordania e creare delle autonomie palestinesi nei territori rimanenti. In base al suo piano, Israele annetterebbe l'Area C della Cisgiordania che comprende i principali insediamenti, e offrirebbe la cittadinanza ai circa 150.000 palestinesi che risiedono nell'area.
La proposta di Bennett potrebbe trovare sostenitori nell'amministrazione Usa, come David Friedman, il candidato di Trump alla carica di ambasciatore in Israele. Friedman, vicino alla destra israeliana, si è detto in passato favorevole all'annessione di parte della Cisgiordania. Ma per i palestinesi e i moderati israeliani, l'idea di Bennett rimane inaccettabile, perché lascerebbe ai palestinesi solo dei minuscoli «bantustan» a sovranità limitata e privi di continuità territoriale.

 Il piano saudita
  Trump e Netanyahu nella loro conferenza stampa di ieri hanno auspicato un ruolo maggiore nel processo di pace per il mondo arabo e una soluzione regionale al conflitto. Proposte in questo senso vanno da quella di Yaakov Peri, deputato dell'opposizione ed ex capo del servizio di Sicurezza Interna, che vorrebbe aprire in Arabia saudita un tavolo di negoziato permanente con i palestinesi e gli altri Paesi arabi, all'idea di una confederazione tripartita tra Israele, Palestina e Giordania.
Iniziative come la proposta di pace saudita del 2002 dimostrano la crescente disponibilità del mondo arabo a normalizzare le relazioni con Israele, ma queste aperture considerano ancora imprescindibile il ritiro israeliano dai territori conquistati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese.

(La Stampa, 16 febbraio 2017)


Netanyahu da Trump: Israele e l'America seppelliscono Obama

Intesa perfetta tra Netanyahu e Trump. E il presidente americano Trump cancella il totem dei "due Stati"

di Fiamma Nirenstein

L'East Room alla Casa Bianca è solo per le grandi occasioni, giammai Benjamin Netanyahu ci ha messo piede al tempo di Obama: ieri invece qui si è svolta la conferenza stampa congiunta di Donald Trump col leader israeliano.
Le strette di mano, gli abbracci delle mogli, gli accenni entusiastici a un futuro di successo per la pace forse non rappresenteranno la soluzione dell'annosa questione israelo-palestinese, ma segnano una grande svolta. Forse più importante dei programmi, che il Medio Oriente costruisce spesso sulla sabbia, è il fatto che finalmente, dopo Obama, gli Usa e Israele tornano ad essere i grandi amici di sempre.
I due leader hanno sottolineato l'identità nei valori e negli intenti con vero calore, le mogli si sono sorrise contente, e questa è la tessera più importante nel mosaico mediorientale striato dal sangue del terrorismo. Le due maggiori forze antiterroriste sono di nuovo insieme, proprio qui dove si è sviluppata la più disastrosa fra le politiche di Obama, che ha portato a centinaia di migliaia di morti, ha fomentato lo scontro sciita-sunnita, ha dato fuoco alle polveri delle ambizioni imperialiste iraniane e degli Hezbollah mentre l'Isis arrotava i coltelli, ha spinto alla fuga milioni di profughi e ha lasciato crescere il terrorismo mentre la Russia approfittava del caos.
Trump ha descritto Israele come l'eroe della sopravvivenza del popolo ebraico alle persecuzioni antisemite, della sua presenza millenaria nell'area, come combattente di prima fila contro il terrorismo. L'islam politico è stato chiamato per nome e cognome dai due leader, decisi a combatterlo. I due leader hanno toccato in maniera simile e assertiva tutti i temi più importanti. Processo di pace: Trump vuole avere successo dove nessun altro è riuscito, il suo piano è non inside out ma out inside. Cioè, vuole placare il conflitto israelo-palestinese partendo dal mondo arabo, e non viceversa, come Obama e l'Europa. Prevede sorprendenti sviluppi provenienti da un nuovo clima coi sunniti moderati, e anche Netanyahu spiega che ormai il mondo arabo moderato è pronto. Gli insediamenti, i confini vengono lasciati all'incontro decisivo fra le parti, anche se Trump si aspetta compromessi da parte di Israele. Nello stesso tempo accusa duramente la politica di odio nelle scuole e nella propaganda palestinesi.
Netanyahu ripete le sue condizioni: i palestinesi accettino l'esistenza dello Stato ebraico e non si oppongano al controllo di sicurezza israeliano nella valle del Giordano, che di fatto è la barriera indispensabile contro il terrorismo. Gerusalemme: Trump valuta con grande attenzione la possibilità di trasferire l'ambasciata.
L'Iran è l'altro elemento centrale: «Il peggiore di tutti gli accordi possibili», così Trump definisce di nuovo gli accordi di Obama, e annuncia possibili nuovi sanzioni. Anche Netanyahu denuncia il ruolo dell'Iran nel terrorismo internazionale e di pericoloso mestatore in Medio Oriente.
La svolta di Trump nasce dall'idea che la pace è sempre stata inseguita e mai raggiunta perché puntava su un'inesistente decisione palestinese di dividere con gli ebrei la terra da cui hanno invece sempre sognato di espellere lo Stato di Israele: a lui quindi non importa se si arriverà a due Stati, uno Stato... e l'ha detto. Gli interessa il business della pace, e il successo di quello che considera un amico caro e leale, Israele. Una visione semplice che può, se cavalcata a dovere, consentirgli una posizione rivoluzionaria di successo.
La fase Obama ha sempre segnalato disapprovazione, nervosismo, insofferenza, disgusto per Israele. Insomma una profonda dissonanza: ma il popolo americano è sempre stato filoisraeliano per il 62 per cento, e solo per il 15 per cento filopalestinese secondo l'indagine Gallup. Non si è mai sognato di considerare gli insediamenti un problema mortale. Trump in sostanza è libero di immaginare con Netanyahu scenari che tengano conto del trauma terrorista di cui i palestinesi sono parte, e che rappresentino, invece che fantasmi di soluzioni impossibili, pure scuse per l'antisemitismo, vere ipotesi concrete. E ce ne sono.

(il Giornale, 16 febbraio 2017)


All'Ikea catalogo kosher per ebrei ultraortodossi: senza donne e bambine

Distribuito alla comunità ebraica ultraortodossa di Israele un catalogo speciale. Scoppia la polemica.

di Giovanni Neve

 
Copertina del catalogo Ikea destinato agli ebrei ultraortodossi
Catalogo "kosher". È stato battezzato così lo speciale catalogo Ikea destinato alla comunità ebraica ultraortodossa di Israele e realizzato interamente senza fotografie di donne o bambine.
Una pubblicazione che ha sollevato le critiche dei clienti laici e dei gruppi femministi. La catena di arredamento svedese ha in Israele tre punti vendita e mira a raccogliere le attenzioni della comunità ultraortodossa che nel Paese rappresenta l'8-10% della popolazione.
Alcuni mesi fa, in un paesino popolato da ebrei ultraortodossi, alcuni sconosciuti tolsero dalle cassette delle lettere di vari edifici i cataloghi Ikea e di altre imprese locali, buttandoli in un bidone, proprio perché convinti che offendessero la sensibilità della comunità. Situazione che si verifica spesso in queste comunità anche con riviste generaliste. Da qui l'idea di Ikea di stampare un catalogo "kosher". Anche nei prodotti la pubblicazione cerca di rispecchiare le esigenze della comunità, offrendo ad esempio tavoli grandi per famiglie numerose, scaffali solidi, letti o sedie pieghevoli e letti a castello. E così fanno le descrizioni delle immagini, con riferimenti ai costumi religiosi. Un esempio tra tutti il "tavolo per lo shabat".
La distribuzione del catalogo, con prezzi identici a quello classico, ha generato le proteste delle femministe e della parte laica della società. E l'ironia è scattata anche sul web. "Dove è andata la madre?", scrive un utente israeliano sui social network. E un altro: "Stupendo! Non sapevo che nella comunità ultraortodossa ci fossero così tante famiglie monogenitoriali!". Dal canto suo Ikea si è limitata a spiegare che il catalogo "kosher" è stato realizzato per "permettere anche al pubblico religioso e ortodosso di godere dei prodotti e delle soluzioni in accordo con i propri costumi e il proprio stile di vita". Il catalogo non è diffuso via internet, ma è distribuito unicamente negli ambienti ultraortodossi, anche se è disponibile per tutti coloro che lo richiedano via posta.

(il Giornale, 15 febbraio 2017)


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Catalogo Ikea per ebrei ultraortodossi

Niente donne e bambine nelle pubblicità dei mobili

di Massimiliano Lenzi

Quello contemporaneo è un mondo bizzarro, dove in nome del politicamente corretto tutti i «buonisti» si riempiono la bocca ogni santo giorno con l'elogio delle minoranze che hanno diritto al rispetto delle loro sensibilità, salvo poi indignarsi se un'azienda, in questo caso la svedese Ikea, si inventa, in Israele, un catalogo «kosher» per non turbare appunto la sensibilità della comunità ultraortodossa che rappresenta tra l'8 e il 10% del Paese. Il fatto: Ikea in Israele ha realizzato una speciale pubblicazione, destinata alla comunità ebraica ultraortodossa, che non contiene fotografie di donne o bambine. Anche nei prodotti il catalogo cerca di rispecchiare le esigenze della comunità, offrendo tavoli grandi per famiglie numerose, letti o sedie pieghevoli e letti a castello. E lo stesso fanno le immagini, con riferimenti ai costumi religiosi, come il «tavolo per lo shabat». Apriti cielo: il catalogo ha scatenato le critiche dei clienti laici e dei gruppi femministi. Buonisti sì, ma a senso unico.

(Il Tempo, 16 febbraio 2017)


Startup israeliana sviluppa dispositivo non invasivo per le manovre di intubazione

La startup israeliana Guide In Medical ha ricevuto circa 2 milioni di shekel dalla ditta farmaceutica locale CTS Group e da investitori privati, per sviluppare ulteriormente il dispositivo ideato per facilitare le procedure di intubazione.
Il dispositivo è stato sviluppato per aiutare i professionisti medici nella complessa procedura di intubazione, in cui un tubo è inserito nella trachea per facilitare la ventilazione del paziente.
L'intubazione è una procedura medica cruciale e sono circa 50 milioni le procedure effettuato ogni anno in tutto il mondo.
Il processo di inserimento di un tubo nella trachea di un paziente richiede un alto grado di abilità e precisione per l'inserimento rapido. Se fatto impropriamente, il risultato potrebbe essere fatale.
Guide In Medical ha sviluppato un dispositivo non invasivo, che è posto sul collo del paziente e trasmette la luce nei tessuti, illuminando l'interno della gola. Questo rende più facile per l'equipe medica l'individuazione della trachea, utilizzando un videolaringoscopio - un dispositivo con una videocamera - che può facilmente guidare il medico nell'inserimento del tubo durante la procedura di intubazione. Il dispositivo è monouso, e il suo costo stimato è di 35 dollari per unità.
Il dispositivo è attualmente in fase di analisi per l'approvazione da parte dell'Unione Europea, che dovrebbe essere completata entro marzo 2017. La società si aspetta che entro la fine dell'anno possa ricevere anche l'approvazione da parte della Food and Drug Administration.
La tecnologia è stata sviluppata nell'ambito del programma di imprenditorialità di bio-design dell'Università Ebraica di Gerusalemme con la collaborazione dell'Hadassah Medical Center.

(SiliconWadi, 16 febbraio 2017)



Parashà della settimana: Itrò (Ietro)

Esodo 18:1-20:23

 - Nella parashà di "Itrò" personaggio noto come sacerdote di Midian e suocero di Moshè, sono riportati i Dieci Comandamenti, dati al popolo ebraico sul Monte Sinài con il dono della Torah. E' scritto nel Talmud (Shabat 88a) "D.o ha posto una condizione alla Creazione del mondo. Egli ha detto: "Se Israele accetta la Torah, il mondo continuerà ad esistere".
Dopo aver attraversato il mar Rosso, il popolo ebraico, guidato da Moshè rabbenu, si dirige verso il deserto di Marà. Il popolo di nuovo "mormora" dicendo: "Che cosa berremo?" Moshè, su indicazione di D.o, getta un pezzo di legno nelle acque amare, che diventano dolci. Il legno che rende le acque dolci è un riferimento simbolico alla Torah derivata dall'albero della vita presente nel giardino dell'Eden. Mediante l'osservanza della Legge le acque amare simbolo di un'esistenza passeggera possono essere trasformate in acque dolci di una vita eterna quando "la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra" (Isaia 11.9).
I Dieci comandamenti, riguardano la libertà dalla schiavitù d'Egitto, il divieto di idolatria e di bestemmia, il riposo di un giorno dal lavoro, il rispetto dei genitori, il divieto di uccidere, di praticare l'adulterio, la falsa testimonianza e il desiderio dell'altrui proprietà. Non viene menzionata una identità ebraica specifica come ad esempio la circoncisione, le regole alimentari, le feste ecc.. per cui bisogna ritenere che queste "Dieci Parole" sono patrimonio dell'intera Umanità e il popolo ebraico ne è il custode.
Quale è allora la diversità tra Israele e le Nazioni della terra di fronte alla Torah? Mentre queste ne rappresentano il corpo, il popolo ebraico ne rappresenta l'anima, che permette ad Israele di scorgere il "male" anche quando questo è nascosto. Un paragone può essere esplicativo. Una palla di neve può trasformarsi in valanga, ma con un grido di allarme si può fermare. Israele nel corso dei secoli ha cercato di fermare queste palle di neve.
Il primo comandamento: "I-o sono il Signore D-o tuo, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù" (Es.20.2) è il Signore della storia che sta parlando per ribadire che la Redenzione viene sì per mano di D-o ma anche con la collaborazione dell'uomo. Israele è il nuovo popolo capace di fare questo miracolo. Sottomettersi alla volontà di D-o (traversata del mare) e nello stesso tempo combattere contro Amalek, simbolo del male. Ecco la ragione per cui Itrò, un non-ebreo, che secondo un midrash conosceva tutte le religioni, comprende che un nuovo mondo era nato in cui l'uomo diventa partecipe di D-o nella Creazione. E' una visione (Weltanschauung) del mondo completamente diversa da quella del faraone schiavo egli stesso delle sue statue di marmo. Una società che non rispetti D-o è anche incapace di rispettare l'uomo e viceversa una società che non rispetti l'uomo non può rispettare D-o. Ecco il segreto dell'anima nascosta nella Torah di Israele, che bisogna studiare, insegnare e praticare al fine di essere gli "ebrei della Redenzione".
La parabola della "palla di neve" dunque è calzante e di forte attualità per identificare nella storia il male al suo esordio, vincerlo e trasformarlo in bene. Israele come popolo "eletto" ne rappresenta la cartina di tornasole, sensibile e pronta a combattere il male. Le Nazioni del mondo (ONU) invece di collaborare, fiancheggiano il male (terrorismo), che uccide in nome di Allah Akbar. Difatti cosa dire dell'ingresso del terrorista Yasser Arafat nel Parlamento italiano armato di pistola? E cosa pensare dell'abbraccio di Papa Bergoglio al palestinese Abu Mazen definito "angelo della pace?" La storia è piena di questi avvenimenti incresciosi e criminosi nello stesso tempo, condotti con cinico disprezzo senza alcun timore di D-o.
Il Decalogo per concludere non è un estratto della legislazione della Torah, né possiede alcuna importanza in particolare in rapporto alle sue altre leggi. Le "Dieci Parole" sono l'inizio della Rivelazione, il cui fine è quello di legare D-o Benedetto al popolo d'Israele, come lo sposo alla sua sposa, per il bene di questo e di tutta l'Umanità. F.C.

*

 - Dopo tre mesi di viaggio, il popolo arriva nelle vicinanze del monte Sinai, sulla cima del quale Dio era apparso a Mosè dall'interno del roveto ardente. Qui avverrà qualcosa di fondamentale nella storia di Israele: l'incontro fra Dio e il suo popolo. Fino a questo momento infatti il popolo aveva sentito parlare di Dio attraverso Mosè, ma non ne aveva avuto alcuna esperienza diretta.
Mosè si trova adesso nello stesso luogo dove aveva incontrato Dio la prima volta, ma ora non è più solo. E' come se dal roveto ardente Dio gli avesse detto: va', torna in Egitto e portami qui tutto il popolo. Missione compiuta: "Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo incontro a Dio; e si fermarono ai piedi del monte" (Es. 19:17).
Il Sinai non è il luogo e il momento in cui Dio fa scendere dal cielo un manuale di istruzioni etiche da leggere e studiare, interpretare e discutere per il resto dei giorni; il Sinai è il luogo e il momento in cui Dio scende di persona ad incontrare il suo popolo, quello che si è formato dopo averlo promesso ad Abramo.
Non è un incontro qualsiasi, come quello che potrebbe avvenire tra amici, ma la proposta di un patto. Non è un dono unilaterale, ma un contratto bilaterale.
Fino ad ora Dio ha agito di sua propria volontà, senza preoccuparsi di che cosa ne pensasse il popolo; adesso invece vuole che il popolo si esprima liberamente sulla proposta che si appresta a fargli.
Alla stipulazione del patto si arriverà dopo una serie di trattative opportunamente cadenzate secondo una severa logica di negoziato. Fin dall'inizio entrambe le parti accettano che sia Mosè a rappresentare il popolo nelle trattative. La situazione è questa: Dio opera dal monte, il popolo parcheggia in pianura, e Mosè fa su e giù per trasmettere le volontà espresse dalle parti.

1o passo - Preliminari (Es. 19:3-8).
Dio chiama Mosè sul monte e gli comunica la sua intenzione di fare di Israele il suo tesoro particolare fra tutti i popoli; e gli dice di comunicare la sua proposta al popolo. Mosè scende, raduna gli anziani ed espone loro "tutte parole che l'Eterno gli aveva ordinato di dire". Proposta accettata: "Tutto il popolo rispose concordemente e disse: Noi faremo tutto quello che l'Eterno ha detto".

2o passo - Dio legittima Mosè (Es. 19:8-20)
Mosè risale e riferisce all'Eterno che il popolo accetta la proposta. Dio allora gli comunica la sua intenzione di presentarsi di persona al popolo, non subito, ma dopo tre giorni. In questo tempo il popolo dovrà purificarsi e tenersi a debita distanza dal monte, "perché il terzo giorno l'Eterno scenderà in presenza di tutto il popolo sul monte Sinai" e "chiunque toccherà il monte sarà messo a morte". Mosè scende e riferisce quello che Dio chiede al popolo: prepararsi adeguatamente al solenne incontro con Lui.
Al momento giusto "Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento per condurlo incontro a DIO; e si fermarono ai piedi del monte". E allora, tra tuoni, fulmini, scosse di terremoto e lacerante suono di corno, in una folta nuvola e in mezzo al fuoco, "l'Eterno scese sul monte Sinai, in vetta al monte".
E' il secondo atterraggio dell'Eterno, dopo quello avvenuto nel roveto ardente. Questa volta però non è soltanto Mosè a farne l'esperienza, ma tutto il popolo. Dio parla dal monte alla presenza di tutti, ma si rivolge soltanto a Mosè, indicando dunque in lui l'intermediario autorizzato a parlare e a trasmettere la sua volontà. E sancisce pubblicamente la sua scelta chiedendo a Mosè di salire di nuovo in vetta al monte: "... e l'Eterno chiamò Mosè sulla vetta del monte, e Mosè vi salì".

3o passo - Dio si rivolge al popolo (Es. 19:21-20:21).
Sulla vetta del Sinai Dio dice a Mosè di scendere di nuovo e di avvertire il popolo, ancora una volta e con grande severità, di non precipitarsi verso il monte, affinché il Signore non si avventi su di loro. "Mosè discese al popolo e glielo disse".
Dopo di che, per la prima volta nella storia, in un terrificante contesto di tuoni, fulmini, scosse di terremoto e sottofondo assordante di suono di corno, il popolo sente con le sue orecchie la voce stessa di Dio che supera tutti gli altri suoni e scandisce in modo categorico, come colpi di fucile, i termini della sua volontà: i famosi dieci comandamenti.
La particolarità esclusiva di queste "dieci parole" rispetto agli altri precetti della legge sta proprio nel fatto che tutto il popolo le udì pronunciare dalla bocca di Dio, e ne furono tutti talmente atterriti che temettero di morire. Anche questo li convinse ad affidarsi interamente a Mosè, implorandolo di continuare a fare da intermediario e di liberarli dal peso insopportabile di ascoltare direttamente la voce di Dio. "Ma ora, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà; se continuiamo a udire ancora la voce dell'Eterno nostro Dio, noi moriremo. Poiché chi tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo? Avvicinati tu e ascolta quanto il Signore nostro Dio dirà; ci riferirai quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto e noi lo ascolteremo e lo faremo" (Deut. 5:25-27). Anche se poi in realtà ascoltarono e non fecero.
Ma era proprio necessario che Dio terrificasse in questo modo il suo amato popolo? Sì, era necessario. Gli ebrei avevano visto la potenza di Dio abbattersi sui loro nemici: "Voi avete visto quello che ho fatto agli egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me" (Es. 19:4). Dunque avevano sperimentato la grazia di Dio in loro favore, ma affinché non pensassero che questo desse loro il diritto di fare sempre e soltanto quello che volevano, avevano bisogno di fare esperienza, come salutare deterrente, della devastante potenza di Dio, che aveva detto di voler fare di loro "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es. 19:6). Dio fa grazia, ma con Lui non si scherza. "Mosè disse al popolo: Non temete, poiché Dio è venuto per mettervi alla prova, affinché il suo timore vi stia dinanzi, e così non pecchiate" (Es. 20:20).
Fin qui sono stati compiuti tre importanti passi di avvicinamento tra Dio e il popolo, ma il patto giuridicamente valido non è stato ancora stilato e sottoscritto. M.C.

  (Notizie su Israele, 16 febbraio 2017)


Netanyahu ricevuto dal segretario Stato Tillerson, "incontro eccellente"

GERUSALEMME - Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha incontrato a Washington il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson. Si è trattato di un "incontro eccellente", come scrive Netanyahu sul profilo personale di Twitter. "L'alleanza Usa-Israele è sempre forte e diventerà ancora più forte", ha aggiunto il premier israeliano. Le questioni regionali e l'Iran sono stati al centro del colloquio fra Netanyahu e Tillerson, durato circa due ore. Il premier israeliano ha inviato il segretario di Stato Usa in Israele per stabilire contatti diretti con il suo entourage a Gerusalemme.

(Agenzia Nova, 15 febbraio 2017)


La Casa Bianca: "I due Stati non sono la soluzione". Ira dei palestinesi

A poche ore dall'incontro tra Trump e Netanyahu arrivano le proteste dell'Olp per le nuove posizioni americane

di Giordano Stabile

BEIRUT - A poche ore dal vertice fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca, è allarme fra i palestinesi per un possibile accantonamento della soluzione «due popoli, due Stati» per arrivare alla pace in Medio Oriente.
Fonti dalla Casa Bianca hanno fatto trapelare a media israeliani la possibilità che questa strada, percorsa dagli accordi di Oslo in poi, possa essere sostituita da altri tipi di accordo. La reazione fra i palestinesi è stata subito di massimo allarme: «Non ha senso - ha detto all'Afp la componente del comitato esecutivo dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina Hanan Ashrawi -. Non è una politica responsabile e non serve alla causa della pace. Non possono dirlo senza un'alternativa».

 Altre soluzioni
  «La pace è l'obiettivo, sia che arrivi sotto forma di una soluzione con due Stati, se è quello che le parti vogliono, o qualcos'altro se è quello che le parti vogliono», aveva detto ieri la fonte della casa Bianca, voluta rimanere anonima. Una posizione che rispecchia quella di gran parte della maggioranza che sostiene il governo Netanyahu.

(La Stampa, 15 febbraio 2017)


Bloomberg classifica i paesi più innovativi. Israele nella top 10

Israele, conosciuta anche come la Startup Nation, è il decimo paese più innovativo al mondo, secondo Bloomberg News, che ha recentemente pubblicato il suo Innovation Index Bloomberg 2017.
L'indice si basa sulla forza della ricerca e sviluppo, produttività, alta tecnologia, istruzione superiore, concentrazione di ricercatori, valore aggiunto nel settore manifatturiero e attività brevettuale di ciascun paese.
Israele è leader mondiale nel numero di ricercatori per abitante, è secondo in ricerca e sviluppo, e il terzo in densità di alta tecnologia. Nel complesso, lo Stato si colloca alla posizione numero 10, salendo di un posto rispetto al 2016.

La nazione più innovativa al mondo, secondo l'Indice innovazione Bloomberg, è la Corea del Sud, seguita da Svezia e Germania. A completare la top-five list sono la Svizzera e la Finlandia; gli Stati Uniti sono alla posizione numero 9; Francia, Irlanda, Cina e Regno Unito sono tutti classificati sotto Israele.
Il rapporto di Bloomberg arriva sulla scia del Global Competitiveness Report del World Economic Forum, che ha classificato Israele come la seconda nazione più innovativa del mondo. Il WEF analizza la competitività dei paesi in base a 12 categorie, tra cui l'innovazione, la prontezza tecnologica, sofisticazione di business e l'istruzione superiore.

 Anno stellare per startup israeliane
  Nonostante un rallentamento in alcuni settori, Israele ha avuto un enorme successo 2016, con startup che hanno sollevato un record di 4,8 miliardi di dollari di investimenti, secondo IVC Research Center. Inoltre, le aziende high-tech e le startup lo scorso anno sono state vendute per un circa 10,02 miliardi di dollari - ad altre società o attraverso offerte pubbliche iniziali (IPO). Con il maggior numero di startup pro capite al mondo, Israele è la patria di:
  • 2.000 nuove imprese fondate negli ultimi dieci anni;
  • 3.000 startup e imprese high-tech imprese di piccole e medie dimensioni
  • 30 società in crescita
  • 50 grandi aziende di tecnologia
  • 300 centri multinazionali di Ricerca e Sviluppo, secondo un rapporto pubblicato di recente dall'Israel's Innovation Authority.
(SiliconWadi, 15 febbraio 2017)


Hamas: la nomina di Yahya Sanwar è un passo verso l'Iran e la guerra

di Maurizia De Groot Vos

La scelta di Hamas di nominare al proprio vertice il terrorista radicale Yahya Sanwar non è stata casuale. Nessuno si aspettava quel nome e addirittura i più ottimisti speravano che Hamas potesse scegliersi un leader che uscisse dalla logica della guerra a tutti i costi con Israele. Si è andati invece sulla strada diametralmente opposta, quella del conflitto armato e del conseguente avvicinamento all'Iran.
Contrariamente a quanto da più parti affermato, Yahya Sanwar è uno dei più ferventi sostenitori di un avvicinamento di Hamas a Teheran e non allo Stato Islamico. E' vero che strategicamente e per convenienza approva la collaborazione di Hamas con Ansar Bait al-Maqdis, il gruppo terrorista legato allo Stato Islamico che opera nel Sinai, ma tale collaborazione è unicamente funzionale all'apertura di un nuovo fronte sul Sinai e ad aprire una via che permetta l'ingresso di armi a Gaza. Per il resto la strategia a lungo termine di Yahya Sanwar è volta a riallacciare l'alleanza strategica con l'Iran dopo lo strappo dovuto alla guerra in Siria....

(Right Reporters, 15 febbraio 2017)


Brunch in Sinagoga con cibo e scrittori

Assaf Gavron per il via, ad aprile il premio Pulizer Chabon.

di Ivana Zuliani

 
Assaf Gavron
«Balabrunch con l'autore» è come aggiungere un posto a tavola a un pranzo della domenica: chiacchiere, discorsi che si intrecciano, persone che si incontrano per la prima volta o si conoscono un po' meglio, davanti a pietanze che già da sole raccontano un mondo. La Comunità ebraica di Firenze in collaborazione con le Comunità di Siena, Pisa e Livorno, organizza dal 19 febbraio a giugno incontri gastronomico-letterari in compagnia di scrittori ebraici contemporanei. L'idea è quella di abbattere pregiudizi attraverso il dialogo tra persone e culture diverse, partendo dalle parole ma anche dal cibo.
   «Conosceremo un autore al di là di una semplice presentazione di un libro. Scopriremo il suo vissuto per creare un rapporto empatico con il pubblico, scambiandoci riflessioni e pensieri in una chiacchierata conviviale», spiega l'assessore alla cultura della Comunità ebraica fiorentina Laura Forti. «Balabrunch con l'autore», che nasce all'interno della Rete Toscana Ebraica, è l'evoluzione del festival estivo «Balagan Cafè» che è «il nostro modo per parlare e aprirci alla città» afferma Forti. Dopo ogni chiacchierata ci sarà un brunch a base di piatti tipici preparati dallo chef Jean Michel Carasso, che per le domeniche letterarie cucinerà un'antologia di ricette che esprimono la cultura del suo popolo, ispirandosi anche agli scrittori ospiti e alle loro storie. Ogni autore dopo la tappa a Firenze, farà anche un minitour nelle altre Comunità toscane: le impressioni saranno raccolte nella pubblicazione, Balagan con vista e lette in una serata del Balagan Cafè 2017-
   A inaugurare la rassegna sarà questa domenica Assaf Gavron, scrittore israeliano che affronta argomenti attuali e molto dibattuti come la questione dei coloni e dei kamikaze palestinesi (alle 11,15 a Firenze, alle 17,15 a Livorno. Il giorno prima sarà a Pistoia e il 20 febbraio a Siena). Seguirà il brunch: nel menu chakchouka, hummus di ceci, salmone marinato, babà ganush, crostata di ciliegie e semi di papavero, pane hallà. Il cartellone prosegue il 26 marzo con la linguista israeliana Elana Shohamy, il 9 aprile con il premio Pulitzer 2001 Michael Chabon e la moglie Ayelet Waldman con i quali si parlerà di fumetti. Il 14 maggio sarà la volta di Shifra Horn (nel pomeriggio sarà a Livorno e il 15 maggio a Siena). L'11 giugno (al mattino a Firenze, nel pomeriggio a Livorno e il giorno dopo a Pisa) ci sarà la scrittrice Lizzie Doron, di cui ad aprile uscirà la traduzione italiana del libro Ma chi c. è Kafka sul difficile rapporto tra arabi ed ebrei in Israele.

(Corriere Fiorentino, 15 febbraio 2017)


Perché c'è da preoccuparsi se uno youtuber ha un vizietto antisemita

Lo svedese "Pewdiepie" ha oltre 53 milioni di iscritti

di EugenioCau

ROMA - La più grande star di YouTube in tutto il mondo nonché uno degli uomini più influenti di internet è stato accusato in questi giorni di aver diffuso battute antisemite nei suoi video online e riferimenti al nazismo nei suoi sketch comici. Chi ha più di trent'anni probabilmente non ha mai sentito parlare di lui; chi ne ha meno lo conosce come PewDiePie, ed è praticamente impossibile che non abbia mai visto uno dei suoi video. Felix Kjellberg, questo il suo nome, ha oltre 53 milioni di iscritti al suo canale, i suoi video online hanno spesso più spettatori della finale di Sanremo e intorno a lui c'è un giro d'affari da decine di milioni di dollari. PewDiePie è influente in una maniera che è difficile da quantificare per chi non conosce YouTube: i prodotti che lui consiglia diventano dei successi planetari, e la sua vita sentimentale è seguita come quella di una star di Hollywood, anche se lui non finisce mai sui rotocalchi. Quando, negli ultimi mesi, alcuni suoi video hanno iniziato a popolarsi di riferimenti - sempre scherzosi, a volte velati - al nazismo e all'odio verso gli ebrei, molti utenti hanno iniziato ad allarmarsi. E' montata una polemica sempre più grande, spinta anche da alcuni articoli pubblicati in questi giorni dal Wall Street Journal. Lunedì, alla fine, la Disney, che a partire dal 2013 aveva stipulato con lui un contratto di produzione attraverso una controllata, ha deciso di rescindere tutti i rapporti. Ieri la stessa Youtube ha annunciato di aver cancellato un reality show a pagamento realizzato su misura per PewDiePie e di averlo eliminato dal suo circuito pubblicitario più importante, anche se ha mantenuto aperto il canale video.
   Un po' di storia: Felix Kjellberg è un ragazzo svedese di 27 anni, nato a Kjellberg e trasferitosi in seguito in Inghilterra, che nel 2010 ha iniziato a pubblicare video in cui filmava se stesso mentre giocava a videogiochi horror e paurosi. Le sue reazioni divertenti e il talento comico gli hanno guadagnato prima migliaia, poi milioni di visualizzazioni e iscritti, tanto che il canale fai-da-te del ragazzino di Kjellberg si è trasformato negli ultimi anni in una corazzata online, con un introito di oltre 15 milioni di dollari all'anno.
   A gennaio (ma c'erano state già alcune avvisaglie nei mesi precedenti) PewDie Pie ha iniziato a pubblicare video con evidenti riferimenti antisemiti. In un video dedicato a Fiverr - un sito in cui per piccole somme di denaro si può chiedere alla gente di fare qualsiasi cosa davanti alla telecamera - PewDiePie ha chiesto a due ragazzi indiani di mostrare in video un cartello con scritto: "Morte a tutti gli ebrei". In un altro video, ha chiesto a un attore travestito da Gesù che lavora per lo stesso sito di dire: "Hitler non ha fatto assolutamente niente di male". In una serie di video a gennaio, PewDiePie ha prima filmato se stesso mentre indossa un'uniforme nazista e ascolta un discorso di Hitler, poi ha inscenato un rituale nazista. Altri riferimenti sono sparsi nei suoi filmati recenti.
   Dopo lo scoppio della polemica, PewDiePie si è scusato più volte, ha detto che si trattava di scherzi e di paradossi, e sul suo blog ha scritto che stava cercando di mostrare "quanto è assurdo questo mondo" (il riferimento è agli utenti di Fiverr, che per cinque dollari farebbero o direbbero qualsiasi cosa). Ma l'ironia, nei video "nazisti" di PewDiePie, è spesso impercettibile, la frequenza di riferimenti antisemiti è sospetta, e i milioni (decine di milioni) di spettatori dello svedese sono spesso minorenni. La combinazione è sufficiente per essere pericolosissima. Lo sdoganamento e la penetrazione per osmosi di certi concetti è per molti versi più terribile della propaganda esplicita. Tanto che la parola finale sulle "buone intenzioni" di PewDiePie l'ha messa il famoso sito neonazista The Daily Stormer, che negli ultimi giorni si è ribattezzato "Il sito numero uno di fan di PewDiePie" e lo ha ringraziato per "rendere le nostre idee appetibili alle masse". Enormi multinazionali con enormi responsabilità, da Disney a YouTube, hanno legato il loro nome a un ragazzo-bambino che per anni è stato una macchina fabbricasoldi e che ora sembra andato fuori controllo.

(Il Foglio, 15 febbraio 2017)


Online l'archivio storico dell'Unione Comunità Ebraiche Italiane

Uno squarcio sulla storia dell'ebraismo italiano attraverso le carte dell'UCEI

di Francesca Pala

Ketubà, 1900. Archivio storico della Comunità Israelitica di Senigallia
Tutelare, rappresentare e promuovere sono le tre parole chiave che da sempre animano l'attività dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei). Le stesse parole rappresentano il fil rouge della decisione dell'Ucei di rendere disponibili on line gli strumenti di ricerca relativi al proprio patrimonio archivistico.
   L'Ucei, impegnata nel promuovere l'unità degli ebrei italiani in modo da garantire la continuità e lo sviluppo del patrimonio ebraico in ambito religioso, spirituale, culturale e sociale, ha scelto di impiegare xDams per descrivere i propri materiali ed ha affidato a Regesta.exe la realizzazione del sito di consultazione online.
   L'Ucei è un ente senza scopo di lucro, con sede a Roma, che rappresenta le 21 Comunità ebraiche presenti in Italia. Queste ultime, istituzioni tradizionali dell'ebraismo sul territorio nazionale, sono delle formazioni sociali originarie, organizzate sulla base della legge e della tradizione ebraica con l'obiettivo di soddisfare le esigenze spirituali, culturali, sociali e associative del popolo ebraico (dal sito Ucei, Statuto dell'ebraismo italiano). La necessità di coordinamento tra le diverse comunità condusse nel 1911 alla costituzione del Comitato delle università israelitiche che, dopo esser stato riconosciuto ente morale, tramite Decreto Reale del 1920, assunse la denominazione di Consorzio delle comunità israelitiche italiane. Successivamente divenne Unione delle Comunità Israelitiche Italiane ed infine mutò la sua denominazione in Unione delle Comunità Ebraiche Italiane nel 1987, quando venne firmata, come previsto dall'articolo 8 della Costituzione Italiana, l'intesa tra l'allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi e Tullia Zevi, rappresentante delle Comunità Ebraiche Italiane.
   L'importante attività svolta nel corso degli anni dall'Ucei è documentata dal prezioso archivio dell'ente, che conserva documentazione a partire dal 1909 e in cui confluiscono man mano le carte anteriori all'ultimo trentennio. L'archivio risulta di notevole importanza per chiunque voglia ricostruire una parte della storia dell'ebraismo italiano, soprattutto durante gli anni Venti e Trenta. Tale constatazione non è sfuggita alla Sovrintendenza ai Beni Archivistici dei Lazio che nel 1990 ne ha dichiarato il notevole interesse storico.
   Dal 13 febbraio gli strumenti di ricerca di tale patrimonio sono fruibili on line. Il sito dell'archivio storico Ucei permette la consultazione della Guida e degli inventari ai fondi conservati presso l'Istituto. La Guida ai fondi archivistici presenti presso il Centro Bibliografico consente, grazie alla visualizzazione delle schede descrittive di ciascun fondo, di avere una visione generale e sommaria del posseduto e, laddove presente, il rapido collegamento al relativo inventario.
   Dalla home page è possibile accedere alle due sezioni: inventari on line e inventari in formato pdf.
 
Firma dell'Intesa. La Presidente Ucei Tullia Zevi con Craxi, Scalfaro, Amato. 27.02.1987
   Selezionando uno qualsiasi dei fondi on line è possibile navigarne la struttura e muoversi agevolmente da un livello all'altro.
   Dal sito è possibile navigare anche gli strumenti di ricerca relativi ad altri fondi conservati presso il Centro Bibliografico. In particolare gli inventari ai fondi Samuel David Luzzatto e Augusto Segre (entrambi personaggi di spicco dell'ebraismo italiano le cui carte hanno ricevuto la dichiarazione di notevole interesse storico, rispettivamente nel 1966 e nel 1999) l'inventario dell'Archivio Storico della Comunità lsraelitica di Senigallia e la serie Corrispondenza del Fondo Comitato ricerche deportati ebrei.
   Il sito permette due tipologie di ricerca:
  • la ricerca multiarchivio che permette di interrogare simultaneamente la Guida e tutti gli inventari presenti (fatta eccezione per gli inventari pdf);
  • la ricerca sul singolo inventario o sulla Guida
Sui record risultanti è possibile effettuare ulteriori e ancora più mirate ricerche attraverso il form "raffina la ricerca" oppure consultare direttamente la scheda descrittiva del record d'interesse.
   Infine, dalla galleria fotografica presente in home page, è possibile avere un assaggio del prezioso patrimonio che l'Ucei conserva.
   Tra i materiali d'archivio spiccano alcune Ketubot, contratti di matrimonio ebraico, scritti in aramaico, i cui i primi esemplari sono databili tra il 70 e il 500 d.C, ricchi di decorazioni poiché destinati ad essere appesi nelle case degli sposi dopo la lettura in pubblico. Insomma, non solo documenti storici ma vere e proprie opere d'arte.

(regesta.com, 14 febbraio 2017)


Arkia Airlines, nuovo volo Milano Bergamo-Tel Aviv

Presentato oggi all'aeroporto di Milano Bergamo il nuovo collegamento con Tel Aviv operato dalla compagnia israeliana Arkia Airlines. Il volo, disponibile dal 28 di maggio con aeromobile Embraer 195 da 120 posti, avrà frequenza bisettimanale con partenza il giovedì e rientro la domenica.
Nei mesi di luglio e agosto la compagnia aggiungerà la terza frequenza il martedì. «Siamo certi che questa nuova rotta servirà a incrementare il numero di turisti israeliani in visita nelle città del nord Italia, così come il numero degli italiani che avranno un'opportunità in più per visitare Israele e i luoghi della Terra Santa», ha affermato Orly Peleg Mizrachi, business development manager & spokesperson di Arkia Airlines.
Soddisfazione anche per Sacbo, la società che gestisce l'aeroporto di Orio al Serio, che aggiunge così un ulteriore tassello nel ventaglio di destinazioni raggiungibili da Bergamo.
«Tel Aviv è una meta molto richiesta da passeggeri di Lombardia e dalle regioni del nord Italia, in generale - ha sottolineato Giacomo Cattaneo, direttore aviation SACBO -, non soltanto per il turismo leisure ma anche business, essendo il maggiore centro di attività imprenditoriali e commerciali. E il volo operato da Arkia Airlines rappresenta un'alternativa alle offerte tradizionali».
I passeggeri potranno portare un bagaglio di 20 chilogrammi a persona. A bordo, saranno serviti snack e bevande calde e fredde, «ma si potranno acquistare anche i pasti. Inoltre, per ciò che concerne la sicurezza aeroportuale verranno osservate le rigide normative israeliane», ha tenuto a precisare Mizrachi.

 City break a poche ore di volo
  Un collegamento diretto con due voli a settimana, «una frequenza perfetta per organizzare un city break tra Gerusalemme e Tel Aviv. A tre ore di volo circa, Israele offre il perfetto mix tra cultura, storia e divertimento», ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo, intervenendo alla conferenza.
«Senza dimenticare gli eventi che Israele organizza: il 9 giugno sarà la volta del Gay Pride, balli, musica e divertimento affolleranno le strade di Tel Aviv, mentre il 29 giugno la Notte Bianca della città che non dorme mai accenderà le luci del lungo mare fino a condurci nelle boutique di Jaffa, per uno shopping al chiaro di luna».
Settanta chilometri circa separano Tel Aviv dalla città Santa di Gerusalemme, che oltre a custodire luoghi ricchi di storia e suggestioni, propone un calendario di manifestazioni a respiro internazionale come il festival del cinema di Gerusalemme, in programma dal 28 giugno al 6 luglio.

 Israele, sale la fiducia
  Intanto Israele prosegue nel suo piano di promozione turistica con il rinnovo a marzo della campagna pubblicitaria "Two cities one break" su TV, stampa, outdoor, online e social. E, dati alla mano, Israele cresce per richiesta e vendite. Come conferma Kotzer Adari, che parla di un +50% nel mese di dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo del 2015 e di un inizio 2017 in ascesa con un +20% circa rispetto al periodo precedente. In testa alle preferenze dei turisti italiani, la formula del city break.

(L’Agenzia di Viaggi, 14 febbraio 2017)


Israele espone all'Unesco la Menorà dell'Arco di Tito

Una prova documentale della verità storica, incisa nella pietra duemila anni fa, contro le campagne di menzogne

Il Ministero degli esteri israeliano ha deciso di mettere permanentemente in mostra, presso la sede dell'Unesco a Parigi, una replica fedele della Menorà, il candelabro a sette braccia, rappresentato sull'Arco di Tito a Roma.
La decisione di mettere in mostra la scultura all'Unesco fa parte di una battaglia culturale che il governo israeliano sta conducendo contro la falsa narrazione palestinese che nega ogni collegamento storico fra gli ebrei, Gerusalemme e più in generale la Terra d'Israele: una versione di pura fantasia che ha trovato uno sponsor d'eccezione nell'Unesco stessa quando l'agenzia Onu ha approvato, lo scorso ottobre, una controversa risoluzione che disconosce qualunque legame storico, religioso e culturale fra gli ebrei e il Monte del Tempio di Gerusalemme. Come sia stata effettivamente interpretata quella risoluzione nel mondo arabo è apparso evidente quando, a gennaio, il Segretario generale del'Onu Antonio Guterres è stato violentemente criticato da parte palestinese per aver affermato che esisteva un Tempio ebraico in cima al Monte del Tempio...

(israele.net, 14 febbraio 2017)


Hamas sceglie per Gaza il leader più feroce. In libertà grazie a un ostaggio

di Davide Frattini

 
Yahya Sinwar
GERUSALEMME - Dentro l'Hamas dei misteri è uno dei leader più misteriosi. Poche apparizioni in pubblico, solo due dopo essere stato liberato sette anni fa dalle prigioni israeliane assieme ad altri 1.026 palestinesi nello scambio per il caporale Gilad Shalit.
   Ci aveva passato un ventennio, condannato a quattro ergastoli anche per aver ucciso quelli che considerava collaborazionisti, accusati di aver passato informazioni al nemico.
   Un ruolo di guardiano che Yahya Sinwar si è costruito per sé, negli anni Ottanta ha fondato la polizia interna del movimento. E adesso che dell'organizzazione è diventato il capo dei capi a Gaza, riemergono le storie della sua ferocia. Perché Sinwar - commenta al New York Times uno scrittore vicino ai fondamentalisti - vuole che il suo esercito sia puro e per questo fine non accetta compromessi. O come spiega il quotidiano israeliano Haaretz: «Perfino tra i suoi è considerato un estremista, parla della guerra con Israele in termini apocalittici». La nomina al posto di Ismail Haniyeh segnala che l'ala militare del movimento ha vinto su quella che si occupa della linea politica. Haniyeh - primo ministro dalla vittoria delle elezioni nel 2006 fino alla rottura armata con il Fatah di Abu Mazen un anno dopo - è il candidato più probabile alla guida del gruppo fuori dalla Striscia. E dal Qatar, che ospita la leadership, dovrebbe provare a moderare le strategie oltranziste di Sinwar.
   Ammesso che sia possibile. Ne dubita l'intelligence israeliana e ne dubitano i palestinesi. Un'indagine di Human Rights Watch ha ricostruito l'uccisione nel 2015 di Mohammed Ishtiwi, tra i comandanti delle Brigate Ezzedin Al Qassam. Sarebbe stato Sinwar, 55 anni, a ordinarne l'arresto per «purificare» il suo esercito e per dimostrare agli altri boss che nessuno è intoccabile. Isthiwi è stato portato via dalla polizia segreta di Hamas con l'accusa di essersi intascato denaro destinato all'acquisto di armi per le truppe irregolari. Da quel momento - ha raccontato la sorella al New York Times - è cominciata «la telenovela delle torture». Gli viene estorta la confessione in cui ammette - scrivono gli inquisitori - «azioni immorali»: i soldi sarebbero serviti anche a pagare un uomo perché non rivelasse la loro relazione omosessuale. La famiglia è potente dentro ad Hamas, un clan che ha fornito un migliaio di combattenti durante i 50 giorni di guerra contro Israele nell'estate di due anni e mezzo fa. Gli appelli ad Haniyeh non bastano, il destino di Ishtiwi viene deciso dai duri delle Brigate e dalla spietatezza di Sinwar: il corpo viene ritrovato all'alba del 7 febbraio del 2015 con tre proiettili nel petto.

(Corriere della Sera, 14 febbraio 2017)


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Hamas sceglie un falco. A Gaza vince l'ala militare

Yahya Sinwar, 22 anni in carcere, sostituirà Hanyeh come leader .

di Fabioscuto

GAZA CITY - Dai tunnel e dai bunker, scavati nel ventre della Striscia di Gaza, è uscito l'uomo che promette una guerra perpetua contro Israele. È stato scelto dal Comitato esecutivo di Hamas, un'oscura istanza i cui membri sono naturalmente segreti, la scorsa notte dopo una votazione a maggioranza. In sostituzione di Ismail Hanyeh, che sarà nominato da queste stesse consultazioni segretario generale al posto di Khaled Meshaal e dovrà vivere all'estero, così come si conviene al leader supremo. I boss del movimento islamista che controlla Gaza da dieci anni hanno scelto un comandante militare di alto profilo, il cui nome viene pronunciato da tutti i gazawi con un misto di rispetto e timore, si chiama Yahya Sinwar. Una delle figure della linea più dura del gruppo dirigente islamista che indica il crescente potere dell'ala militare di Hamas a spese della sua ala politica nella Striscia di Gaza. Prima di finire nelle galere israeliane per 22 anni per omicidio, Sinwar è stato uno dei fondatori delle Brigate Ezzedin al Qassam insieme al fratello Mohammed.
   Il volto cadente, occhi sempre ombrati ma mobilissimi e una voce tagliente, Yahya Sinwar non ha il volto rassicurante dell'uomo che ha superato la mezza età. È tornato nella sua casa di famiglia a Khan Younis, che si trova a metà della Striscia, nel 2011 quando Israele liberò un migliaio di prigionieri palestinesi in cambio del rilascio del soldato Gilad Shalit, che era stato rapito 5 anni prima. Una trattativa estenuante con Israele, condotta per anni grazie ai buoni uffici del Bnd, lo spionaggio esterno tedesco, e nella quale fu coinvolto direttamente suo fratello Mohammed. Yahya all'epoca era in un carcere di massima sicurezza israeliano dove stava scontando 4 ergastoli per una serie di reati gravi tra cui l'organizzazione del rapimento e dell'uccisione di due soldati israeliani.
   In questi sei anni Sinwar ha consolidato il suo potere personale. Fa parte di una famiglia di militanti di Hamas, è stato parte integrante dell'ala militare, è duro, spietato, ascetico, con un forte senso di autodisciplina. Detesta la stampa ed è quindi relativamente sconosciuto fuori dalla Striscia. Si è abilmente ritagliato un ruolo che prima non esisteva dentro Hamas, quello di «ministro della Difesa», di raccordo tra l'ala militare e quella politica. Riuscendo in questo modo a eclissare altri «pezzi da 90» del movimento come Mohammed Deif (il comandante delle Brigate) e Marwan Issa (il vice di Deif). Diversamente da tutti gli altri dirigenti di Hamas ha sempre trattato da pari a pari con Khaled Meshaal e Ismail Haniyeh. Il suo potere, ancor prima dell'elezione della scorsa notte era molto ampio, un potere di vita o di morte. A Gaza i ben informati raccontano che sia lui dietro l'uccisione senza precedenti di un «emiro» (la Striscia è divisa militarmente da Hamas in quattro zone, ciascuna delle quali è sotto il controllo di un emiro), da parte di un commando armato e mascherato. L'eliminazione di una spia come si dice o uno scomodo oppositore nella lotta interna? Qui, a Hamastan, nessuno ha posto domande. Nel mese di settembre 2015, Sinwar è stato aggiunto alla lista nera del terrorismo degli Stati Uniti insieme ad altri due membri del braccio armato di Hamas. Fra l'altro ha fondato «Majd», uno dei numerosi servizi di intelligence di Hamas nella Striscia.
   La risposta a quale direzione Hamas prenderà con il suo nuovo leader nella Striscia la sapremo presto. Se Mohammed Deif è stato lo stratega dei tunnel d'attacco che furono la sorpresa militare nella guerra del 2014, Sinwar sembra incoraggiare un'altra strategia, quella di intraprendere altri rapimenti di soldati israeliani per ottenere la liberazione di altri prigionieri palestinesi.
   Lo spionaggio israeliano lo conosce bene e il profilo che ne ha ricavato non suggerisce nulla di tranquillizzante per il futuro, è considerato un falco anche all'interno di Hamas, e si oppone a qualsiasi compromesso per quanto riguarda l'Autorità palestinese e Israele. «È stato scelto un uomo molto, molto pericoloso», spiega una fonte dell'intelligence, «un radicale estremista, odia l'Egitto e vuole la distruzione di Israele. Con lui, l'orologio della guerra si avvicina alla mezzanotte».

(La Stampa, 14 febbraio 2017)


Podismo - Ente Turismo Israeliano: Giorgio Calcaterra ospite alla Maratona d'Italia

ROMA - L'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo è lieto di partecipare all'evento dedicato alla MEZZA MARATONA D'ITALIA (prevista per il 29.10.2017 ad Imola) che verrà dedicato allo straordinario Giorgio Calcaterra ospite della Maratona di Gerusalemme nel 2016, posizionatosi primo degli Europei, che parteciperà nuovamente all'edizione del 2017. All'evento del prossimo 16 febbraio 2017, h 17, presso Hotel Cusani, Milano, sarà presente anche la direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo Avital Kotzer Adari che racconterà la magia di Gerusalemme ed il significato di un viaggio in Israele in occasione di un evento sportivo come la Maratona e non solo.

(Agenparl, 14 febbraio 2017)


La maschera dell'odio

Un bel convegno oggi a Roma sull'antisemitismo e la sua nuova forma sottile: la guerra a Israele.

di Giulio Meotti

ROMA. Si svolge oggi a Roma il convegno "L'antisemitismo contemporaneo" presso il Centro studi americani (ore 17), organizzato dal Solomon, l'osservatorio sulle discriminazioni presieduto da Barbara Pontecorvo. Interverrano Ruth Dureghello (presidente della comunità ebraica di Roma), il sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, Paola Balducci del Csm, il professor David Meghnagi e Mark Weitzmann, direttore dell'International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione che si batte contro ogni revisionismo della Shoah. "Dopo la Shoah, l'antisemitismo in occidente era effettivamente emarginato", spiegherà oggi Weitzmann. Nel 1984 lo studioso di antisemitismo Robert Wistrich individuò nell'antisionismo una forma nuova e "accettabile" di antisemitismo in un mondo post-Olocausto. Osservava Wistrich che "nelle democrazie occidentali del Dopoguerra l'antisionismo ha fornito un veicolo per far riemergere atteggiamenti antiebraici". Ma da quando Wistrich formulò questa tesi, trent'anni fa, la tendenza si è solo intensificata. "L'ex ministro canadese della Giustizia e avvocato per i diritti umani, Irwin Cotler, ha identificato nove componenti chiave di questo nuovo antisemitismo, di cui almeno sei direttamente riferim a Israele", spiega Weitzman. "In altre parole, la discriminazione di Israele come entità politica al posto dell'antisemitismo classico. Non tutti erano d'accordo con questa definizione. Illustri studiosi di antisemitismo, come Yehuda Bauer, si chiedevano se ci fosse davvero una cosa come il nuovo antisemitismo. Eppure, il consenso è apparso deciso ad adottare questa nuova definizione di antisemitismo che si è concentrata sull'elemento politico-nazionale".
   La giurisprudenza in Europa non sembra affatto adeguata. "Un tribunale tedesco ha stabilito che l'attacco alla sinagoga di Wuppertal nel 2014 non era antisemita, ma un tentativo di attirare l'attenzione sul conflitto ardente tra Israele e palestinesi'. Se l'antisemitismo si è rigenerato, adattandosi a nuove forme e varietà, allora la nostra risposta deve essere formulata in un modo che risponda a queste nuove sfide". Urge quindi una nuova definizione di antisemitismo che contempli anche la recente "distorsione dell'Olocausto", che non è più l'osceno negazionismo delle camere a gas, ma la banalizzazione a fini politici. Perché come ha scritto Alvin Rosenfeld nel libro "The end of the Holocaust", "il termine Olocausto' è diventato plastico e senza significato", è stato "de-giudaizzato", ovvero svuotato del carattere religioso etnico specifico di distruzione del giudaismo europeo. "Più diventa mainstream, più l'Olocausto diventa banale", avverte Rosenfeld. "Una versione della storia ancora ricolma di sofferenza, ma una sofferenza senza peso morale, quindi più facile da sopportare". Mai quanto oggi la memoria è disseminata, eppure mai quanto oggi la Shoah viene usata contro l'eredità vivente dei sei milioni, il piccolo stato ebraico sotto assedio. Un odio più sottile e, paradossalmente, perfino più difficile da combattere.

(Il Foglio, 14 febbraio 2017)


Un piccolo esempio pratico di questo “nuovo antisemitismo” (non più tanto nuovo ormai) si può trovare nell’articoletto che segue.


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Pax Christi: così Israele ha passato la linea rossa

ROMA - Abbiamo assistito attoniti (domenica, n.d.r.) ai video dell'ultimo raid dei soldati nel villaggio palestinese di At-Twani, dopo quello dell'invasione dei coloni tra le case dello stesso villaggio, afferma un comunicato di Pax Christi Italia. Dopo la legalizzazione degli avamposti delle colonie israeliane, prosegue il comunicato, Israele è andato oltre la linea rossa , come già affermato dall'Onu. Il «regulation bill» di fatto «legalizza» 4mila case già costruite su terreni appartenenti a cittadini palestinesi. Di fronte a una situazione che si va aggravando, Pax Christi constata l'indifferenza e l'inerzia del governo italiano e della comunità internazionale. Intanto, la cancelliera Angela Merkel ha annullato un incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu in programma per il prossimo maggio. Un portavoce del governo tedesco ha spiegato che lo slittamento è dovuto ai molti impegni internazionali per la presidente tedesca del G20. Ma secondo il giornale "Haaretz" l'appuntamento sarebbe saltato proprio a causa della politica sugli insediamenti israeliani in territorio palestinese.

(Avvenire, 14 febbraio 2017)


L'aeroporto Fellini guarda a est, da aprile si vola da Rimini per Tel Aviv

RIMINI - Battezzato "Progetto Israele", prosegue a gonfie vele il nuovo piano di AIRiminum 2014, società di gestione dell'Aeroporto di Rimini e San Marino "Federico Fellini": nella giornata di lunedì, la compagnia aerea Israir ha pianificato tre voli per il prossimo aprile al fine di testare l'attrattività del territorio romagnolo per un mercato caratterizzato da esigenze particolari quale quello israeliano.
In dettaglio, i voli Tel Aviv-Rimini sono pianificati per i giorni 7, 14 e 19 aprile e dovrebbero interessare circa 320 turisti con la possibilità, qualora le aspettative di Israir venissero soddisfatte, di pianificare altri 12 voli in questa prima Summer 2017 - nei mesi di giugno, settembre e ottobre, - che dovrebbero interessare circa 2.000 turisti israeliani ulteriori.

(altarimini.it, 14 febbraio 2017)


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