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Dalla Sacra Scrittura
GIOSUÈ
Capitolo 1
Dopo la morte di Mosè, servo dell'Eterno, l'Eterno parlò a Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè, e gli disse: “Mosè, mio servo è morto; ora dunque alzati, passa questo Giordano, tu con tutto questo popolo, per entrare nel paese che io do ai figli d'Israele. Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà, io ve lo do, come ho detto a Mosè, dal deserto e dal Libano che vedi là, fino al gran fiume, il fiume Eufrate, tutto il paese degli Ittiti fino al Mar Grande, verso occidente: quello sarà il vostro territorio. Nessuno ti potrà resistere tutti i giorni della tua vita; come sono stato con Mosè, così sarò con te; io non ti lascerò e non ti abbandonerò. - Sii forte e coraggioso, perché tu metterai questo popolo in possesso del paese che giurai ai loro padri di dare loro. Solo sii forte e molto coraggioso, avendo cura di mettere in pratica tutta la legge che Mosè, mio servo, ti ha dato; non te ne sviare né a destra né a sinistra, affinché tu prosperi dovunque andrai.
- Questo libro della legge non si allontani mai dalla tua bocca, ma meditalo giorno e notte, avendo cura di mettere in pratica tutto ciò che vi è scritto; poiché allora riuscirai in tutte le tue imprese, allora prospererai. Non te l'ho io comandato? Sii forte e coraggioso; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché
- Allora Giosuè diede quest'ordine agli ufficiali del popolo: “Passate in mezzo all'accampamento e date quest'ordine al popolo: 'Preparatevi dei viveri, perché fra tre giorni passerete questo Giordano per andare a conquistare il paese che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà perché lo possediate'”.
- Giosuè parlò pure ai Rubeniti, ai Gaditi e alla mezza tribù di Manasse, e disse loro: “Ricordatevi dell'ordine che Mosè, servo dell'Eterno, vi diede quando vi disse: 'L'Eterno, il vostro Dio, vi ha concesso riposo e vi ha dato questo paese'. Le vostre mogli, i vostri bambini e il vostro bestiame rimarranno nel paese che Mosè vi ha dato di qua dal Giordano; ma voi tutti che siete forti e valorosi passerete in armi alla testa dei vostri fratelli e li aiuterete, finché l'Eterno abbia concesso riposo ai vostri fratelli come a voi, e siano anche loro in possesso del paese che l'Eterno, il vostro Dio, dà loro. Poi tornerete al paese che vi appartiene, che Mosè, servo dell'Eterno, vi ha dato di qua dal Giordano verso il levante, e ne prenderete possesso”.
- E quelli risposero a Giosuè, dicendo: “Noi faremo tutto quello che ci hai comandato, e andremo dovunque ci manderai; ti ubbidiremo interamente, come abbiamo ubbidito a Mosè. Solamente, l'Eterno, il tuo Dio, sia con te come è stato con Mosè! Chiunque sarà ribelle ai tuoi ordini e non ubbidirà alle tue parole, qualunque sia la cosa che gli comanderai, sarà messo a morte. Solo sii forte e coraggioso!”.
(Notizie su Israele, 6 novembre 2025)
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Israele mette in guardia New York «Mamdani un sostenitore di Hamas»
di Maria Vittoria Galassi
Se i dem si cullano nell'elezione del musulmano e socialista, Zohran Mamdani, come sindaco di New York, i risvolti della sua vittoria sollevano la preoccupazione non solo dei repubblicani, ma anche delle comunità ebraiche e del business newyorkese. Emblematica è la prima pagina del New York Post che, immortalando il passaggio dalla Grande Mela alla «Mela rossa», ritrae Mamdani con in mano falce e martello.
Tra i democratici che si sono congratulati con il socialista, Hillary Clinton ha dichiarato che si tratta di «una vittoria della democrazia». Per l'ex presidente americano, Barack Obama, ora «il futuro sembra
più luminoso». Ma c'è già chi ha iniziato ad aprire gli occhi: tra gli ambienti della sinistra, il conduttore della Cnn, Van Jones, non ha nascosto il suo stupore per «il discorso di vittoria pieno di rabbia» di Mamdani, ricordando che in cam - pagna elettorale aveva mostrato una personalità diversa.
L'amarezza dei conservatori è tangibile. «Zohran Mamdani è senza dubbio la più grande vittoria del socialismo nella storia del Paese e la più grande perdita per il popolo americano», ha commentato lo speaker della Camera dei rappresentanti, Mike Johnson. E ha aggiunto che il nuovo sindaco di New York è «un vero estremista e un marxista». Il deputato della Florida, Randy Fine, si è espresso senza mezzi
termini: «Gli immigrati che odiano l'America hanno eletto un comunista musulmano jihadista. New York è caduta. L'America è la prossima se non fermiamo questo». Il governatore del Texas, GregAbbott, ha scritto su X: «Un minuto di silenzio per New York».
Sull'elezione di Mamdani, non le ha mandate a dire nemmeno il rapper 50 Cent: i due erano già stati in aperto contrasto dopo che il socialista aveva annunciato tassazioni più alte per i ricchi. Non sembra quindi un caso che Mamdani sia salito sul palco per celebrare la vittoria sulle note di una canzone di JaRule, storico rivale di 50 Cent. Il rapper newyorkese ha quindi condiviso diversi post: su Instagram ha postato un'immagine di una
lapide con la data della fondazione di New York, 1624, accompagnata da quella della morte, ovvero 2025. Ha anche condiviso una foto del cappellino dei New York Yankees dentro a un bidone, con scritto: «New York è finita, facciamo le valigie, andiamo».
A livello internazionale, se la sua elezione è stata ben accolta dal sindaco di Londra, Sadiq Khan, per le stesse radici musulmane, in Israele l'atmosfera è ben diversa. Il ministro israeliano alla Diaspora, Amichai Chikli, facendo un riferimento all'n settembre, ha scritto su X: «La città che era simbolo di libertà globale ha consegnato le chiavi a un sostenitore di Hamas, a qualcuno le cui posizioni non sono lontane da quelle dei fanatici
se ostilità verso Israele». In Italia, l'elezione è stata divisiva. Roberto Vannacci ha commentato: «24 anni dopo l'u settembre New York ha un sindaco musulmano. Così l'Occidente celebra la resa culturale chiamandola progresso». Dall'altra parte, Elly Schlein ha forse riconosciuto caratteristiche che mancano alla sinistra italiana, dicendo: «Lasinì - stra torna a vincere con parole e programmi chiari»
(La Verità, 6 novembre 2025)
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Le elezioni a New York: rischi e prospettive
di Ugo Volli
• Un risultato previsto, ma che ha fatto notizia
Le elezioni comunali, anche quelle delle grandi città, hanno in genere un significato quasi esclusivamente locale, o al massimo sono prese come un segnale delle tendenze dell’elettorato per le prossime elezioni politiche. Non è così però per il voto che si è svolto l’altro ieri a New York, con la netta vittoria del candidato democratico Zohran Mamdani (con circa il 57,8 %), sull’indipendente Andrew Cuomo (30,2%) e sul repubblicano Curtis Sliva (10,5%). Sul piano della politica non si tratta affatto di una sorpresa, non solo perché i sondaggi prevedevano tutti questo risultato. New York City è sempre stata democratica, ha avuto costantemente, con poche eccezioni, sindaci democratici, alle presidenziali dell’anno scorso Kamala Harris col 68% dei voti doppiò Trump che ne ottenne appena il 30%. Dunque la notizia non deriva da questo risultato e neppure nella dimensione della città: New York è solo all’undicesimo posto nella classifica delle grandi conurbazioni dietro a Tokyo, Delhi, Shangai ma anche a due metropoli del continente americano, Città del Messico e San Paolo. Anche nella classifica economica New York è solo seconda dietro a Tokyo, ma conserva pur sempre il suo straordinario valore simbolico.
• Chi è il nuovo sindaco
Ciò che ha attratto l’attenzione di tutti i politici e i media del mondo è l’identità del vincitore, Zohran Mamdani, nato in Uganda da una famiglia musulmana di intellettuali (il padre professore di “studi postcoloniali”, la madre regista cinematografica) di origini indiane, trasferito poi a New York all’età di 7 anni, laureato in “Studi africani” nel non famosissimo Bowdoin College nel Maine. A parte la carriera di musicista rap, tentata senza molto successo, il trentaquattrenne Mamdani si è dedicato esclusivamente alla vita politica, sempre su posizioni islamiste e di estrema sinistra. Una quindicina d’anni fa è stato fra i fondatori nella sua sede universitaria del movimento anti-israeliano “Students for Justice in Palestine”; ha fatto campagna per il “socialista” Bernie Sanders fin dalle presidenziali di otto anni fa, è entrato nel gruppo dei Democratic Socialists of America (DSA), che non sono affatto socialdemocratici, ma l’ala più estremista di sinistra del partito democratico. Dopo appena cinque anni di esperienza come consigliere nell’Assemblea dello Stato di New York, ha vinto inaspettatamente la primavera scorsa le primarie per la candidatura democratica a sindaco di New York e poi facilmente ha conquistato la carica.
• Il programma di Mamdani
Le sue posizioni corrispondono alla carriera. Si è dichiarato per la riforma (cioè il disarmo o almeno il depotenziamento) della polizia, per la ristrutturazione (in senso abolizionista) del sistema carcerario, per la regolamentazione pubblica obbligatoria di affitti (con forti sussidi pubblici) e dei prezzi dei consumi di base, per l’istituzione di mercati gratuiti comunali dei generi alimentari, di trasporti pubblici altrettanto gratuiti, di un innalzamento radicale delle tasse al limite dell’esproprio per i cittadini più benestanti. In termini generali ha proclamato un’ideologia anticapitalistica, un forte antagonismo nei confronti di Israele, una solidarietà senza limiti ai movimenti armati islamici e comunisti, in particolare alla “lotta armata palestinese”, un caldo legame con dittature come quelle di Cuba, Venezuela, Iran. Ha molto sottolineato la sua identità musulmana, fino a usare spesso l’arabo (che non è affatto la sua lingua di famiglia o natale) per caratterizzarsi nei suoi interventi trasmessi in televisione.
• Perché ha vinto?
È chiaro che la ragione della meraviglia, della perplessità e anche della paura di molti si possa riassumere nella domanda: come mai la capitale economica dell’Occidente capitalistico, che gode di ottima salute economica grazie alle innovazioni economiche e finanziarie in corso, ha eletto per amministrarla un nemico esplicito del capitalismo? Come mai il secondo comune al mondo per popolazione ebraica (a New York vi sono circa 960.000 ebrei) ha votato in proporzione così alta un candidato sindaco che si proclama nemico di Israele e disposto a organizzarne il boicottaggio, che ha dichiarato di voler arrestare il primo ministro israeliano Netanyahu se entrerà a New York (anche se la legge americana non glielo consente)? Senza dubbio sulla prima ragione di perplessità ha pesato il paradosso per cui in buona parte dell’Occidente (negli Usa come in Italia) i sostenitori della sinistra e delle politiche socialiste non sono i lavoratori che in teoria dovrebbero beneficarne, ma i ceti urbani ideologizzati. A New York avrebbero votato chiunque contro Trump. E sulla seconda è stato influente il fatto che la popolazione ebraica americana comprende due gruppi fortemente antisionisti: l’estrema sinistra soprattutto giovanile, educata da buona parte dei filoni “reform” e “conservative” a pensare che il cuore dell’ebraismo sia non il rispetto della tradizione religiosa e l’osservanza dei precetti, ma la questione della giustizia sociale riassunta nello slogan del “Tikkun Olam” (“riparazione del mondo”); e dall’altro lato dello spettro delle opinioni, gli eredi di dinastie chassidiche come i Satmar, che in nome della tradizione rifiutano la legittimità dello Stato di Israele. Ciononostante i sondaggi dicono che la maggioranza degli ebrei di New York si è differenziato dal resto della popolazione non votando per il nuovo sindaco.
• Che succederà ora?
Mamdani ha fatto molte promesse che non potrà mantenere. Sui negozi alimentari e sui trasporti gratuiti ha già iniziato a fare marcia indietro, dato che non ha i soldi per realizzarli e certamente non sarà aiutato né dal governo federale né da quello dello Stato, che hanno altre idee. La sua possibilità di alzare le tasse è limitata dalla legge, come i suoi progetti internazionali. Ma certamente ha forza (per esempio il comando della polizia) per affermare una svolta e ostacolare i gruppi contro cui ha fatto campagna, fra cui la componente ebraica. Bisogna prevedere che per molti ebrei la città guidata da lui sarà molto meno ospitale, in tempi in cui l’antisemitismo anche violento è già in forte crescita. La New York ebraica di tanti film e tanta letteratura sarà ridimensionata, ci sarà un’emigrazione verso Israele o altre città americane. Le conseguenze più importanti però avranno carattere politico generale: è possibile che l’elezione di Mamdani, per scontata che fosse, possa contribuire a convincere l’elettorato democratico ad appoggiare l’ala più estremista, radicalizzando tutta la sinistra americana, com’è accaduto altrove in Europa (Spagna, Gran Bretagna, Francia). Ma se la nuova amministrazione deludesse, vi potrebbe essere a medio termine, in tempo per le prossime presidenziali, un contraccolpo significativo in direzione opposta dell’elettorato. È il piano su cui verosimilmente lavora Trump.
(Shalom, 6 novembre 2025)
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Guterres generalizza sul cessate il fuoco a Gaza perché non riesce a dare la colpa ai terroristi di Hamas
di Iuri Maria Prado
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, si dice “profondamente preoccupato per le continue violazioni del cessate il fuoco a Gaza”. Arbitrale quando invoca il rispetto degli accordi, ecumenico nella distribuzione della responsabilità, decide di non occuparsi dei dettagli, e cioè del fatto che sì, tutte le parti sarebbero tenute a rispettare quei patti, ma soltanto una – la forza terrorista palestinese – ne fa continua violazione.
Dal giorno della sottoscrizione di quegli accordi, la parte palestinese non solo non ha cessato le ostilità contro Israele, ma ha preso a commetterne in modo sempre più grave contro la propria popolazione. Il continuo sequestro degli aiuti umanitari da parte dei miliziani di Hamas, le esecuzioni di piazza di cui essi si sono resi festosamente responsabili in mondovisione, la loro permanenza e operatività in armi nelle zone da cui avrebbero dovuto sloggiare, insomma la plateale e reiterata contravvenzione a ogni singolo punto pattizio ha avuto placido corso senza che le attenzioni inquirenti delle Nazioni Unite facessero mostra anche solo di accorgersene.
Un atteggiamento noncurante e sostanzialmente assolutorio di cui, dopotutto, risente abbastanza poco la parte israeliana, peraltro sgravata della preoccupazione per i propri ostaggi vivi, ma di cui risente molto la popolazione palestinese, che è la solita materia passiva delle atrocità di quelli che la governano. “Tutti”, dice Guterres, “devono attenersi alle decisioni della prima fase dell’accordo di pace”. Certo: ma ricordarlo senza denunciare chi non vi si è attenuto, e continua a non farlo, significa esattamente delegittimare gli accordi di cui pure si reclama il rispetto.
(Il Riformista, 6 novembre 2025)
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Ad Amsterdam cancellato un concerto di Chanukkà: il cantore è stato colonnello dell’IDF
di Maia Principe
La cancellazione di un concerto di Hanukkah organizzato dalla comunità ebraica di Amsterdam ha scatenato una vivace controversia internazionale. La sala concerti locale, la Concertgebouw, ha giustificato la sua decisione con la partecipazione del tenente colonnello Shai Abramson, cantore capo dell’esercito israeliano, suscitando l’indignazione degli ebrei olandesi e aspre critiche da parte delle autorità israeliane. Lo riporta il sito Algemeiner.
L’ambasciatore israeliano nei Paesi Bassi, Zvi Aviner-Vapni, ha immediatamente condannato questa cancellazione. “In Israele, il servizio militare è un dovere per tutti, perché dobbiamo difendere la nostra democrazia e il nostro popolo. Escludendo un artista a causa del suo servizio, il governo tradisce la sua stessa missione dichiarata di unire attraverso la musica”, ha affermato, definendo la decisione “vergognosa e sconcertante”.
L’ambasciatore ha proseguito denunciando quella che considera una palese ipocrisia. «Questa discriminazione non è una questione culturale. Assomiglia piuttosto a una concessione fatta a una folla piena di odio», ha affermato.
Il dibattito ha preso una piega particolarmente delicata quando l’avvocato olandese di origini ebraiche Oscar Hammerstein ha rivelato che il nonno di Simon Reinink, direttore della sala da concerto, aveva personalmente firmato il decreto del 1940, durante l’occupazione nazista, che espelleva gli ebrei dalle funzioni pubbliche nei Paesi Bassi. Questa rivelazione ha aggiunto una dimensione storica inquietante alla controversia attuale.
Il ministro israeliano per gli Affari della Diaspora, Amichai Chikli, ha pubblicato una dichiarazione al vetriolo che è diventata virale nei Paesi Bassi. “Il 75% degli ebrei olandesi è stato ucciso durante l’Olocausto. Su 140.000 ebrei, 102.000 sono stati uccisi, la maggior parte ad Auschwitz, Bergen-Belsen e Sobibor. Eppure, la natura umana non cambia, e forse nemmeno il carattere di questo luogo è cambiato”, ha scritto il ministro.
Chikli ha sottolineato che l’attuale comunità ebraica olandese, che conta circa 35.000 persone, continua a lottare per vivere apertamente e senza paura. Ha ricordato che solo l’anno scorso i tifosi del Maccabi Tel Aviv sono stati violentemente aggrediti da “gruppi jihadisti” che avevano preso il controllo delle strade di Amsterdam.
Il ministro ha anche fatto riferimento alle recenti elezioni nazionali olandesi di fine ottobre. «Gli olandesi hanno votato e hanno scelto partiti chiaramente di sinistra, molti dei quali adottano una posizione profondamente ostile allo Stato di Israele, come il partito di estrema sinistra», ha scritto Chikli.
“I Paesi Bassi stanno rapidamente seguendo le orme del Belgio, diventando un Paese in cui gli ebrei non sono più al sicuro e sono sempre più costretti a nascondere la loro identità in pubblico. È con dolore che dico agli ebrei dei Paesi Bassi: riflettete bene sul vostro futuro in un Paese che non sembra preoccuparsi di proteggere le vostre vite, i vostri diritti e la vostra identità”.
La dichiarazione del ministro è stata vista centinaia di migliaia di volte e condivisa più di mille volte, in particolare dalla deputata olandese Claudia van Zanten. Quest’ultima ha aggiunto una testimonianza personale commovente. “Nell’aprile 2024, la sorella di una delle mie più care amiche ha lasciato Amsterdam per Israele con la sua famiglia, perché non vedeva alcun futuro per gli ebrei nei Paesi Bassi. Mi ha detto: “La situazione sta solo peggiorando e io non ho intenzione di aspettare”. Purtroppo aveva ragione. Capisco perfettamente la dichiarazione di Chikli. I Paesi Bassi non hanno imparato nulla dal passato e stanno abbandonando ancora una volta gli ebrei”.
(Bet Magazine Mosaico, 6 novembre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
ESODO
Capitolo 15, 1-18
Allora Mosè e i figli d'Israele cantarono questo cantico all'Eterno, e dissero così:
- “Io canterò all'Eterno, perché si è sommamente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. L'Eterno è la mia forza e l'oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Questo è il mio Dio, io lo glorificherò; è l'Iddio di mio padre, io lo esalterò. L'Eterno è un guerriero, il suo nome è l'Eterno.
- Egli ha gettato in mare i carri del Faraone e il suo esercito, e i migliori suoi condottieri sono stati sommersi nel Mar Rosso. Gli abissi li coprono; sono andati a fondo come una pietra.
- La tua destra, o Eterno, è mirabile per la sua forza, la tua destra, o Eterno, schiaccia i nemici. Con la grandezza della tua maestà, tu rovesci i tuoi avversari; tu scateni la tua ira, essa li consuma come stoppia. Al soffio delle tue narici le acque si sono ammassate, le onde si sono sollevate come un muro, i flutti si sono fermati nel cuore del mare. Il nemico diceva: 'Inseguirò, raggiungerò, dividerò le spoglie, la mia brama si sazierà su loro; sguainerò la mia spada, la mia mano li sterminerà'; ma tu hai mandato fuori il tuo soffio; e il mare li ha ricoperti; sono affondati come piombo nelle acque potenti.
- Chi è pari a te fra gli dèi, o Eterno? Chi è pari a te, meraviglioso nella tua santità, tremendo anche a chi ti loda, operatore di prodigi? Tu hai steso la destra, la terra li ha inghiottiti. Tu hai condotto con la tua benignità il popolo che hai riscattato; lo hai guidato con la tua forza verso la tua santa dimora.
- I popoli l'hanno udito, e tremano. L'angoscia ha colto gli abitanti della Filistia. Già sono smarriti i capi di Edom, il tremito prende i potenti di Moab, tutti gli abitanti di Canaan vengono meno. Spavento e terrore piomberà su di loro. Per la forza del tuo braccio diventeranno muti come una pietra, finché il tuo popolo, o Eterno, sia passato, finché sia passato il popolo che ti sei acquistato.
- Tu li introdurrai e li pianterai sul monte della tua eredità, nel luogo che hai preparato, o Eterno, per tua dimora, nel santuario che le tue mani, o Signore, hanno stabilito. L'Eterno regnerà per sempre, in perpetuo”.
Questo cantarono gli Israeliti perché i cavalli del Faraone con i suoi carri e i suoi cavalieri erano entrati nel mare, e l'Eterno aveva fatto ritornare su loro le acque del mare, ma i figli d'Israele avevano camminato in mezzo al mare, sull'asciutto. E Miriam, la profetessa, sorella di Aaronne, prese in mano il timpano, e tutte le donne uscirono dietro di lei con dei timpani, e danzando. E Miriam rispondeva ai figli d'Israele:
“Cantate all'Eterno, perché si è sommamente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere”.
(Notizie su Israele, 5 novembre 2025)
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Ministro israeliano: è ora che gli ebrei lascino New York
Con l'elezione del sostenitore di Hamas Zohran Mamdani a nuovo sindaco della città, il ministro della Diaspora Amichai Chikli suggerisce che Dio sta richiamando il popolo ebraico a casa.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Israele è in subbuglio per l'elezione di Zohran Mamdani a prossimo sindaco di New York, la città con la più grande popolazione ebraica al mondo al di fuori dello Stato di Israele.
Non è un segreto che l'opposizione mondiale alla guerra di Israele contro Hamas, alimentata da affermazioni esagerate e addirittura diffamatorie sui comportamenti scorretti di Israele, abbia portato a vessazioni e violenza fisica non solo contro gli israeliani, ma contro tutti gli ebrei. Mamdani ha gettato benzina sul fuoco accusando pubblicamente Israele di genocidio, approvando tacitamente le richieste di una “globalizzazione dell'Intifada” e minacciando di arrestare il primo ministro Benjamin Netanyahu se avesse rimesso piede in città.
Dato che Mamdani è lui stesso un musulmano simpatizzante di Hamas, non sorprende che la sua schiacciante vittoria sia stata accolta dalla folla riunita nelle strade con grida di “Free Palestine” (Liberate la Palestina).
In Israele cresce la preoccupazione non solo per le proprie relazioni con la città di New York, ma anche per gli 1,3 milioni di ebrei che vivono nell'area metropolitana di New York City.
Il ministro israeliano per gli Affari della diaspora, Amichai Chikli, ha definito l'elezione di Mamdani “una svolta critica per New York City” che “ha minato le fondamenta del luogo che dalla fine del XIX secolo ha offerto libertà e opportunità a masse di rifugiati ebrei, diventando una roccaforte per la comunità ebraica al di fuori di Israele”.
Ma ora tutto questo è finito. New York, ha lamentato Chikli, “ha consegnato le chiavi a un sostenitore di Hamas, le cui posizioni non sono molto diverse da quelle dei fanatici jihadisti che 25 anni fa hanno ucciso tremila suoi connazionali”.
Chikli ha osservato che Mamdani non avrebbe potuto vincere con le sue sole forze. La sua ascesa è stata il risultato di un'azione concertata, iniziata nelle università “acquisite con fondi qatarioti” e sfociata in “violente manifestazioni di sostenitori di Hamas alla CUNY, alla NYU e in particolare alla Columbia University”.
Chikli ha sottolineato che “New York non sarà mai più la stessa, soprattutto per la sua comunità ebraica” e ha esortato “gli ebrei di New York a considerare la possibilità di trasferirsi in Israele”.
Il ministro israeliano ha concluso il suo intervento con la frase biblica “L'Eterno d'Israele non mente” tratta da 1 Samuele 15:29, che è diventata una sorta di grido di battaglia nel mezzo delle attuali difficoltà di Israele.
(Israel Heute, 5 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Turista israeliano aggredito a Manhattan, è allarme antisemitismo a New York
di
Michelle Zarfati
Doveva essere una tranquilla visita nella città che “non dorme mai”. Si è invece trasformata in un incubo. Rami Glickstein, 59 anni, docente universitario israeliano in vacanza negli Stati Uniti, è stato vittima di una violenta aggressione a sfondo antisemita nel cuore di Manhattan. È accaduto in pieno giorno, su un marciapiede affollato. L’uomo stava camminando verso un ristorante kasher quando uno sconosciuto lo ha fermato, chiedendogli con tono sospetto quale fosse la sua religione. Prima ancora che potesse rispondere, l’aggressore gli ha strappato la kippah dal capo, l’ha gettata a terra e ci ha sputato sopra.
Poi, il colpo: un pugno al volto così violento da fargli perdere l’equilibrio e cadere sull’asfalto. Trasportato d’urgenza in ospedale, i medici hanno riscontrato un’emorragia cerebrale interna e contusioni facciali. Ora è in fase di recupero, sotto osservazione, ma lo shock resta profondo.
Nonostante le ferite, Glickstein ha parlato alla stampa con lucidità. “Non ho paura per me. Ho paura per il mio popolo. Quello che ho vissuto qui è terribile sembra il 1939”. Nel frattempo, la polizia di New York ha aperto un’indagine per crimine d’odio. Gli investigatori stanno cercando l’aggressore attraverso testimonianze e telecamere di sicurezza della zona. Le autorità cittadine e i rappresentanti della comunità ebraica hanno condannato fermamente l’episodio, sottolineando l’aumento di atti antisemiti negli ultimi mesi.
L’aggressione di Manhattan non è un caso isolato. Episodi simili vengono segnalati sempre più spesso nelle grandi città occidentali, alimentando timori e tensioni. Per molti, quanto accaduto a Glickstein è un amaro campanello d’allarme: l’antisemitismo, lungi dall’essere un capitolo superato della storia, continua a serpeggiare e talvolta esplode in violenza improvvisa.
(Shalom, 5 novembre 2025)
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Cosa ha reso possibile la vittoria di Mamdani? La demografia e la normalizzazione dell'antisemitismo
I media e il Partito Democratico, che hanno spostato la “finestra di Overton” a pensare che il genocidio ebraico fosse un'idea degna di dibattito, hanno contribuito all'elezione di un sindaco marxista a New York.
di Jonathan S. Tobin
Alla fine, gli ultimi quattro mesi e mezzo di discussioni e appelli disperati non sono serviti a nulla.
La corsa alla carica di sindaco di New York City è stata sostanzialmente decisa il 24 giugno, quando il membro dell'Assemblea dello Stato di New York Zohran Mamdani ha vinto in modo decisivo le primarie del Partito Democratico sul secondo classificato Andrew Cuomo, ex governatore di New York. Tutti gli sforzi per impedire a Mamdani di vincere a novembre sono stati sostanzialmente vani. Nella città di New York, profondamente democratica, con il sostegno del Partito Democratico e di quasi tutti i principali media liberali della nazione, insieme alle scarse alternative presenti sulla scheda elettorale, le possibilità di impedirgli di vincere le elezioni generali sono sempre state trascurabili.
C'erano buoni motivi per preoccuparsi delle conseguenze dell'elezione non solo di un socialista democratico che porterà una lunga lista di rimedi marxisti al municipio, ma anche di qualcuno la cui carriera politica è stata definita dalla sua ossessione di opporsi a Israele e al popolo ebraico. Alla fine, però, i principali ostacoli alla campagna tesa a mobilitare gli elettori moderati e gli ebrei della città a fare tutto il possibile per sconfiggerlo non sono stati tanto la riluttanza di molti a votare per Cuomo o per il candidato repubblicano Curtis Sliwa.
• L’ecosfera liberale
Il vero problema è che le qualità che avrebbero dovuto rendere Mamdani una scelta improbabile agli occhi della maggioranza degli elettori – e quindi non eleggibile – non erano più considerate un motivo di squalifica. Essere marxista e sostenitore di posizioni antiebraiche avrebbe dovuto relegare Mamdani ai margini dello spettro politico. Ma tra i democratici di Gotham, questo non è più vero.
Nell'attuale ecosfera politica liberale, l'ideologia e il curriculum del sindaco eletto si sono normalizzati nell'ultimo decennio.
In un passato non troppo lontano, una persona come Mamdani non avrebbe mai avuto alcuna possibilità. Ma nel 2025, un uomo che aveva diffuso calunnie sanguinose su Israele e sugli ebrei responsabili delle azioni della polizia di New York contro gli afroamericani o che aveva appoggiato slogan che invocavano il genocidio degli ebrei e la distruzione di Israele (“Dal fiume al mare”), oltre al terrorismo contro gli ebrei ovunque (“globalizzare l'intifada”), non solo era accettabile, ma era anche acclamato come una ventata di aria fresca.
La lunga marcia dei progressisti attraverso le istituzioni americane negli ultimi decenni, durante la quale hanno difeso idee tossiche come la teoria critica della razza, l'intersezionalità e il colonialismo dei coloni una nuova ortodossia, ha avuto un impatto negativo sulla società. Insieme all'imposizione del catechismo woke della diversità, dell'equità e dell'inclusione che esacerba le divisioni razziali ed etichetta gli ebrei e Israele come oppressori “bianchi”, la loro conquista non solo del mondo accademico, ma anche di gran parte dell'establishment politico e culturale della nazione ha preparato la strada all'accettazione di Mamdani.
I liberali politici americani del secolo scorso non avrebbero mai accettato nemmeno per un minuto l'idea che un Mamdani potesse rappresentare loro o il loro partito. Ma se il New York Times pubblica già regolarmente articoli antisemiti che invocano la distruzione di Israele e lo etichettano falsamente come uno Stato “apartheid” e colpevole di “genocidio”, è ovvio che la finestra di Overton del discorso accettabile si è spostata per rendere kosher l'odio verso gli ebrei nella piazza pubblica. Perché, allora, ci si sarebbe dovuto aspettare che un elettorato dominato dai liberali politici contemporanei potesse considerare fuori dai limiti un candidato sindaco che dice le stesse cose?
Di fronte a questo fatto, non c’è nulla che la coalizione anti-Mamdani avrebbe potuto fare per rimettere genio dell'antisemitismo nella lampada.
• Una New York cambiata
C'è anche il semplice fatto che l'elettorato di New York City è cambiato radicalmente nell'ultima generazione.
La New York che ha eletto due volte il repubblicano Rudy Giuliani a sindaco nel 1993 e nel 1997 – una scelta che ha segnato una notevole rinascita della città sia in termini economici che di vivibilità – e poi ha eletto il moderato indipendente Michael Bloomberg, che è ebreo, nel 2001, 2005 e 2009, semplicemente non esiste più.
Nell'ultimo quarto di secolo, gran parte della popolazione operaia della città, compresi i bianchi e altri che condividevano i loro valori, ha lasciato New York per trasferirsi nei sobborghi o in luoghi più soleggiati e meglio governati come la Florida. Questo cambiamento è stato accelerato dal declino innescato dalle politiche di sinistra di Bill de Blasio, seguito dall'incompetenza e dalla corruzione di Eric Adams, che hanno mandato la città in tilt.
L'aumento degli elettori musulmani, in particolare quelli provenienti dall'Asia meridionale e dal Medio Oriente, dove gli atteggiamenti discriminatori nei confronti degli ebrei, come quelli esemplificati da Mamdani, sono normativi, è diventato una parte importante di questo cambiamento. Gli hanno dato un vantaggio che potrebbe aver compensato l'indignazione nei suoi confronti da parte della maggioranza della popolazione ebraica ancora significativa nei cinque distretti, anche se una minoranza di ebrei di sinistra che ha perso il contatto con qualsiasi senso di appartenenza al popolo ebraico lo ha abbracciato.
Tuttavia, la particolare serie di circostanze che ha portato a questo risultato è stata determinata da una combinazione di fattori.
• Opposizione debole
Il primo di questi è che Mamdani è stato fortunato con i suoi avversari.
Cuomo era la sua alternativa più plausibile; tuttavia, convincere la gente a unirsi dietro un uomo con un passato di governo autoritario e violento come governatore, costosi errori nella gestione della pandemia di COVID-19 e che è stato cacciato dalla carica in disgrazia con accuse di molestie sessuali e bullismo non poteva che essere un compito arduo.
Sliwa, fondatore e leader dei Guardian Angels, era un candidato scomodo di un partito minoritario che gode del sostegno di una piccola parte degli elettori della città, che pochi al di fuori dei suoi amici e seguaci devoti potevano immaginare come sindaco.
Avrebbero potuto unire le forze con il sindaco in carica Eric Adams per creare una lista comune che avrebbe sconfitto Mamdani?
Forse sarebbe stato possibile se lo avessero fatto subito dopo le primarie di giugno. Tuttavia, le illusioni su ciò che sarebbe accaduto nelle elezioni generali, così come l'ego e il risentimento tra loro, lo hanno impedito. È stato un peccato, poiché era chiaro fin dall'inizio che nessuno, tranne l'ex governatore, aveva la possibilità di raggiungere Mamdani. Anche se lo avessero fatto, il risultato non sarebbe cambiato, poiché Mamdani sembra aver vinto con una maggioranza risicata piuttosto che con una pluralità.
Ironia della sorte, il ritiro dalla corsa di Adams, che ha scelto di candidarsi per la rielezione come indipendente piuttosto che come democratico dopo essere stato salvato dalle accuse di corruzione dal presidente Donald Trump, e il suo successivo sostegno a Cuomo, che è passato anch'egli a candidarsi come indipendente dopo aver perso a giugno, potrebbero aver effettivamente aiutato Mamdani. Senza un avversario afroamericano o appartenente ad altre minoranze in campo, Mamdani ha apparentemente ottenuto risultati molto migliori nelle elezioni generali tra i neri e gli ispanici rispetto alle primarie.
Mamdani ha anche beneficiato del fatto di essere il candidato più anti-Trump in una città in cui il presidente è profondamente impopolare.
• Giovani ignoranti e indottrinati
È anche vero che per molti elettori il 34enne era un volto nuovo in corsa contro due uomini più anziani che sono stati personaggi pubblici a New York per decenni. Ai giovani elettori sono piaciute le sue promesse marxiste di affitti più bassi, generi alimentari più economici e viaggi in autobus gratuiti, anche se sono irrealizzabili nella città più grande e complessivamente più costosa del Paese. A quanto pare, ogni generazione deve imparare da sé che il socialismo non funziona. Ma questo è ancora più vero per coloro che ottengono le loro informazioni sul mondo da TikTok e altri social media. Potrebbero anche essere stati indottrinati a credere nei miti woke sul mondo da un sistema educativo americano che ha un disperato bisogno del tipo di riforma che Trump sta tentando di attuare con i suoi sforzi per liberare l'istruzione superiore dal DEI e dall'antisemitismo.
Tuttavia, non si può ignorare il fatto che i newyorkesi abbiano ora eletto una persona la cui intera carriera pubblica è stata in gran parte guidata dalla sua opposizione all'esistenza dello Stato di Israele e dalla convinzione che sostenere coloro che ne cercano la distruzione sia la chiave per un mondo migliore.
Ciò significherà, come egli ha promesso, l'attuazione di politiche mirate contro Israele e gli ebrei in modi che avranno conseguenze profonde per gli ebrei newyorkesi. Quale sarà l'impatto sulle loro vite?
La sua promessa, fatta la notte delle elezioni, di opporsi all'antisemitismo, che ha raggiunto livelli senza precedenti nei due anni successivi agli attacchi arabi palestinesi guidati da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, non è altro che un inganno, poiché è stata accompagnata dalla sua affermazione che combatterà anche la mitica minaccia dell'islamofobia. Poiché quasi tutto ciò che viene definito “islamofobo” non è altro che richiamare l'attenzione sull'odio verso gli ebrei che è normativo tra i musulmani americani e gli arabi-americani, la sua promessa di difendere gli ebrei è priva di significato.
Nella New York di Mamdani, nessun ebreo dovrebbe pensare di poter contare sulla città per proteggersi. E questo si aggiunge al fatto che le sue politiche a favore dei criminali e la sua ostilità verso la polizia renderanno la città meno sicura per tutti.
Il trionfo di Mamdani e il sostegno che sta ricevendo dall'establishment liberale del Paese renderanno ancora più difficile la già ardua lotta dei democratici moderati e filoisraeliani per impedire al loro partito di spostarsi ancora più a sinistra. In un momento in cui i democratici sono motivati principalmente dal loro odio per Trump, normalizzare Mamdani può sembrare naturale e forse anche inevitabile. Anche se questo potrebbe alla fine danneggiare i democratici nelle future elezioni nazionali, non si può evitare il fatto che alimenterà la crescente normalizzazione dell'odio verso gli ebrei in tutto il partito, così come nel mondo culturale e mediatico liberale dominato dalla sinistra.
• Un giorno tragico
Qualunque siano le conseguenze politiche finali per i democratici, la vittoria di Mamdani deve essere segnata come un giorno tragico nella storia degli ebrei americani. Non si ricorda che qualcuno che nutre una tale ostilità verso questa minoranza religiosa abbia mai ottenuto una carica pubblica di alto livello negli Stati Uniti e allo stesso tempo sia stato trattato dai media mainstream come una star politica nazionale.
È il culmine di un processo attraverso il quale vili menzogne su Israele e gli ebrei sono diventate un discorso pubblico accettabile, piuttosto che qualcosa di confinato alle paludi febbrili dell'estrema sinistra e dell'estrema destra. I conservatori stanno almeno lottando per respingere gli sforzi di antisemiti come l'ex conduttore di Fox News Tucker Carlson e figure ancora più odiose di quella fazione per affermare se stessi e le loro idee come legittimi nella destra. I liberali, invece, hanno praticamente ceduto il loro partito a Mamdani e ad altri progressisti woke come la deputata Alexandria Ocasio-Cortez (D-N.Y.) e il resto della “Squadra” progressista e antisemita del Congresso.
Il risultato non è solo una tragedia per gli ebrei di New York, ma una pietra miliare che ha reso molto più difficile lo sforzo di tutti gli americani perbene di emarginare gli antisemiti.
(JNS, 5 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
NUMERI
Capitolo 11
- Ora il popolo cominciò a mormorare e questo dispiacque all'Eterno; e come l'Eterno li udì, la sua ira si accese, il fuoco dell'Eterno divampò fra loro e divorò l'estremità del campo. E il popolo gridò a Mosè; Mosè pregò l'Eterno, e il fuoco si spense. E a quel luogo fu posto nome Tabera, perché il fuoco dell'Eterno era divampato fra loro.
- E l'accozzaglia di gente raccogliticcia che era tra il popolo fu presa da concupiscenza; e anche i figli d'Israele ricominciarono a piagnucolare e a dire: “Chi ci darà da mangiare della carne? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto per nulla, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell'aglio. Ma ora l'anima nostra è inaridita; non c'è più nulla! gli occhi nostri non vedono altro che questa manna”.
- Ora la manna era simile al seme di coriandolo e aveva l'aspetto della resina gommosa. Il popolo andava attorno a raccoglierla; poi la riduceva in farina con le macine o la pestava nel mortaio, la faceva cuocere in pentole o ne faceva delle focacce, e aveva il sapore di una focaccia con l'olio. Quando la rugiada cadeva sul campo, la notte, vi cadeva anche la manna.
- E Mosè udì il popolo che piagnucolava, in tutte le famiglie, ognuno all'ingresso della propria tenda; l'ira dell'Eterno si accese gravemente e la cosa dispiacque anche a Mosè. Allora Mosè disse all'Eterno: “Perché hai trattato così male il tuo servo? perché non ho trovato grazia agli occhi tuoi, che tu mi abbia messo addosso il carico di tutto questo popolo? L'ho forse concepito io tutto questo popolo? l'ho forse dato alla luce io, che tu mi dica: 'Portalo sul tuo seno', come la balia porta il bimbo lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Dove prenderei io della carne da dare a tutto questo popolo? Poiché piagnucola dietro di me dicendo: 'Dacci da mangiare della carne!'. Io non posso, da solo, portare tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. E se mi vuoi trattare così, uccidimi, ti prego; uccidimi, se ho trovato grazia agli occhi tuoi; e che io non veda la mia sventura!”.
- E l'Eterno disse a Mosè: “Radunami settanta uomini degli anziani d'Israele, conosciuti da te come anziani del popolo e come aventi autorità su di esso; conducili alla tenda di convegno e si presentino con te. Io scenderò e parlerò lì con te; prenderò dello spirito che è su te e lo metterò su loro, perché portino con te il carico del popolo, e tu non lo porti più da solo.
- Quindi dirai al popolo: 'Santificatevi per domani, e mangerete della carne, poiché avete pianto agli orecchi dell'Eterno, dicendo: Chi ci farà mangiare della carne? Stavamo bene in Egitto! Ebbene, l'Eterno vi darà della carne, e voi ne mangerete. E ne mangerete, non per un giorno, non per due giorni, non per cinque giorni, non per dieci giorni, non per venti giorni, ma per un mese intero, finché vi esca per le narici e vi provochi nausea, poiché avete respinto l'Eterno che è in mezzo a voi e avete pianto davanti a lui, dicendo: Perché mai siamo usciti dall'Egitto?'”.
- E Mosè disse: “Questo popolo, in mezzo al quale mi trovo, conta seicentomila adulti, e tu hai detto: 'Io darò loro della carne, e ne mangeranno per un mese intero!'. Si sgozzeranno per loro greggi e mandrie in modo che ne abbiano abbastanza? o si radunerà per loro tutto il pesce del mare in modo che ne abbiano abbastanza?”. E l'Eterno rispose a Mosè: “La mano dell'Eterno è forse accorciata? Ora vedrai se la parola che ti ho detto si adempirà o no”.
- Mosè dunque uscì e riferì al popolo le parole dell'Eterno; e radunò settanta uomini degli anziani del popolo e li dispose intorno alla tenda. E l'Eterno scese nella nuvola e gli parlò; prese dello spirito che era su lui, e lo mise sui settanta anziani; e avvenne che, quando lo spirito si fu posato su loro, quelli profetizzarono, ma non continuarono.
- Intanto, due uomini, l'uno chiamato Eldad e l'altro Medad, erano rimasti nell'accampamento, e lo spirito si posò su loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda; e profetizzarono nell'accampamento. Un giovane corse a riferire la cosa a Mosè, e disse: “Eldad e Medad profetizzano nell'accampamento”. Allora Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè fin dalla sua giovinezza, prese a dire: “Mosè, signor mio, non glielo permettere!”. Ma Mosè gli rispose: “Sei tu geloso per me? Oh! fossero pur tutti profeti nel popolo dell'Eterno, e volesse l'Eterno mettere su di loro il suo Spirito!”.
- E Mosè si ritirò nell'accampamento, insieme con gli anziani d'Israele. E un vento si alzò, per ordine dell'Eterno, e portò delle quaglie dalla parte del mare, e le fece cadere presso l'accampamento, sulla distesa di circa una giornata di cammino da un lato e una giornata di cammino dall'altro intorno al campo, e a un'altezza di circa due cubiti sulla superficie del suolo. E il popolo si alzò, e tutto quel giorno e tutta la notte e tutto il giorno seguente raccolse le quaglie. Chi ne raccolse meno ne ebbe dieci omer; e se le distesero tutto intorno al campo.
- Ne avevano ancora la carne fra i denti e non l'avevano neppure masticata, quando l'ira dell'Eterno si accese contro il popolo, e l'Eterno percosse il popolo con una gravissima piaga. E a quel luogo fu dato il nome di Chibrot-Attaava, perché vi si seppellì la gente che era stata presa dalla concupiscenza. Da Chibrot-Attaava il popolo partì per Aserot, e ad Aserot si fermò.
(Notizie su Israele, 4 novembre 2025)
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Israele: «fuori la Turchia dalla Striscia di Gaza»
di Maurizia De Groot Vos
È di questa mattina la notizia, diffusa da Axios, che gli Stati Uniti si appresterebbero a presentare una risoluzione al Consiglio di sicurezza dell’Onu, la quale definirebbe lo status futuro della Striscia di Gaza.
Secondo Axios «lunedì gli Stati Uniti hanno inviato a diversi membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione per l’istituzione di una forza internazionale a Gaza per una durata di almeno due anni».
Sempre secondo la ben informata agenzia di stampa statunitense «la bozza di risoluzione, definita “SENSIBILIZZANTE MA NON CLASSIFICATA”, darebbe agli Stati Uniti e agli altri paesi partecipanti un ampio mandato per governare Gaza e garantire la sicurezza fino alla fine del 2027, con possibilità di proroghe in seguito».
Nelle intenzioni di Washington la cosiddetta Forza internazionale di stabilizzazione sarà incaricata di proteggere i confini della Striscia di Gaza con Israele ed Egitto, di garantire la sicurezza dei civili e delle zone umanitarie e di addestrare nuovi agenti di polizia palestinesi con cui collaborerà.
Non entrerò nei tecnicismi, per altro ancora fumosi, delle intenzioni statunitensi in merito alla cosiddetta “forza di pace”, quello che sembra sufficientemente sicuro è che fino ad oggi sono sette i paesi che, a parole, hanno dato la loro disponibilità a partecipare a questa “forza di pace”: Indonesia, Emirati Arabi Uniti, Italia, Malesia, Azerbaigian, Marocco e Turchia.
Vorrei porre l’accento sulla “disponibilità” turca, per altro già fortemente osteggiata da Israele.
La Turchia di Erdogan, che ha già inviato mezzi e uomini in Egitto, non riconosce Hamas come gruppo terrorista, ma come gruppo resistente. Ad Ankara ci sono gli uffici politici di Hamas e Erdogan si è più volte espresso a favore di Hamas, anche all’indomani del 7 ottobre.
La Turchia ha più volte minacciato Israele e teoricamente si trova già al confine nord dello Stato Ebraico, essendo la Siria caduta in mano di un gruppo Jihadista legato a doppio filo con Ankara e con la Fratellanza Musulmana. E solo pochi giorni fa MEMRI ha lanciato un serio avvertimento sulle intenzioni non proprio pacifiche della Turchia nei riguardi di Israele.
Solo pochi mesi fa Amine Ayoub scriveva che considerava la Turchia molto più pericolosa per Israele dell’Iran.
Amine Ayoub nel suo articolo sostiene che: «l‘ideologia della Fratellanza è fondamentalmente contraria allo Stato ebraico, vedendo Israele come un occupante di terre musulmane, e storicamente ha chiesto la sua distruzione. Mentre la minaccia dell’Iran a Israele è in gran parte militare e focalizzata sulla questione nucleare, il legame della Turchia con la Fratellanza Musulmana rappresenta una sfida ideologica più profonda. Ciò è particolarmente preoccupante poiché la Turchia usa la sua influenza politica e militare per diffondere ideologie affiliate alla Fratellanza Musulmana in tutto il mondo arabo, il che potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione e creare ambienti più ostili per Israele».
Da molto tempo Erdogan cerca il modo di “avvicinarsi” a Israele, nel senso che cerca il “contatto territoriale” con lo Stato Ebraico. Con l’aver messo un suo uomo alla guida della Siria c’è in parte riuscito, anche se deve fare i conti con drusi, curdi e con la prudenza israeliana che ha creato una sorta di zona cuscinetto.
Ma se riuscisse ad entrare a Gaza avrebbe non solo il contatto territoriale, ma in mezzora sarebbe nel cuore di Israele e potrebbe contare anche su eventuali “zone di sbarco”.
Per questo il dittatore turco sta facendo una fortissima pressione sul Presidente americano, Donald Trump, affinché “imponga” a Israele la presenza turca nella futura forza di pace a Gaza.
Tuttavia, anche se a Trump piace moltissimo Erdogan, il Segretario di Stato statunitense, Marco Rubio, è stato chiarissimo sul fatto che «Israele deve approvare chi farà parte del contingente internazionale» e di certo non ci saranno né la Turchia né il Qatar, ambedue finanziatori – nemmeno tanto occulti – di Hamas.
(Rights Reporter, 4 novembre 2025)
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La fermezza nel cedimento: Israele umiliato e ricattato
Il risalto in colore è stato aggiunto. NsI
di Stefano Piazza
La resa politica ha un volto e un prezzo. Quello che lo Stato d’Israele ha accettato non è un cessate il fuoco: è uno scalcinato compromesso imposto che trasforma la sicurezza nazionale in una contrattazione di retrovia, consegnando al tempo stesso dignità e sangue dei suoi cittadini alle logiche incomprensibili della diplomazia internazionale. Accettare clausole «impossibili» —come il disarmo di Hamas e di Hezbollah— significa firmare una sconfitta strategica già scritta: nessuno dei due movimenti ha alcun interesse reale a smantellare le proprie strutture militari. È pura illusione chiedere ciò che non avverrà mai; è follia politica fingere il contrario. E che dire del progetto di ricostruire la parte che l’IDF controlla e lasciare l’altra ad Hamas? Pura follia e brama di denaro da parte di affaristi senza scrupoli.
Peggio ancora: lo Stato è chiamato a sopportare lo stillicidio di resti dei propri ostaggi, riconsegnati «in pezzi», talvolta irriconoscibili. Le famiglie non ottengono che un’offesa alla memoria dei loro cari. Restituire brandelli di corpi è presentarlo come un risultato umanitario: un insulto che viene venduto come vittoria. E chi osa dire «Israele ha vinto» dovrebbe essere richiamato alla realtà dai lamenti delle madri, dagli abiti impregnati di sangue e dal silenzio degli sforzi mancati.
Sul piano operativo, fonti della sicurezza raccontano che ora i vertici politici stanno per autorizzare il trasferimento di circa 200 combattenti di Hamas presi in sacche nel sud di Gaza dalla zona di Rafah —aree che erano sotto controllo IDF al momento dell’entrata in vigore del cessate il fuoco— verso territori controllati da Hamas, a condizione che depongano le armi. È una misura che ricorda più una capitolazione organizzata che una mossa tattica: spostare i nemici per «ridurre il rischio» per i soldati e agevolare la ricerca dei corpi non è strategia, è rimozione del problema sotto il tappeto.
Le reazioni interne sono incandescenti e giustificate. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze e membro del Gabinetto di sicurezza, l’ha definita «una follia assoluta» chiedendo al premier di bloccare la manovra. Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale, non ha usato mezze parole: «Uccidete o imprigionate tutti i 200 terroristi che si trovano oltre la linea gialla. Questa è un’opportunità per distruggerli o trattenerli, non per rilasciarli in condizioni ridicole». Sono parole che fotografano il timore di chi vede nel rilascio un regalo strategico agli avversari.
E poi ci sono le famiglie, quelle che non si lasciano imbrigliare dalla retorica diplomatico-mediatica. La famiglia del soldato Efi Feldbaum —ucciso nella zona dove oggi si trovano i sospetti— ha lanciato un appello pubblico: «Non premiate i terroristi». «State di fronte a una prova», hanno detto, «state per prendere una decisione che avrà un impatto decisivo sull’intera nazione. Stiamo svendendo la nostra sicurezza ai mediatori o stiamo garantendo la sicurezza della nazione e il benessere dei nostri soldati?» La risposta richiesta è netta: «O si arrendono o vengono eliminati». Nessuna ambiguità.
A complicare la situazione, e ad aggravare il peso politico di questa resa, c’è il ruolo del Qatar. Doha —principale canale di finanziamento e mediazione per Hamas— ha stretto intese con gli Stati Uniti che la proteggono da potenziali azioni israeliane contro la sua rete di mediazioni. In pratica, il Qatar manovra in una zona franca: media, incassa, protegge i propri strumenti e continua a tirare i fili dietro le quinte e presto tornerà ( se non fa oggi a finanziare i tagliagole). È grazie al crinale mediatico qatarino che alcuni ostaggi sono stati restituiti; ma la restituzione di corpi devastati non è riscatto, è un marchio di vergogna politica
Chi governa deve ora rispondere di due fatti elementari: primo, perché accettare clausole che chiedono l’impossibile? Secondo, perché accettare il ritorno dei resti come se fosse un successo quando è una ferita aperta per ogni famiglia? Le risposte che arriveranno —se arriveranno— non potranno essere tiepide né tecniche. Questo non è un dibattito accademico: è la prova di affidabilità dello Stato di fronte ai propri cittadini e alle forze che ne minacciano l’esistenza.
La verità scomoda è che Gerusalemme sta barattando sicurezza con diplomazia senza garanzie concrete se non quelle dell’amministrazione americana che con il Qatar si è legata mani e piedi.
Israele sta pagando in lutti non ancora elaborati e in legittimazione mediatica dei suoi nemici senza dimenticare la spaventosa macchina propagandistica messa in campo contro lo Stato ebraico dall’8 ottobre 2023. Questa è una scelta che mette a repentaglio la credibilità delle istituzioni e la fiducia nelle forze che dovrebbero proteggere il Paese. E chi, tra i leader, penserà che questa sia la via della salvezza, pagherà un conto che non si cancellerà con comunicati o con titoli di giornale. Il messaggio delle famiglie e dei comandanti contrari è chiaro e crudele: non sacrificate il futuro sulla bilancia di una tregua priva di smantellamento reale dell’avversario. Perché la tregua, senza smantellare l’apparato militare e politico di Hamas (e senza affrontare la minaccia di Hezbollah), non farà che comprare tempo a chi ha interesse a ricostruire forza e narrazioni. E il tempo sarà pagato in sangue israeliano e in quello degli ebrei sparsi per il mondo.
(L'informale, 4 novembre 2025)
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Non si tratta di stabilire di chi è la colpa: qualcuno potrebbe anche dire che meglio di così le cose non potevano andare. Ma si può discutere sulla valutazione che si dà alle cose. Che Israele avesse perso questa guerra, doveva essere chiaro fin dalla prima resa degli ostaggi di Hamas a Israele, che in realtà era una resa di Israele ad Hamas. Si è schernita la “sceneggiata” di Hamas, con la sua solenne cerimonia di restituzione di quei pochi ostaggi, dimostrando così di non voler capire che erano “forche caudine” sotto cui gli “orgogliosi” israeliani sono stati costretti a passare. Hamas ha vinto perché comunque è ancora lì; e Israele ha perso perché Hamas è ancora lì, anche se in forma diversa, ma forse solo perché dovrà gestire la vittoria insieme ad altri.
C’è qualcosa di essenziale che deve essere ripensato in Israele, che forse si trova di fronte a un bivio. Qualcosa che è legato alla presenza ormai non più trascurabile, e per molti “ingombrante”, della sottosocietà dei cosiddetti “ultraortodossi”. Dio ha molti modi per richiamare l’attenzione del suo popolo su di Sé. M.C.
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Niente più accordi: Netanyahu blocca il ritiro di Hamas e sostiene la pena di morte per i terroristi
Dopo che Israele ha chiuso il capitolo del rilascio degli ostaggi, il primo ministro annuncia una nuova fase di deterrenza, con tolleranza zero per i terroristi e pene più severe.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - A due anni dal massacro di Hamas del 7 ottobre, si chiude un capitolo che un tempo sembrava impossibile: gli ostaggi vivi che erano stati portati a Gaza sono tornati tutti e quasi tutte le vittime sono state recuperate. Ma mentre un capitolo si chiude, ne inizia uno nuovo: il primo ministro Benjamin Netanyahu segna ora una svolta drammatica verso una deterrenza decisa.
Lunedì l'ufficio di Netanyahu ha annunciato che Israele non consentirà il ritiro sicuro di circa 200 terroristi di Hamas attualmente bloccati nella zona di Rafah controllata da Israele, smentendo così le notizie riportate dai media secondo cui tale evacuazione sarebbe stata presa in considerazione.
“Il primo ministro mantiene la sua posizione risoluta di disarmare Hamas e smilitarizzare la Striscia di Gaza, contrastando al contempo le minacce terroristiche contro le nostre forze armate”, si legge nella dichiarazione.
La proposta respinta, che secondo quanto riferito era stata avanzata da mediatori internazionali, prevedeva che i terroristi consegnassero le armi e fossero evacuati attraverso corridoi della Croce Rossa, possibilmente in cambio della restituzione di altri corpi di ostaggi. Tuttavia, questa proposta ha suscitato forti reazioni politiche contrarie.
“È una follia totale. Smettetela”, ha scritto il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich su X. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha esortato Netanyahu a garantire che i terroristi vengano “eliminati o arrestati”, aggiungendo: “Questa è un'opportunità, non per negoziare, ma per fare giustizia”.
L'IDF ha confermato di aver eliminato domenica diversi terroristi armati che avevano attraversato la cosiddetta “linea gialla”, la zona cuscinetto che segna i territori di ritiro israeliani, e si erano avvicinati in modo minaccioso ai soldati.
Più tardi quella notte, l'esercito ha annunciato che altri tre ostaggi uccisi - il colonnello Assaf Hamami, il capitano Omer Neutra e il sergente Oz Daniel - erano stati identificati dopo che i loro corpi erano stati restituiti da Hamas. Con la loro identificazione, rimangono solo otto corpi di ostaggi uccisi a Gaza, un triste ricordo dei massacri del 7 ottobre, in cui sono state uccise 1.200 persone e 252 sono state rapite.
Tuttavia, dopo che gli ultimi 20 ostaggi vivi sono stati riportati indietro il 13 ottobre nell'ambito di una tregua mediata dagli Stati Uniti, il governo Netanyahu non si concentra più sul salvataggio, ma sulla punizione.
Questo cambiamento di rotta ha preso forma lunedì, quando il primo ministro ha appoggiato un disegno di legge che prevede la pena di morte per i terroristi condannati per omicidio, una politica da tempo sostenuta dal partito Otzma Yehudit di Ben-Gvir, ma che in precedenza era stata accantonata a causa dei negoziati per il rilascio degli ostaggi.
“Il primo ministro sostiene il disegno di legge”, ha detto il generale di brigata (in pensione) Gal Hirsch, coordinatore di Gerusalemme per i prigionieri e i dispersi. “Oggi la realtà è diversa... Lo vedo come uno strumento nella lotta al terrorismo”.
Secondo il testo della legge, ogni terrorista condannato per omicidio “per motivi razzisti o ostili... con l'intento di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua terra” sarà punito con la pena di morte obbligatoria.
I sostenitori affermano che la legge invia un messaggio chiaro: nessun terrorista la farà franca.
Ben-Gvir ha ribadito dopo una riunione della commissione della Knesset: “Questa legge non lascia alcun margine di discrezionalità... Ogni terrorista che commette un omicidio deve sapere che l'unica pena che lo attende è la pena di morte”.
Sebbene Israele abbia giustiziato solo due persone nella sua storia – Meir Tobianski nel 1948 (successivamente riabilitato) e il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann nel 1962 – questa nuova legge potrebbe segnare una svolta nel diritto penale israeliano e nella politica antiterrorismo.
Analisi: quella che era iniziata come un'operazione di salvataggio si è ora trasformata in un netto cambiamento di rotta. La posizione di Netanyahu riflette l'umore generale nel Paese: l'era della moderazione è finita.
Gli ostaggi sono tornati. La Striscia di Gaza è stata parzialmente smilitarizzata. E ora il messaggio è chiaro: non ci saranno accordi per i terroristi. Nessun passaggio sicuro. Nessuna pietà.
(Israel Heute, 4 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
SALMO 83
Canto. Salmo di Asaf.
- O Dio, non tacere;
non restare in silenzio e inerte, o Dio!
- Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano rumorosamente,
e quelli che ti odiano alzano la testa.
- Complottano contro il tuo popolo
e ordiscono trame contro quelli che tu proteggi.
- Dicono: “Venite, distruggiamoli come nazione,
e il nome d'Israele non sia più ricordato”.
- Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento,
fanno un patto contro di te:
- le tende di Edom e gli Ismaeliti;
Moab e gli Agareni;
- Ghebal, Ammon e Amalec;
la Filistia con gli abitanti di Tiro;
- anche l'Assiria si è aggiunta a loro;
prestano il loro braccio ai figli di Lot. [Pausa]
- Fa' a loro come facesti a Madian,
a Sisera, a Iabin presso al torrente di Chison,
- i quali furono distrutti a En-Dor,
e servirono di concime alla terra.
- Rendi i loro capi simili a Oreb e Zeeb,
e tutti i loro prìncipi simili a Zeba e Salmunna;
- poiché dicono: “Impossessiamoci
delle dimore di Dio”.
- Dio mio, rendili simili al turbine,
simili a stoppia dispersa dal vento.
- Come il fuoco brucia la foresta,
e come la fiamma incendia i monti,
- così inseguili con la tua tempesta
e spaventali con il tuo uragano.
- Copri la loro faccia di vergogna,
perché cerchino il tuo nome, o Eterno!
- Siano delusi e confusi per sempre,
siano svergognati e periscano!
- E conoscano che tu, il cui nome è l'Eterno,
tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra.
(Notizie su Israele, 3 novembre 2025)
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Il problema non è Hamas, ma i palestinesi
Un nuovo sondaggio mostra che la maggioranza dei palestinesi sostiene Hamas e glorifica la “resistenza”.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Un nuovo sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research di Ramallah mostra un netto aumento del sostegno a Hamas, soprattutto nei territori palestinesi nel cuore biblico della Giudea e della Samaria. Secondo gli autori, questa tendenza riflette la crescente convinzione tra i palestinesi che la resistenza armata continui ad essere il mezzo più efficace contro Israele. Circa il 70% rifiuta il disarmo di Hamas, anche se questo fosse il presupposto per porre fine alla guerra. Il rifiuto è particolarmente marcato in Giudea e Samaria, con il 78%, mentre nella Striscia di Gaza il 55% è contrario. Ciò indica un ampio consenso: Hamas non deve essere disarmato. Capisco sempre più che il popolo della Striscia di Gaza vive in una lealtà abusata: chi lo opprime si presenta come il suo unico protettore e salvatore. Hamas mantiene il suo potere non nonostante le sofferenze della popolazione, ma proprio grazie ad esse. La violenza diventa legittimazione e il mito della “resistenza a tutti i costi” sostituisce ogni responsabilità.
Anche dal punto di vista politico Hamas rimane chiaramente in vantaggio. Il 60% dei palestinesi è soddisfatto del suo operato, mentre il leader dell'OLP Mahmud Abbas ottiene solo il 21% dei consensi. Circa l'80% chiede le sue dimissioni. È semplicemente incredibile, dopo tutto quello che la popolazione della Striscia di Gaza ha passato negli ultimi due anni. Tra la corruzione a Ramallah e l'inferno nella Striscia di Gaza, nonostante tutte le sofferenze, i palestinesi sembrano preferire Hamas a Fatah a Ramallah. Più sono oppressi da quel potere, più esso diventa popolare tra la popolazione.
Già la Bibbia descrive questo modello: le persone continuano a scegliere proprio quel potere che le opprime, purché prometta loro protezione o onore in battaglia. Gli israeliti desideravano persino tornare in Egitto, nonostante fossero schiavi: «Lì almeno avevamo il pane». La tirannia sembra più familiare della libertà quando la paura diventa uno stile di vita. Allo stesso tempo, la Bibbia chiarisce il fondamento ebraico: «Scegliete la vita!». Mentre altre culture glorificano la morte, la fede di Israele vede la sacralità della vita. I palestinesi che conosco da anni mi hanno ripetutamente sottolineato quanto ci invidiano perché glorifichiamo la vita. «È qualcosa che non conosciamo affatto nella nostra società. La vera vita inizia solo dopo la morte da martiri: è così che siamo cresciuti», mi ha detto Fadi, o in altre parole: Amer. Entrambi non erano d'accordo, ma conoscono la loro società.
Inoltre, l'Autorità Palestinese a Ramallah sta attraversando una profonda crisi di legittimità. Il 75% è insoddisfatto di Abbas, solo il 40% considera ancora l'AP un valore nazionale, mentre la maggioranza la considera un peso politico ed economico. La sicurezza personale è diminuita drasticamente, soprattutto nei territori palestinesi: l'85% non si sente più al sicuro, il doppio rispetto a due anni fa. La ragione di ciò sono le operazioni di terra di Israele parallele alla guerra nella Striscia di Gaza, in cui sono state combattute le roccaforti del terrorismo a Jenin, Nablus, Tulkarem e in altre città della Giudea e della Samaria.
Rispetto agli anni precedenti, Hamas ha guadagnato terreno soprattutto in Giudea e Samaria, nonostante o proprio a causa degli alti costi della guerra. Allo stesso tempo, l'opinione pubblica palestinese è divisa sul piano Trump: il 47% lo sostiene, il 49% lo rifiuta. Per il periodo successivo alla guerra, il 68% dei palestinesi rifiuta un accordo transitorio internazionale nella Striscia di Gaza, in particolare lo schieramento di una forza di intervento araba armata che dovrebbe garantire la sicurezza e disarmare Hamas. Anche in questo caso, il rifiuto è nettamente più alto in Giudea e Samaria (78%) che nella Striscia di Gaza (52%). Beh, questo è comprensibile: i palestinesi della Giudea e Samaria non hanno vissuto lo stesso inferno dei loro compagni della Striscia di Gaza.
È degno di nota il fatto che, dopo quasi due anni di guerra, il 53% dei palestinesi continui a sostenere la decisione di Hamas di attaccare il 7 ottobre 2023. Inoltre, l'86% rifiuta la “narrazione israelo-occidentale” secondo cui Hamas avrebbe commesso atrocità mirate contro civili israeliani. Chi odia Israele e gli ebrei difficilmente può riconoscere la verità: il suo istinto di odio glielo impedisce. E quando la verità viene repressa per alimentare l'odio, le vittime vengono dichiarate colpevoli e i colpevoli vittime. È proprio questa distorsione che vediamo nella reazione di molti palestinesi al 7 ottobre. Chi nega l'Olocausto non ha alcun problema a negare anche il massacro del 2023. L'odio rende ciechi.
Il sondaggio mostra chiaramente che i palestinesi non vogliono deporre le armi contro Israele. E questo non riguarda solo Hamas. Anche dopo la guerra devastante, la lotta armata rimane per molti il mezzo preferito, nonostante l'immensa sofferenza. La leadership terroristica non è caduta dal cielo, ma è emersa dalla società palestinese. Israele deve prendere atto che il problema non sono solo le organizzazioni terroristiche, ma la stessa società palestinese.
È vero: una leadership che tormenta il proprio popolo e si presenta come salvatrice vive di un oscuro fascino: più grande è l'oscurità, più viene vista come luce. Questa non è politica, è prigionia dell'anima. Forse questo spiega perché i palestinesi continuano a sottolineare che glorificano la morte e non – come gli ebrei – la vita. Perché credono di vedere la luce dopo la morte, Allah e le 72 vergini. E questo è confermato in un certo senso dall'ultimo studio.
L'ultimo sondaggio non solo mostra cosa pensano i palestinesi, ma anche dove stanno andando. E questo avrà ripercussioni anche su Israele. Non mi interessa cosa fanno della loro vita, purché non interferiscano con la nostra. Se la maggioranza dei palestinesi preferisce scegliere il fuoco della “resistenza” piuttosto che lo sforzo della pace, allora non si tratta di un dramma politico, ma spirituale. Chi celebra la morte come una vittoria non saprà proteggere la vita.
(Israel Heute, 3 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Gli israeliani glorificano la vita? Molto meglio che glorificare la morte, certo, ma di che vita si tratta? Non onora la “sacralità della vita” colui che vive senza aver nulla per cui sarebbe disposto a morire. Noi occidentali siamo piuttosto cultori della “paganità della vita”. E di questo, in piccola parte, si è visto qualcosa anche in Israele. M.C.
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Israele minaccia di intensificare gli attacchi contro Hezbollah in Libano
di Sarah G. Frankl
GERUSALEMME – Domenica Israele ha segnalato che potrebbe intensificare le operazioni in Libano contro Hezbollah, che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato di riarmarsi, esortando Beirut a disarmare il gruppo sostenuto dall’Iran.
Nonostante il cessate il fuoco del novembre 2024 con il gruppo militante libanese, Israele mantiene truppe in cinque aree nel sud del Libano e ha continuato a sferrare attacchi regolari.
“Hezbollah sta giocando con il fuoco e il presidente del Libano sta temporeggiando”, ha dichiarato il ministro della Difesa Israel Katz in una nota.
“L’impegno del governo libanese a disarmare Hezbollah e a rimuoverlo dal sud del Libano deve essere attuato. La massima pressione continuerà e si intensificherà ancora di più: non permetteremo alcuna minaccia ai residenti del nord”.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato che Hezbollah sta tentando di “riarmarsi”.
“Ci aspettiamo che il governo libanese mantenga il suo impegno – disarmare Hezbollah – ma è chiaro che eserciteremo il nostro diritto di autodifesa secondo i termini del cessate il fuoco”, ha detto Netanyahu al gabinetto durante la riunione settimanale di domenica.
“Non permetteremo che il Libano diventi un nuovo fronte contro di noi e agiremo come necessario”, ha detto, secondo una dichiarazione rilasciata dal suo ufficio.
• Ultimo attacco
Migliaia di israeliani che vivono vicino al confine settentrionale con il Libano sono stati costretti ad evacuare le loro case per mesi dopo che Hezbollah ha iniziato a lanciare razzi su Israele in seguito allo scoppio della guerra a Gaza nell’ottobre 2023.
Ciò ha scatenato un conflitto durato più di un anno, culminato in due mesi di guerra aperta prima che fosse concordato il cessate il fuoco dello scorso anno.
Il gruppo terrorista sostenuto dall’Iran, che si oppone a Israele, è stato gravemente indebolito dalla guerra, ma rimane armato e finanziariamente resiliente.
Nel settembre 2024, Israele ha ucciso il capo storico del gruppo, Hassan Nasrallah, insieme a molti altri leader di alto rango nel corso della guerra.
Dal cessate il fuoco, gli Stati Uniti hanno aumentato la pressione sulle autorità libanesi affinché disarmino il gruppo, una mossa osteggiata da Hezbollah e dai suoi alleati.
Il governo libanese ha elaborato un piano per imporre il monopolio statale sulle armi e ha affermato che l’esercito ha iniziato ad attuarlo, a partire dal sud del Paese.
Israele non ha mai smesso di effettuare attacchi aerei in Libano nonostante la tregua, sostenendo solitamente di prendere di mira le posizioni di Hezbollah, e negli ultimi giorni ha intensificato gli attacchi.
Giovedì, le truppe di terra israeliane hanno effettuato un raid nel sud del Libano, spingendo il presidente libanese Joseph Aoun a ordinare all’esercito di contrastare tali incursioni.
Aoun aveva chiesto colloqui con Israele a metà ottobre, dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva contribuito a negoziare un cessate il fuoco a Gaza.
Ma Aoun ha poi accusato Israele di aver risposto alla sua offerta intensificando i suoi attacchi, l’ultimo dei quali ha ucciso quattro persone nel distretto di Nabatiyeh sabato, secondo il ministero della salute libanese.
• “Il nostro nemico”
L’agenzia di stampa ufficiale libanese National News Agency ha riferito che l’esercito israeliano ha colpito un’auto “con un missile guidato”.
L’esercito israeliano ha confermato l’attacco, affermando di aver ucciso un membro della Forza Radwan di Hezbollah nel sud del Libano.
“Il terrorista era coinvolto nel trasferimento di armi e negli sforzi per ristabilire l’infrastruttura terroristica di Hezbollah nel sud del Libano”, ha detto l’esercito, aggiungendo che sono stati uccisi anche altri tre membri del gruppo.
Il giorno precedente aveva annunciato l’uccisione di un “funzionario di manutenzione di Hezbollah”, che secondo quanto affermato stava lavorando per ripristinare l’infrastruttura del movimento.
Centinaia di persone si sono riunite domenica a Nabatiyeh per rendere omaggio ai membri di Hezbollah uccisi.
I partecipanti hanno gettato petali di fiori sulle bare, drappeggiate con la bandiera di Hezbollah, cantando: “Morte a Israele, morte all’America”.
“Questo è il prezzo che il sud del Libano paga ogni giorno”, ha detto Rana Hamed, madre di uno dei cinque uomini uccisi. “Sappiamo da decenni che Israele è nostro nemico”.
(Rights Reporter, 3 novembre 2025)
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Israele intensifica i contatti diplomatici con i cristiani africani
“Nell'Unione Africana si respira un clima di terrorismo intellettuale contro Israele”, ha affermato il cappellano cattolico dell'Unione Africana.
di Etgar Lefkovits
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Una delegazione di eminenti leader cristiani africani in visita alla Grotta dei Patriarchi a Hebron, in Giudea, il 28 ottobre 2025.
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Una delegazione di 30 leader cristiani africani provenienti da 10 paesi del continente è stata in Israele la scorsa settimana per una missione congiunta religiosa e politica, mentre Gerusalemme intensifica la sua attività diplomatica basata sulla fede nei confronti di decine di milioni di sostenitori cristiani in Africa dopo la guerra di due anni contro Hamas a Gaza.
La visita ha messo nuovamente in evidenza il crescente braccio di ferro diplomatico tra sostenitori e oppositori dello Stato ebraico in Africa. Mentre il Sudafrica è emerso come uno dei più feroci critici di Israele a livello mondiale, altri paesi africani hanno reagito e stanno ora rafforzando ulteriormente i legami radicati in un mix di interessi condivisi e fede.
“Abbiamo molti nemici e molte persone che vogliono allontanarci, ma hanno un enorme ostacolo: stanno andando contro la parola di Dio”, ha detto il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar ai leader cristiani africani in un discorso tenuto giovedì sera a Tel Aviv. “Abbiamo bisogno di una contropressione sui governi affinché sostengano Israele sulla scena internazionale, e voi, in quanto leader spirituali legati alle vostre comunità, potete cambiare le cose”.
La delegazione comprendeva rappresentanti di Angola, Etiopia, Kenya, Mozambico e Uganda e includeva vescovi, pastori e importanti leader religiosi le cui congregazioni contano milioni di fedeli in tutto il continente.
Durante la loro visita di cinque giorni, il gruppo ha incontrato il presidente israeliano Isaac Herzog a Gerusalemme, ha visitato Hebron e Shiloh nel cuore biblico della Giudea e della Samaria e ha visitato il sito del festival musicale Supernova nel Negev nord-occidentale, che è stato preso di mira dai terroristi guidati da Hamas durante l'attacco del 7 ottobre 2023.
• “Partner strategici”
“I leader religiosi cristiani dell'Africa sono partner strategici dello Stato di Israele”, ha affermato il vice ministro degli Esteri Sharren Haskel, che ha guidato l'azione diplomatica verso il continente con più di una mezza dozzina di visite negli ultimi due anni.
"La comunità cristiana in tutta l'Africa sostiene fortemente Israele e costituisce una forza vitale nel contrastare la diffusione dell'Islam radicale e del jihadismo. Rafforzare i nostri legami con questi leader rafforza la posizione di Israele in Africa, fondata su valori profondi e condivisi che dureranno per generazioni“, ha affermato.
L'arcivescovo Justin Badi Arama del Sud Sudan ha dichiarato: ”Grazie per aver riportato in vita una visione che era un po' sopita, poiché non abbiamo mai preso posizione politicamente per parlare di Israele, ma solo dal punto di vista spirituale. La visione che avete elaborato ci ha ridato vita".
• “Terrorismo intellettuale” contro Israele
“Nell'Unione Africana c'è un clima di terrorismo intellettuale contro Israele”, ha affermato padre Louison Emerick Bissila Mbila, sacerdote cattolico e cappellano della Commissione dell'Unione Africana ad Addis Abeba, in Etiopia, lamentando la leadership anti-israeliana dell'Algeria e di Gibuti.
“Allo stesso tempo, le persone in Africa vogliono venire in Israele e pregare per Israele. Nel momento in cui scopriranno Israele, cambieranno idea”, ha affermato Bissila Mbila, cittadino della Repubblica del Congo e della Repubblica delle Seychelles.
L'anno scorso, gli alleati africani di Israele hanno sventato un tentativo da parte dei paesi africani, guidati dal Sudafrica e dall'Algeria, di privare Israele del suo status di osservatore presso l'Unione Africana, composta da 55 membri, un titolo detenuto da altri paesi come Cina, Grecia, Kuwait, Messico, “Palestina”, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito.
“Per molto tempo l'Africa è stata impegnata nella lotta per liberarsi dalla morsa del colonialismo”, ha affermato il pastore Robert Kayanja, consigliere del presidente dell'Uganda. “Ora il popolo africano si sta schierando a sostegno di Israele in un modo che non abbiamo mai visto prima”.
“Sappiamo che Israele è accusato ingiustamente quando cerca di difendersi dal terrorismo”, ha affermato. “E tutto ciò che sentiamo nei notiziari è ‘Gaza, Gaza, Gaza’ e non si parla mai delle uccisioni di cristiani in Africa”.
• 600 milioni di cristiani e 54 voti alle Nazioni Unite
Con 600 milioni di cristiani e 54 voti alle Nazioni Unite, inclusi 30 paesi a maggioranza cristiana, Israele ha puntato sul valore strategico della diplomazia religiosa nel continente in un momento di obbrobrio internazionale per le conseguenze della guerra a Gaza e la continua persecuzione dei cristiani in Africa.
“È la prima volta che i [rappresentanti] della Chiesa africana iniziano a incontrare lo Stato di Israele e le loro controparti religiose per riaffermare il nostro patrimonio comune e tracciare un percorso per promuovere gli interessi delle nostre comunità”, ha dichiarato a JNS il vescovo Dennis Nthumbi, direttore per l'Africa della Israel Allies Foundation con sede a Washington, D.C.. “Questo è un punto di svolta”.
Il vescovo Monday Muyombo della Repubblica Democratica del Congo, che sta lottando contro il boicottaggio di Israele nella Chiesa Metodista Unita, ha affermato che è solo questione di tempo prima che il cambiamento si affermi nel continente.
“Prego affinché più persone abbiano la possibilità di venire in Israele come noi e vedere con i propri occhi, perché ciò che viene riportato dai media non è accurato”, ha affermato. “Come diciamo noi, le bugie escono dall'ascensore mentre la verità esce dalla scala mobile”.
(JNS, 3 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La vittoria dopo la vittoria: l'imperativo di rinnovamento di Israele
Scritto dall'autore dopo il suo ritorno in Israele con la famiglia nell'agosto 2025, dopo tredici anni trascorsi all'estero, questo saggio riflette le osservazioni di una società che vive ancora nella lunga ombra della guerra. A due anni dal 7 ottobre, Israele procede con il ritmo incerto della ripresa: le sue istituzioni sono sotto pressione, i suoi cittadini sono stanchi, la sua resilienza è messa alla prova in un clima di calma apparente. Dai ministeri ai cancelli delle scuole e alle strade delle città, il Paese si sente intrappolato tra la sopportazione e il rinnovamento, alla ricerca non solo di stabilità, ma anche di uno scopo nello spazio tra guerra e pace.
di Gregg Roman
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In un ufficio governativo a Tel Aviv, i cittadini aspettano in un silenzio stanco mentre un impiegato smaltisce una fila sempre più lunga: una scena ordinaria che è diventata un simbolo silenzioso della stanchezza e della perseveranza del dopoguerra israeliano.
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Quando siamo arrivati in Israele con la mia famiglia lo scorso agosto, l'aria stessa sembrava ronzare di scartoffie. Il Paese sembrava sospeso in uno stato di malfunzionamento sistemico, una società che barcollava sotto un peso impossibile. Ci stavamo avvicinando al secondo anniversario della guerra del 7 ottobre e le code negli uffici governativi non erano tanto lunghe quanto pesanti, e anche quando si muovevano, sembrava che il pavimento sotto di loro non lo facesse. Ho visto l'impiegato allo sportello del ministero massaggiarsi le tempie e scusarsi con una stanza piena di sconosciuti come se avesse deluso personalmente ciascuno di noi.
Più di venti israeliani rimanevano ostaggio nelle mani di Hamas. Decine di migliaia di attività commerciali erano chiuse, con le sedie impilate come barricate dietro i vetri. I volti dei riservisti che incrociavo, molti dei quali con 600 giorni di servizio alle spalle, erano segnati da una profonda malinconia. In coda al supermercato, nei taxi, nelle pause fuori dai cancelli delle scuole, le stesse frasi tornavano come polvere dopo una porta sbattuta: riserve misurate in anni, non in mesi; una guerra senza fine e una fine senza un piano. Anche l'eroismo ordinario - la fedeltà sveglia all'ora di pagare le tasse, presentarsi al lavoro, accompagnare i bambini in un nuovo corridoio - aveva una sfumatura grigia, come se la routine fosse una specie di malinconia. Sembrava disperazione.
• Il ritmo della guerra e le sue conseguenze
Settembre è arrivato con un ritmo diverso. La posizione del Paese si è irrigidita. La mappa del telegiornale della sera mostrava una morsa che si stringeva e poi si allentava, come se un pugno stesse imparando a stringere di nuovo. I soldati venivano chiamati alle armi, richiamati a casa e richiamati alle armi. Settembre portò con sé momenti difficili: l'accerchiamento della città di Gaza, nuove chiamate alle armi e il fallito attacco israeliano a Doha che tuttavia trasmise un messaggio a Hamas e ai suoi sostenitori: non c'è rifugio. Il tentativo mancò i suoi obiettivi primari, ma chiarì le intenzioni. Le viti cominciarono a stringersi, non solo su Hamas, ma anche sui suoi sostenitori.
Le festività si susseguivano con l'impertinente regolarità del calendario. “Se non sono per me stesso, chi sarà per me? E se sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?” L'antica cadenza di Hillel suonava meno come un'etica e più come un ordine del giorno. Le voci che erano diventate precise nella disperazione hanno scoperto un registro per la determinazione.
Ottobre si è svolto come una contraddizione. Un accordo di cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti è passato dalla politica del rischio calcolato alla firma a Sharm el-Sheikh. Il presidente americano ha parlato alla Knesset, definendo il momento come un punto di svolta e contribuendo a far nascere un accordo che includeva il rilascio degli ostaggi e la restituzione di alcune salme. Nel giro di pochi giorni, una “linea gialla” segnò una nuova realtà contesa sul terreno, temporanea in teoria, ma già consolidata in un confine de facto con Israele che controllava poco più della metà della Striscia. Le mappe furono ridipinte con il colore di una pausa; le case rimasero senza proprietari per coloro che non sarebbero tornati; si parlava di linee e percentuali come se il dolore potesse essere misurato con un metro. La speranza arrivò nella luce responsabile del giorno e, di notte, svanì. Eppure, per alcune settimane, c'era un senso di sollievo, l'idea che il Paese potesse passare dalla sopravvivenza alla progettazione. Era un sospiro collettivo, nazionale.
Poi novembre ha abbassato il suo cielo familiare. Si è insinuata una nuova sensazione, più insidiosa. Lo scandalo è scoppiato proprio dove il pubblico e il privato si confondono: le dimissioni del procuratore generale militare in mezzo a uno scandalo di fughe di notizie, il calendario del tribunale del primo ministro, l'arresto di un'altra spia iraniana. Un orologio nucleare in una capitale ostile è stato fatto avanzare dagli analisti in televisione, che sorridevano come fanno i chirurghi quando cercano di aiutarti ad accettare le probabilità. Le istantanee dell'AIEA fino alla metà del 2025 hanno mostrato una grande scorta di uranio iraniano arricchito al 60%, con lacune di verifica dopo gli attacchi estivi. All'estero, l'attenzione delle grandi potenze si è distratta, come sempre accade quando la distanza e il tempo cooperano contro la memoria. Le prime pagine che una volta avevano imparato a pronunciare i nomi delle nostre città sono tornate ai loro alfabeti abituali.
La guerra è apparentemente finita, ma la quiete che è scesa non è la pace di un vincitore. È il silenzio dell'autocompiacimento. È tornata una inquietante mentalità “pre-7 ottobre”, come se gli ultimi due anni di perdite sconcertanti fossero stati un brutto sogno. A casa, il prezzo fiscale della guerra non si misura più solo in termini di dolore, ma anche in termini di deficit – il 6,9% del PIL nel 2024 – e di rapporti di indebitamento che influenzeranno le nostre scelte politiche per anni. Il Paese non era tornato al punto di partenza, ma la sua posizione sembrava inquietantemente familiare.
• La guerra dopo la guerra
Cosa succede, allora, dopo una stagione come questa, quando i soldati tornano nelle loro piccole cucine e nei loro salotti affollati e le discussioni a tavola riguardano finalmente chi ha dimenticato di comprare il latte? Quando i riservisti imparano di nuovo il peso delle loro chiavi e il calendario delle convocazioni lascia il posto a un orologio che deve essere cambiato perché il tempo conta davvero? Quando il debito pubblico, l'insonnia e la nausea morale si incontrano nel corpo e si rifiutano di andarsene? Cosa segue una vittoria parziale, o un cessate il fuoco che non è ancora una vittoria, o una quiete che può essere interrotta da un singolo messaggio inviato al momento giusto?
Questo ritorno a una parvenza di normalità è un'illusione strategica. La guerra può essere finita, ma la vittoria non è ancora stata conquistata. Un cessate il fuoco non è una resa. Una pausa non è la pace. Stiamo dimenticando la lezione fondamentale di tutto questo conflitto: non si può “gestire” una minaccia esistenziale. La vecchia dottrina del contenimento, del “falciare l'erba”, ha fallito in modo catastrofico. È stato un fallimento dell'immaginazione che abbiamo pagato con il sangue dei nostri cittadini. Come ci ha avvertito Ze'ev Jabotinsky, “l'unico modo per raggiungere un accordo in futuro è abbandonare ogni idea di cercare un accordo nel presente”. Abbiamo abbandonato quell'idea e abbiamo combattuto con una determinazione terribile. Non dobbiamo ora, all'ultimo ostacolo, scambiare l'amara verità della vittoria con il dolce veleno di una calma temporanea.
La risposta inizia con l'ammissione che la guerra dopo la guerra si combatte in patria. Si combatte nei ministeri che devono imparare a muoversi con la stessa rapidità delle brigate che equipaggiano. Si combatte nelle aule scolastiche dove una generazione deciderà se le parole “Stato” e “cittadino” appartengono ancora l'una all'altra. Si combatte nelle cliniche dove la notte viene curata senza vergogna. Si combatte nei tribunali che devono convincere l'opinione pubblica che la giustizia è cieca piuttosto che assente. Si combatte nell'economia, dove le piccole imprese non devono essere lasciate a pagare il prezzo del coraggio nazionale. Si combatte nell'immaginazione: l'unico fronte in cui possiamo scegliere il terreno.
• La crisi a tre livelli
Quando i soldati torneranno a casa, in quale nazione torneranno? Torneranno in una società che ha perso il suo bene più prezioso: la fiducia nelle sue istituzioni. Questa crisi è a tre livelli, ognuno dei quali aggrava il successivo.
In primo luogo, c'è la crisi delle istituzioni e della fiducia. Agosto ha messo a nudo la capacità dello Stato sotto carico estremo: iscrizioni scolastiche ritardate, sussidi bloccati, permessi in sospeso. Non si tratta di questioni “minori”; sono l'interfaccia tra il cittadino e lo Stato, il volto della sovranità in tempo di pace. Quando la burocrazia è approssimativa, i cittadini pensano che lo Stato non sia serio. Quando è rapida, i cittadini cedono e credono. Non possiamo permetterci un governo che combatte bene ma archivia male.
In secondo luogo, c'è la crisi della coesione sociale e della condivisione degli oneri. La guerra ha chiesto di più ad alcuni che ad altri. Molti riservisti hanno prestato servizio per centinaia di giorni; molte famiglie hanno assorbito lo shock della perdita di reddito. Nel frattempo, troppi israeliani hanno concluso, in silenzio o ad alta voce, che il patto di reciproci obblighi si era logorato. Il servizio universale – civile, militare e sociale – offre al Paese una grammatica dell'appartenenza che non umilia la differenza e non giustifica l'incuria.
In terzo luogo, c'è la crisi demografica e dei talenti. Dal 2022, l'emigrazione è aumentata, con 125.000 partenze a lungo termine segnalate fino al 2024. Questa fuga di cervelli è una minaccia alla sicurezza nazionale, un silenzioso svuotamento del sogno sionista, anche se il settore tecnologico rimane il motore della crescita del Paese. Abbiamo dimostrato la nostra potenza militare e la nostra capacità di imporre una nuova architettura di sicurezza. Ma quel potere è insignificante se la società che dovrebbe proteggere è frammentata, cinica e svuotata dall'interno.
• Il quadro strategico e i suoi limiti
Per anni, una semplice idea ha messo in discussione la vecchia ortodossia del processo di pace: i conflitti non finiscono quando vengono negoziati con cortesia fino a raggiungere una situazione di stallo, ma quando la sconfitta viene interiorizzata e il rifiuto finisce. Chiamatela dottrina della vittoria: meno una vanteria che una sobria teoria sulla fine dei conflitti. La “dottrina della vittoria” non è mai stata un inno alla violenza, ma un'insistenza sulle cause primarie, un rifiuto di scambiare il cessate il fuoco per una cura o la retorica per un rimedio. Essa sosteneva che i conflitti finiscono quando una delle parti ammette che i suoi obiettivi di guerra sono impossibili e che la politica deve essere concepita in modo da accelerare tale ammissione. Lo diciamo da anni e gli ultimi due non lo hanno smentito, ma chiarito.
Questa dottrina culmina in una visione estroversa talvolta descritta come Pax Israeliana: Israele come garante della sicurezza che smorza il caos regionale invece di assorbirlo perpetuamente. Il concetto non è arroganza, ma responsabilità derivante dal potere forte reso leggibile come bene pubblico: difesa aerea che funziona oltre i confini, fusione di intelligence che ferma il prossimo massacro prima che lasci un gruppo di chat, corridoi economici che legano la stabilità alla prosperità in modi che i nostri vicini possono misurare al molo. L'idea è stata articolata; è ora di passare dalla teoria alla politica.
Questa visione riconosce dove si trova la leva decisiva. L'Iran non è solo un altro tentacolo, ma la testa della piovra, che stringe o allenta a suo piacimento le sue spire regionali. Anche dopo gli attacchi e le sanzioni, la questione nucleare rimane pericolosa. La trasformazione di Israele da consumatore di sicurezza a fornitore di sicurezza senza imbarazzo richiede di affrontare la piovra, non solo i tentacoli.
Ma come ha scritto Isaiah Berlin, “La libertà per i lupi ha spesso significato la morte per le pecore”. La vittoria all'estero è sterile se la sconfitta mette radici in patria, nella nostra fiducia sociale, nel nostro senso di equità, nella funzionalità quotidiana che permette alle famiglie lavoratrici di prosperare. Una politica di sicurezza che ignora la resilienza interna lascia il gregge esposto in modo più silenzioso. Il compito ora è quello di coniugare la chiarezza strategica con la ricostruzione civica.
• Un programma di rinnovamento
Non si tratta di sostituire i leader, quanto piuttosto di ricostituire la leadership. Nella nostra storia, il rinnovamento raramente è arrivato come una sorpresa elettorale. L'ammonimento di David Ben-Gurion – «In Israele, per essere realisti bisogna credere nei miracoli» – non era un invito alla passività, ma alla disciplina di un lavoro improbabile. Richiede un programma che sia sia morale che materiale, un programma che possa essere stampato, sì, ma soprattutto vissuto.
Lo chiamo programma di rinnovamento, anche se sfugge alla precisione di un elenco. Come molte discussioni ebraiche, inizia in una cucina. Una madre a mezzanotte, ancora sporca della polvere della giornata, apre un laptop per iscrivere suo figlio a scuola e scopre un labirinto. Il rinnovamento, in questo caso, non è retorico. È la differenza tra una fila che dura un'ora e una fila che dura una settimana.
• Riparare lo Stato che i cittadini toccano
Lo Stato deve muoversi come fa l'esercito quando è giusto: con chiarezza di missione, con l'umiltà di misurarsi e con l'onore di ammettere gli errori. I nostri ministeri dovrebbero pubblicare i loro arretrati con la stessa trasparenza con cui pubblicano i bilanci, come un medico che conta le bende durante una lunga notte. Per ricostruire la legittimità, bisogna mostrare il proprio lavoro.
Abbiamo bisogno di una regola dei 90 giorni: uno standard di servizio legale per l'assegnazione dei posti scolastici, le indennità di invalidità e le licenze per le piccole imprese. Tutto ciò che non viene risolto in 90 giorni viene automaticamente deferito a un difensore civico con autorità vincolante. Abbiamo bisogno di un portale digitale unificato e multilingue per le famiglie sfollate, i riservisti, i lutti e i nuovi arrivati: sussidi, alloggi, salute mentale e istruzione, tutto in un unico flusso di lavoro, non l'attuale portale Gov.IL, inaccessibile a molti cittadini. Non si tratta solo di efficienza amministrativa, ma del ripristino della fiducia tra cittadini e Stato.
• Equilibrare l'onere nazionale
Il servizio nazionale deve diventare il prossimo linguaggio comune. Non è sufficiente affidare la solidarietà a coloro che già indossano un'uniforme. Un servizio nazionale universale per tutti i giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni, militare, di protezione civile, sanitario/educativo o infrastrutturale, con adeguamenti per la fede e la cultura, ma senza esenzioni generali. L'adolescente haredi che insegna a leggere e scrivere in un reparto ospedaliero e l'apprendista arabo che lavora al rafforzamento dei sistemi informatici municipali dovrebbero un giorno incontrarsi per caso davanti a un chiosco di cibo di strada e salutarsi con un cenno del capo, consapevoli di avere la stessa cittadinanza.
Gli incentivi dovrebbero essere anticipati: tasse scolastiche, sussidi per l'alloggio e preferenze di assunzione legate al servizio completato. Dobbiamo ampliare le accademie pre-servizio che mescolano gruppi laici, religiosi, arabi e Haredi attorno a progetti comuni: certificazione EMS, assistenza agli anziani, igiene informatica per i comuni. Kol Yisrael arevim zeh bazeh: tutto Israele è responsabile l'uno dell'altro. Questo antico principio deve diventare una politica moderna.
• Costruire la serietà economica
L'economia è uno strumento morale perché la dignità è costosa da mantenere e inestimabile da perdere. Parliamo delle imprese come se fossero vetrine intercambiabili, ma ognuna di esse è una biografia familiare, un prestito co-firmato da un cugino, la pensione di un anziano legata al coraggio di sua figlia. Il Paese non può prosperare applaudendo il sacrificio e ammortizzandolo con la silenziosa deflazione dei piccoli negozi chiusi per sempre.
Uno Stato che può manovrare intere brigate dall'oggi al domani può, se lo desidera, impiegare il capitale circolante con la stessa precisione: finanziamenti ponte che arrivano in tempo, differimenti fiscali che sembrano ossigeno piuttosto che burocrazia, appalti che preferiscono l'officina locale che ha sfamato un plotone alla multinazionale che ha reso felice un lobbista. Abbiamo bisogno di un patto fiscale in tempo di guerra: congelare i nuovi diritti permanenti fino al 2026; proteggere le reti di sicurezza mirate; spostare almeno l'1% del PIL dai sussidi al consumo ai motori della crescita. Il deficit di Israele richiede un consolidamento che sia credibile e umano.
Per invertire la fuga dei cervelli, dobbiamo rendere i nuovi incentivi al ritorno tecnologico prevedibili e trasferibili, con chiarezza nella tassazione del patrimonio e riconoscimento delle opzioni estere. Abbiamo bisogno di hub regionali al di fuori di Tel Aviv per diffondere la crescita. Il denaro si comporta come munizioni quando viene incanalato attraverso tagli; dovrebbe comportarsi come infrastrutture quando viene indirizzato ai cittadini.
• Trasformare l'istruzione e la leadership
L'istruzione deciderà se il Paese potrà superare la prossima idea dei suoi nemici. Un programma scolastico che insegni ai nostri figli a leggere poesie e brevetti allo stesso modo li renderà utili sia ai loro antenati che ai loro discendenti. “Il vecchio sarà rinnovato e il nuovo sarà santificato”, scrisse Rav Kook, delineando il paradosso del Paese anni prima che avessimo la larghezza di banda per realizzarlo. Un sistema educativo che trasforma gli ingegneri in umanisti e gli umanisti in cittadini non è ornamentale, ma è una profondità strategica. Le classifiche universitarie non sono un feticcio nazionale, ma sono un indicatore di quanto del nostro futuro produciamo noi stessi.
Al soldato che torna da due anni di interruzione dovrebbe essere garantito non uno slogan, ma un percorso – nelle aule, negli uffici comunali, nelle startup, nei laboratori – con crediti trasferibili e porte che si aprono. Dobbiamo accelerare l'inserimento dei veterani e dei riservisti nelle borse di studio per la gestione comunale, con una formazione in materia di bilancio, appalti e fornitura di servizi. Abbiamo bisogno di scuole consapevoli dei traumi, con un corpo docente composto da riservisti e clinici riqualificati che lavorino nei programmi di salute mentale scolastici per tre anni.
La cultura della leadership ha bisogno di una nuova catena di approvvigionamento. Abbiamo fatto affidamento troppo a lungo sull'idea che i generali si traducano automaticamente in governatori. Alcuni lo fanno, altri no. La prossima coorte deve arrivare dal laboratorio e dalla clinica, dal consiglio comunale e dalla buca dell'orchestra, dalle donne che gestivano le cucine dei battaglioni come piccole città e dagli uomini che ricostruivano i convogli logistici sotto la pioggia. L'abitudine al comando non è un monopolio, è un mestiere. Dovremmo trattarla come trattiamo le unità d'élite: identificare il talento in anticipo, addestrarlo senza pietà, metterlo alla prova senza pietà e poi affidargli un lavoro reale.
• Ripristinare lo Stato di diritto
La legge deve fare qualcosa di poco attraente: deve ispirare. I processi devono essere noiosi, vale a dire fedeli. Le indagini devono sembrare invisibili fino al momento in cui non lo sono più, e poi devono essere pulite, rapide e devastanti. La convinzione dell'opinione pubblica che nessuno è al di sopra della legge è una risorsa nazionale vitale quanto il gas naturale. Se mai si esaurisse, respireremmo, ma non vivremmo.
• Coinvolgere la diaspora come partner
La diaspora non è un pubblico, è una riserva. Nessuno all'estero ha bisogno di lezioni su come amare questo posto. Ma l'amore può essere reso operativo. Un percorso di servizio alla diaspora – contratti sabbatici per insegnanti, brevi tour per chirurghi pediatrici e analisti di sicurezza informatica, un percorso da due estati a dieci anni che renda il venire qui per costruire qualcosa l'interruzione più naturale nella vita professionale – sostituirebbe il controllo occasionale con un arrivo costante. La frase di Yehuda Halevi - “Il mio cuore è in Oriente, e io sono ai confini dell'Occidente” - descriveva una separazione; noi possiamo trasformarla in un pendolarismo.
Dati recenti degli Stati Uniti mostrano che gli episodi di antisemitismo hanno raggiunto livelli record; questo è il momento di approfondire, non di restringere, la nostra cultura ebraica democratica. Israele deve essere più di una fortezza; deve tornare a essere un faro.
• Coltivare la memoria e il significato
La memoria e il significato devono essere coltivati con la stessa cura riservata ai bilanci. I nostri poeti hanno sempre svolto questo compito quando i nostri politici erano troppo occupati. H. N. Bialik ci ha insegnato come dare un nome alla catastrofe senza arrenderci ad essa; Yehuda Amichai ha trovato spazio nella tragedia per il panino di un bambino. Non è sentimentale affermare che le canzoni e le storie fanno parte della sicurezza nazionale. È così. Un popolo che sa raccontare se stesso sopravvive. E un paese che sa raccontare se stesso in modo veritiero può governarsi senza crudeltà.
Dobbiamo istituzionalizzare due obblighi: una giornata nazionale annuale dedicata all'impegno e un finanziamento continuo per l'assistenza al recupero. Abbiamo bisogno di sovvenzioni di emergenza legate all'eccellenza della ricerca, alla sicurezza dei campus per tutti gli studenti e a riforme di governance depoliticizzate per proteggere il merito. Dobbiamo finanziare piccoli locali, orchestre giovanili, giornalismo civico e residenze artistiche municipali. La cultura è tessuto connettivo, non un lusso.
• Dalla vittoria all'ordine
Al di là dei nostri confini, è necessaria una strategia sobria. Chiamiamola pace regionale imposta dalla competenza, una pace israeliana – una Pax Israeliana – costruita non sulla negazione ma sulla capacità dimostrata. Il cessate il fuoco e il vertice di Sharm el-Sheikh sono solo la prima fase. L'attuazione dipenderà dal fatto che la “linea gialla” rimanga un meccanismo temporaneo o si cristallizzi in una frattura permanente.
Il compito di Israele ora è quello di conquistare la pace con la stessa serietà con cui ha affrontato la guerra: progettare il “dopo” piuttosto che lasciarsi trasportare da esso. Quel “dopo” include una rigorosa opera di deradicalizzazione nei luoghi in cui l'incitamento è stato il programma non ufficiale dell'istruzione, un programma che utilizza i migliori strumenti del nostro secolo per rendere la moderazione l'opzione più persuasiva in quello successivo. Abbiamo abbozzato come potrebbe essere una pace post-vittoria: una campagna risoluta contro le infrastrutture dell'odio, accompagnata da una costruzione incessante della vita civile. È possibile essere sia duri che umani.
Tutto ciò richiede un cambiamento retorico che precede la politica. Per troppo tempo abbiamo cercato di svergognare l'eufemismo con i fatti. Non funziona. L'eufemismo non può arrossire. Può solo essere superato. La battaglia mediatica non è un ornamento dello sforzo bellico, è la maschera di ossigeno per le democrazie che cercano di respirare sotto la pressione della malafede. Abbiamo imparato, a volte a nostre spese, che non si può vincere una conversazione in cui si entra troppo tardi. Negli anni passati abbiamo sviluppato l'abitudine di nominare le cause primarie e di rifiutare che l'equilibrio si trasformi in falsità. Avremo bisogno di questa abitudine negli anni a venire, quando tornerà la stanchezza della moda e il mondo ci chiederà di nuovo di scusarci per aver insistito sulla verità.
La politica di sicurezza deve mirare a porre fine al rifiuto e ai suoi sostenitori statali, limitando al contempo la nostra propensione alle “emergenze perpetue”. Non si fa la pace con gli amici, ci ha ricordato Yitzhak Rabin, ma con nemici molto sgradevoli. Ciò richiede sia lucida lucidità che moderazione democratica. Assegnare a Israele il ruolo di garante della sicurezza funziona solo se la nostra condotta è vincolata dalla legge e animata da uno scopo. Altrimenti, la frase si riduce a potere senza legittimità.
• La leadership di cui abbiamo bisogno
Non abbiamo bisogno di un unico salvatore. Abbiamo bisogno di una generazione: un Ben-Gurion per i bilanci, un Rabin per la condivisione degli oneri, un Begin per la moderazione democratica, un Peres per la scienza e un Kook per il rinnovamento. “Tutta la vita reale è incontro”, insisteva Martin Buber. Abbiamo bisogno di leader in grado di creare “incontri” civici che valgano il sacrificio.
Alcuni saranno sindaci, altri amministratori ospedalieri, altri presidi scolastici, altri imprenditori sociali, altri membri della Knesset che ricordano che le istituzioni non sono bottini di guerra. Golda Meir ha detto che un leader che non è turbato dalla decisione di mandare i soldati in battaglia “non è adatto a essere un leader”. La prossima generazione deve essere turbata, nel senso migliore del termine, dalle realtà umane che si celano dietro ogni voce di bilancio e ogni linea di avanzamento.
Ahad Ha'am ha scritto: “Più che gli ebrei ad aver osservato il Sabbath, è il Sabbath ad aver osservato gli ebrei”. Le istituzioni preservano un popolo; impediscono anche a una generazione di leader di credere che i loro doni siano frutto del caso.
• Un'ultima parola sulla politica e la pazienza
Israele non sarà salvato da una singola elezione, così come non è stato messo in pericolo da una sola elezione. Le personalità contano, ma le istituzioni contano di più. Il programma di rinnovamento non è un manifesto allegato a un accordo di coalizione; è un decennio di scelte fatte in uffici dove nessuno chiede mai un selfie. Sono bilanci che premiano la competenza e puniscono i ritardi. Sono nomine basate sulla serietà piuttosto che su frasi ad effetto. È un temperamento nazionale che scrolla le spalle di fronte all'indignazione performativa e riserva la sua ammirazione al miracolo poco affascinante di un modulo compilato correttamente al primo tentativo.
A coloro che se ne sono andati, dico: abbiamo bisogno che torniate. Non perché andarsene sia stato un tradimento, ma perché tornare a casa è un atto di speranza. Il poeta Nachman di Breslov insegnava che “il mondo intero è un ponte molto stretto, e la cosa principale è non avere paura”. La paura fa chiudere le società in se stesse. La speranza costruisce istituzioni e invita al controllo. La speranza è fare un bilancio onesto, discutere con veemenza e correttezza, pagare le tasse, fare volontariato sull'ambulanza alle 2 del mattino, redigere il giornale del liceo, avviare una piccola fabbrica a Kiryat Shmona e candidarsi – sì – al consiglio scolastico, al consiglio comunale e alla Knesset.
Il “muro di ferro” di Jabotinsky non è mai stato concepito come un muro che circonda la nostra immaginazione. Era destinato a proteggere lo spazio in cui la creatività politica potesse finalmente funzionare. Lo sciopero di settembre a Doha, il discorso alla Knesset di ottobre e l'accordo quadro di Sharm el-Sheikh, e il ritorno a casa degli ostaggi: tutto questo non ha portato all'utopia, ma ha aperto una piccola breccia in cui gli israeliani possono svolgere il lento lavoro civile che rende duratura la vittoria.
Viviamo, come tutti gli israeliani, sotto una doppia ingiunzione: essere sia antichi che nuovi. La frase di Rav Kook la fa sembrare semplice, ma non lo è mai. I poeti ci danno coraggio, i negozianti ci danno disciplina. I soldati portano a casa una tranquillità che pochi potranno mai capire, i giudici impediscono alle finestre di tremare quando torna il vento.
“Gli uomini e le nazioni”, osservava Abba Eban, “si comportano con saggezza solo dopo aver esaurito tutte le altre alternative”. Noi le abbiamo esaurite. La saggezza ora sembra sobrietà, servizio e coraggio di costruire. Se c'è una sola frase che riassume l'atteggiamento di cui abbiamo bisogno, essa non appartiene a nessun uomo di Stato e appartiene a tutti loro: siate ostinati nella speranza e meticolosi in tutto il resto.
Il compito di questa generazione, quella in fila allo sportello del ministero e quella sull'attenti, è quello di far stringere la mano al realismo e ai miracoli. Il programma di rinnovamento è quella stretta di mano. Non è affascinante. Non è veloce. È semplicemente l'unico modo per meritare il Paese che i nostri nonni hanno immaginato e che i nostri figli meritano.
“Se lo vuoi, non è un sogno”, promise Herzl. Il rinnovamento è la volontà, disciplinata. La pace è il sogno, guadagnato. Tra di essi c'è il lavoro. E questo, alla fine, è qualcosa che sappiamo fare.
Il mondo andrà avanti. Le telecamere si sposteranno altrove. Ma il compito che ci attende è più silenzioso e più importante. Far funzionare lo Stato. Condividere il peso. Far crescere l'economia. Proteggere i confini. Mantenere la fede con gli ostaggi e i caduti. E formare leader - artisti e ingegneri, medici e insegnanti, giuristi e sindaci - all'altezza del momento.
Se lo vogliamo - non il sogno di una pace senza attriti, ma il duro lavoro di un ordine giusto - non è un sogno.
(Middle East Forum, 2 novembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 18
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
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Dolore e pentimento di Dio
“E l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra, e che tutti i disegni del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E l'Eterno disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti’ (Genesi 6:1-7).
Per la prima volta la Bibbia presenta un Dio addolorato. Il suo dolore non è provocato dal pensiero di quello che aveva fatto creando l’uomo, perché ciò che aveva fatto era “molto buono” (Genesi 1:31), ma dal pensiero di doversi “pentire”, cioè di dover modificare il progetto creativo ideato in origine.
È una questione di sovranità. Con il suo avanzare nel male, la stirpe degli uomini conferma il NO a Dio del loro progenitore Adamo, ma l’essere creato non può permanere nella sua opposizione al Creatore e sussistere: Dio dunque deve distruggerlo.
E questo lo addolora profondamente (in cuor suo), perché Dio ha creato il mondo come espressione del suo amore, nel vivo desiderio di sperimentare la libera risposta d’amore delle sue creature. Ma questa non arriva.
Ma forse no. Volgendo il suo sguardo alla terra, il Signore scorge un uomo che potrebbe farlo pentire del suo pentimento:
Noè forse è l’uomo che ad una ben calibrata parola di Dio potrebbe rispondere SI. Gli viene concessa la grazia di essere messo alla prova.
Dio applicherà i punti 1) 2) del suo “schema operativo”.
Come prima cosa, gli comunica quello che intende fare in un prossimo futuro;
“E Dio disse a Noè: “Nei miei decreti, la fine di ogni essere vivente è giunta; poiché la terra è piena di violenza a causa degli uomini; ecco, io li distruggerò, insieme con la terra” (Genesi 6:13);
“Ed ecco, io sto per far venire il diluvio delle acque sulla terra, per distruggere sotto i cieli ogni essere vivente in cui è alito di vita; tutto quello che è sulla terra, morirà” (Genesi 6:17)
Poi gli dà dettagliati ordini su quello che deve fare prima che avvenga il diluvio: costruire un’arca di precise dimensioni (Genesi 6:14-16) e farvi entrare esemplari di tutti gli animali (Genesi 6:19-21). E aggiunge una precisa promessa:
“Ma io stabilirò il mio patto con te; e tu entrerai nell'arca: tu e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te” (Genesi 6:18).
Noè esegue gli ordini:
Dio allora passa al punto 3) dello schema compiendo “l’atto potente” del diluvio.
Alla fine del diluvio passa al punto 4) osservando la reazione di Noè che liberamente, cioè senza aver ricevuto ordini, edifica un altare su cui offre animali puri in olocausto a Dio.
Dio infine passa al punto 5), e considerando molto positiva la reazione di Noè, prende una decisione:
“L’Eterno sentì un odore soave; e l'Eterno disse in cuor suo: “Io non maledirò più la terra a motivo dell'uomo, poiché i disegni del cuore dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8:20-22).
Così il Signore fa ripartire il suo programma di redenzione, nella forma di un nuovo patto:
“Poi Dio parlò a Noè e ai suoi figli con lui, dicendo: “Quanto a me, ecco, stabilisco il mio patto con voi e con la vostra progenie dopo voi, e con tutti gli esseri viventi che sono con voi: uccelli, bestiame, e tutti gli animali della terra con voi; da tutti quelli che sono usciti dall'arca, a tutti quanti gli animali della terra. Io stabilisco il mio patto con voi, e nessun essere vivente sarà più sterminato dalle acque del diluvio, e non ci sarà più diluvio per distruggere la terra” (Genesi 9:8-11).
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Sovranità e grazia di Dio
Nel programma redentivo che Dio svolge sulla terra si possono riconoscere due modi di agire fra loro collegati ma distinti, che chiameremo linea della sovranità e linea della grazia. Non tenteremo qui difficili definizioni sintetiche e onnicomprensive, ma ci riferiremo ad esse con spunti di riflessione sui fatti presentati dalla Bibbia.
Nel resoconto dell’uscita di Israele dall’Egitto sono presenti entrambe le linee. Dio esercita la sua sovranità sul Faraone che si oppone ripetutamente alla sua volontà, ed esercita la sua grazia verso Israele che si adegua alla sua volontà lasciandosi trarre fuori dal paese d’Egitto.
Stabilito questo, iniziano subito le domande sui modi usati da Dio.
Era necessaria l’uccisione dei primogeniti egiziani per costringere Faraone a lasciar partire gli ebrei?
Era necessaria l’uccisione in ogni famiglia di un agnello per poter uscire dalla casa di schiavitù d’Egitto?
Cercare di rispondere a queste domande significa riflettere sui modi usati da Dio nel suo agire, e quindi su Dio stesso, nella misura in cui ha voluto rivelarsi agli uomini in fatti e parole come riportato nella Bibbia. In questa sede faremo soltanto alcuni tentativi di riflessione.
I due episodi di sovranità e grazia considerati fin qui hanno un elemento in comune che a prima vista non sembra essere indispensabile: la morte. Nel primo caso, Dio uccide; nel secondo caso, Dio ordina di uccidere. Nel primo caso gli uccisi sono uomini; nel secondo caso sono animali. Perché?
Ancora una volta è Dio che si trova sotto il riflettori, e più precisamente si vede un Dio che interagisce con la morte. Nei commenti però di solito si preferisce puntare l’attenzione su altri particolari morali sociali o tecnici, forse perché come uomini amiamo pensarci sempre al centro dell’interesse in un quadro dove Dio e la morte fanno soltanto da cornice. La giusta posizione sarebbe invece quella di assumere la parte di chi ascolta Dio, lo osserva, cerca di capirlo, e dopo aver ricevuto la grazia di conoscerlo, decide di rispondere al suo amore agendo in modo conforme alla sua volontà.
È Dio che per primo indica la morte. Anzi la ordina: “Nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai” (Genesi 2:17), presentandola come fatale conseguenza della disubbidienza a Dio.
La morte rivela in modo inequivocabile la presenza di peccato, cioè il verificarsi di un guasto fatale nel rapporto tra Dio e uomo.
“… per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per mezzo del peccato la morte, e in questo modo la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12).
La morte dunque non è un fatale, incomprensibile destino, ma una giuridica condanna, che come tale richiede sempre la presenza di un colpevole e di un giudice, Il colpevole è l’uomo, il giudice è Dio, indipendentemente dal modo in cui avviene l’esecuzione della condanna.
Le morti che compaiono nella Bibbia, che tanto orrore generano in noi illuminati occidentali, manifestano la sovranità di Dio che si esercita su uomini, popoli e nazioni. Davanti al compiersi di una morte, per prima cosa non bisogna chiedersi: di chi è la colpa? ma, che cosa vuol dire o ricordare Dio con questa particolare morte?
Non si può dire NO a Dio e vivere: questo gli uomini avrebbero dovuto saperlo fin dai tempi di Adamo ed Eva. La morte compare sempre come conseguenza o “aggiustamento” di qualcosa che è andato fuori posto. Dio fa giustizia, ed è anche in questo modo che si esprime la sua autorità sovrana.
Proprio questo dice Dio a Mosè di voler fare in quella notte:
“Quella notte io passerò per il paese d'Egitto, e percuoterò ogni primogenito nel paese d'Egitto, tanto degli uomini quanto degli animali, e farò giustizia di tutti gli dèi d'Egitto. Io sono l'Eterno” (Esodo 12:12).
L’Egitto era allora un sistema pagano di divinità, monarca e popolo. Nella persona del Faraone, l’Egitto aveva deciso di opporsi alla volontà di Dio che gli ordinava di far uscire il suo popolo per i fini a cui l’aveva destinato. Poiché era stata rigettatata sovranità di Dio, il suo ristabilimento non poteva avvenire che attraverso la morte. Come segno inconfondibile della sua piena sovranità, Dio avrebbe colpito con la morte tutte le sfere di vita del regno di Egitto, da chi sta più in alto a chi sta più in basso.
Dio manifesta invece a sua grazia nel passaggio dell'angelo che risparmia gli ebrei. Si tratta di grazia sul piano storico perché, come abbiamo visto, il popolo aveva vissuto il dramma delle piaghe in una posizione di incredulità rispetto alla parola di Dio che aveva ricevuto da Mosè (Esodo 6:6-9).
Informando il popolo del passaggio dell’angelo sterminatore, Mosè avvertì che per scampare dovevano ubbidire a Dio che chiedeva loro di immolare un agnello in ogni famiglia e di spruzzarne il sangue sull’architrave e sugli stipiti della porta. Questa volta i figli d’Israele ubbidirono:
“Il popolo si inchinò e adorò. E i figli d'Israele andarono, e fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 12:28 ).
Per tutta quella notte sopportarono le urla stanziati che arrivavano alle loro orecchie dalle case degli egiziani, e resisterono alla tentazione di uscire a vedere di persona quello che stava accadendo. Credettero dunque alla parola di Dio recapitata loro da Mosè.
E fu questo, dopo quello di Noè, il secondo esempio storico di salvezza per grazia mediante la fede.
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L’enigma del sangue
Che bisogno c’era, per avvertire l’angelo di non colpire una famiglia di ebrei, di lasciare sulla porta un segno con il sangue di un agnello? A chi facesse una simile domanda per provocazione, si potrebbe rispondere che per avere una risposta completa deve prima leggere tutta la Bibbia.
A parte la provocazione, si può dire che da questo punto comincia a prendere forma la linea della grazia di Dio che percorre tutta la Scrittura. Una linea dunque che deve essere seguita per intero per averne una piena comprensione. Qui daremo soltanto alcuni spunti di riflessione sui due punti in gioco: il sangue e l’agnello.
Il sangue compare molto presto nella Bibbia:
“Caino disse ad Abele suo fratello: “Usciamo fuori ai campi!”, e avvenne che, quando furono nei campi, Caino si scagliò contro suo fratello Abele, e lo uccise. E l'Eterno disse a Caino: “Dov'è tuo fratello Abele?”, ed egli rispose: “Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?”. E l'Eterno disse: “Che hai fatto? la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra. E ora tu sarai maledetto, condannato a vagare lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano” (Genesi 4:8-11)
Caino è il primo uomo nato da padre e madre umani, e passa alla storia come il primo omicida. Abele invece è il primo uomo che ha fatto l’esperienza della morte fisica.
Per la prima volta il sangue è uscito dalla sua sede naturale, che è il corpo umano, e si è sparso sulla terra. Caino ed Abele probabilmente neppure sapevano di avere il sangue. Che bisogno avevano di saperlo? Caino però, dopo aver ucciso Abele, è venuto a saperlo: è cresciuto in conoscenza, come Adamo ed Eva dopo aver preso il frutto proibito.
Da quel momento il sangue, ogni volta che si vede, segnala presenza di morte. Una presenza a cui è associato un significato che deve ogni volta essere compreso nel suo contesto di rivelazione biblica. E l’autore della lettera agli Ebrei si esprime in modo netto:
“Secondo la legge, quasi ogni cosa è purificata con sangue e senza spargimento di sangue non c'è perdono” (Ebrei 9:22).
La voce del sangue di Abele si spande da quel giorno sulla terra e continua ad essere udita lungo tutta la storia, fino ad arrivare
“a Gesù, il mediatore del nuovo patto, e al sangue dell'aspersione che parla meglio di quello di Abele” (Ebrei 12:23).
Il sangue che compare sulla porta di una famiglia di ebrei mentre passa l’angelo sterminatore parla di morte, ma è la morte di un agnello che salva vite umane che Dio aveva scelto per Sé. Con ciò si vuole soltanto accennare al fatto che con il versamento del sangue di quegli agnelli parte in quella notte la linea della grazia di Dio che trova il compimento in Gesù, che Giovanni Battista indica come “l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo” (Giovanni 1:29), e l’evangelista Giovanni vede dopo la sua risurrezione in una visione angelica:
“E vidi e udii una voce di molti angeli intorno al trono, alle creature viventi e agli anziani, il loro numero era di miriadi di miriadi e di migliaia di migliaia, che dicevano a gran voce: ‘Degno è l'Agnello che è stato immolato di ricevere la potenza, le ricchezze, la sapienza, la forza, l'onore, la gloria e la benedizione. E tutte le creature che sono nel cielo, sulla terra, sotto la terra, nel mare e tutte le cose che sono in essi, le udii che dicevano: ‘A colui che siede sul trono e all'Agnello siano la benedizione, l'onore, la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli’” (Apocalisse 5:11-13)
La riflessione sul sangue e sul posto che occupa nella Bibbia naturalmente potrebbe proseguire a tempo indefinito, ma qui si è voluto soltanto accennare alla possibilità di vedere proprio nel sangue e nell’agnello un importante collegamento tra Antico e Nuovo Testamento, tra Israele e Gesù, tra ebrei e cristiani.
Gli ebrei di oggi forse hanno qualche difficoltà ad affrontare il tema del sangue in relazione alla Pasqua perché in assenza del Tempio i sacrifici non sono possibili.
In campo cristiano invece abbondano le interpretazioni dei gesti della Pasqua biblica come immagini di diversi aspetti del sacrificio espiatorio di Gesù sulla croce. Di solito però il pensiero cristiano vede nel sangue degli agnelli immolati in quella notte un’immagine del sangue di Gesù versato sulla croce per il perdono dei peccati di tutto il mondo - cosa indubbiamente vera -, ma non evidenzia il fatto che in quella notte, in quel preciso momento di inizio della grazia di Dio operante nel mondo, il perdono è stato concesso a un preciso popolo storico: Israele.
Se dunque il sangue di quegli agnelli immolati per consentire l’uscita di Israele dall’Egitto rappresenta il sangue di Gesù versato sulla croce, allora si deve riconoscere che nel piano di Dio la morte di Gesù, prima ancora che come possibilità di salvezza eterna per ogni uomo peccatore, è stata progettata da Dio come salvezza storica, cioè per consentire l’entrata nella storia di Israele come la grande nazione promessa ad Abramo.
Questo può dare fastidio sia a ebrei che a cristiani, ma nonostante l’eventuale reciproco fastidio, resta il fatto che nessuno riuscirà mai a separare tra loro Israele e Gesù.
(Notizie su Israele, 2 novembre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
GIOSUÈ
Capitolo 23
Molto tempo dopo che l'Eterno ebbe dato riposo a Israele liberandolo da tutti i nemici che lo circondavano, Giosuè, ormai vecchio e molto avanti negli anni, convocò tutto Israele, gli anziani, i capi, i giudici e gli ufficiali del popolo, e disse loro: “Io sono vecchio e molto avanti negli anni. Voi avete visto tutto ciò che l'Eterno, il vostro Dio, ha fatto a tutte queste nazioni, scacciandole davanti a voi; poiché l'Eterno, il vostro Dio, è colui che ha combattuto per voi. Ecco io ho diviso tra voi a sorte, come eredità, secondo le vostre tribù, il paese delle nazioni che restano, e di tutte quelle che ho sterminato, dal Giordano fino al Mar Grande, a occidente. E l'Eterno, il vostro Dio, le disperderà egli stesso davanti a voi e le scaccerà davanti a voi e voi prenderete possesso del loro paese, come l'Eterno, il vostro Dio, vi ha detto. - Applicatevi dunque risolutamente a osservare e a mettere in pratica tutto ciò che è scritto nel libro della legge di Mosè, senza sviarvene né a destra né a sinistra, senza mischiarvi con queste nazioni che rimangono fra voi; non pronunciate neppure il nome dei loro dèi, non ne fate uso nei giuramenti; non li servite, e non vi prostrate davanti a loro; ma tenetevi stretti all'Eterno vostro Dio, come avete fatto fino a oggi. L'Eterno ha scacciato davanti a voi nazioni grandi e potenti; e nessuno ha potuto resistervi, fino a oggi. Uno solo di voi ne inseguiva mille, perché l'Eterno, il vostro Dio, era colui che combatteva per voi, come egli vi aveva detto. Vegliate dunque attentamente su voi stessi, per amare l'Eterno, il vostro Dio.
- Perché, se voltate le spalle a lui e vi unite a quello che resta di queste nazioni che sono rimaste fra voi e vi imparentate con loro e vi mescolate con esse ed esse con voi, siate ben certi che l'Eterno, il vostro Dio, non continuerà a scacciare questa gente davanti a voi, ma essi diventeranno per voi una rete, un'insidia, un flagello ai vostri fianchi, tante spine negli occhi vostri, finché non siate periti e scomparsi da questo buon paese che l'Eterno, il vostro Dio, vi ha dato.
- Ora ecco, io me ne vado oggi per la via di ogni abitante della terra; riconoscete dunque con tutto il vostro cuore e con tutta l'anima vostra che neppure una di tutte le buone parole che l'Eterno, il vostro Dio, ha pronunciato su voi è caduta a terra; tutte si sono compiute per voi; neppure una è caduta a terra. E avverrà che, come ogni buona parola che l'Eterno, il vostro Dio, vi aveva detta si è compiuta per voi, così l'Eterno adempirà a vostro danno tutte le sue parole di minaccia, finché vi abbia sterminati da questo buon paese, che il vostro Dio, l'Eterno, vi ha dato. Se trasgredite il patto che l'Eterno, il vostro Dio, vi ha imposto, e andate a servire altri dèi e vi prostrate davanti a loro, l'ira dell'Eterno si accenderà contro di voi, e voi perirete presto, scomparendo dal buon paese che egli vi ha dato”.
(Notizie su Israele, 1 novembre 2025)
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Gerusalemme: centinaia di migliaia di ultraortodossi nelle strade contro la coscrizione militare
di Anna Balestrieri
GERUSALEMME - Giovedì 30 ottobre, centinaia di migliaia di israeliani ultraortodossi si sono riversati nelle strade di Gerusalemme per partecipare a una manifestazione imponente, ribattezzata il “Million Man Rally”. L’obiettivo dichiarato: protestare contro gli arresti di studenti delle yeshivot accusati di eludere la coscrizione militare obbligatoria.
Dietro le parole di fede e di tradizione, tuttavia, si è stagliata una scena che racconta un’altra storia: quella di un Israele spaccato, dove un intero settore della popolazione rivendica il diritto di non condividere il peso della difesa comune.
• Scontri, feriti e una tragedia
Al termine della manifestazione, la calma apparente si è spezzata. Scontri con la polizia, idranti e disordini hanno attraversato la zona. Un ragazzo di 15 anni è morto precipitando da un cantiere edile dove decine di giovani erano saliti per assistere alla protesta. Le circostanze della sua morte restano oggetto di indagine (si presume un suicidio), ma il simbolo è già chiaro: un gesto collettivo di rifiuto trasformatosi in una tragedia nazionale.
I servizi di emergenza hanno contato oltre cento feriti, tra cui giornalisti e persino due soldati ultraortodossi aggrediti dai manifestanti. La protesta ha bloccato il paese, con un’interruzione del servizio ferroviario fino alle 13 ed una chiusura intermittente dell’autostrada 1, l’arteria principale del paese, tra Gerusalemme e Latrun nel corso di tutta la giornata. I manifestanti si sono dati appuntamento nella capitale e sono accorsi da tutto il paese, superando le tradizionali divisioni interne al settore haredi. Già dalla visita del presidente Trump, troneggiavano sull’autostrada 1 che porta a Gerusalemme manifesti con la provocazione “Signor Presidente, che ne sarà degli ostaggi ultraortodossi nelle carceri militari israeliane?”
Gli organizzatori hanno definito la protesta una “difesa della libertà di studiare la Torah senza interferenze”, denunciando le autorità per una presunta persecuzione contro gli studenti religiosi. Ma le parole si scontrano con la realtà: mentre migliaia di giovani laici e religiosi moderati servono al fronte, altri rivendicano il diritto di restare ai margini, protetti da un’interpretazione spirituale della legge.
• Attacchi alla stampa e alla democrazia
Durante la protesta, giornalisti israeliani sono stati aggrediti, colpiti con bottiglie, bastoni e sputi. Le troupe di Channel 12 e Channel 13 sono state costrette a ritirarsi, simbolo di un clima in cui il dissenso è considerato profanazione. L’immagine di una reporter nascosta dietro un agente di polizia per poter continuare a trasmettere racconta più di mille parole.
• Un fronte insolitamente unito, ma per difendere il privilegio
La manifestazione ha riunito fazioni ultraortodosse solitamente divise da rivalità ideologiche e rabbiniche. Persino gruppi più aperti all’integrazione con lo Stato hanno marciato accanto ai più oltranzisti. Un’unità rara, ma costruita attorno alla difesa del privilegio, non alla solidarietà nazionale. Solo poche frange del Jerusalem Faction hanno scelto di boicottare l’evento, segnalando che anche dentro il mondo haredi il dissenso esiste, ma resta marginale.
• La risposta della società israeliana
L’opinione pubblica ha reagito con frustrazione e sdegno. Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha riassunto il sentimento diffuso: “Se potete marciare nelle strade, potete marciare anche nell’addestramento di base.” Mentre il Paese continua a pagare il prezzo di una guerra prolungata e di un servizio militare sempre più gravoso, l’immagine di decine di migliaia di uomini che sfilano non per la sicurezza di Israele ma contro di essa lascia una ferita profonda.
(Bet Magazine Mosaico, 31 ottobre 2025)
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"La Torah è la nostra vita" – Centinaia di migliaia di ebrei ortodossi manifestano a Gerusalemme
Centinaia di migliaia di ortodossi manifestano contro la chiamata alle armi degli studenti della Torah: un conflitto tra fede, dovere e identità.
di Dov Eilon
GERUSALEMME - Giovedì Gerusalemme era paralizzata. Centinaia di migliaia di ebrei ultraortodossi (Haredim) provenienti da tutto il Paese si sono riuniti nella capitale per protestare contro il previsto inasprimento delle norme sul servizio militare obbligatorio per gli studenti della Torah. È stata una delle più grandi manifestazioni degli ultimi anni, un'immagine che ha ricordato la “riunione di preghiera di un milione di persone” del 2014.
La folla ha pregato, cantato salmi e ripetuto più volte: “Non ci faremo costringere!”. Ovunque si levavano voci di determinazione, ma anche di preoccupazione: secondo gli oratori, il governo avrebbe intenzione di minare il sacro dovere dello studio della Torah con l'egualitarismo politico. “Lo studio della Torah è il nostro scudo, difende il Paese più di qualsiasi fucile”, ha gridato un rabbino tra gli applausi scroscianti. Molti hanno alzato cartelli con la scritta: “Preferiamo morire piuttosto che rinunciare alla nostra Torah”.
Mentre l'evento si svolgeva inizialmente in modo pacifico, ai margini si è verificato un tragico incidente. Un partecipante di 15 anni è caduto da un edificio in costruzione vicino al luogo della protesta ed è deceduto a causa delle ferite riportate. La polizia e i soccorsi sono stati impegnati senza sosta, le principali vie di accesso a Gerusalemme sono state chiuse per gestire l'enorme afflusso di persone.
Da anni la questione dell'esenzione dal servizio militare per gli studenti della Torah è fonte di aspre tensioni politiche. La Corte Suprema ha più volte contestato le norme speciali vigenti. Ora il Ministero della Difesa intende far approvare un nuovo disegno di legge che prevede un reclutamento più rigoroso. Per molti israeliani laici, l'eccezione concessa agli Haredim è un simbolo di ingiustizia sociale: essi chiedono che anche i giovani ultraortodossi contribuiscano alla difesa del Paese. Per gli Haredim, invece, il servizio militare obbligatorio è un attacco al loro modello di vita religioso. Lo considerano una minaccia alla loro identità spirituale e alla loro autonomia.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu è sottoposto a forti pressioni: da un lato la Corte Suprema esige la parità di trattamento per tutti i cittadini, dall'altro la sua coalizione di governo dipende dal sostegno dei partiti Haredi. Un passo falso potrebbe far vacillare il governo. I partiti dell'opposizione chiedono già una decisione chiara: o piena uguaglianza o la fine definitiva dei privilegi speciali. Netanyahu sta però cercando di disinnescare il conflitto, finora senza successo.
Questa manifestazione di massa mostra quanto sia profonda la divisione tra la popolazione laica e quella religiosa di Israele. Non si tratta solo di una disputa politica, ma di una lotta per l'identità: cosa significa oggi essere uno Stato ebraico? Uno Stato della Torah o uno Stato degli stessi doveri?
Questa manifestazione non è stata una protesta ordinaria. È stato il grido di protesta di un'intera comunità che si sente emarginata nell'Israele moderno. Gli Haredim vedono nella Torah la loro arma, la loro armatura, il loro esercito morale. Lo Stato, invece, sottolinea la responsabilità di ogni cittadino per la sicurezza comune. Tra queste due visioni si pone la profonda questione se Israele possa trovare un modo per conciliare entrambi: il dovere di difesa e la libertà di credo.
(Israel Heute, 31 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Perché “Israele è un progetto coloniale” è una sciocchezza
di Daniele Scalise
L’etichetta piace perché sintetizza tutto in una parola. Il termine “coloniale” sta in equilibrio tra verdetto morale e scorciatoia analitica: c’è un colono, c’è un colonizzato, fine della storia. Peccato che la storia, qui, non si lasci inchiodare. Il colonialismo classico ha tratti riconoscibili: una metropoli che invia coloni per estrarre risorse o proiettare potere, una gerarchia razziale amministrata dal centro, un rapporto organico col “madrepatria” che decide, finanzia, richiama. In Palestina tutto questo manca, è sempre mancato. Non c’è una Londra o una Parigi ebraica che governa a distanza, non c’è una compagnia delle Indie del popolo ebraico, non c’è oro, caucciù o zucchero da spremere. Semmai è successo l’esatto contrario: una diaspora senza Stato che prova a ricostruire sovranità in una terra con cui intrattiene un legame storico e religioso plurimillenario, e lo fa contro l’inerzia di tutte le potenze, pagando spesso con la vita dei propri pionieri.
Il Mandato della Società delle Nazioni non fu una licenza d’impero per conto terzi ma un impegno internazionale a favorire la “casa nazionale ebraica” tutelando i diritti civili e religiosi di tutti. Non un foglio bianco, dunque, bensì un quadro giuridico che riconosceva titoli storici e finalità politiche, dentro cui il movimento sionista acquistò terre sul mercato, costruì istituzioni civili, scuole, sindacati, ospedali, e una proto-amministrazione che precedette di anni l’indipendenza. La metropoli di Israele, a guardar bene, è Gerusalemme: non esiste un altrove che diriga, incassi e decida. I flussi materiali sono rovesciati rispetto al colonialismo: non estrazione, ma investimenti, risorse che entrano per creare industria, agricoltura, infrastrutture.
Anche la composizione demografica smentisce lo schema comfort. Tra il 1948 e i primi anni Settanta, circa metà degli ebrei d’Israele proviene dal mondo arabo-islamico, espulsi o spinti fuori da Iraq, Yemen, Siria, Egitto, Libia, Marocco, Tunisia, Algeria. Coloni di quale impero, esattamente? In parallelo, l’ebraico torna lingua viva e vivace, non strumento di dominio importato, ma rinascita culturale di un popolo che ritesse la propria continuità storica. È una dinamica di ritorno e ricostruzione, non di piantagione.
Resta il nodo duro: la presenza di un’altra popolazione con aspirazioni nazionali. È il punto che il colonialismo, come lente unica, distorce. In molti processi di indipendenza del Novecento, due collettività hanno rivendicato titoli, memoria, diritti. La politica – male, tardi, talvolta con violenza – ha cercato accomodamenti. Qui la semplificazione moralistica sostituisce l’analisi: se il conflitto esiste, dev’esserci un colpevole strutturale; “coloniale” serve a impedirne la comprensione. Non si negano errori, soprusi, abusi: si rifiuta la caricatura che riduce un conflitto nazionale complesso a sceneggiatura di occupanti e nativi, come se un secolo di storia, di decisioni reciproche, di guerre e compromessi mancati fosse solo il risultato di un piano dall’alto.
C’è poi un test materiale: cosa produce il presunto “colonialismo” israeliano? Non convogli di risorse verso una capitale straniera, non monopolî concessori, non manodopera coatta per piantagioni oltremare. Produce, discutibilmente e conflittualmente, cittadinanza, tasse, esercito di leva, Corte suprema, alternanza politica, una società multietnica che mescola ebrei provenienti da tre continenti e minoranze arabe con diritti civili e politici. Tutto perfetto? No. Ma il metro di giudizio non può essere quello dell’Arcadia: deve essere quello comparativo delle liberazioni nazionali reali. Lì, la tesi “coloniale” scricchiola.
Infine, la prova controfattuale: se Israele fosse un progetto coloniale, cessata la convenienza la metropoli richiamerebbe uomini e capitali. Qui accade l’opposto: in guerra o in pace, le ondate vanno verso Israele, non via da Israele. Non è il segno di un’occupazione, ma di un radicamento. La critica alle politiche è legittima e doverosa; la formula “progetto coloniale” è una scorciatoia che suona bene quanto spiega male. Se vogliamo capire – e magari cambiare – il presente, bisogna abbandonare gli slogan e rientrare nella storia: due popoli, due racconti, molti errori, un futuro da negoziare. Tutto il resto è propaganda con un dizionario elegante ma impolverato.
(Setteottobre, 31 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 4, 1-40
- Ora, dunque, Israele, da' ascolto alle leggi e alle prescrizioni che io vi insegno perché le mettiate in pratica, affinché viviate ed entriate in possesso del paese che l'Eterno, l'Iddio dei vostri padri, vi dà. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando, e non ne toglierete nulla; ma osserverete i comandamenti dell'Eterno Iddio vostro che io vi prescrivo.
- Gli occhi vostri videro ciò che l'Eterno fece nel caso di Baal-Peor: come l'Eterno, il tuo Dio, distrusse in mezzo a te tutti quelli che erano andati dietro a Baal-Peor: ma voi, che vi teneste stretti all'Eterno, al vostro Dio, siete oggi tutti in vita.
- Ecco, io vi ho insegnato leggi e prescrizioni, come l'Eterno, il mio Dio, mi ha ordinato, affinché le mettiate in pratica nel paese nel quale state per entrare per prenderne possesso. Le osserverete dunque e le metterete in pratica; poiché quella sarà la vostra sapienza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: 'Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente!'. Qual è, infatti, la grande nazione alla quale la divinità sia così vicina come l'Eterno, il nostro Dio, è vicino a noi, ogni volta che lo invochiamo? E qual è la grande nazione che abbia delle leggi e delle prescrizioni giuste come è tutta questa legge che io vi espongo quest'oggi?
- Soltanto, bada bene a te stesso e veglia diligentemente sull'anima tua, affinché non avvenga che tu dimentichi le cose che i tuoi occhi hanno visto, ed esse non ti escano dal cuore finché duri la tua vita. Anzi, falle sapere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.
- Ricordati del giorno che comparisti davanti all'Eterno, al tuo Dio, in Oreb, quando l'Eterno mi disse: 'Radunami il popolo, e io farò udire loro le mie parole, affinché essi imparino a temermi tutto il tempo che vivranno sulla terra, e le insegnino ai loro figli'. E voi vi avvicinaste e vi fermaste ai piedi del monte; e il monte era tutto in fiamme che si innalzavano fino al cielo; e vi erano tenebre, nuvole e oscurità. E l'Eterno vi parlò dal fuoco; voi udiste il suono delle parole, ma non vedeste alcuna figura; non udiste che una voce. Egli vi comunicò il suo patto, che vi comandò di osservare, cioè i dieci comandamenti; e li scrisse su due tavole di pietra.
- E a me, in quel tempo, l'Eterno ordinò di insegnarvi leggi e prescrizioni, perché voi le mettiate in pratica nel paese dove state per passare per prenderne possesso. Poiché, dunque, non vedeste nessuna figura il giorno che l'Eterno vi parlò in Oreb in mezzo al fuoco, vegliate diligentemente sulle anime vostre, affinché non vi corrompiate e vi facciate qualche immagine scolpita, la rappresentazione di qualche idolo, la figura di un uomo o di una donna, la figura di un animale tra quelli che sono sulla terra, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sul suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra; e anche affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l'esercito celeste, tu non sia attratto a prostrarti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto. Quelle sono cose che l'Eterno, il tuo Dio, ha assegnato a tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli. Quanto a voi l'Eterno vi ha presi, vi ha tratti fuori dalla fornace di ferro, dall'Egitto, per essere il suo popolo, la sua eredità, come oggi infatti siete.
- Ora l'Eterno si adirò contro di me a causa vostra, e giurò che io non avrei passato il Giordano e non sarei entrato nel buon paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà in eredità. Così io dovrò morire in questo paese, senza passare il Giordano, ma voi lo passerete e possederete quel buon paese. Guardatevi dal dimenticare il patto che l'Eterno, il vostro Dio, ha stabilito con voi, e dal farvi alcuna immagine scolpita, o rappresentazione di qualsiasi cosa che l'Eterno, il tuo Dio, ti abbia proibito. Poiché l'Eterno, il tuo Dio, è un fuoco consumante, un Dio geloso.
- Quando avrai dei figli e dei figli dei tuoi figli e sarete stati molto tempo nel paese, se vi corrompete, se vi fate delle immagini scolpite, delle rappresentazioni di qualsiasi cosa, se fate ciò che è male agli occhi dell'Eterno vostro Dio, per irritarlo, io chiamo oggi come testimoni contro di voi il cielo e la terra, che voi ben presto perirete, scomparendo dal paese di cui andate a prendere possesso di là dal Giordano. Voi non prolungherete i vostri giorni, ma sarete interamente distrutti. L'Eterno vi disperderà fra i popoli e non rimarrà di voi che un piccolo numero fra le nazioni dove l'Eterno vi condurrà. E là servirete dèi fatti da mano d'uomo, dèi di legno e di pietra, i quali non vedono, non odono, non mangiano, non fiutano. Ma di là cercherai l'Eterno, il tuo Dio; e lo troverai, se lo cercherai con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua. Nell'angoscia tua, quando tutte queste cose ti saranno avvenute, negli ultimi tempi, tornerai all'Eterno, al tuo Dio, e darai ascolto alla sua voce; poiché l'Eterno, il tuo Dio, è un Dio pietoso; egli non ti abbandonerà e non ti distruggerà; non dimenticherà il patto che giurò ai tuoi padri.
- Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te, dal giorno che Dio creò l'uomo sulla terra, e da un'estremità dei cieli all'altra: 'Ci fu mai cosa così grande come questa, e si udì mai cosa simile a questa? Ci fu mai popolo che abbia udito la voce di Dio che parlava in mezzo al fuoco come l'hai udita tu, e che sia rimasto vivo? Ci fu mai un dio che abbia provato a venire a prendersi una nazione di mezzo a un'altra nazione attraverso prove, segni, miracoli e battaglie, con mano potente e con braccio steso e con gesta terribili, come fece per voi l'Eterno, il vostro Dio, in Egitto, sotto i vostri occhi?'.
- Tu sei stato fatto testimone di queste cose affinché tu riconosca che l'Eterno è Dio, e che non ce n'è altro fuori di lui. Dal cielo ti ha fatto udire la sua voce per ammaestrarti; e sulla terra ti ha fatto vedere il suo gran fuoco, e tu hai udito le sue parole di mezzo al fuoco. E perché egli ha amato i tuoi padri, ha scelto la loro progenie dopo loro, ed egli stesso, di persona, ti ha fatto uscire dall'Egitto con la sua grande potenza, per scacciare davanti a te nazioni più grandi e più potenti di te, per farti entrare nel loro paese e per dartene il possesso, come oggi si vede.
- Sappi dunque oggi, e tienilo bene in cuore, che l'Eterno è Dio: lassù nei cieli, e quaggiù sulla terra; e che non ce n'è alcun altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandamenti che oggi ti do, affinché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te, e affinché tu prolunghi per sempre i tuoi giorni nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà”.
(Notizie su Israele, 31 ottobre 2025)
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E intanto lontano dal clamore Hezbollah si sta riarmando
di Omar Abdel-Baqui e Summer Said
Secondo fonti vicine ai servizi segreti israeliani e arabi, il gruppo terrorista libanese Hezbollah sta ricostituendo il proprio arsenale e le proprie file decimate, sfidando i termini dell’accordo di cessate il fuoco e aumentando la possibilità di un nuovo conflitto con Israele.
Le informazioni raccolte dai servizi segreti indicano che Hezbollah, sostenuto dall’Iran, sta rifornendo il proprio arsenale di razzi, missili anticarro e artiglieria. Alcune di queste armi stanno arrivando attraverso i porti marittimi e le rotte di contrabbando attraverso la Siria, indebolite ma ancora funzionanti. Hezbollah sta producendo alcune nuove armi autonomamente, hanno affermato le fonti.
Il riarmo sta mettendo a dura prova l’accordo che un anno fa ha posto fine a una dura campagna israeliana di due mesi contro il gruppo terrorista. In base all’accordo, il Libano è tenuto a iniziare il disarmo di Hezbollah in alcune parti del Paese, prima di continuare in tutto il territorio nazionale come previsto da un precedente accordo. Ma da allora il gruppo ha puntato i piedi, affermando che le sue armi sono necessarie per difendere la sovranità del Libano.
Israele, che ha fornito informazioni di intelligence per aiutare l’esercito libanese a disarmare Hezbollah e ha effettuato più di 1.000 attacchi contro il gruppo da quando è stato firmato l’accordo di cessate il fuoco lo scorso novembre, sta perdendo la pazienza, hanno affermato le fonti. È stato irritato dalle nuove scoperte dell’intelligence e dal fatto che la questione in discussione sia passata dal disarmo di Hezbollah al suo riarmo in pochi mesi, ha affermato una delle fonti.
“Se Beirut continuerà a esitare, Israele potrebbe agire unilateralmente e le conseguenze sarebbero gravi”, ha affermato in ottobre Tom Barrack, ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia e importante inviato americano per il Libano e la Siria.
I leader libanesi, attraverso intermediari arabi e americani, stanno chiedendo pazienza a Israele e sono disponibili ad aumentare la condivisione di informazioni e il coordinamento con Israele, nonostante gli Stati confinanti siano tecnicamente in guerra.
Naim Qassem, l’attuale capo di Hezbollah, ha dichiarato in un’intervista trasmessa in ottobre da un canale televisivo legato a Hezbollah che dovrebbe esserci coordinamento tra l’esercito libanese e Hezbollah, ma che i tentativi di disarmare il gruppo dovrebbero essere contrastati. Ha affermato che Hezbollah sta cercando di evitare un’altra guerra con Israele e che, dalla tregua, ha evitato risposte militari agli attacchi israeliani sul Libano.
Lo stallo evidenzia la difficoltà di reprimere una milizia consolidata che gode del sostegno della popolazione, anche quando è stata duramente sconfitta.
Le difficoltà sono evidenti anche a Gaza, dove Hamas resiste alle richieste di disarmarsi e rinunciare al potere, requisiti previsti dall’accordo del presidente Trump per porre fine alla guerra durata due anni nell’enclave.
Hamas ha perso migliaia di combattenti durante la guerra e ha suscitato l’ira di molti abitanti di Gaza per aver causato tanta distruzione. Ma una volta iniziato il cessate il fuoco, Hamas ha lanciato una repressione contro i rivali per rafforzare la propria autorità e da allora si è scontrato ripetutamente con le truppe israeliane.
Hezbollah è nato dalla comunità sciita libanese più di quarant’anni fa ed è sopravvissuto a numerose battaglie con Israele. Ne ha scatenata una nuova dopo che Hamas ha compiuto i suoi attacchi mortali del 7 ottobre 2023, lanciando razzi su Israele quasi ogni giorno e costringendo all’evacuazione delle comunità nel nord del Paese. La risposta di Israele lo scorso autunno è stata la più dannosa per Hezbollah tra i loro numerosi conflitti, con migliaia di attacchi aerei contro il gruppo e l’innesco di esplosioni quasi simultanee di migliaia di cercapersone e walkie-talkie che ne hanno decimato le fila.
L’accordo di cessate il fuoco dello scorso novembre stabilisce che gli sforzi di disarmo dovrebbero iniziare a sud del fiume Litani, che definisce una zona profonda circa 20 miglia che corre più o meno parallelamente al confine con Israele. Il presidente libanese Joseph Aoun e il primo ministro Nawaf Salam hanno entrambi pubblicamente sostenuto il disarmo di Hezbollah nel resto del Paese e il monopolio della forza da parte dello Stato.
Il governo libanese ha compiuto progressi nello smantellamento delle postazioni e delle armi di Hezbollah nelle zone più meridionali del Libano, che sono state a lungo sotto il controllo di Hezbollah e sono state martoriate dalla campagna terrestre e aerea di Israele lo scorso anno. Il disarmo in quella zona è stato spesso condotto con il consenso di Hezbollah.
Ma in altre zone con una significativa influenza di Hezbollah, come la periferia sud di Beirut e la valle della Bekaa che attraversa il Libano orientale, si sono registrati scarsi progressi a causa della resistenza del gruppo militante.
I leader libanesi si trovano in una posizione delicata. Il loro esercito è numericamente inferiore a quello di Hezbollah. Isolare politicamente Hezbollah potrebbe far sentire emarginata e meno legata allo Stato la popolazione sciita del Paese, centinaia di migliaia di cui sostengono Hezbollah. I leader del Paese temono che uno scontro potrebbe far ripiombare il Libano nella guerra civile che lo ha afflitto per gran parte della seconda metà del XX secolo.
“L’esercito libanese non è interessato né pronto a confrontarsi militarmente con Hezbollah”, ha affermato Randa Slim, ricercatrice presso il Foreign Policy Institute della Johns Hopkins University ed esperta in risoluzione dei conflitti.
“Siamo bloccati in questa zona grigia in cui il governo libanese afferma di aver preso la decisione di disarmare Hezbollah. Lo stanno attuando a sud del Litani. Ma non c’è nulla, nessun piano concreto, su ciò che accadrà a nord del Litani”, ha affermato Slim.
La crescente frustrazione sottolinea quanto sia difficile trasformare una tregua nei combattimenti intensi in una pace duratura. Mostra anche i limiti del disarmo dei gruppi con la forza delle armi.
“Cosa può fare Israele per ottenere il risultato desiderato oltre a ciò che ha già fatto?”, ha affermato Slim. “Invaderà nuovamente il sud? Arriverà fino a Beirut per dare la caccia agli agenti di Hezbollah?”
Secondo l’Acled, un’organizzazione che monitora i dati sui conflitti, dall’interruzione delle ostilità nel novembre dello scorso anno Israele ha colpito il Libano circa 1.000 volte dall’aria e più di 500 volte con l’artiglieria. Israele ha colpito quelli che definisce obiettivi di Hezbollah intorno a Beirut e altrove. Gli Stati Uniti non stanno esortando alla moderazione, ha affermato un alto funzionario occidentale.
Israele ha schierato anche truppe in diverse posizioni nel sud del Libano. Hezbollah non ha ancora tentato una risposta militare significativa.
Il ronzio dei droni israeliani è costante in vaste zone del Libano. Secondo un rapporto di ottobre dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, più di 60.000 persone sono ancora sfollate dopo aver abbandonato le loro case durante i combattimenti. Gli sforzi di ricostruzione in alcune parti del Paese danneggiate dagli attacchi israeliani sono in fase di stallo, poiché sia Hezbollah che il governo libanese sono a corto di fondi e gli Stati occidentali e arabi del Golfo sono riluttanti a finanziare i lavori fino a quando il disarmo non farà ulteriori progressi.
I funzionari di Hezbollah hanno dichiarato che, sebbene il gruppo sia stato indebolito dalla campagna militare israeliana, ha i mezzi per riarmarsi se lo desidera. Hanno affermato che le armi di Hezbollah sono un punto di forza per il Libano, sostenendo che l’esercito, uno dei più deboli del Medio Oriente, non è in grado di difendere il Paese da Israele.
Funzionari dell’intelligence araba affermano che Hezbollah sta tornando a una struttura più decentralizzata, simile a quella che aveva negli anni ’80 e a quella adottata da Hamas a Gaza. Sebbene entrambi i gruppi abbiano reclutato nuovi combattenti per riempire i propri ranghi, le loro leadership militari sono ancora in disordine, secondo alcune persone vicine ai servizi segreti. Ciononostante, nessuno dei due sembra volersi arrendere.
“Hezbollah non si sente sconfitto”, ha affermato Slim. “Continua a credere di potersi ricostituire e ha ancora un sostenitore regionale del partito in Iran”.
(The Wall Street Journal, 30/10/2025)
(Rights Reporter, 31 ottobre 2025 - trad. Sarah G. Frankl)
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L'esercito israeliano rende omaggio agli abitanti di Ein Habesor che hanno respinto Hamas il 7 ottobre
Abbandonati al loro destino e armati solo di una manciata di fucili, i membri della brigata locale hanno combattuto i terroristi che invadevano il sud ed evacuato i feriti sotto il fuoco nemico.
di Stav Levaton
Un'indagine interna ha concluso che l'esercito non è riuscito a difendere la comunità di Ein Habesor, situata al confine con Gaza, durante il pogrom perpetrato nel sud di Israele dal gruppo terroristico palestinese Hamas il 7 ottobre 2023, lasciando gli abitanti del moshav a difendersi da soli dall'assalto.
L'indagine dell'esercito israeliano, la cui pubblicazione è stata autorizzata venerdì, ha rivelato che la brigata di riserva del moshav e altri abitanti hanno combattuto con coraggio, respingendo i terroristi e salvando la comunità, mentre l'esercito faticava a comprendere la situazione o a organizzare la sua risposta.
In totale, solo due abitanti sono rimasti feriti durante il pogrom e il moshav ha subito pochi danni, sfuggendo così al destino di altre località che quel giorno hanno visto decine dei loro abitanti assassinati, rapiti o sottoposti alle violenze commesse dai terroristi invasori.
L'indagine indica che circa 16 terroristi armati provenienti da Gaza hanno attaccato Ein Habesor, ma sono stati costretti a ritirarsi di fronte alla squadra di sicurezza locale. L'indagine si congratula con gli abitanti per aver organizzato in modo indipendente le operazioni di soccorso e di evacuazione sotto il fuoco nemico.
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Amit Gotliv, membro della squadra di emergenza del moshav Ein Habesor vicino a Gaza, si fotografa subito dopo uno scontro a fuoco con i terroristi di Hamas, il 7 ottobre 2023.
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Gli investigatori hanno stabilito che il moshav, situato a circa sette chilometri dal confine con Gaza, non figurava tra gli obiettivi iniziali di Hamas: i terroristi vi si sarebbero recati per errore dopo aver perso la loro mappa mentre si dirigevano verso le basi dell'esercito israeliano vicino a Urim.
Queste conclusioni si aggiungono a una serie di indagini che descrivono in dettaglio una quarantina di combattimenti e massacri mortali avvenuti durante il pogrom di Hamas del 7 ottobre, durante il quale circa 5.600 terroristi hanno attraversato il confine, uccidendo più di 1.200 persone in territorio israeliano e rapendo 251 persone per portarle in ostaggio nella Striscia di Gaza.
L'indagine su Ein Habesor, condotta dal colonnello (Riserva) Ziv Beit Or e approvata dall'ex capo del comando meridionale, il generale di divisione Yaron Finkelman, si basa su mesi di testimonianze, ricostruzioni del campo di battaglia, video di sorveglianza, pubblicazioni sui social media, nonché su documenti e informazioni dei servizi di intelligence.
• Cronologia dell'assalto
L'assalto è iniziato alle 6:29, quando Hamas ha lanciato un intenso bombardamento di razzi sulla parte occidentale del Negev, in particolare su Ein Habesor e sulle basi militari e comunità vicine. Con questa copertura, i terroristi hanno attraversato il confine da Gaza con veicoli e a piedi, sommergendo rapidamente il 51° battaglione della brigata Golani responsabile del settore.

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Razzi lanciati dalla città di Gaza verso Israele, il 7 ottobre 2023
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L'infiltrazione simultanea di migliaia di terroristi armati in decine di siti ha paralizzato le capacità di comando e controllo dell'esercito, ritardando l'arrivo dei rinforzi al moshav.
Mentre le sirene suonavano per avvertire dell'arrivo dei razzi, il coordinatore della sicurezza di Ein Habesor ha iniziato a preparare le difese della comunità. Ha mobilitato una squadra locale in allerta e dei volontari che in precedenza avevano formato un gruppo di pattuglia civile per combattere la criminalità nella zona.
Ha diviso il moshav in settori di difesa e ha assegnato i compiti mentre cominciavano ad arrivare le prime segnalazioni di infiltrazioni in altre comunità vicine.
Un abitante ha poi riferito al Times of Israel che il moshav disponeva solo di quattro fucili per difendersi, a causa di recenti furti. Secondo l'indagine dell'IDF, la comunità non disponeva di un arsenale centralizzato.
Verso le 7:50, un furgone che trasportava la maggior parte dei 16 terroristi, accompagnato da una moto con altri due terroristi, ha raggiunto una stazione di servizio vicina, adiacente al moshav vicino di Magen. I terroristi hanno saccheggiato provviste e denaro prima di proseguire verso sud sulla strada 232, che li ha condotti all'estremità occidentale di Ein Habesor.
Dopo aver inizialmente deviato su una strada sterrata a ovest del moshav, il furgone è rapidamente tornato sulla strada principale e si è fermato a un incrocio che segnava l'ingresso occidentale di Ein Habesor, una comunità rurale di circa 1.300 abitanti.
Pochi secondi dopo, alle 7:54, i terroristi hanno aperto il fuoco. Quattro membri della squadra di intervento, appostati all'ingresso principale della comunità, hanno risposto al fuoco. Pochi minuti dopo l'inizio dello scontro a fuoco, un membro della squadra di sicurezza è rimasto ferito ed è stato rapidamente evacuato.
Nello stesso momento, un altro gruppo di terroristi ha tentato di scavalcare una recinzione nell'angolo nord-ovest del moshav. Un membro della squadra di sicurezza ha sparato ai terroristi, colpendo almeno uno di loro, prima di essere ferito a sua volta.

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Immagini della telecamera di sicurezza che mostrano i membri della squadra di riserva mentre difendono l'ingresso principale del moshav Ein Habesor dai terroristi di Hamas, il 7 ottobre 2023.
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I combattimenti per proteggere la comunità sono continuati fino alle 8:08. I terroristi hanno lanciato un razzo anticarro (RPG) che ha colpito un albero, poi hanno iniziato a ritirarsi verso nord.
Alle 8:26, i terroristi in ritirata hanno incrociato un'unità della brigata Golani che stava cercando di raggiungere il moshav. I soldati hanno ucciso diversi terroristi e costretto gli altri a fuggire verso sud e ovest.
Con l'unità Golani c'erano il comandante regionale della polizia di frontiera di Eshkol e un ufficiale della comunità, che si erano uniti ai soldati dopo aver affrontato diversi terroristi alla stazione di servizio di Magen.
I terroristi che sono riusciti a fuggire hanno poi raggiunto il vicino kibbutz di Nir Oz, che hanno attaccato violentemente, prima di ritirarsi verso Gaza.

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Terroristi palestinesi all'ingresso del kibbutz Nir Oz, durante il pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023
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A seguito dello scontro a fuoco, i soldati e gli agenti della polizia di frontiera sono entrati nel moshav dal cancello principale e, verso le 8:30, gli abitanti hanno iniziato a evacuare i feriti con i propri mezzi.
La prima vittima, identificata nei rapporti dell'epoca come Eldad Gepner, 48 anni, è stata portata dal fratello Yftach sulla strada 241 attraverso il cancello est del moshav, ma il loro veicolo è stato preso sotto tiro vicino all'incrocio di Maon. Eldad è stato colpito di nuovo, questa volta più gravemente.
“Ho visto due furgoni con circa 10 terroristi ciascuno e circa cinque motociclette con due uomini ciascuna”, ha raccontato Yftach Gepner al Times of Israel pochi giorni dopo l'attacco. "Non capivo cosa stavo vedendo. Hanno iniziato a spararci. Non avevo un'arma. Indossavo dei pantaloncini corti. »

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Yftach Gepner (in primo piano) scatta un selfie con suo fratello Eldad
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Gepner ricorda di aver fatto retromarcia su una strada sterrata, inseguito dai terroristi in moto, che hanno colpito suo fratello alla schiena e alle natiche.
«Soffriva terribilmente», ha confidato. «Ho fatto una curva folle e ho guidato a 150 chilometri all'ora verso il cancello posteriore del moshav. »
Gli è stato consigliato di non tentare una nuova evacuazione con i propri mezzi. Eldad è stato infine trasportato in un'ambulanza privata guidata da un abitante del luogo e scortata da un altro veicolo, che ha costeggiato il torrente Nahal HaBesor.

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Vista di una zona bruciata vicino al torrente Habesor, al confine con la Striscia di Gaza, il 25 luglio 2018.
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Secondo l'indagine, l'ambulanza privata ha poi raggiunto un veicolo di trasporto medico che ha trasferito il ferito all'ospedale Soroka.
Il secondo residente ferito è stato curato sul posto e poi evacuato al Soroka più tardi nel corso della giornata.
L'indagine conclude che Tsahal ha fallito nella sua missione di protezione di Ein Habesor e che la difesa della comunità è ricaduta quasi interamente sui suoi abitanti, una constatazione simile a quella fatta in molte altre località.
Nonostante l'assenza di supporto militare, la brigata di intervento locale, guidata dal coordinatore della sicurezza e dai suoi vice, ha combattuto con coraggio ed efficacia, respingendo i terroristi ed evitando un massacro, secondo il rapporto.

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Cartello stradale che indica la strada per il moshav Ein Habesor, al confine meridionale di Gaza, data sconosciuta
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L'indagine rivela inoltre che Tsahal ha avuto difficoltà a ottenere un quadro chiaro della situazione operativa nella regione, a causa di interruzioni generalizzate delle comunicazioni e di combattimenti simultanei in diversi luoghi. Solo nel pomeriggio del 7 ottobre i comandanti sono riusciti ad avere un quadro completo degli eventi a Ein Habesor e altrove.
Nei giorni successivi alla battaglia, gli abitanti hanno continuato a garantire la sicurezza del moshav da soli, in assenza di sostegno da parte delle forze di sicurezza ufficiali. Hanno anche istituito un centro di comando locale per coordinare gli interventi di emergenza, informare la popolazione e organizzare l'evacuazione dei civili verso zone più sicure.
L'esercito israeliano ha elogiato l'eroismo degli abitanti di Ein Habesor, sottolineando che le loro azioni – sia in combattimento che nel soccorso dei feriti – hanno permesso di evitare un massacro simile a quelli perpetrati in altre comunità lungo il confine con Gaza.
(The Times of Israel, 31 ottobre 2025)
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La ZDF interrompe la collaborazione con Gaza-Produktion: un simbolo dell'ingenuità tedesca in Medio Oriente
Il caso di un partner della ZDF a Gaza dimostra ancora una volta quanto sia difficile per i media tedeschi affrontare la realtà del Medio Oriente.
di Dov Eilon
Dopo che un tecnico 37enne della società di produzione di Gaza Palestine Media Production (PMP), con cui la ZDF [Zweites Deutsches Fernsehen, equivalente di Rai 2 in Italia] collaborava da anni, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano e si è scoperto che era un combattente di Hamas, l'emittente ha reagito, ma il suo comportamento solleva interrogativi sui media e sulla politica tedeschi in Medio Oriente.
Il 19 ottobre, nell'area centrale della Striscia di Gaza, vicino a Deir al-Balah, l'esercito israeliano ha effettuato un attacco aereo in cui è rimasto ucciso, tra gli altri, un tecnico 37enne della società di produzione Palestine Media Production (PMP). Secondo i media tedeschi, la vittima era Ahmed Abu Mutair, che avrebbe ricoperto il ruolo di comandante di plotone dell'ala militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam.
Inizialmente, la ZDF aveva condannato la morte del collaboratore e criticato Israele. In una dichiarazione del 19 ottobre, la caporedattrice della ZDF Bettina Schausten ha affermato:
“I nostri pensieri vanno alle vittime e alle loro famiglie, alle quali esprimiamo il nostro più profondo cordoglio. È inaccettabile che i collaboratori dei media vengano attaccati mentre svolgono il loro lavoro”.
Pochi giorni dopo, tuttavia, l'esercito israeliano ha presentato prove che Abu Mutair era membro di Hamas. Di conseguenza, la ZDF ha annunciato che avrebbe sospeso la collaborazione con Palestine Media Production (PMP) “fino a nuovo avviso”.
Questo incidente mostra un modello ben noto della politica tedesca in Medio Oriente: l'idea ben intenzionata, ma spesso lontana dalla realtà, che sia possibile riferire in modo neutrale da Gaza o dalla Giudea e Samaria. Ciò trascura il fatto che le strutture politiche, militari e mediatiche sono indissolubilmente intrecciate tra loro. Il fatto che un'emittente pubblica come la ZDF abbia collaborato per anni con un'azienda i cui dipendenti erano anche combattenti militanti solleva seri interrogativi: con quanta attenzione è stata valutata questa partnership? E quali criteri si applicano quando il lavoro giornalistico si svolge in un contesto in cui è difficile distinguere tra propaganda e attività giornalistica?
Un portavoce della ZDF ha dichiarato che non vi sono indicazioni che altri dipendenti della PMP appartengano ad Hamas. Tuttavia, la fiducia è stata scossa, non solo a Gaza, ma anche in Germania, dove molti telespettatori si aspettano trasparenza e credibilità dalle emittenti pubbliche.
Il caso è emblematico di un atteggiamento che oscilla tra pretese morali e cecità politica. Da anni la Germania sottolinea il proprio impegno per la sicurezza di Israele, eppure nella politica e nei media si nota la tendenza a condannare frettolosamente ogni azione militare israeliana, mentre si parla con riluttanza delle cause. Il Ministero degli Esteri si è detto “scioccato” dall'attacco aereo, in cui è morto anche un bambino. Tuttavia, lo stesso governo federale reagisce in modo sorprendentemente esitante su altre questioni relative al Medio Oriente quando si tratta di definire chiaramente il terrorismo e l'indottrinamento.
La decisione della ZDF di interrompere la collaborazione con la società di produzione di Gaza è stata giusta, ma è arrivata tardi. È espressione di un problema fondamentale dei media tedeschi in Medio Oriente: si reagisce solo quando la realtà fa sparire l’illusione. Chi vuole davvero capire cosa sta succedendo in questa regione non può nascondersi dietro una presunta neutralità.
Il lavoro dei media in Medio Oriente non è mai apolitico. E chi crede che possa esserlo non ha ancora capito la prima lezione di questa regione.
(Israel Heute, 31 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 9
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Ascolta, Israele! Oggi tu stai per passare il Giordano per andare a impadronirti di nazioni più grandi e più potenti di te, di città grandi e fortificate fino al cielo, di un popolo grande e alto di statura, dei figli degli Anachim che tu conosci, e dei quali hai sentito dire: 'Chi mai può resistere ai figli di Anac?'. Sappi dunque oggi che l'Eterno, il tuo Dio, è colui che marcerà alla tua testa, come un fuoco divorante; egli li distruggerà e li abbatterà davanti a te; tu li scaccerai e li farai perire in un attimo, come l'Eterno ti ha detto.
- Quando l'Eterno, il tuo Dio, li avrà scacciati davanti a te, non dire nel tuo cuore: 'È per la mia giustizia che l'Eterno mi ha fatto entrare in possesso di questo paese'; poiché l'Eterno scaccia, davanti a te, queste nazioni per la loro malvagità. No, tu non entri in possesso del loro paese a motivo della tua giustizia, né a motivo della rettitudine del tuo cuore; ma l'Eterno, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni davanti a te per la loro malvagità e per mantenere la parola giurata ai tuoi padri, ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe. Sappi, dunque, che l'Eterno, il tuo Dio, non ti dà il possesso di questo buon paese a motivo della tua giustizia, poiché tu sei un popolo di collo duro.
- Ricordati, non dimenticare come hai provocato all'ira l'Eterno, il tuo Dio, nel deserto. Dal giorno che uscisti dal paese d'Egitto, fino al vostro arrivo in questo luogo, siete stati ribelli all'Eterno. Anche a Oreb provocaste all'ira l'Eterno; e l'Eterno si adirò contro di voi, al punto di volervi distruggere. Quando io salii sul monte a prendere le tavole di pietra, le tavole del patto che l'Eterno aveva stabilito con voi, io rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare pane né bere acqua; e l'Eterno mi diede le due tavole di pietra, scritte con il dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che l'Eterno vi aveva detto sul monte, di mezzo al fuoco, il giorno dell'adunanza. E fu alla fine dei quaranta giorni e delle quaranta notti che l'Eterno mi diede le due tavole di pietra, le tavole del patto. Poi l'Eterno mi disse: 'Alzati, scendi immediatamente di qui, perché il tuo popolo che hai fatto uscire dall'Egitto si è corrotto; hanno ben presto lasciato la via che io avevo loro ordinato di seguire; si sono fatti una immagine di metallo fuso'.
- L'Eterno mi parlò ancora, dicendo: 'Io l'ho visto questo popolo; ecco, è un popolo di collo duro; lasciami fare, io li distruggerò e cancellerò il loro nome sotto il cielo, e farò di te una nazione più potente e più grande di loro'. Così io mi voltai e scesi dal monte, dal monte tutto in fiamme, tenendo nelle mie due mani le due tavole del patto. Guardai, ed ecco che avevate peccato contro l'Eterno, il vostro Dio; vi eravate fatti un vitello di metallo fuso; avevate ben presto lasciato la via che l'Eterno vi aveva ordinato di seguire. Allora afferrai le due tavole, le gettai dalle mie mani, e le spezzai sotto i vostri occhi.
- Poi mi prostrai davanti all'Eterno, come avevo fatto la prima volta, per quaranta giorni e per quaranta notti; non mangiai pane né bevvi acqua, a causa del gran peccato che avevate commesso, facendo ciò che è male agli occhi dell'Eterno, per irritarlo. Poiché io avevo paura nel vedere l'ira e il furore con cui l'Eterno si era acceso contro di voi, al punto di volervi distruggere. Ma l'Eterno mi esaudì anche questa volta. L'Eterno si adirò anche fortemente contro Aaronne, al punto di volerlo far perire, e io pregai in quell'occasione anche per Aaronne. Poi presi l'oggetto del vostro peccato, il vitello che avevate fatto, lo diedi alle fiamme, lo feci a pezzi, frantumandolo finché fosse ridotto in polvere, e buttai quella polvere nel torrente che scende dal monte.
- Anche a Tabera, a Massa e a Chibrot-Attaava voi irritaste l'Eterno. 23 E quando l'Eterno vi volle far partire da Cades-Barnea, dicendo: 'Salite e impossessatevi del paese che io vi do', voi vi ribellaste all'ordine dell'Eterno, del vostro Dio, non aveste fede in lui, e non ubbidiste alla sua voce. Siete stati ribelli all'Eterno, dal giorno che vi conobbi.
- Io stetti dunque così prostrato davanti all'Eterno quei quaranta giorni e quelle quaranta notti, perché l'Eterno aveva detto di volervi distruggere. E pregai l'Eterno e dissi: ' O Signore, o Eterno, non distruggere il tuo popolo, la tua eredità, che hai redento nella tua grandezza, che hai fatto uscire dall'Egitto con mano potente. Ricordati dei tuoi servi, Abraamo, Isacco e Giacobbe; non guardare alla caparbietà di questo popolo, alla sua malvagità e al suo peccato, affinché il paese da dove ci hai tratti fuori non dica: Siccome l'Eterno non era capace di introdurli nella terra che aveva loro promesso, e siccome li odiava, li ha fatti uscire di qui per farli morire nel deserto. Tuttavia, essi sono il tuo popolo, la tua eredità, che tu traesti fuori dall'Egitto con la tua grande potenza e con il tuo braccio steso'.
(Notizie su Israele, 30 ottobre 2025)
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Gerusalemme: decine di migliaia di ortodossi manifestano contro la coscrizione militare
Decine di migliaia di uomini ortodossi hanno invaso oggi i dintorni di Gerusalemme per protestare contro l'assenza di una legge che garantisca loro l'esenzione dal servizio militare obbligatorio. La mobilitazione, di portata senza precedenti da anni, ha paralizzato il traffico sulla strada n. 1 che porta alla capitale, bloccata da mezzogiorno, mentre 2.000 poliziotti sono stati dispiegati per mantenere l'ordine.
Su appello dei partiti Shas e Giudaismo Unificato della Torah (JUT), i manifestanti sono convenuti da tutto il paese per chiedere il ripristino di un accordo storico che esenta gli studenti delle yeshivot (scuole talmudiche) dalla coscrizione. Questo accordo, risalente al 1948, è stato invalidato nel giugno 2024 dalla Corte Suprema, che ha richiesto una nuova legge che disciplini la partecipazione degli ultraortodossi all'esercito.
Ma la guerra a Gaza ha sconvolto gli equilibri. Di fronte alla carenza di soldati e riservisti, negli ultimi mesi l'esercito israeliano ha inviato migliaia di ordini di mobilitazione a giovani ortodossi, incarcerando diversi disertori. La decisione ha scatenato l'ira dei rabbini e dei loro partiti, che denunciano un pericolo spirituale per i loro fedeli. «L'esercito allontana i giovani dalla Torah», affermano, mentre alcuni rabbini più moderati accettano ora un servizio limitato per coloro che non studiano a tempo pieno.
Sul campo, la tensione era palpabile. I giornalisti di Channel 12 sono stati aggrediti dai manifestanti, un poliziotto è rimasto ferito dopo essere stato investito da un autobus e la stazione ferroviaria di Yitzhak Navon ha dovuto chiudere temporaneamente sotto la pressione della folla.
Dal punto di vista politico, la questione è esplosiva: se Shas lasciasse la coalizione in mancanza di un compromesso, il primo ministro Benjamin Netanyahu potrebbe perdere la maggioranza e aprire la strada a nuove elezioni.
Gli ortodossi, che rappresentano il 14% della popolazione ebraica di Israele, temono che la fine della loro esenzione possa mettere in discussione un patto fondante tra religione e Stato.
(i24, 30 ottobre 2025)
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La società israeliana sta diventando sempre più religiosa
Israele sta vivendo un momento di cambiamento silenzioso ma profondo. Secondo un recente sondaggio attribuito all'Istituto Reichman, il 78% dei cittadini dichiara di credere in Dio; il 69% ritiene che Dio sia importante nella propria vita e il 59% attribuisce importanza non solo alle credenze ma anche ai rituali. Più in generale, il 60% degli israeliani crede nel paradiso, il 54% nell'inferno e il 50% nella venuta del Messia. Tra gli ebrei israeliani, il 57% ritiene che il diritto degli ebrei alla Terra di Israele derivi da una promessa divina. Dato saliente: il 39% attribuisce il successo di un attacco contro l'Iran a una forma di miracolo.
La dimensione generazionale è decisiva. L'indagine evidenzia un'inversione di tendenza rispetto alle tendenze europee: la religiosità è in aumento soprattutto tra i 18-34enni. Il 76% di loro dichiara che Dio ha un ruolo importante nella propria vita (contro il 51% dei 55enni e oltre); il 71% crede nel paradiso (contro il 32%) e il 59% nella venuta del Messia (contro il 27%). In altre parole, il futuro demografico del Paese porta con sé un aumento della fede che già permea la cultura, l'istruzione e il dibattito pubblico.
Questo movimento non emerge dal nulla. Dal 7 ottobre, diversi studi indicano un avvicinamento di una parte degli israeliani alla religione e alla spiritualità. Nei campus universitari come nelle grandi città, si osserva un aumento delle pratiche (preghiera, studio, rituali), un ritorno al senso e una rivalutazione dei punti di riferimento identitari. Di conseguenza, i dibattiti sulla separazione tra religione e Stato si fanno periodicamente più accesi, segno di una società che sta ridefinendo il proprio equilibrio tra universalismo democratico e particolarismo ebraico.
Questa ricomposizione influisce anche sulla lettura delle questioni strategiche. Se una parte della popolazione continua ad analizzare la sicurezza di Israele con strumenti strettamente politici o militari, un'altra assume maggiormente una visione storico-religiosa del destino nazionale. Ciò è evidente nei sondaggi sulla sovranità, la pace o l'istruzione, dove l'argomento della continuità ebraica ritorna con forza, senza tuttavia cancellare la richiesta di libertà e diritti. Le categorie classiche – «laico», «tradizionale», «religioso», «haredi» – si intrecciano ormai con percorsi biografici più fluidi, in cui si può essere culturalmente modernisti e ritualmente osservanti.
Le critiche esistono e devono essere ascoltate. Alcuni editorialisti temono una polarizzazione: la tentazione della vendetta, il kahanismo marginale ma rumoroso. Altri, al contrario, ricordano che la fede ha alimentato la resilienza di Israele, il legame sociale in tempo di guerra e l'etica della responsabilità personale, anche nell'esercito, nella medicina o nell'azione sociale. In pratica, lo Stato mostra una realtà plurale: un alto livello di adesione all'idea di libertà di religione, una laicità di compromesso e una scena pubblica in cui le voci religiose e laiche si definiscono a vicenda.
Questo riarmo spirituale si riflette nelle istituzioni: più iniziative educative sul patrimonio ebraico, una dinamica di studi (yeshivot, midrashot, università) che cooperano con centri di ricerca applicata e un crescente interesse dei giovani per percorsi che combinano etica, tecnologia e sicurezza. La tensione produttiva del Paese – imprenditorialità, scienza, difesa – si nutre di una matrice culturale in cui la trascendenza ritrova il suo diritto di cittadinanza senza escludere l'esigenza critica.
In termini politici, il dato da monitorare è la sostenibilità di questa tendenza tra i giovani: si tratta di un picco congiunturale legato alla guerra e all'insicurezza, o di una riconfigurazione duratura dei valori? A giudicare dall'intensità delle pratiche e dall'iscrizione in reti (comunitarie, educative, associative), la seconda ipotesi guadagna credibilità. Ciò si ripercuoterà sulle coalizioni e sui compromessi da definire tra norme religiose e quadro civico.
L'aumento della religiosità, sostenuto dai giovani, può diventare una forza di unità se si coniuga con lo Stato di diritto, la protezione delle minoranze e l'etica ebraica del kévod ha'adam (dignità umana). Israele ha interesse a incanalare questa energia verso l'istruzione, la coesione e la sicurezza: è così che la fede rafforzerà la resilienza nazionale, sosterrà l'alleanza con le democrazie e consoliderà il progetto storico di un focolare ebraico sicuro, innovativo e aperto.
(JFORUM.fr, 30 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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“La Giudea e la Samaria devono far parte del futuro ebraico”, dichiara una sionista araba
“Se gli ebrei hanno il diritto di vivere a Tel Aviv, allora hanno sicuramente anche il diritto di vivere in Giudea e Samaria”, ha affermato la sedicente sionista araba Rawan Osman.
di David Isaac
Nel suo discorso alla conferenza “Il futuro della Giudea e della Samaria” all'Inbal Hotel di Gerusalemme mercoledì, Rawan Osman, che si definisce una sionista araba, ha affermato che, sebbene si sia distaccata dalla sua educazione antisemita, c'è una questione che ha “evitato come la peste”. Si tratta della sua opinione sugli insediamenti nella cosiddetta “Cisgiordania”.
“Ho sempre detto: ‘Non sono una giornalista, non sono una politica, non sono israeliana - non chiedetemi nulla’”, ha detto Osman.
"Finché non sono stata invitata a partecipare a un tour in Giudea e Samaria. Mi sono seduta vicino a una sorgente e a un albero di melograno, ho guardato la valle del Giordano e ho riflettuto a lungo, finché sono giunta alla conclusione: Se gli ebrei hanno il diritto di vivere a Tel Aviv, allora hanno sicuramente anche il diritto di vivere in Giudea e Samaria“, ha detto.
”Fa parte della loro storia, del loro passato, e deve essere parte del loro futuro".
Osman, nata a Damasco da genitori musulmani, è cresciuta in un ambiente caratterizzato da atteggiamenti antisemiti. “Crescendo in Libano, mi piaceva Hezbollah. Facevo parte della massa degli utili idioti. E odiavo Israele e gli ebrei”.
“Crediamo a tutto ciò che ci viene detto sugli ebrei e sugli israeliani, soprattutto perché non ci sono più ebrei che possano smentire ciò che viene detto su di loro”, ha affermato.
Solo dopo essersi trasferita in Francia a vent'anni e aver incontrato degli ebrei è riuscita a liberarsi dall'indottrinamento della sua educazione. Ha studiato, fatto ricerche e alla fine è diventata sionista. Infatti, è attualmente in procinto di convertirsi all'ebraismo, un processo che ha descritto a JNS come un “ritorno a casa”.
JNS ha chiesto a Osman se, data la sua conoscenza della cultura araba e musulmana, ritiene che Israele avrebbe potuto agire in modo diverso nella sua guerra contro Hamas. Ha affermato che all'inizio del conflitto i leader di Hamas avevano giurato di svuotare le prigioni israeliane dai loro detenuti terroristi.
“Volevano riavere tutti i prigionieri. Se fossi stata un funzionario israeliano all'epoca, li avrei restituiti tutti, in cambio avrei preso i miei ostaggi e poi avrei dichiarato loro guerra”, ha detto.
Il fatto che Hamas abbia immediatamente violato l'accordo di cessate il fuoco non è stata una sorpresa, ha detto. Il gruppo non è interessato a una pace duratura.
I palestinesi credono di aver tratto vantaggio dagli attacchi terroristici guidati da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023. Gli attivisti “diffondono l'idea che siano stati vittoriosi, che abbiano vinto grazie al 7 ottobre e che ora che hanno slancio non dovrebbero perderlo”, ha detto Osman.
Mustafa Barghouti, un politico palestinese considerato una delle “voci più moderate”, sostiene questa posizione, ha affermato. Egli spinge per manifestazioni di massa nelle città occidentali per “liberare la Palestina”. I manifestanti sono “antisemiti professionisti”. Vogliono esercitare una pressione massiccia su Israele.
“Andranno avanti. Continueranno a provocare perché non hanno mai avuto un tale slancio. Non si fermeranno finché non vedranno decine di migliaia di israeliani fare le valigie e lasciare il Paese. Vogliono che questo Paese scompaia”, ha detto Osman.
Alla domanda se fosse possibile deradicalizzare la popolazione palestinese, dato il suo livello di odio, Osman ha risposto che era possibile; con la Germania nazista aveva funzionato. “Se c'è un'ambasciata tedesca in Israele e un'ambasciata israeliana in Germania, tutto è possibile”, ha detto. Tuttavia, ha osservato che la Germania era stata prima distrutta dagli Alleati.
Osman ha affermato che i paesi arabi moderati dovrebbero aiutare ad attuare programmi obbligatori di deradicalizzazione per i palestinesi, subordinando la partecipazione all'aiuto umanitario. Il sostegno finanziario sarebbe concesso solo in cambio della partecipazione a tali programmi, che promuoverebbero una “visione alternativa” e l'accettazione del fatto che non ci sarà mai uno Stato palestinese.
“La causa palestinese è stata liquidata il 7 ottobre”, ha affermato. "Smetteremo di infantilizzare il popolo palestinese e gli diremo che tutta la sua ideologia è stata inventata con l'aiuto del KGB. Persino Palestina non è una parola araba. Nel 1964 Arafat ha presentato questo progetto, ma è un progetto destinato al fallimento. Ha già causato abbastanza danni", ha affermato Osman.
(JNS, 29 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 34
- Poi Mosè salì dalle pianure di Moab sul Monte Nebo, in vetta al Pisga, che è di fronte a Gerico. E l'Eterno gli fece vedere tutto il paese: Galaad fino a Dan, tutto Neftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al mare occidentale, la regione meridionale, il bacino del Giordano e la valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. L'Eterno gli disse: “Questo è il paese riguardo al quale io feci ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, questo giuramento: 'Io lo darò alla tua progenie'. Io te l'ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai”.
- Mosè, servo dell'Eterno, morì là, nel paese di Moab, come l'Eterno aveva comandato. E l'Eterno lo seppellì nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; e nessuno fino a questo giorno ha mai saputo dove fosse la sua tomba. Così Mosè aveva centovent'anni quando morì; la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno. E i figli d'Israele lo piansero nelle pianure di Moab per trenta giorni, e si compirono così i giorni del pianto per il lutto per Mosè.
- E Giosuè, figlio di Nun, fu ripieno dello spirito di sapienza, perché Mosè gli aveva imposto le mani; e i figli d'Israele gli ubbidirono e fecero quello che l'Eterno aveva comandato a Mosè.
- Non è mai più sorto in Israele un profeta simile a Mosè, con il quale l'Eterno abbia trattato faccia a faccia. Nessuno è stato simile a lui in tutti quei segni e miracoli che Dio lo mandò a fare nel paese d'Egitto contro Faraone, contro tutti i suoi servi e contro tutto il suo paese; né simile a lui in quegli atti potenti e in tutte quelle gran cose tremende che Mosè fece davanti agli occhi di tutto Israele.
(Notizie su Israele, 29 ottobre 2025)
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Gaza: scoperto in una moschea un centro di addestramento di Hamas per gli attacchi del 7 ottobre
L'esercito israeliano ha scoperto un centro di addestramento terroristico nascosto in una moschea della Striscia di Gaza, secondo quanto riportato martedì dalla radio militare. La struttura, situata a meno di 1,5 chilometri dalla barriera di confine di fronte al kibbutz Nahal Oz, sarebbe stata utilizzata come base di partenza per l'attacco del 7 ottobre 2023.
Le perquisizioni del complesso hanno portato alla luce modelli dettagliati dei kibbutz Sa'ad e Alumim, oltre a un deposito di missili RPG e altre armi pesanti. Secondo i documenti di intelligence analizzati dall'esercito israeliano, il sito “era una delle moschee da cui i terroristi della forza Nukhba sono partiti il 7 ottobre, dove si sono addestrati e hanno studiato nei minimi dettagli i loro obiettivi”, riferisce la radio dell'esercito.
La scoperta è avvenuta dopo che un gruppo di terroristi di Hamas ha tentato di accedere a questo nascondiglio di armi lo stesso giorno del rilascio degli ultimi ostaggi vivi, due settimane fa. I terroristi hanno attraversato la “linea gialla”, il perimetro verso cui l'esercito israeliano si è ritirato dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti, prima di essere individuati da un drone dell'esercito israeliano.
Da allora, Hamas ha moltiplicato i tentativi di attraversare la linea gialla e ha aperto il fuoco più volte contro le truppe israeliane posizionate dall'altra parte, violando nuovamente l'accordo di cessate il fuoco. L'ultimo attacco sferrato martedì dal gruppo terroristico con missili anticarro e cecchini ha ucciso un soldato dell'esercito israeliano. In risposta, l'esercito israeliano ha condotto diversi attacchi su larga scala contro obiettivi di Hamas a Gaza.
(i24, 29 ottobre 2025)
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Dopo due anni di guerra a Gaza, l'ebraismo sta attraversando una crisi spirituale?
Rabbi e intellettuali sionisti liberali o non ortodossi si interrogano sulle vittime, sulla crisi umanitaria e sulle violenze degli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania.
di Andrew Silow-Carroll
Nei due anni successivi al pogrom perpetrato dal gruppo terroristico palestinese Hamas il 7 ottobre 2023, il dibattito ebraico sulla guerra a Gaza è rimasto doloroso e polarizzante. All'interno del mondo ebraico si sono accesi dibattiti sugli obiettivi militari del governo israeliano, sul prezzo da pagare per “riportare a casa gli ostaggi”, sul presunto tradimento della sinistra nei confronti dei suoi alleati ebrei e sull'influenza di alcuni ministri israeliani di estrema destra.
Dall'estate, tuttavia, molti leader religiosi e intellettuali ebrei discutono un'altra idea: la guerra a Gaza non rappresenterebbe solo una sfida militare, etica o diplomatica, ma una crisi di fede. Essi avvertono che il numero di morti e la crisi umanitaria a Gaza, così come la violenza degli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania, stanno scuotendo profondamente le credenze e le pratiche degli ebrei impegnati nella loro fede.
“Quello che stiamo affrontando oggi è una catastrofe spirituale, e la posta in gioco non è solo il futuro dello Stato di Israele, ma l'anima stessa del popolo ebraico”, ha dichiarato la rabbina Sharon Brous, che guida la congregazione indipendente IKAR a Los Angeles, in un sermone pronunciato in occasione di Rosh HaShana.
La maggior parte di queste riflessioni spirituali provengono da pensatori sionisti liberali e rabbini di correnti non ortodosse, ma anche da intellettuali disillusi o critici nei confronti del sionismo. I loro detrattori ritengono, da parte loro, che il vero pericolo spirituale risieda nell'abbandono di Israele e degli ostaggi nel mezzo di una guerra giusta che Israele non ha scelto.
Ma questo nuovo dibattito suggerisce che, per molti ebrei della corrente dominante, il secondo anniversario dei massacri solleva profonde questioni su Israele, l'ebraismo e l'identità ebraica.
In un'intervista rilasciata ad agosto, il giornalista Peter Beinart ha chiesto al rabbino Ismar Schorsch cosa risponderebbe a un correligionario ebreo sconvolto dalle azioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania.
“Cosa diresti a qualcuno”, ha continuato Beinart, "la cui fede in Dio e nel giudaismo è stata scossa dalle azioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania? »
L'ottantanovenne rabbino Schorsch, cancelliere emerito del Jewish Theological Seminary, ha accettato la premessa della domanda e ha risposto:
«Penso che, in un certo senso, l'ebraismo stia attraversando un momento critico. Saremo in grado di difendere l'ebraismo, che porta il peso del chillul Hashem [la profanazione del nome di Dio] che si sta verificando in Cisgiordania e a Gaza? Saremo in grado di convivere con questo ebraismo, e se non ci esprimiamo ora, potrebbe essere troppo tardi. Questo potrebbe essere il nostro ultimo momento. Stabilendo i limiti etici che devono essere imposti al governo israeliano, difendiamo il giudaismo, che dovrà sopravvivere a questa catastrofe. E come potremo convivere con noi stessi se rimaniamo in silenzio?
Questa reazione ha potuto sorprendere. Per vent'anni, alla guida della corrente conservatrice del giudaismo, lo storico si era sempre tenuto lontano dalle invettive oratorie e dalle critiche pubbliche a Israele. In alcuni forum rabbinici si è deplorato il fatto che Schorsch abbia espresso le sue opinioni in un'intervista con Peter Beinart, un ebreo praticante il cui allontanamento molto pubblico dal sionismo ha suscitato dibattiti e scherni.
Non era la prima volta che Schorsch esprimeva le sue preoccupazioni sulle conseguenze spirituali della guerra. Aveva già espresso le sue preoccupazioni in un saggio pubblicato in occasione del digiuno di Tisha BeAv. “La violenza incessante esercitata contro i palestinesi indifesi a Gaza e i loro correligionari totalmente innocenti in Cisgiordania farà gravare sugli ebrei il fardello di una religione ripugnante, corrotta dall'ipocrisia e dalle contraddizioni”, aveva avvertito. «Il messianismo che anima l'attuale governo israeliano è purtroppo in contrasto con il giudaismo tradizionale e costituisce un abominio morale totale».
Nel suo sermone, Brous descrive Hamas come un «nemico temibile che ha ripetutamente espresso la sua intenzione di ripetere ancora e ancora i massacri del 7 ottobre». Non manca tuttavia di criticare il primo ministro Benjamin Netanyahu, che accusa di «perpetuare una guerra ormai apertamente condotta per mantenere il potere», nonché i ministri del suo governo, che «mostrano senza mezzi termini la loro febbrile impazienza di vedere Gaza completamente ripopolata, a qualsiasi costo».
Al di là di quello che potrebbe essere percepito come un sermone politico di parte da parte di una nota sionista liberale, Brous evoca anche il costo spirituale di quello che definisce «il manifesto disprezzo per la vita dei palestinesi».
«È opportuno ricordare che il concetto secondo cui ogni essere umano è creato a immagine di Dio è al centro della nostra fede ebraica. Ciò significa che la morte di ogni innocente è una catastrofe morale. Una catastrofe morale», ha affermato. «E nonostante ciò, la devastazione continua a colpire Gaza. Non posso fare a meno di chiedermi se questi leader non si siano completamente distaccati dalla storia e dalla tradizione ebraica».
Brous cita lo storico israeliano Yuval Noah Harari, che ad agosto aveva definito la guerra «una catastrofe spirituale per lo stesso ebraismo».
“Quello che sta succedendo attualmente in Israele potrebbe, a mio avviso, distruggere duemila anni di pensiero e cultura ebraici”, ha dichiarato Harari nel podcast The Unholy. Secondo lui, questa cupa previsione per il futuro dell'ebraismo deriva da “una campagna di pulizia etnica a Gaza e in Cisgiordania”, dalla «disintegrazione della democrazia israeliana» e dalla creazione di un nuovo Israele fondato su «un'ideologia di supremazia ebraica e il culto di valori che per due millenni sono stati totalmente contrari allo spirito del giudaismo».
I sionisti liberali come Brous e Schorsch, così come i critici del sionismo, come Beinart – il cui ultimo libro si intitola Being Jewish after the Destruction in Gaza: A Reckoning – non sono tuttavia gli unici a interrogarsi sull'impatto della guerra sul giudaismo.
Ad agosto, ottanta rabbini, per lo più di orientamento ortodosso moderno e rappresentanti di un gruppo ferocemente sionista, hanno firmato una lettera in cui chiedevano maggiore «chiarezza morale» di fronte alla crisi alimentare a Gaza. La lettera formulava la loro critica sulla base dei testi ebraici che predicavano «giustizia e compassione».
«Questi principi costituiscono i fondamenti del nostro obbligo etico: esigere politiche che rispettino la dignità umana, fornire aiuti umanitari ovunque sia possibile e denunciare le azioni del nostro governo quando contraddicono gli imperativi morali della Torah, per quanto doloroso possa essere accettarlo», affermava la lettera.
L'autore della lettera, il rabbino Yosef Blau, ha confessato di averla scritta in parte per difendere l'ebraismo e i suoi praticanti ortodossi dalle conseguenze di politiche che ritiene contrarie alla tradizione. Blau, ex consigliere spirituale della Yeshiva University, ha precisato che la lettera era rivolta anche agli ebrei israeliani laici disillusi di fronte a un giudaismo che non percepiscono più come moralmente ispiratore.
Per alcuni critici – e Blau e i suoi colleghi ne contavano molti, sia all'interno dell'ortodossia che al di fuori di essa – predicare la morale sulla guerra è pericoloso, perché offre argomenti retorici ai nemici di Israele. Essi rimproverano inoltre a coloro che definiscono la guerra una crisi spirituale di praticare una lettura selettiva dell'ebraismo: oltre ai suoi appelli alla giustizia e alla compassione, sottolineano, la tradizione ebraica giustifica la guerra in nome della legittima difesa e della protezione della Terra di Israele dai suoi nemici.
Alcuni sondaggi e testimonianze aneddotiche indicano inoltre che il trauma e la tensione legati alla guerra hanno spinto molti ebrei ad approfondire il loro impegno nei confronti dell'ebraismo.
«I loro sermoni non sono coraggiosi, sono capitolazioni», ha scritto l'autore e rabbino Shmuley Boteach in una risposta virulenta alla lettera dei rabbini. «Le loro dichiarazioni non sono morali, sono mancanze al loro dovere».
Che si tratti di studenti nei campus o di fedeli nelle sinagoghe, ha continuato Boteach, «tutti hanno bisogno di leader spirituali che ruggiscano di orgoglio. Rabbini che proclamano che Israele è il nostro scudo, il nostro cuore, il nostro destino. Rabbini che insegnano che la guerra di Israele non è solo giusta, ma sacra: una lotta per la sopravvivenza del popolo ebraico contro le forze dello sterminio".
Anche Jonathan S. Tobin, redattore capo di JNS.org, ha esortato i rabbini e i commentatori a resistere alla tentazione di «segnalare la loro ambivalenza nei confronti di una guerra condotta contro un avversario veramente malvagio» e a «unirsi invece alla solidarietà con gli sforzi di Israele per annientare Hamas».
«Inevitabilmente, molte di queste riflessioni sono più opinioni politiche che giudizi morali imparziali», ha scritto Tobin. «E questo diventa particolarmente evidente quando si tratta degli sforzi compiuti da coloro che difendono questa causa nel mezzo di un conflitto armato contro le forze islamiste genocidarie alla guida del movimento nazionale palestinese».
Tobin rispondeva a un editoriale di Yossi Klein Halevi, ricercatore senior presso lo Shalom Hartman Institute. Israeliano di origine americana e di orientamento politico di centro-destra, Klein Halevi aveva scritto, in prossimità delle festività del Capodanno ebraico, che Israele e i suoi sostenitori dovrebbero intraprendere un processo di “autocritica morale” in linea con i temi dell'introspezione e del pentimento di queste festività, pur riconoscendo che esso dovrebbe avere dei limiti.
«Anche quando conduce una guerra esistenziale contro nemici privi di qualsiasi freno morale, esistono dei limiti a ciò che è moralmente permesso allo Stato ebraico», scriveva Halevi sul Times of Israel. «E, data la natura del nostro nemico e le minacce che gravano su di noi, ci sono anche dei limiti all'autocritica che gli ebrei dovrebbero imporsi».
Ma, continua, «qualcosa è andato molto storto a Gaza», riferendosi alla crisi umanitaria, all'alto numero di vittime civili, alle mire messianiche del gabinetto di Netanyahu e, al di là della guerra, alle violenze commesse dagli abitanti degli insediamenti in Cisgiordania.
Halevi scrive: «Questo periodo di introspezione che inizia con il mese ebraico di Elul e culmina con lo Yom Kippur si rivolge non solo a ogni singolo ebreo, ma anche – e soprattutto – alla comunità ebraica nel suo insieme. Vivere questo processo come popolo non ci indebolisce. Ci offre una protezione spirituale. »
« Così come dobbiamo saper difendere la verità di fronte alle menzogne e alle distorsioni, dobbiamo trovare un linguaggio parallelo per affrontare i dilemmi morali che questa guerra genera. Coloro che amano Israele non possono abbandonare il dibattito morale agli ebrei che hanno perso ogni speranza in Israele o che si schierano apertamente tra i suoi nemici. »
Ebreo praticante e giornalista che ha seguito entrambi i lati del conflitto israelo-palestinese, Halevi padroneggia con disinvoltura il linguaggio della tradizione ebraica quando si tratta di politica e strategia.
I rabbini dal pulpito, invece, sono generalmente più cauti. A differenza di accademici in pensione come Blau e Schorsch, si rivolgono a fedeli che possono – e talvolta lo fanno – ribellarsi a un sermone con cui non sono d'accordo. Durante il suo sermone alla Central Synagogue di New York, il primo giorno di Rosh HaShana, la rabbanit Angela Buchdahl ha confidato ai suoi fedeli: «Non ho mai avuto tanta paura di parlare di Israele».
Buchdahl, una delle rabbanit più famose del Paese, ha poi affrontato i pericoli spirituali della guerra, avendo cura di sottolineare i difetti sia dei detrattori di Israele che dei suoi difensori. Ha articolato il suo sermone attorno al passo della Torah letto il primo giorno di Rosh HaShana, che racconta il conflitto tra Sara, moglie di Abramo, e la sua serva Agar. I saggi dell'ebraismo hanno scelto di leggere questa storia a Rosh HaShana, ha spiegato, perché «la nostra tradizione ci chiede di fare un cheshbon hanefesh, un esame di coscienza, un bilancio della nostra anima».
Questa storia parla dell'empatia, che manca a entrambe le parti, ha affermato Buchdahl. I detrattori di Israele rifiutano di riconoscere la vulnerabilità che gli israeliani provano dal 7 ottobre e “prendono alla lettera le accuse più gravi mosse contro Israele”, mentre i suoi difensori sono diventati insensibili alla sorte dei bambini di Gaza, “che soffrono, sono esiliati e disperati”.
«Questa guerra ha messo alla prova la nostra empatia. Tutti noi», ha affermato. «Vedo quanto la mia paura abbia indebolito la mia capacità di empatia. Faccio ancora fatica a trovare la forza emotiva necessaria per leggere le tragiche notizie che ci arrivano da Gaza, mentre la mia famiglia allargata è ancora prigioniera e gli appelli a “mettere i sionisti nella lista nera” o a “globalizzare l'intifada” risuonano ancora in tutto il mondo, e persino in questa città. Ma chi diventiamo quando induriamo i nostri cuori?
Il rabbino Jay Michaelson, editorialista del Forward, ritiene che il dibattito su come la guerra potrebbe trasformare l'ebraismo sia l'ultima manifestazione di una tensione secolare tra universalismo e particolarismo. Gli ebrei liberali, scrive, tendono a privilegiare gli aspetti universali della tradizione che coltivano «la compassione verso tutti, e non solo verso gli ebrei, né principalmente verso di loro». Il governo di destra israeliano e gli ebrei praticanti che lo sostengono incarnano, secondo lui, una tendenza iper-particolarista, per la quale «l'ebraismo consiste soprattutto nell'amare gli altri ebrei».
Michaelson rifiuta questo particolarismo a favore di una via ebraica «impegnata a favore dei diritti umani, della giustizia, dell'amore e dell'universalismo». In un certo senso, scrive, pratica «una religione diversa, uno stile di vita diverso da quello di almeno la metà degli ebrei religiosi nel mondo», e sembra essersi rassegnato a questa divisione.
Schorsch, dal canto suo, ritiene che le questioni morali richiedano una reprimenda. Si rivolge ai suoi colleghi del clero, ritenendo che sia loro responsabilità denunciare gli «eccessi» commessi da Israele e tollerati dai rabbini di destra.
Nella sua intervista con Beinart, Schorsch ha espresso la sua simpatia per i rabbini che non si sentono a proprio agio nell'usare la loro cattedra per mettere in discussione Israele. Ma, ha aggiunto, dovrebbero farlo comunque, nello spirito della tradizione autocorrettiva dei profeti ebrei e per il bene dello stesso giudaismo.
«I profeti erano i portavoce critici che limitavano l'autorità della monarchia, e oggi la voce dei profeti è silenziosa», ha affermato. «Non c'è nulla di più distruttivo per la religione dell'ipocrisia, e il fatto che difendiamo religiosamente ciò che sta accadendo in Cisgiordania e a Gaza è semplicemente ipocrita. Penso che questo peserà sulla storia futura dell'ebraismo».
(The Times of Israel, 28 ottobre 2025 - - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il 7 ottobre costituisce davvero una svolta nella storia di Israele. È tramontato il sionismo rigidamente laico, quello che immagina Israele come maestro di morale democratica tra le nazioni. Proprio questo è stato messo in crisi dallo “scandalo” della violenza ebraica a Gaza.
Tra tanto parlare di ebraismo e sionismo, di universalismo e particolarismo e di altri ismi ancora, manca in questi intellettualistici scritti un chiaro e deciso riferimento al Dio di Israele e al suo Messia, in qualunque modo lo si immagini. È l’idolo democratico occidentale che sta traballando. Che cosa è più grave davanti a Dio? La violenza usata a Gaza contro i nemici dichiarati di Israele che si costituiscono come nemici di Dio (Salmo 83), o i balli e le feste che si stavano facendo al Novafestival intorno alla statua di Budda, durante la festa di Succot, quando i palestinesi hanno fatto la loro irruzione?
Volge al termine il sionismo laico, indubbiamente usato da Dio come suo strumento, ma che ha pensato di poter mettere Dio tra parentesi a tempo indeterminato. M.C.
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Giuseppe e i suoi fratelli
La storia biblica di Giuseppe e dei suoi fratelli può essere interpretata in riferimento a Gesù. Riguarda il riconoscimento del Messia.
di Christa Behr
La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli può farci vedere in modo esemplare come dovrebbe essere il nostro rapporto, in quanto cristiani delle nazioni, con il popolo dell'alleanza di Israele e come Dio raggiunge il Suo obiettivo. La vita di Giuseppe è un riferimento al Messia, che è stato mandato per una grande redenzione davanti ai suoi fratelli (Genesi 45:5): «Perché Dio mi ha mandato davanti a voi per salvare la vostra vita». Il padre Giacobbe aveva un rapporto speciale con Giuseppe, poiché era il figlio della sua amata Rachele.
Giacobbe riconosce anche attraverso lo Spirito Santo che su di lui pesa una chiamata speciale e gli dà un mantello a strisce. I fratelli pensano che sia un sognatore presuntuoso. Lo vendono in Egitto. Giuseppe dice di essere stato rapito dalla terra degli Ebrei (Genesi 40,15). Gesù, il re dei Giudei, è riconosciuto come Salvatore dalle nazioni, ma non ancora dal suo popolo. Purtroppo, nelle nazioni si è dimenticata la sua identità ebraica. Così l'antisemitismo ha fatto il suo ingresso nelle chiese delle nazioni.
Un giorno i suoi fratelli vanno da Giuseppe a causa della carestia. Lui li riconosce immediatamente, ma loro non riconoscono lui. Anche oggi Gesù riconosce il suo popolo ebraico, ma essi non lo riconoscono ancora. All'inizio Giuseppe non vuole rivelarsi subito, quindi parla attraverso un interprete. Per prima cosa mette alla prova i suoi fratelli per vedere se il loro atteggiamento è cambiato (Genesi 42,16-17).
Giuseppe dice ai suoi dieci fratelli che loro avrebbero potuto rivedere il suo volto soltanto insieme al loro fratello Beniamino: «Se il vostro fratello minore non verrà con voi, non vedrete più il mio volto» (Genesi 44:23). Anche noi, come chiesa delle nazioni, siamo paragonabili ai dieci fratelli.
Potremmo paragonare Beniamino al popolo ebraico, che è imparentato con Gesù. Penso che questo possa essere un messaggio per la chiesa delle nazioni: non dobbiamo più pianificare l'unità delle chiese e l'evangelizzazione mondiale senza i fratelli carnali di Gesù, perché senza di loro non vedremo più il suo volto.
• Giuseppe vuol federe se i fratelli sono ancora gelosi
Giuseppe rende facile ai suoi fratelli tradire ancora Beniamino. Verifica se sono ancora dominati dalla gelosia. Dopo il banchetto mette la sua coppa nel sacco di grano di Beniamino e dice: «Chi sarà trovato con la coppa sarà mio schiavo; voi invece potete andare in pace da vostro padre» (Genesi 44:17).
I fratelli avrebbero potuto tornare a casa e inventare facilmente un’altra storia sulla morte di Beniamino, ma evidentemente c'era stato in loro un vero cambiamento. Giuda si era impegnato a riportare Beniamino sano e salvo dal padre (Genesi 44:29-34). Giuda sa bene che il cuore del padre Giacobbe è particolarmente legato al figlio Beniamino, e conclude: «Non potrei sopportare la vista del dolore che ne avrebbe mio padre».
I fratelli avevano visto con i loro occhi che il padre Giacobbe non era più sereno da quando suo figlio Giuseppe era scomparso. Gesù appartiene alla tribù di Giuda e c’è qualcosa di speciale nel carattere di Giuda, perché solo quando si fa garante per Beniamino, il padre lo lascia andare con i fratelli. Giuda si offre volontario per andare in prigione al posto di Beniamino e rimanere schiavo in Egitto.
Proprio in quel momento Giuseppe non riesce più a trattenersi, e inizia a piangere a dirotto, e dice loro di essere il loro fratello Giuseppe. Il momento della sua rivelazione è giunto nel momento in cui Giuda si era del tutto consegnato al più giovane Beniamino. Quando la Chiesa delle nazioni si impegnerà completamente per Israele, Gesù si rivelerà al Suo popolo e a tutti gli uomini. La sposa di Gesù si sarà allora preparata per incontrare lo Sposo.
Alla fine è venuto alla luce tutto quello che aveva offuscato il rapporto dei fratelli con Giuseppe e il padre in tutti quegli anni. E il rapporto poté essere ripristinato grazie alla verità venuta alla luce.
(Israelnetz, 29 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 31, 14-29
- L'Eterno disse a Mosè: “Ecco, il giorno della tua morte si avvicina; chiama Giosuè, e presentatevi nella tenda di convegno perché io gli dia i miei ordini”. Mosè e Giosuè dunque andarono e si presentarono nella tenda di convegno. L'Eterno apparve, nella tenda, in una colonna di nuvola; e la colonna di nuvola si fermò all'ingresso della tenda.
- E l'Eterno disse a Mosè: “Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri; e questo popolo si alzerà e si prostituirà, andando dietro agli dèi stranieri del paese nel quale va a stare; e mi abbandonerà e violerà il mio patto che io ho stabilito con lui. In quel giorno, l'ira mia si infiammerà contro di lui; e io li abbandonerò, nasconderò loro la mia faccia e saranno divorati, e cadranno loro addosso molti mali e molte angosce; perciò in quel giorno diranno: 'Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?'. E io, in quel giorno, nasconderò del tutto la mia faccia a causa di tutto il male che avranno fatto, rivolgendosi ad altri dèi.
- Scrivetevi dunque questo cantico, e insegnatelo ai figli d'Israele; mettetelo loro in bocca, affinché questo cantico mi serva di testimonianza contro i figli d'Israele. Quando li avrò introdotti nel paese che promisi ai loro padri con giuramento, paese dove scorre il latte e il miele, ed essi avranno mangiato, si saranno saziati e ingrassati, e si saranno rivolti ad altri dèi per servirli, e avranno disprezzato me e violato il mio patto, e quando molti mali e molte angosce gli saranno piombati addosso, allora questo cantico alzerà la sua voce contro di loro, come una testimonianza; poiché esso non sarà dimenticato, e rimarrà sulle labbra dei loro posteri; poiché io conosco quali siano i pensieri che essi concepiscono, anche ora, prima che io li abbia introdotti nel paese che giurai di dare loro”. Così Mosè scrisse quel giorno questo cantico e lo insegnò ai figli d'Israele.
- Poi l'Eterno diede i suoi ordini a Giosuè, figlio di Nun, e gli disse: “Sii forte e coraggioso, poiché tu sei colui che introdurrà i figli d'Israele nel paese che giurai di dare loro; e io sarò con te”.
- E quando Mosè ebbe finito di scrivere in un libro tutte quante le parole di questa legge, diede quest'ordine ai Leviti che portavano l'arca del patto dell'Eterno: “Prendete questo libro della legge e mettetelo accanto all'arca del patto dell'Eterno, che è il vostro Dio; e là rimanga come testimonianza contro di te; perché io conosco il tuo spirito ribelle e la durezza del tuo collo. Ecco, oggi, mentre sono ancora vivente tra voi, siete stati ribelli contro l'Eterno; quanto più lo sarete dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani delle vostre tribù e i vostri ufficiali; io farò udire loro queste parole e prenderò come testimoni contro di loro il cielo e la terra. Poiché io so che, dopo la mia morte, voi certamente vi corromperete e lascerete la via che vi ho prescritto; e nei giorni che verranno la sventura vi colpirà, perché avrete fatto ciò che è male agli occhi dell'Eterno, provocandolo a indignazione con l'opera delle vostre mani”.
(Notizie su Israele, 28 ottobre 2025)
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Hamas restituisce ulteriori resti degli ostaggi recuperati nel 2023
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dovrebbe tenere una discussione con i capi dell'establishment della difesa israeliano martedì per decidere una risposta.
Hamas nella notte di lunedì ha rilasciato solo i resti di un ostaggio israeliano il cui corpo era già stato recuperato per la sepoltura, e non il sedicesimo corpo, violando l'accordo di cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti nella Striscia di Gaza.
In base al piano di pace del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, l'organizzazione terroristica palestinese si era impegnata a consegnare tutti i 48 ostaggi, sia vivi che deceduti, il 13 ottobre. Mentre i 20 prigionieri vivi sono stati tutti liberati quel giorno, Hamas ha rallentato la restituzione dei 28 corpi.
Finora, Hamas ne ha restituiti solo 15. Secondo quanto riferito, Gerusalemme ritiene che l'organizzazione terroristica possa trovare almeno 10 dei 13 corpi rimanenti.
“A seguito del completamento del processo di identificazione questa mattina, è stato scoperto che ieri sera i resti dell'ostaggio deceduto Ofir Tzarfati, di benedetta memoria, sono stati restituiti da Gaza”, ha dichiarato martedì pomeriggio l'ufficio del primo ministro israeliano, aggiungendo che la famiglia di Tzarfati era stata informata.
Il corpo di Tzarfati è stato recuperato da Gaza nell'ambito di un'operazione militare israeliana nel dicembre 2023, ha osservato l'ufficio del primo ministro, aggiungendo che il rifiuto di Hamas di restituire il corpo del sedicesimo ostaggio “costituisce una chiara violazione dell'accordo da parte dell'organizzazione terroristica Hamas”.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe dovuto tenere una discussione con i capi dell'establishment della difesa israeliano martedì, “durante la quale sarà discussa la risposta di Israele a queste violazioni”, ha aggiunto.
Ynet ha riferito che Israele sta valutando diverse possibili risposte alle violazioni di Hamas, tra cui l'estensione del controllo militare israeliano sul territorio di Gaza.
Un filmato non verificato pubblicato dai media israeliani martedì pomeriggio sembrava mostrare i terroristi di Hamas che inscenavano il recupero davanti alla Croce Rossa, inizialmente gettando i resti da una finestra in una fossa e poi coprendoli con della terra davanti a quella che sembra essere una squadra del CICR.In una dichiarazione condivisa martedì pomeriggio dal Forum israeliano delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi, la famiglia di Tzarfati ha affermato di aver visto “un filmato in cui i resti del nostro amato figlio venivano rimossi, sepolti e consegnati alla Croce Rossa: una manipolazione ripugnante volta a sabotare l'accordo e ad abbandonare lo sforzo di riportare a casa tutti gli ostaggi”.
Hanno poi aggiunto: “Ieri sera siamo andati a dormire con l'aspettativa e la speranza che un'altra famiglia potesse chiudere un cerchio agonizzante durato due anni e riportare a casa la persona amata per seppellirla, ma ancora una volta, mentre cerchiamo di guarire, la nostra famiglia è stata vittima di un inganno.
”Questa è la terza volta che siamo stati costretti ad aprire la tomba di Ofir e a seppellire nuovamente nostro figlio. Il cerchio si sarebbe dovuto ‘chiudere’ nel dicembre 2023, ma non si chiude mai veramente. Da allora, abbiamo vissuto con una ferita che si riapre costantemente, tra il ricordo e il desiderio, tra il lutto e la missione", ha aggiunto la famiglia.
Poco prima della mezzanotte di lunedì, Israele ha dichiarato che le sue forze armate avevano scortato una bara attraverso il confine nello Stato ebraico e che i resti erano in viaggio verso l'Istituto Nazionale di Medicina Legale per l'identificazione.
In precedenza, nella serata di lunedì, lo Stato ebraico aveva confermato che il Comitato Internazionale della Croce Rossa aveva recuperato un corpo da Gaza.
“Hamas è tenuta a rispettare l'accordo e ad adottare le misure necessarie per restituire tutti gli ostaggi deceduti”, ha affermato l'esercito israeliano.
In passato, l'organizzazione terroristica Hamas ha restituito resti che secondo lei appartenevano a ostaggi deceduti, ma che si sono rivelati non essere tali.
Sabato, Trump aveva esortato Hamas a restituire entro le successive 48 ore i resti degli ostaggi deceduti che il gruppo terroristico ancora detiene, pena l'intervento degli “altri paesi coinvolti” nel suo accordo di pace.
“Hamas dovrà iniziare a restituire rapidamente i corpi degli ostaggi deceduti, compresi due americani”, ha scritto su Truth Social, “altrimenti gli altri paesi coinvolti in questa grande pace interverranno”.
“Alcuni dei corpi sono difficili da raggiungere, ma altri possono essere restituiti ora e, per qualche motivo, non lo stanno facendo. Forse ha a che fare con il loro disarmo”, ha continuato il presidente.
“Quando ho detto che ‘entrambe le parti sarebbero state trattate in modo equo’, ciò vale solo se rispettano i loro obblighi”, ha aggiunto. “Vediamo cosa faranno nelle prossime 48 ore. Sto osservando la situazione molto da vicino”.
(JNS, 28 ottobre 2025)
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L'accordo di cessate il fuoco prevedeva che Hamas avrebbe restituito i corpi di tutti i 28 rapiti deceduti entro le 72 ore successive alla firma, ma allo scadere dell'accordo ne restituisce solo 9. E dice che l'organizzazione ha riconsegnato i cadaveri "che è riuscita a recuperare". Non soltanto l'impegno non è stato mantenuto, ma si è voluto aggiungerci il condimento di una presa in giro dell'altra parte. Ha firmato una cambiale in bianco: ha detto che avrebbe versato 28 salme e ne aveva solo 9. Per le altre si darà da fare, ci vuole pazienza, bisogna capire che non è facile trovarle, e poi non bisogna avere molta fretta perché c'è la pace a cui Trump tiene molto e per questo ha dato ad Hamas il compito di mantenerla a Gaza. E l'ultima è quella del cadavere dissepolto tre volte. Si vorrebbe parlare d'altro. M.C.
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Forze di pace a Gaza? Il re di Giordania dice no
di Iuri Maria Prado
È significativa per molti aspetti l’intervista resa alla BBC, l’altro giorno, dal re di Giordania. Ma una dichiarazione del sovrano hashemita, in particolare, merita attenzione.
Quando l’intervistatore gli domanda se la Giordania – uno Stato palestinese “di fatto”, per collocazione geografica e preponderanza demografica – parteciperebbe all’invio di truppe a Gaza per il mantenimento della sicurezza e della pace, il re risponde “no”. E lo giustifica spiegando che la Giordania è politicamente troppo coinvolta per rendersi responsabile di un simile intervento. Tutt’altro che sprovveduto, e anzi notoriamente abilissimo, Abdullah II di Giordania ha voluto giustificare la sua posizione argomentando che ad oggi non si tratterebbe di “mantenere” la pace nella Striscia, ma di imporla, e sarebbe dunque un compito in cui nessun Paese, e tantomeno il suo, si farebbe coinvolgere.
L’intervistatore non gli ha domandato che cosa impedisce, oggi, di immaginare una funzione di peacekeeping a Gaza, e in effetti era superfluo perché una duplice risposta sarebbe già stata nella domanda: vale a dire, per un verso, che non si può mantenere una pace che non c’è e che, per altro verso, imporre la pace significa contrastare chi la contrasta, cioè Hamas.
Questa verità semplicissima non incalza solo le parole non dette dal monarca giordano: incombe ineluttabilmente sulla responsabilità di tutti gli attori mediorientali, oltre che su quella di ogni Paese con pretesa di aver voce in capitolo nella soluzione della crisi. Nel giro di pochi giorni si è fatto platealmente chiaro quanto solo un cieco poteva non vedere quando Donald Trump annunciava trionfalmente il raggiungimento dell’accordo: e cioè che, nei fatti e a prescindere dalle ambizioni, era in realtà un accordo per il rilascio degli ostaggi, niente più. Uno sviluppo tutt’altro che trascurabile – attenzione – ma ben lontano dall’assicurare l’esautoramento di Hamas, un obiettivo affidato a più o meno fondate speranze e, tutt’al più, a un lavoro tutto ancora da realizzare non si sa come, non si sa quando, non si sa da chi.
È del tutto verosimile che Israele si costringerà, dovendo farlo, a finire quel lavoro. In una situazione in cui i Paesi arabi, pur potendo contribuirvi, avranno un’altra volta deciso di astenersene. Erano una delega implicita le parole dette, e soprattutto quelle non dette, dal re di Giordania.
(Il Riformista, 28 ottobre 2025)
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"... era in realtà un accordo per il rilascio degli ostaggi, niente più". Israele ha ottenuto quello che ha preteso di avere (da chi?) con quell’agitarsi frenetico (o idolatrico) per la liberazione degli ostaggi a tutti i costi. Ora c'è anche il sollievo di una fragile tregua delle armi, ma i costi da pagare per ciò che si è ottenuto potrebbero diventare molto alti. M.C.
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 30
Quando tutte queste cose che io ti ho posto davanti, la benedizione e la maledizione, si saranno compiute per te, e tu te le richiamerai alla mente fra tutte le nazioni dove l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà sospinto, e ti convertirai all'Eterno, al tuo Dio, e ubbidirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua, secondo tutto ciò che oggi io ti comando, l'Eterno, il tuo Dio, farà ritornare i tuoi dalla schiavitù, avrà pietà di te, e ti raccoglierà di nuovo fra tutti i popoli, fra i quali l'Eterno, il tuo Dio, ti aveva disperso. - Anche se i tuoi esuli fossero all'estremità dei cieli, l'Eterno, il tuo Dio, ti raccoglierà di là, e di là ti prenderà. L'Eterno, il tuo Dio, ti ricondurrà nel paese che i tuoi padri avevano posseduto, e tu lo possederai; ed egli ti farà del bene e ti moltiplicherà più dei tuoi padri.
- L'Eterno, il tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua progenie affinché tu ami l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua, e così tu viva. E l'Eterno, il tuo Dio, farà cadere tutte queste maledizioni sui tuoi nemici e su tutti quelli che ti avranno odiato e perseguitato. Tu ritornerai e ubbidirai alla voce dell'Eterno e metterai in pratica tutti questi comandamenti che oggi ti do.
- L'Eterno, il tuo Dio, ti colmerà di beni, facendo prosperare tutta l'opera delle tue mani, il frutto delle tue viscere, il frutto del tuo bestiame e il frutto del tuo suolo; poiché l'Eterno si compiacerà di nuovo nel farti del bene, come si compiacque nel farlo ai tuoi padri, perché ubbidirai alla voce dell'Eterno tuo Dio, osservando i suoi comandamenti e i suoi precetti scritti in questo libro della legge, perché ti sarai convertito all'Eterno, al tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua.
- Questo comandamento che oggi ti do, non è troppo difficile per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: 'Chi salirà per noi nel cielo e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?'. Non è di là dal mare, perché tu dica: 'Chi passerà per noi di là dal mare e ce lo porterà e ce lo farà udire perché lo mettiamo in pratica?'. Invece questa parola è molto vicina a te; è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.
- Vedi, io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi di amare l'Eterno, il tuo Dio, di camminare nelle sue vie, di osservare i suoi comandamenti; le sue leggi e i suoi precetti affinché tu viva e ti moltiplichi, e l'Eterno, il tuo Dio, ti benedica nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso.
- Ma se il tuo cuore si volta indietro, e se tu non ubbidisci, e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, io vi dichiaro oggi che certamente perirete, che non prolungherete i vostri giorni nel paese, per entrare in possesso del quale voi state passando il Giordano.
- Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua progenie, amando l'Eterno, il tuo Dio, ubbidendo alla sua voce e tenendoti stretto a lui (poiché egli è la tua vita e colui che prolunga i tuoi giorni), affinché tu possa abitare sul suolo che l'Eterno giurò di dare ai tuoi padri Abraamo, Isacco e Giacobbe”.
(Notizie su Israele, 27 ottobre 2025)
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L'IDF elimina gli agenti di Hezbollah mentre aumentano le tensioni sul fronte settentrionale
Nonostante il cessate il fuoco, Israele intensifica le sue azioni in Libano, prendendo di mira gli agenti di Hezbollah, organizzando esercitazioni militari su larga scala e segnalando che non si ritirerà fino a quando non sarà garantita la sicurezza.
Israele ha intensificato i propri sforzi per frenare la crescente attività militare di Hezbollah nel sud del Libano, eliminando membri chiave dell'organizzazione e conducendo esercitazioni militari su larga scala, mentre l'incertezza continua a incombere sul fragile cessate il fuoco lungo il confine settentrionale.
Nei giorni scorsi, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno confermato l'uccisione mirata di due membri di Hezbollah. Il primo, Ali Hussein al-Mousawi, è stato eliminato nella Valle della Bekaa, dove sarebbe stato responsabile del trasferimento di armi avanzate dalla Siria al Libano. Il secondo, Abd Mahmoud al-Sayed, è stato colpito vicino a Naqoura. Secondo quanto riferito, avrebbe coordinato il reclutamento, i canali finanziari e le reti di sostegno civile locale di Hezbollah nei villaggi del sud del Libano. Funzionari israeliani hanno affermato che entrambi gli uomini erano direttamente coinvolti nella ricostruzione delle infrastrutture militari di Hezbollah a sud del fiume Litani, in violazione del cessate il fuoco del novembre 2024.
L'IDF ha inquadrato gli attacchi come parte di una strategia più ampia volta a rafforzare la sicurezza lungo la frontiera settentrionale e a segnalare che non tollererà il radicamento di Hezbollah sotto la direzione iraniana. Sebbene la guerra aperta si sia placata dal 2023, le comunità del nord di Israele continuano a subire sporadici attacchi con razzi, infiltrazioni di droni e attacchi con missili anticarro, che impediscono a migliaia di residenti di tornare definitivamente alle loro case. Per Israele, impedire a Hezbollah di riarmarsi non è una questione di ritorsione, ma di deterrenza.
Allo stesso tempo, l'esercito israeliano ha annunciato di aver completato un'esercitazione di cinque giorni a livello di divisione lungo il confine libanese, guidata dalla 91ª Divisione dell'IDF e dal Centro nazionale di addestramento terrestre. Questa esercitazione, descritta come la più grande dell'esercito dalla guerra iniziata il 7 ottobre 2023, ha simulato scenari di difesa estremi, la rapida mobilitazione delle riserve e un rapido passaggio dalle operazioni di difesa a quelle offensive. I funzionari militari hanno affermato che l'esercitazione è stata progettata per interiorizzare le lezioni apprese da quasi due anni di conflitto su più fronti.
Sebbene la maggior parte delle forze di terra israeliane si sia ritirata dopo il cessate il fuoco, Israele mantiene ancora il controllo su cinque posizioni strategiche nel sud del Libano. I funzionari insistono che si ritireranno solo quando l'esercito libanese dimostrerà di poter garantire efficacemente la sicurezza del confine e impedire il ritorno di Hezbollah. Il 9 settembre, il ministro degli Esteri libanese Youssef Raggi ha affermato che le forze armate libanesi avrebbero completamente disarmato Hezbollah nel sud entro tre mesi. Ma la leadership di Hezbollah ha immediatamente respinto questa ipotesi. In un'intervista alla Al-Manar TV, il vice leader del gruppo Naim Qassem ha dichiarato che Hezbollah ha il “diritto legittimo” di conservare le sue armi e rimarrà un movimento di resistenza “anche se ci resteranno solo le unghie o un bastone”.
Questa contraddizione interna evidenzia il dilemma del Libano: il governo sostiene formalmente la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che richiede il disarmo di Hezbollah e lo schieramento dell'esercito libanese e dell'UNIFIL nel sud, ma non ha né il consenso politico né la capacità militare per affrontare Hezbollah. Israele continua invece ad agire in modo indipendente per salvaguardare i propri confini, mentre Hezbollah, sostenuto dall'Iran, insiste nel decidere da solo quando e come combattere.
In risposta alla crescente tensione, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha approvato un aiuto di 230 milioni di dollari per le forze di sicurezza libanesi. Un portavoce del Dipartimento di Stato ha affermato che il finanziamento è destinato a rafforzare la sovranità del Libano e a sostenere la piena attuazione della risoluzione 1701 delle Nazioni Unite, “l'unico quadro praticabile per un accordo di sicurezza duraturo sia per i libanesi che per gli israeliani”. Tuttavia, a Gerusalemme permane lo scetticismo, dove i funzionari sostengono che le risoluzioni internazionali sono prive di significato se non vengono applicate sul campo.
Per ora, Hezbollah non ha lanciato una grande rappresaglia per gli omicidi mirati, forse per evitare un conflitto più ampio mentre ricostruisce le sue forze. Ma la posizione di Israele è chiara: cessate il fuoco o meno, colpirà ogni volta che rileverà una minaccia crescente. Nel nord regna la calma, ma è la calma tesa di una “guerra tra guerre”, dove la prossima escalation è solo una decisione o un errore di calcolo.
(Israel Heute, 27 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Isaac Attia: “Il palestinismo, un'ideologia nata per cancellare Israele”
Durante la trasmissione i24NEWS, lo storico
Isaac Attia
Isaac Attia
ha fornito un'analisi del palestinismo, che descrive non come una rivendicazione politica, ma come un'ideologia costruita, nata dalla propaganda dei Fratelli Musulmani e dalla macchina sovietica. Secondo lui, questa ideologia multiforme è stata concepita per sostituire simbolicamente il popolo ebraico e imporsi come il “vero popolo di Israele”.
Isaac Attia ricorda che questa dinamica non è nuova: risale alla dichiarazione Balfour del 1917 e alla virulenta reazione del muftì di Gerusalemme, che già allora gettò le basi di un islamo-nazismo che rifiutava qualsiasi presenza ebraica tra il Giordano e il Mediterraneo. La conferenza di Durban del 2001, spiega, ha poi fatto del palestinismo «la bandiera di tutte le cause perse» – dall'anticolonialismo all'anticapitalismo – elevandolo al rango di ideologia planetaria.
Oggi questa ideologia, lungi dall'esaurirsi, guadagna terreno dopo ogni guerra o episodio di violenza. Isaac Attia sottolinea che il 7 ottobre 2023 e le sue conseguenze hanno paradossalmente rafforzato la causa palestinese nell'opinione pubblica mondiale, spingendo diversi governi a riconoscere uno Stato palestinese.
Per lo storico, è urgente «smantellare l'impostura» del palestinismo rivelandone i fondamenti menzogneri e riaffermando l'identità ebraica. Nella sua opera collettiva sostenuta dal ministro Amichai Chikli, invita a smantellare i miti – compreso quello delle «70 vergini» promesse ai martiri – e a comprendere i simboli morbosi che glorificano la morte, come i funerali mimati come matrimoni. «Il grande pericolo, dice, è dubitare della propria legittimità di fronte a un impostore», conclude Isaac Attia, per il quale la conoscenza è la prima arma contro questa ideologia di sostituzione.
(i24, 26 ottobre 2025)
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Le organizzazioni umanitarie internazionali che operano a Gaza devono essere chiamate a rispondere delle loro azioni
Da anni i governi stanziano ogni anno centinaia di milioni di dollari per sostenere un settore che si è alleato con regimi terroristici.
(JNS) Mentre i piani per il futuro di Gaza dominano i titoli dei giornali, coloro che si occupano dei dettagli della guerra in corso sono consapevoli delle accuse secondo cui Hamas avrebbe utilizzato gli ospedali su larga scala come basi terroristiche. Per loro non dovrebbe essere una sorpresa che i documenti di Hamas recentemente pubblicati, sequestrati dalle forze armate israeliane, confermino direttamente questo abuso sistematico.
Tuttavia, i dettagli che descrivono la complicità di importanti organizzazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere (MSF) e la Croce Rossa in questi crimini di guerra sono stati in gran parte inaspettati e richiedono un intervento urgente.
Le rivelazioni mettono sotto accusa molte delle più grandi organizzazioni per i diritti umani e pongono i paesi occidentali di fronte a grandi sfide. Da anni i governi stanziano ogni anno centinaia di milioni di dollari per un'industria umanitaria che si è alleata con regimi terroristici.
I documenti di Hamas del 2020, recentemente resi pubblici da NGO Monitor, l'istituto di ricerca indipendente che dirigo, descrivono chiaramente la strategia dell'organizzazione terroristica di abusare delle strutture mediche e degli operatori sanitari come scudi umani. Gli ospedali, scrivono i rappresentanti di Hamas, fungono da luoghi in cui “in periodi di escalation si riuniscono molti comandanti”.
I documenti mettono in guardia i comandanti di Hamas (cioè i terroristi) dai pericoli derivanti dalla presenza di personale medico straniero nelle ali degli ospedali utilizzate come centri operativi e di comunicazione per l'organizzazione. Ai combattenti è stato detto che gli stranieri, compresi medici e altro personale, dovevano essere allontanati “quando i combattenti della resistenza [sono presenti] nella struttura”. Per impedire contatti non autorizzati, anche “i membri medici [di Hamas] di Gaza” sarebbero stati incaricati di “osservare e unirsi alle delegazioni in arrivo”.
I documenti dimostrano che Hamas richiedeva anche procedure di autorizzazione preventiva approfondite per le delegazioni in arrivo delle ONG amiche. Queste dovevano “presentare una domanda ... insieme ai curriculum dei medici, specificando la necessità [dell'arrivo]”. Inoltre, potevano lavorare solo “in luoghi specifici, come il pronto soccorso, i reparti specialistici e le sale operatorie”, ma era loro vietato “entrare nell'ospedale [principale] dove si trova [Hamas]”.
L'elenco delle organizzazioni che chiudono un occhio inizia con i gruppi “altamente rispettati” e influenti. Secondo Hamas, la Croce Rossa Internazionale “ha deciso di lavorare in un'ala dell'ospedale Al-Shifa adiacente agli uffici del movimento [Hamas]”. Allo stesso modo, secondo i documenti dell'organizzazione terroristica, l'organizzazione MSF era “ospitata nell'unica stanza dell'ospedale Abu Yousef El-Najar dotata di una linea telefonica fissa (sicura)” appartenente alle Brigate Al-Qassam di Hamas.
Queste sono solo due delle organizzazioni umanitarie che hanno collaborato con Hamas, limitandosi a determinate aree all'interno dei complessi ospedalieri di Gaza, fornendo in anticipo ad Hamas gli elenchi sopra citati di volontari e dipendenti e attenendosi alle richieste della crudele organizzazione terroristica.
Questo deplorevole fallimento morale non si limita solo a queste organizzazioni, ma è direttamente collegato ai loro finanziatori, tra cui anche governi che si dichiarano fedeli al rispetto dei principi etici. I canadesi, in particolare, dovrebbero chiedersi se continuare a intrattenere rapporti con tali ONG sia legittimo e moralmente accettabile. Solo MSF, ad esempio, ha ricevuto circa 14 milioni di dollari dal Canada nel 2024.
Tuttavia, i segnali di allarme sono stati accuratamente ignorati dal Ministero degli Affari Esteri canadese e dall'ufficio del Primo Ministro. Alla fine del 2023, l'ex segretario generale di MSF, Alain Destexhe, ha pubblicato un rapporto devastante in cui definiva l'organizzazione che un tempo dirigeva “complice di Hamas”. Egli ha osservato che “una parte significativa del personale sembra condividere il punto di vista di Hamas e sostenere gli attacchi terroristici del 7 ottobre” e che “la vicinanza di alcuni membri del personale di MSF a Hamas solleva interrogativi sui possibili legami tra MSF a Gaza e gruppi estremisti”.
Un altro segnale di allarme è stato ignorato quando il tesoriere della filiale canadese di MSF si è dimesso nel marzo 2024, affermando che “le affermazioni di MSF di essere indipendente, neutrale e imparziale” erano “false”. “MSF Canada”, ha dichiarato, “non ha condannato il 7 ottobre né ha corretto le false dichiarazioni sul conflitto sui social media”.
Purtroppo, MSF non è l'unico esempio di ONG apparentemente umanitaria che abusa dei fondi dei contribuenti canadesi. Islamic Relief è stata indagata dagli Stati Uniti per antisemitismo; nel 2020 il consiglio di amministrazione si è dimesso dopo che il suo presidente aveva elogiato i terroristi di Hamas come “grandi uomini”. La Germania, i Paesi Bassi e altre nazioni hanno già sospeso i loro aiuti finanziari e diversi istituti finanziari hanno congelato o chiuso i loro conti. Ma i rubinetti canadesi rimangono aperti.
Al di là dei legami diretti con Hamas, l'indagine di NGO Monitor rivela un più ampio schema di comportamento antiumanitario sotto forma di propaganda a favore dell'organizzazione terroristica. MSF e organizzazioni simili condannano regolarmente e pubblicamente le azioni militari israeliane contro gli ospedali di Gaza, pur sapendo con quali limitazioni questi operano. Secondo il diritto internazionale, gli ospedali utilizzati come centri di comando di Hamas perdono il loro status di protezione. Partecipando attivamente a queste campagne di demonizzazione, invece di criticare Hamas, MSF ha “mancato il suo obiettivo umanitario e violato il proprio statuto”, ha lamentato Destexhe.
Per questi e altri motivi, è ormai da tempo necessaria una revisione indipendente della politica canadese nei confronti delle ONG che forniscono aiuti. Alla luce del futuro più roseo che si profila in Medio Oriente, il Canada e altri paesi donatori hanno l'opportunità strategica e l'obbligo morale di esigere trasparenza e responsabilità da tutti i gruppi che ricevono fondi pubblici e contribuiscono alla ricostruzione della Gaza di domani.
(Israel Heute, 26 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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È in Libano il vero razzismo contro i palestinesi
di Nathan Greppi
Spesso la narrazione propal accusa Israele di praticare politiche razziste nei confronti dei palestinesi, che verrebbero trattati come cittadini di serie B, analogamente ai neri nel Sudafrica dell’apartheid. Tuttavia, coloro che promuovono questa narrazione raramente si soffermano su come i palestinesi vengano trattati nelle nazioni confinanti.
In Libano, in particolare, i circa 230.000 palestinesi (secondo un censimento UNRWA) che sin dal 1948 vivono con lo status di rifugiati, sono privati di diversi diritti. Secondo una ricerca pubblicata dall’Università di Roskilde in Danimarca, pur essendo nati e cresciuti nel Paese dei cedri non possono ottenere la cittadinanza libanese. È loro proibito l’accesso a oltre venti professioni e non hanno diritto alla sanità pubblica. Persino per effettuare restauri o riparazioni nelle proprie abitazioni devono ottenere un permesso, il che non è affatto scontato.
Poiché vengono giuridicamente identificati come stranieri, nonostante vivano in Libano da più generazioni, non hanno il diritto di acquistare terreni al di fuori dei campi profughi. Per uscire dal Paese devono ottenere un visto di uscita, e non possono rientrarvi senza un visto d’ingresso. Ogni volta che entrano o escono dai campi, sono tenuti a mostrare documenti d’identità.
Secondo un report dell’UNRWA relativo al 2023, l’85 per cento dei palestinesi residenti in Libano viveva sotto la soglia di povertà, in aumento rispetto al 65 per cento del 2015. La discriminazione si manifesta anche nell’istruzione: la maggior parte dei palestinesi non ha accesso alle scuole pubbliche libanesi, motivo per cui circa il 70% frequenta scuole gestite dall’UNRWA. Solo il 17% può permettersi istituti privati.
Eppure questa realtà raramente viene messa in luce in Occidente. E quando accade, spesso è per addossarne la responsabilità a Israele, “colpevole” di non accettare il cosiddetto diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi — che però comporterebbe la trasformazione dello Stato ebraico in uno Stato a maggioranza araba. Una certa narrazione terzomondista, infatti, denuncia le discriminazioni verso i Paesi del Sud globale solo se perpetrate dagli occidentali. Se invece sono arabi a discriminare altri arabi, allora la questione sembra non meritare la stessa attenzione.
In un editoriale pubblicato nel 2017 su Ynetnews, l’opinionista israeliano Ben-Dror Yemini osservava che “anche se Israele ci provasse — e non lo farebbe — non riuscirebbe a imporre un decimo dell’oppressione e delle uccisioni subite dai palestinesi per mano del Libano o delle forze di Hezbollah in Siria. Perché il Libano ha adottato una politica ufficiale di apartheid. I palestinesi non hanno il diritto di utilizzare i servizi sanitari del Paese, non possono possedere proprietà e sono banditi da una lunga lista di professioni. […] L’ex Gran Mufti del Libano, lo sceicco Mohammed Rashid Qabbani, ha definito i palestinesi “spazzatura indesiderata”, e i libanesi stanno completando la costruzione di un muro di separazione attorno al campo profughi di Ain al-Hilweh”.
(InOltre, 26 ottobre 2025)
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Giovanni Battista
GIOVANNI, cap. 1
- E la Parola è stata fatta carne e ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità, e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto dal Padre.
- Giovanni gli ha reso testimonianza, esclamando: “Ecco colui di cui io dissi: 'Colui che viene dietro a me mi ha preceduto, perché era prima di me'”.
MARCO, cap. 1
- Principio dell'evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
- Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia:
“Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero a prepararti la via...
- Voce di uno che grida nel deserto: 'Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri'”.
- Sorse Giovanni il battista nel deserto predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati.
- Tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui ed erano da lui battezzati nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
ISAIA, cap. 40
- “Consolate, consolate il mio popolo”, dice il vostro Dio.
- “Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano dell'Eterno il doppio per tutti i suoi peccati”.
- La voce di uno grida: “Preparate nel deserto la via dell'Eterno, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio!
- Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi ripidi siano livellati, i luoghi scabri diventino pianura.
- Allora la gloria dell'Eterno sarà rivelata, e ogni carne, allo stesso tempo, la vedrà; perché la bocca dell'Eterno lo ha detto”.
- Una voce dice: “Grida!”. E si risponde: “Che griderò?”. “Grida che ogni carne è come l'erba, e che tutta la sua grazia è come il fiore del campo.
- L'erba si secca, il fiore appassisce quando il soffio dell'Eterno vi passa sopra; certo, il popolo è come l'erba.
- L'erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio sussiste in eterno”.
Malachia 3:1,
Luca 3:2,17,
Luca 1:76-77,
Malachia 2:7,
Luca 3:5,8-9,17,
Salmo 1:4-5,
Isaia 40:6-8,
Isaia 35:1, 41:19, 51:1-3,
Atti 13:25,
Giovanni 3:29-30.
GIOVANNI, cap. 1
- Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei mandarono da Gerusalemme dei sacerdoti e dei leviti per domandargli: “Tu chi sei?”.
- Ed egli lo confessò e non lo negò; lo confessò, dicendo: “Io non sono il Cristo”.
- Essi gli domandarono: “Chi sei dunque? Sei Elia?”. Egli rispose: “Non lo sono”. “Sei tu il profeta?”. Egli rispose: “No”.
- Essi dunque gli dissero: “Chi sei? Affinché diamo una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che dici tu di te stesso?”.
- Egli disse: “Io sono la voce di uno che grida nel deserto: Raddrizzate la via del Signore.
Luca 7:26,
Matteo 11:14,
Luca 7:28.
ISAIA, cap. 43
- Ma ora così parla l'Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio!
- Quando passerai per le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà.
- Poiché io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore; io ho dato l'Egitto come tuo riscatto, l'Etiopia e Seba al tuo posto.
- Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita.
- Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua discendenza dall'oriente e ti raccoglierò dall'occidente.
(Notizie su Israele, 26 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 29
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Mosè convocò dunque tutto Israele, e disse loro: “Voi avete visto tutto quello che l'Eterno ha fatto sotto i vostri occhi, nel paese d'Egitto, al Faraone, a tutti i suoi servitori e a tutto il suo paese; i tuoi occhi hanno visto le calamità grandi con le quali furono provati, quei miracoli, quei grandi prodigi; ma, fino a questo giorno, l'Eterno non vi ha dato un cuore per comprendere, né occhi per vedere, né orecchi per udire.
- Io vi ho condotti quarant'anni nel deserto; le vostre vesti non vi si sono logorate addosso, né i vostri calzari vi si sono logorati ai piedi. Non avete mangiato pane, non avete bevuto vino né bevanda alcolica, affinché conosceste che io sono l'Eterno, il vostro Dio. E quando siete arrivati in questo luogo, e Sicon re di Chesbon, e Og re di Basan sono usciti contro noi per combattere, noi li abbiamo sconfitti, abbiamo preso il loro paese, e lo abbiamo dato come proprietà ai Rubeniti, ai Gaditi e alla mezza tribù di Manasse.
- Osservate dunque le parole di questo patto e mettetele in pratica, affinché prosperiate in tutto ciò che farete. Oggi voi comparite tutti davanti all'Eterno, al vostro Dio, i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani, i vostri ufficiali, tutti gli uomini d'Israele, i vostri bambini, le vostre mogli, lo straniero che è in mezzo al tuo campo, da colui che ti spacca la legna a colui che ti attinge l'acqua, per entrare nel patto dell'Eterno, che è il tuo Dio: patto stabilito con giuramento, e che l'Eterno, il tuo Dio, fa oggi con te, per costituirti oggi come suo popolo, e per essere tuo Dio, come ti disse e come giurò ai tuoi padri, ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe.
- E io faccio questo patto e questo giuramento non soltanto con voi, ma con quelli che stanno qui oggi con noi davanti all'Eterno, che è il nostro Dio, e con quelli che non sono qui oggi con noi. Poiché voi sapete come abbiamo abitato nel paese d'Egitto, e come siamo passati in mezzo alle nazioni, che avete attraversato; e avete visto le loro abominazioni e gli idoli di legno, di pietra, d'argento e d'oro, che sono fra di esse.
- Non ci sia tra voi uomo o donna o famiglia o tribù che oggi volga il cuore lontano dall'Eterno, che è il nostro Dio, per andare a servire gli dèi di quelle nazioni; non ci sia tra voi nessuna radice che produca veleno e assenzio; e che nessuno, dopo avere udito le parole di questo giuramento, si illuda in cuor suo dicendo: 'Avrò pace, anche se camminerò secondo la caparbietà del mio cuore'; in modo che chi ha bevuto largamente trascini a perdizione chi ha sete. L'Eterno non vorrà perdonargli; ma in tal caso l'ira dell'Eterno e la sua gelosia si infiammeranno contro quell'uomo, tutte le maledizioni scritte in questo libro si poseranno su di lui, e l'Eterno cancellerà il suo nome sotto al cielo; l'Eterno lo separerà, per sua sventura, da tutte le tribù d'Israele, secondo tutte le maledizioni del patto scritto in questo libro della legge.
- La generazione futura, i vostri figli che sorgeranno dopo di voi, e lo straniero che verrà da un paese lontano, anzi tutte le nazioni, quando vedranno le piaghe di questo paese e le malattie con le quali l'Eterno l'avrà afflitto, e che tutto il suo suolo sarà zolfo, sale, arsura, e non vi sarà più semina, né prodotto, né erba di sorta che vi cresca, come dopo la rovina di Sodoma, di Gomorra, di Adma e di Seboim che l'Eterno distrusse nella sua ira e nel suo furore, diranno: Perché l'Eterno ha trattato così questo paese? perché l'ardore di questa grande ira?' E si risponderà: 'Perché hanno abbandonato il patto dell'Eterno, dell'Iddio dei loro padri: il patto che egli stabilì con loro quando li fece uscire dal paese d'Egitto; perché sono andati a servire altri dèi e si sono prostrati davanti a loro: dèi, che essi non avevano conosciuto, e che l'Eterno non aveva assegnato loro.
- Per questo si è accesa l'ira dell'Eterno contro questo paese per far venire su di esso tutte le maledizioni scritte in questo libro; e l'Eterno li ha strappati dal loro suolo con ira, con furore, con grande indignazione, e li ha gettati in un altro paese, come oggi si vede'. Le cose occulte appartengono all'Eterno, al nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, perché mettiamo in pratica tutte le parole di questa legge.
(Notizie su Israele, 25 ottobre 2025)
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Gaza: Hamas e la guerra tra clan
di Neville Teller
Le ultime settimane hanno visto l’emergere all’interno di Gaza di fazioni armate che sfidano Hamas. Ribollendo per qualche tempo, questo conflitto intra-palestinese è venuto a ebollizione dopo il cessate il fuoco del 10 ottobre. Hamas sta ora affrontando una sfida aperta non solo da parte di uno o due, ma di più gruppi armati incoraggiati dal vuoto di potere e dal caos della sicurezza all’interno di Gaza.
La propaganda di Hamas cerca di minimizzare il discorso della crescente opposizione palestinese e preferisce segnalare operazioni dirette contro individui accusati di collaborare con Israele.
Il 12 ottobre il Palestinian Home Front, un canale di distribuzione di notizie Telegram affiliato ad Hamas, ha annunciato: “I servizi di sicurezza e la resistenza stanno conducendo una campagna su larga scala in tutte le aree della Striscia di Gaza, da nord a sud, per localizzare e arrestare collaboratori e informatori”. Un certo numero è stato arrestato a Gaza City, ha detto: “dopo che è stato dimostrato di essere coinvolti nello spionaggio per il nemico [e] nel partecipare all’assassinio di diversi membri della resistenza”.
La dichiarazione non faceva menzione di ciò che è successo a loro. Tuttavia, diversi resoconti indipendenti confermano che poco dopo, in piena vista del pubblico, sono stati bendati, fatti inginocchiare sul marciapiede e fucilati a colpi di arma da fuoco. Altri filmati circolati in ottobre mostrano l’ala armata di Hamas, le brigate Al-Qassam, che giustiziano individui sparando loro alla testa per le strade di Gaza City. Questi individui non si sottopongono a procedimenti giudiziari o procedimenti legali. Sono semplicemente accusati e poi assassinati in pubblico con l’obiettivo di instillare la più grande paura possibile in chiunque possa essere tentato di opporsi al governo di Hamas.
Queste esecuzioni sul campo di palestinesi accusati di tradimento e collaborazione con Israele fanno parte di una più ampia campagna delle cosiddette “forze di sicurezza” di Hamas. Non solo stanno facendo uno sforzo determinato per ripristinare la loro autorità riprendendo il controllo di quella parte di Gaza da cui le forze israeliane si sono ritirate. Stanno inviando un messaggio alle potenti bande e clan palestinesi che sfidano apertamente Hamas. Se deve mantenere una presenza a Gaza, Hamas deve cercare di contrastare l’impennata di attacchi volti a minare il suo governo.
All’inizio di ottobre Hamas ha condotto un grande raid a Khan Yunis sul clan al-Mujaida che era stato precedentemente coinvolto nell’assassinio di agenti di Hamas, ed è stato accusato da Hamas di collaborazione con Israele. Decine di uomini armati di Hamas hanno preso d’assalto una roccaforte del clan, causando morti da entrambe le parti.
Il 12 ottobre, scoppiarono violenti scontri tra le forze di sicurezza di Hamas e il clan Doghmush, una potente famiglia locale con membri legati a diverse fazioni politiche. Si dice che circa 300 combattenti di Hamas abbiano preso d’assalto un’area residenziale dove gli uomini armati del clan si erano rifugiati. Gli scontri hanno ucciso almeno 27 persone, tra cui otto membri di Hamas e 19 membri del clan.
I clan Doghmush e al-Mujaida sono i principali attori nelle lotte di potere interne di Gaza. Le loro distinte strutture di leadership e le loro affiliazioni politico-militanti hanno plasmato i recenti conflitti armati.
La leadership del clan Doghmush è incentrata su Mumtaz Doghmush, che ha guidato l’Esercito dell’Islam, una milizia legata ad Al-Qaeda. I membri della famiglia Doghmush sono stati attivi in passato a Fatah, Hamas e altri circoli militanti. Nonostante la passata collaborazione con Hamas su operazioni di alto profilo – in particolare il rapimento e il successivo scambio di prigionieri per il soldato israeliano Gilad Shalit – le relazioni si sono inasprite a causa della competizione sulle reti di contrabbando, l’autorità locale e il potere del dopoguerra.
Altri anziani Doghmush e signori della guerra operano in modo semi-indipendente, ognuno comandando bande armate o cellule criminali, rendendo il clan una confederazione sciolta. Secondo quanto riferito, il clan Doghmush è coinvolto in reti di contrabbando di armi ed estorsione in tutto l’ecosistema del mercato nero di Gaza.
Il clan al-Mujaida è guidato da diversi importanti anziani di famiglia a Khan Yunis, che si influenzano attraverso vaste reti familiari. Affiliato principalmente al movimento Fatah, il clan al-Mujaida sostiene occasionalmente altri gruppi palestinesi contrari ad Hamas, specialmente nel sud di Gaza. Hanno resistito alle misure di sicurezza imposte da Hamas e sono accusati da Hamas di collaborare con funzionari israeliani ed egiziani, in particolare quando si tratta di contrabbando o distribuzione di risorse.
Questi due clan continuano ad essere i principali punti di infiammabilità della rivalità di fazione intra-palestinese, mescolando tradizioni di leadership locale e modelli di sindacato criminale con operazioni politico-militante. Ma sono lontani dagli unici centri di attività anti-Hamas basate sui clan. Sono apparsi anche numerosi gruppi armati più piccoli e fazioni di coalizione, di solito legati a clan o quartieri locali a Gaza. Alla fine di settembre 2025, erano emersi oltre una dozzina di nuovi gruppi armati anti-Hamas, che riflettevano un diffuso crollo sociale e il virtuale crollo del monopolio di Hamas sul controllo territoriale e sulla sicurezza.
Per citarne solo alcuni, c’è il clan beduino Abu Shabab con sede a Rafah. Il suo capo, Yasser Abu Shabab, attualmente riconosciuto come uno dei principali leader del clan anti-Hamas, comanda una milizia personale di circa 400 combattenti. Hamas accusa Abu Shabab di collaborare con Israele, un’accusa che nega.
Poi c’è il clan Hellis, guidato da Rami Hellis. Operando nel quartiere Shejaia di Gaza City, ha formato una coalizione con altre famiglie locali specificamente volte a resistere ai tentativi di Hamas di riaffermare il controllo.
Il clan Khalas affiliato a Fatah, con sede nella parte orientale di Gaza City e guidato da Ahmed Khalas, ha ricevuto protezione israeliana e aiuti militari. È notevole per aver resistito apertamente ad Hamas dal momento in cui ha preso il controllo di Gaza nel 2007. Khalas fa parte del Comitato Centrale di Fatah, e attraverso di lui l’attività del clan anti-Hamas nel suo insieme è collegata all’Autorità palestinese e alle sue strutture. Infatti Khalas funge da rappresentante del presidente dell’Autorità PA Mahmoud Abbas a Gaza.
Centrato a Khan Yunis, il clan Khanidak, guidato da Yasser Khanidak, ha anche beneficiato del sostegno e delle armi israeliane. Anche se non grandi come i Doghmush, i combattenti del clan Khanidak si sono attivamente opposti alle forze di Hamas durante le recenti battaglie nel sud di Gaza.
Altri clan militanti che si sono opposti, o si stanno attualmente opponendo ad Hamas, includono il clan Barbakh con sede a Khan Yunis e Rafah, il clan Abu Ziyad situato a Zawaida vicino a Deir al-Balah e il clan Abu Werda con sede vicino al porto di Gaza, che spesso guida gruppi di difesa più piccoli con sede nel quartiere che si uniscono a battaglie di clan più grandi secondo necessità.
È chiaro che il regime di Hamas ora affronta un’ampia opposizione da parte dei leader palestinesi alla base. L’organizzazione è comprensibilmente ritenuta responsabile non solo della decisione di montare il suo barbaro assalto a Israele il 7 ottobre 2023, ma soprattutto per aver sottovalutato la forza, l’estensione e la persistenza della rappresaglia israeliana che ne è seguita e il conseguente risultato devastante per Gaza e il suo popolo.
Questa impennata dell’opposizione armata, che ha senza dubbio indebolito l’ex presa di ferro di Hamas sul governo di Gaza, deve aver influenzato la sua decisione di prestare servizio a parole al piano di Trump. La guerra delle bande potrebbe ancora svolgere un ruolo cruciale nel determinare il futuro ruolo di Hamas, se presente, a Gaza.
(L'Indro, 25 ottobre 2025)
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Insomma, il piano di Trump serve ad Hamas per non perdere potere in Gaza. Interessante. M.C.
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Nonostante la guerra: il settore high-tech israeliano è in forte espansione
Chiunque legga i titoli dei giornali in questi giorni potrebbe pensare che l'economia high-tech israeliana sia destinata al collasso.
di Dov Eilon *
GERUSALEMME - Allarmi missilistici, chiamate alle armi dei riservisti, investitori titubanti: tutto questo sembra piuttosto cupo. Eppure, il nuovo rapporto dell'Israel Innovation Authority (IIA) mostra qualcosa di completamente diverso: proprio ora, nel bel mezzo della guerra, l'alta tecnologia israeliana ha registrato un anno record.
Più di 1.500 cosiddette aziende deep tech lavorano nel Paese su tecnologie che possono cambiare non solo singoli prodotti, ma interi settori industriali. Con “deep tech” si intendono aziende che puntano su sviluppi a lungo termine e ad alta intensità di ricerca: intelligenza artificiale, sicurezza informatica, tecnologia medica, semiconduttori o innovazioni agricole.
Dal 2019 queste aziende hanno generato complessivamente più di 28 miliardi di dollari di capitale, con un valore totale che ora raggiunge i 177 miliardi di dollari. Questo rende Israele, subito dopo gli Stati Uniti, uno dei leader mondiali nel settore della deep tech. Impressionante: circa un quinto di tutti gli investimenti mondiali nel campo della sicurezza informatica confluisce ora in Israele.
E c'è un altro dato che stupisce anche gli esperti del settore: la vendita dell'azienda di sicurezza informatica Wiz a Googleper 32 miliardi di dollari è stata la più grande transazione nella storia dell'high-tech israeliano. Questo accordo ha reso il 2025 un anno record in termini di “uscite”.
Per l'analisi, l'IIA ha utilizzato per la prima volta DealRoom, una società di dati e analisi con sede ad Amsterdam che registra start-up, round di finanziamento e vendite aziendali in tutto il mondo. L'obiettivo era quello di tracciare un quadro il più accurato possibile dei punti di forza e di debolezza dell'high-tech israeliano, al di là dei titoli dei giornali.
• Stagnazione
Tuttavia, i dati brillanti non nascondono il fatto che ci sono anche sviluppi allarmanti. Mentre i ricavi e le valutazioni sono in aumento, la quota dell'high-tech sul prodotto interno lordo è rimasta stagnante al 17% circa negli ultimi due anni. Il numero di addetti alla ricerca e sviluppo è addirittura diminuito del 6,5% nella prima metà del 2025. I finanziamenti di venture capital provenienti da fondi israeliani sono crollati di quasi l'80% rispetto al picco raggiunto nel 2022. E la dinamica imprenditoriale? Le nuove start-up nascono solo la metà delle volte rispetto a dieci anni fa.
Questo rende vulnerabile il settore high-tech israeliano. Mentre gli investitori internazionali sono sempre più presenti, i finanziatori nazionali si stanno ritirando sempre più. Nelle prime fasi di finanziamento, circa un terzo dei fondi proviene ancora da Israele, ma nelle fasi successive questa percentuale scende a poco meno del 15%. Ciò significa che le decisioni cruciali per il futuro di Israele sono sempre più spesso determinate da fondi stranieri. Di conseguenza, cresce la dipendenza dall'estero e con essa il rischio che tensioni politiche, crisi internazionali o mutati interessi dei grandi investitori influenzino in modo decisivo il destino delle start-up israeliane.
Il governo reagisce con sentimenti contrastanti. Il ministro dell'Innovazione Gila Gamliel elogia il coraggio e la creatività che rimangono intatti anche in tempo di guerra. Ma esorta anche a investire maggiormente nel capitale umano, nella ricerca e nelle partnership internazionali. Dror Bin, capo dell'Innovation Authority, parla di un “momento della verità”. L'alta tecnologia israeliana ha la forza di contribuire a plasmare l'élite mondiale, ma senza nuovi impulsi potrebbe vacillare.
• Successo e Resilienza
Da questo punto di vista, l'alta tecnologia israeliana si presenta oggi in due immagini: da un lato le storie di successo che rendono il nome del Paese sinonimo di innovazione in tutto il mondo. Dall'altra parte, le preoccupazioni che sotto la superficie brillante si stiano formando delle crepe. Il fatto che proprio ora, nel bel mezzo della guerra, si stiano raggiungendo così tanti record dimostra l'incredibile resilienza di questo settore. Ma è anche un monito a non lasciare il futuro al caso o alla benevolenza degli investitori internazionali.
--------- * Dov Eilon
ha lavorato per 22 anni alla radio e alla televisione israeliana, dove, dopo aver completato i suoi studi all'Accademia di musica e danza di Gerusalemme, era responsabile della musica di sottofondo e degli effetti sonori dei programmi. Dov suona il violoncello.
Ha sempre avuto anche un talento per il giornalismo e dal 2001, oltre al suo lavoro per la televisione, ha scritto anche per diversi siti web in lingua tedesca.
Da maggio 2016 Dov lavora per Israel Heute, dove si concentra volentieri sulla cronaca israeliana, fornendo ai lettori all'estero un quadro veritiero della vita quotidiana e degli avvenimenti di ogni giorno in Israele. Dov cura il sito web in lingua tedesca.
Dov è sposato, ha tre figli adulti e vive a Modiin, una città tra Tel Aviv e Gerusalemme.
(Israel Heute, 24 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Perché Marwan Barghouti non è il Mandela palestinese
di Stefano Piazza
Da più di vent’anni, Marwan Barghouti è il detenuto più celebre delle carceri israeliane. Per molti palestinesi rappresenta l’immagine della resistenza: l’uomo che paga con la libertà la lotta per uno Stato indipendente. In Occidente, alcuni lo descrivono come una sorta di Mandela palestinese, un leader carismatico ingiustamente imprigionato. Ma dietro l’aura mitica costruita attorno al suo nome, si nasconde una realtà molto diversa. Barghouti non è un prigioniero di coscienza, ma un politico condannato per terrorismo e complicità in omicidio.
Nel 2004, un tribunale israeliano lo ha riconosciuto colpevole di cinque omicidi e di aver orchestrato numerosi attacchi contro civili durante la Seconda Intifada. Non si è trattato di atti simbolici o di ribellione civile, ma di azioni sanguinose in cui morirono israeliani disarmati. Le prove, raccolte in anni di indagini, indicano che Barghouti – allora comandante delle Brigate al-Aqsa, ala armata di Fatah – autorizzò e finanziò attentati mirati. È per questo che la sua condanna non può essere equiparata a quella di un dissidente politico incarcerato per le proprie idee.
Durante la Seconda Intifada, Barghouti divenne uno dei principali promotori della violenza come strumento politico. Mentre l’Autorità Nazionale Palestinese cercava un difficile equilibrio tra diplomazia e pressione popolare, lui sostenne apertamente l’uso delle armi come «legittima resistenza». Non prese mai le distanze dagli attentati suicidi, anzi li giustificò come risposta naturale all’occupazione israeliana. Una scelta che contribuì a trascinare il conflitto su un piano di vendette reciproche e portò a una delle fasi più sanguinose nella storia recente della regione.
L’immagine eroica di Barghouti resiste perché risponde a un bisogno: quello di un simbolo. In un panorama politico palestinese diviso tra la corruzione di Fatah e l’integralismo di Hamas, la sua figura viene percepita come una terza via, un punto di riferimento morale. Ma questa percezione è frutto di una costruzione retorica più che di fatti. Barghouti non è mai stato un unificatore. Dentro Fatah, rappresenta la corrente più radicale, in costante opposizione a Mahmoud Abbas. Per Hamas, invece, è un’icona utile da brandire contro l’Autorità Palestinese, non un interlocutore reale: è laico, nazionalista e politicamente ingombrante. La sua popolarità, alimentata da anni di detenzione, ha creato un mito funzionale a molti interessi. I sostenitori di Fatah lo evocano per rilanciare la legittimità di un movimento in declino; Hamas lo utilizza come pedina propagandistica per dimostrare che l’unità palestinese è possibile solo al di fuori dell’attuale leadership. E una parte dell’opinione pubblica occidentale – sempre incline a romanticizzare la causa palestinese – lo esalta come «il Mandela del Medio Oriente», ignorando che Mandela non ordinò mai attentati contro civili.
A differenza del leader sudafricano, Barghouti non ha mai espresso un messaggio di riconciliazione. Non ha rinnegato la violenza, non ha chiesto perdono per le vittime e non ha mai proposto una visione concreta di coesistenza. Anche nei rari messaggi inviati dal carcere, si è limitato a reiterare parole d’ordine ideologiche, accusando Israele di “apartheid” e invocando la “resistenza fino alla vittoria”. Nessuna autocritica sugli errori della Seconda Intifada, nessuna riflessione sul fallimento politico di Fatah, nessun riconoscimento delle responsabilità interne nella crisi palestinese.
I veri leader storici si distinguono per la capacità di trasformare la sconfitta in un progetto, di educare il proprio popolo alla speranza e non all’odio. Barghouti, al contrario, resta prigioniero di un linguaggio che giustifica il passato e impedisce qualsiasi futuro. È diventato un simbolo statico: utile per chi ha bisogno di un martire, ma inutile per chi sogna uno Stato palestinese libero e democratico. In fondo, il mito di Barghouti dice molto più della crisi della leadership palestinese che del suo eroismo personale. Quando un popolo ridotto all’impotenza politica trasforma un detenuto condannato per terrorismo nel suo punto di riferimento morale, significa che non riesce più a produrre una classe dirigente capace di visione e responsabilità.
Marwan Barghouti non è un Mandela, perché Mandela scelse il perdono come arma politica, mentre lui scelse la violenza. Non è un eroe della libertà, ma l’emblema di una causa che si è smarrita nella spirale della vendetta. Finché il suo mito continuerà a sostituire il dibattito politico, la Palestina resterà prigioniera non solo di Israele, ma anche delle proprie illusioni.
(L'informale, 24 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 26
- Quando sarai entrato nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà come eredità, e lo possederai e ti sarai stabilito, prenderai delle primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà, le metterai in un paniere e andrai al luogo che l'Eterno, il tuo Dio, avrà scelto come dimora del suo nome.
- Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni, e il sacerdote prenderà il paniere dalle tue mani e lo deporrà davanti all'altare dell'Eterno, del tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti all'Eterno, che è il tuo Dio:
- 'Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente, e diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo all'Eterno, all'Iddio dei nostri padri, e l'Eterno udì la nostra voce, vide la nostra umiliazione, il nostro travaglio e la nostra oppressione, e l'Eterno ci trasse fuori dall'Egitto con mano potente e con braccio steso, con grandi terrori, con miracoli e con prodigi, e ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora, ecco, io porto le primizie dei frutti del suolo che tu, o Eterno, mi hai dato!'.
- E le deporrai davanti all'Eterno, al tuo Dio, e ti prostrerai davanti all'Eterno, al tuo Dio; e ti rallegrerai, tu con il Levita e con lo straniero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che l'Eterno, il tuo Dio, avrà dato a te e alla tua casa.
- Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l'anno delle decime, e le avrai date al Levita, allo straniero, all'orfano e alla vedova perché ne mangino nelle tue città e siano saziati, dirai, davanti all'Eterno, al tuo Dio:
- 'Io ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato, e l'ho dato al Levita, allo straniero, all'orfano e alla vedova, interamente secondo gli ordini che mi hai dato; non ho trasgredito né dimenticato nessuno dei tuoi comandamenti. Non ho mangiato cose consacrate, durante il mio lutto; non ne ho tolto nulla quando ero impuro, e non ne ho dato nulla in occasione di qualche morto; ho ubbidito alla voce dell'Eterno, del mio Dio, e ho fatto interamente come tu mi hai comandato. Volgi a noi lo sguardo dalla dimora della tua santità, dal cielo, e benedici il tuo popolo Israele e la terra che ci hai dato, come giurasti ai nostri padri, terra dove scorre il latte e il miele'.
- Oggi, l'Eterno, il tuo Dio, ti comanda di mettere in pratica queste leggi e queste prescrizioni; osservale dunque, mettile in pratica con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua.
- Tu hai fatto dichiarare oggi all'Eterno che egli sarà il tuo Dio, purché tu cammini nelle sue vie e osservi le sue leggi, i suoi comandamenti, le sue prescrizioni, e tu ubbidisca alla sua voce.
- E l'Eterno ti ha fatto dichiarare oggi che sarai il suo popolo particolare, come egli ti ha detto, e che osserverai tutti i suoi comandamenti, affinché egli ti renda eccelso per gloria, rinomanza e splendore, su tutte le nazioni che ha fatte, e tu sia un popolo consacrato all'Eterno, al tuo Dio.
(Notizie su Israele, 24 ottobre 2025)
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Al Jazeera: le notizie da Gaza trasmesse direttamente da Hamas all’emittente del Qatar
di Ludovica Iacovacci
Documenti scoperti a Gaza hanno rivelato che Hamas ha emesso precise istruzioni al media statale del Qatar Al Jazeera, secondo il Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center.
Sulla base dei documenti, il centro di ricerca ha stabilito che gli ufficiali dell’informazione di Hamas si sono coordinati con Al Jazeera per quanto riguarda la sua retorica, al fine di formulare una copertura che evitasse di danneggiare “l’immagine della resistenza”.
In uno dei documenti si incarica Al Jazeera di evitare di usare termini come “massacro” per descrivere un attacco missilistico della Jihad islamica palestinese a Jabalya. In quel documento, Hamas ha riconosciuto che quegli attacchi non erano il risultato delle manovre “dell’occupazione”. Inoltre, lo stesso testo ha confermato che la richiesta di collaborare dell’organizzazione terroristica ad Al Jazeera è stata accolta con una risposta positiva “da parte della direzione della redazione della rete”.
Un altro documento ha rivelato che Hamas ha tentato di stabilire una linea di comunicazione sicura con Al Jazeera, consentendo un coordinamento diretto tra gli uffici del gigante dei media a Doha e il gruppo terroristico. Questa linea avrebbe avuto lo scopo di promuovere la copertura in situazioni di emergenza e consentire all’ala militare di Hamas di inviare istruzioni in tempo reale su cosa trasmettere e cosa non mandare in onda.
Secondo il centro di ricerca, questa è una rara prova dell’esistenza di un coordinamento sistemico tra un’organizzazione terroristica e una rete di notizie internazionale.
La retorica utilizzata nella copertura della guerra da parte di Al Jazeera ha anche rispecchiato le descrizioni di Hamas, con la fonte di notizie che nomina i suoi membri come mujahideen o muqawimin (combattenti jihad o combattenti della resistenza). Dopo la loro morte, i terroristi di Hamas erano chiamati shaheeds (martiri che muoiono per amore di Allah). In alternativa, la rete si riferisce a Tzahal, l’esercito israeliano, come “esercito di occupazione”, nominando le sue truppe come “i soldati dell’occupazione”. In tutta la copertura di Al Jazeera sulla crisi degli ostaggi, inoltre, ha ripetutamente chiamato gli ostaggi israeliani “i prigionieri”.
Come parte di questo stretto legame tra Hamas e Al Jazeera, ai giornalisti è stato anche concesso un accesso senza precedenti a gran parte del complesso sistema di tunnel sotterranei del gruppo terroristico. In questo caso, il giornalista di Al Jazeera Wael al-Dahdouh ha mostrato i tunnel di Hamas, conducendo interviste con agenti dell’ala militare che gli hanno detto che la costruzione di un tunnel richiedeva anni, in un documentario andato in onda nel gennaio 2024.
• Giornalisti che fanno i terroristi
Oltre a dettare direttamente la copertura e la terminologia di Al Jazeera, si è scoperto che molti dei giornalisti di Al Jazeera che lavoravano con l’organizzazione palestinese erano anche agenti dell’ala militare di Hamas, e alcuni avevano persino partecipato al massacro del 7 ottobre.
Tzahal ha denunciato a lungo la questione dei giornalisti che fanno i terroristi. Tra quelli che i militari hanno nominato e preso di mira c’era il giornalista Anas al-Sharif.
Sharif, il giornalista di Al Jazeera a Gaza che è stato ucciso in un attacco dell’IDF il 10 agosto 2025, è stato nominato nei documenti scoperti come membro dell’ala militare di Hamas, associato al battaglione Jabalya orientale nella brigata settentrionale di Gaza. Secondo le liste, Sharif ha servito come militante e capo squadra nell’unità di tiro Talul-Melag, come combattente nella Nukhba Force e come capo del dipartimento informazioni del suo battaglione.
I documenti hanno anche nominato Ismail Abu Ammar, un corrispondente di Al Jazeera di Khan Yunis che è stato ferito nel febbraio 2024, come membro delle brigate Izzadin al-Qassam di Hamas e come comandante del battaglione Khan Yunis orientale del gruppo terroristico. È stato uno dei primi a coprire in diretta l’invasione del 7 ottobre. Il centro di ricerca ha detto che era probabile che Ammar avesse una conoscenza preliminare dell’attacco, permettendogli di documentarlo, come ha fatto, in tempo reale.
Un altro giornalista di Al Jazeera nominato nei documenti era Talal Mahmoud Abdel Rahman Al-Arouki, che è stato gravemente ferito mentre copriva un attacco israeliano a Nuseirat il 28 novembre 2024. Il nome di Arouki è apparso in una lista di Hamas dei suoi agenti del 2023, in cui è stato identificato come un comandante di gruppo con il grado di capitano della Brigata di Gerusalemme. In un documento separato di Hamas, Arouki è stato elencato tra i feriti delle Brigate Izzadin al-Qassam di Hamas.
Inoltre, il giornalista palestinese Hossam Shabat, che ha collaborato con Al Jazeera ed è stato ucciso in un attacco mirato nel marzo 2025, è stato nominato nei documenti come membro della compagnia anticarro del battaglione Beit Hanun di Hamas e identificato come un agente cecchino. In un altro record di Hamas, il nome di Shabat è apparso tra i terroristi scomparsi dall’addestramento militare del battaglione del gruppo.
Abdallah Aljamal, giornalista e redattore della Palestine Chronicle che ha collaborato con Al Jazeera, è stato ucciso con la sua famiglia durante l’Operazione Arnon. Stava tenendo in ostaggio tre israeliani. Sono stati salvati dalla sua casa a Nuseirat nel giugno 2024.
(Bet Magazine Mosaico, 24 ottobre 2025)
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La vittoria immaginaria
di Niram Ferretti
Più passano i giorni, più si evidenzia come la presunta vittoria di Israele, dopo due anni di guerra a Gaza, sia un fallimento militare, come aveva predetto su queste pagine Daniel Pipes, già nell’autunno del 2023, a guerra appena cominciata.
I sostenitori della vittoria israeliana si devono basare su ciò che la seconda fase del piano di pace targato Trump afferma, ovvero che Hamas accetterà di disarmarsi e di non avere alcun ruolo politico nel futuro della Striscia. Sono due assunti estremamente problematici e improbabili.
Allo stato attuale Hamas dispone di un effettivo stimato tra i diecimila e i ventimila uomini, non addestrati come le unità precedenti, ma ciò nonostante operativi. Il suo arsenale è stato notevolmente dilapidato ma non è annientato, e dei tunnel ancora in esistenza si calcola che, dopo due anni di guerra, Israele ne abbia distrutto solo il 30 per cento. Appare chiaro che Hamas non è stato sconfitto, ma solo indebolito, come ha evidenziato Greg Roman del Middle East Forum:
“Da un certo punto di vista, Hamas ha subito un degrado catastrofico con l’eliminazione dei vertici, la distruzione della struttura di comando e la riduzione del controllo territoriale a un quarto della Striscia. Da un altro punto di vista, Hamas ha dimostrato una notevole resilienza, reclutando tanti combattenti quanti ne ha persi, mantenendo la coesione organizzativa nonostante la decapitazione della leadership e costringendo Israele ad accettare i negoziati nonostante detenesse solo il 20-25 per cento del territorio prebellico. La questione non è quale interpretazione sia accurata, ma quale sia più importante dal punto di vista strategico. Una Hamas indebolita ma intatta, che sopravvive per tornare a combattere, rappresenta un successo strategico per l’organizzazione, indipendentemente dalle perdite tattiche”.
Ad aggravare lo scenario c’è la precisa volontà americana di chiudere la guerra di concerto con gli Stati arabi. Trump si è mostrato indulgente nei confronti di Hamas per non avere ancora consegnato a Israele tutte le salme degli ostaggi ancora trattenuti a Gaza, adducendo come ragione la difficoltà nel localizzarli.
Ieri, la Knesset ha passato in prima battuta, una proposta di legge che sancirebbe, se approvata definitivamente la sovranità israeliana sull’intera Cisgiordania, una mossa che ha fortemente contrariato Trump, che l’ha giudicata “stupida”, affermando che la sua amministrazione non permetterà mai l’annessione, affermazione già fatta precedentemente, e ribadita a stretto giro dal vicepresidente Vance nella sua visita in Israele. Netanyahu si è affrettato a dichiarare che il voto è privo di sostanza. Un Vance contrariato ha sottolineato che nonostante la sua natura simbolica, si è trattato di uno sgarbo, essendo passato il voto durante la sua visita, di fatto trattando Israele come uno Stato subalterno che deve essere rimesso in carreggiata. Netanyahu ha un bel dire nell’affermare che Israele non sia un “protettorato americano”. La realtà dice il contrario.
Per due anni, il premier israeliano ha annunciato che la vittoria sarebbe consistita nell’eliminazione di Hamas e nella liberazione degli ostaggi, per due anni la guerra si è trascinata senza che venisse mai formulato un piano sulla gestione della Striscia in un ipotetico post Hamas. Il piano è arrivato attraverso Washington e con il consenso arabo e turco, e la firma dell’accordo con Hamas, avvenuta a Sharm el Sheikh e stata siglata con la stretta di mano tra i mediatori affaristi Witkoff e Kushner con gli esponenti del gruppo terrorista. Fu Witkoff un anno fa a consigliare Trump di intavolare i negoziati direttamente con i terroristi, infrangendo un protocollo trentennale. A fare da padrini i due grandi sponsor di Hamas, il Qatar e la Turchia.
Israele si è trovato stretto a un angolo, dopo una guerra senza fine, che, alla vigilia dell’assedio a Gaza City aveva registrato il clamoroso dissenso del capo di stato maggiore Eyal Zamir, il quale aveva espresso la sua contrarietà per l’operazione militare.
Appare chiaro che ora che gli ostaggi vivi sono stati rilasciati in blocco, Hamas, privo del suo vantaggio tattico, conti di potere lucrare su protezioni e complicità per continuare a permanere nella Striscia. Suonano poco credibili le solite rodomontate di Trump che se il gruppo non si disarmerà con le buone, dovrà farlo con le brutte, perché questo significherebbe la ripresa della guerra, una guerra che gli Stati Uniti non vogliono si riattivi, essendo il suo obiettivo principale una distensione con il mondo arabo, fondata principalmente sia sulla rete di affari personali (Witkoff, Kushner, il figlio di Trump, Eric) e di lucrose commesse. Ma è lo stesso Stato ebraico a trovarsi nella posizione di non volere riprendere una guerra che oltre a essergli costata un alto numero di soldati morti, di mutilati e di feriti, ha distrutto internazionalmente la sua reputazione facendo aumentare gli episodi di antisemitismo a picchi mai raggiunti dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Ciò che si prospetta è dunque uno scenario in cui Israele ottiene di riavere gli ultimi ostaggi vivi e quindi le salme dei defunti, arretrando progressivamente dalle posizioni conquistate, mentre gli autori del 7 ottobre intendono permanere nella Striscia.
Nella medesima intervista del 2023 a Daniel Pipes, alla domanda, “Per quale motivo Israele non ha mai conseguito una vittoria reale contro i suoi nemici palestinesi?”, lo storico americano rispondeva, “Perché non ci ha mai provato. Israele ha sconfitto con successo i suoi stati arabi nemici – Egitto, Giordania e Siria in particolare – ma ha desistito dallo sfruttare il proprio vantaggio contro i palestinesi. Pensiamo al 1982, quando desistette dall’uccidere Yasser Arafat. O nel 1993, quando gli diede il controllo sul territorio confinante. O nel 2005, quando si ritirò unilateralmente da Gaza”.
Aggiungiamo alla lista, il 2025, quando non è stato in grado di eliminare Hamas.
Lunedì il parlamentare del Likud Amit Halevi ha sferrato un attacco frontale contro l’imprenditore americano Steve Witkoff, figura chiave del settore immobiliare statunitense e storico collaboratore dell’ex presidente Donald Trump. Secondo Halevi, le recenti iniziative economiche di Witkoff e dei suoi soci nella regione del Golfo «mettono a rischio la sicurezza di Israele» e potrebbero «indebolire il controllo israeliano sulla Striscia di Gaza». In un’intervista alla radio dell’esercito, il deputato ha parlato senza mezzi termini: «Queste persone ci stanno conducendo alle porte dell’inferno». Le sue parole, destinate a far discutere tanto nel mondo politico quanto in quello economico, sono arrivate mentre a Gerusalemme si moltiplicano i timori per la crescente influenza di capitali americani e del Golfo nei progetti di ricostruzione e sviluppo postbellico di Gaza.
Dietro le accuse di Halevi c’è una rete complessa di rapporti economici che unisce Witkoff, Jared Kushner e diversi fondi sovrani arabi. L’imprenditore newyorkese, da anni vicino alla famiglia Trump, ha collaborato con Kushner in numerose operazioni immobiliari di alto profilo negli Stati Uniti e, più recentemente, in Medio Oriente. Dopo la fine dell’amministrazione Trump, i due hanno mantenuto un legame d’affari attraverso società e veicoli di investimento attivi tra Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Secondo fonti israeliane e statunitensi, Witkoff e Kushner avrebbero intensificato negli ultimi mesi i contatti con il Public Investment Fund saudita (PIF) e con la Qatar Investment Authority (QIA), i due principali fondi sovrani della regione. Entrambi sono interessati a progetti di sviluppo immobiliare, turistico e infrastrutturale con un valore stimato di diversi miliardi di dollari. Queste iniziative, tuttavia, sono considerate da alcuni analisti come un potenziale veicolo di influenza politica in un’area ancora segnata dal conflitto.
«Si stanno costruendo reti economiche e politiche che rischiano di aggirare Israele, riducendo la sua capacità di controllo e influenza sulla Striscia di Gaza», ha denunciato Halevi, convinto che il destino del territorio debba restare sotto la piena sovranità israeliana. «Prima o poi Israele controllerà Gaza, non c’è altro modo».
Le sue parole non rappresentano una novità. Già mesi fa, in un’intervista a 103FM, Halevi aveva ribadito la necessità di «stabilire un controllo totale» su Gaza. «Se controlli il territorio, allora nessun altro lo controlla», aveva dichiarato. «Non si lascia un vuoto, e non si lascia un vuoto per nessun programma scolastico che preveda lo stupro delle donne ebree e l’omicidio». Per il parlamentare del Likud, la questione non è solo militare ma anche ideologica: «Gaza appartiene a Israele esattamente come Tel Aviv appartiene a Israele», ha detto. «Stiamo contrastando i terroristi, ma non questa menzogna chiamata “palestinesicità”. Come possiamo essere occupanti a Gaza? Gaza appartiene a Israele nella stessa misura in cui appartiene Tel Aviv».
Il suo discorso riflette una visione nazionalista radicale, secondo cui il ritiro israeliano del 2005 ha lasciato un vuoto di potere che Hamas ha saputo riempire, mentre oggi alcuni interessi economici stranieri rischiano di consolidare quella stessa frammentazione. Nelle parole di Halevi, l’errore sarebbe duplice: «Lasciare spazio a chi finanzia Hamas e affidarsi a chi, in nome degli affari, cerca di riscrivere la mappa politica della regione». A essere criticato è anche il capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliane (IDF), il tenente generale Eyal Zamir. «Il capo di stato maggiore non ha idea del sistema internazionale o dell’economia: non sono argomenti di sua competenza. Deve occuparsi solo di una cosa, e cioè conquistare la Striscia», ha affermato Halevi, accusando i vertici militari di eccessiva prudenza e mancanza di visione strategica.
Il riferimento agli affari di Witkoff e Kushner con i fondi del Golfo non è casuale. Negli ultimi mesi, il team di Kushner – tramite la società Affinity Partners – ha ottenuto un finanziamento di circa due miliardi di dollari dal fondo saudita PIF, ufficialmente per investimenti immobiliari e infrastrutturali. Parallelamente, Witkoff ha avviato una serie di operazioni immobiliari di lusso in collaborazione con partner qatarioti, inclusi progetti sulla costa del Mar Rosso e a Doha, presentati come parte di un più ampio piano di cooperazione economica regionale. Per Halevi, tali investimenti non sono neutri: «Dietro queste iniziative si nascondono interessi che non coincidono con quelli di Israele», ha avvertito. «Chi costruisce a Doha o a Riad con soldi che in passato hanno finanziato Hamas o altre milizie islamiste, non può presentarsi come amico di Israele».
L’attacco del parlamentare ha aperto un fronte politico delicato, poiché tocca direttamente i rapporti tra l’amministrazione israeliana e alcuni dei partner più importanti di Washington nel mondo arabo. Nelle sue parole si riflette il timore che gli affari del Golfo – apparentemente orientati alla stabilità e allo sviluppo – possano trasformarsi in leve di pressione politica, soprattutto in vista dei piani di ricostruzione di Gaza che vedono coinvolti Qatar, Egitto e Arabia Saudita con il sostegno degli Stati Uniti.
«Se concludiamo il 7 ottobre con Hamas ancora in piedi e questa organizzazione islamista torna a sviluppare il suo mostro, Israele farà un passo indietro», ha detto Halevi. «Dobbiamo chiudere il 7 ottobre con una sconfitta completa di Hamas». Le sue parole risuonano come un monito rivolto non solo ai leader militari e politici israeliani, ma anche ai potenti gruppi economici che, dietro la facciata della cooperazione e della ricostruzione, mirano a ridefinire il futuro del Medio Oriente. In questo intreccio di affari e geopolitica, l’allarme di Amit Halevi segna un nuovo capitolo nella lunga battaglia – interna e internazionale – per il controllo di Gaza e per la sopravvivenza dell’identità politica israeliana.
(L'informale, 24 ottobre 2025)
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La “NATO araba”, una nuova minaccia per Israele?
Si sta formando un'alleanza difensiva araba sul modello della NATO?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Dalla seconda guerra mondiale, gli Stati arabi hanno cercato ripetutamente di costruire un fronte di difesa comune, ma senza successo. Con la fondazione della Lega Araba nel 1945 nacque anche il desiderio di un'alleanza militare. Il patto di difesa arabo stipulato nel 1950 rimase tuttavia in gran parte inefficace. Le rivalità tra i partner erano troppo grandi.
• Panarabismo
Durante il periodo del panarabismo (dagli anni '50 agli anni '70) sotto il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, fu ripresa la visione di un esercito arabo unificato, soprattutto contro Israele e gli interessi occidentali. Ma invece di un'alleanza duratura, nelle guerre del 1948, 1967 e 1973 si formarono solo coalizioni labili, che si dissolsero rapidamente dopo le sconfitte militari. Negli anni '80 si progettarono iniziative di difesa comuni. La rivoluzione islamica in Iran (1979) e la guerra Iran-Iraq portarono a una più stretta cooperazione in materia di politica di sicurezza tra gli Stati sunniti del Golfo. Nel 1981 fondarono il Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC), che prevedeva anche la cooperazione militare. Tuttavia, le forze armate rimasero di fatto separate.
• Forza di intervento araba comune
Dopo l'inizio del nuovo millennio è stato fatto un nuovo tentativo, motivato dalla minaccia terroristica. Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, l'ascesa di al-Qaeda e dello Stato Islamico, è cresciuta la pressione per una maggiore collaborazione. Nel 2015, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha chiesto la creazione di una “forza di intervento araba congiunta”, soprattutto per contenere i gruppi terroristici e la crescente influenza di Teheran. Durante il primo mandato di Donald Trump, nel 2018 il governo degli Stati Uniti ha lavorato alla creazione della cosiddetta “Middle East Strategic Alliance” (MESA), spesso definita “NATO araba”. L'obiettivo era quello di riunire gli Stati arabi in un'alleanza militare comune per contenere l'influenza dell'Iran, combattere le reti terroristiche e fermare il contrabbando di armi nella regione.
Oltre agli Stati Uniti, anche gli Stati del Golfo, l'Egitto e la Giordania avrebbero dovuto far parte di questa alleanza. Le prime manovre congiunte, tra cui lo scenario “Arab Shield 1” in Egitto, sono state considerate l'inizio di questa iniziativa strategica. Oggi, però, lo scenario di minaccia è cambiato: nelle capitali arabe non è più l'Iran a essere considerato un pericolo crescente, ma Israele.
• Alleanza militare araba
Inoltre, i media arabi hanno riferito che il regime iraniano dell'Ayatollah vuole partecipare alla nuova alleanza militare araba. Secondo Iran International, il regime chiede al Qatar di espellere le forze armate americane dal suo territorio e di schierare invece i missili ipersonici iraniani delle Guardie Rivoluzionarie. Teheran accusa Washington di essere stata direttamente coinvolta nel recente attacco aereo a Doha, nonostante le smentite americane.
Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi esorta gli Stati del Medio Oriente a allearsi contro Israele. Teheran sfrutta l'attacco israeliano contro la leadership di Hamas in Qatar per dipingere lo Stato ebraico come il vero aggressore, come un nemico da distruggere. Invece che contro l'Iran, ora si vuole creare una “NATO mediorientale” contro Israele.
• Qatar
Al centro del conflitto c'è la base statunitense di Al-Udeid in Qatar, una delle basi militari americane più grandi e strategicamente importanti in Medio Oriente. È considerata il centro di comando, logistico e di comunicazione per le operazioni degli Stati Uniti nel Golfo ed è un pilastro fondamentale della deterrenza americana.
Negli ultimi giorni, i media arabi hanno riportato con crescente frequenza la possibilità di un nuovo fronte contro Israele. Mentre Israele si presenta con sicurezza come una “potenza troppo forte” in Medio Oriente, l'Iran cerca di sfruttare proprio questa immagine, corteggiando gli Stati sunniti per formare insieme un nuovo blocco contro Israele. Si torna a parlare della “NATO araba”.
L'operazione aerea israeliana contro la leadership di Hamas a Doha ha innescato una dinamica politica che fa apparire Israele come una potenza militare troppo pericolosa in Medio Oriente.
Un vertice straordinario degli Stati arabi, convocato al massimo livello e avviato da Doha, ha lo scopo di dimostrare solidarietà e mettere sotto pressione Israele a livello internazionale. Dal punto di vista militare c'è poco da aspettarsi, ma sulla scena diplomatica il Qatar, con il suo enorme potere finanziario, potrebbe determinare l'agenda, sia attraverso condanne internazionali, risoluzioni o tentativi di mettere in discussione gli accordi esistenti con Israele.
• Alleanza militare
Parallelamente, l'Egitto sta lavorando a un piano ancora più ambizioso. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi intende creare una “alleanza militare araba comune” sul modello della NATO. L'obiettivo ufficiale è quello di difendere ogni nazione araba in caso di aggressione esterna. Secondo quanto riportato dal quotidiano libanese al-Akhbar, il Cairo offre circa 20.000 soldati propri, aspira al comando supremo e intende accelerare la modernizzazione del proprio esercito. L'Arabia Saudita sarebbe prevista come seconda potenza. I diplomatici avvertono già che questa mossa non deve trasformarsi in una dichiarazione di guerra di fatto contro Israele, ma permane il rischio che singoli Stati utilizzino l'idea come pretesto per un'escalation militare.
Si creano così due sviluppi paralleli. Il Qatar cerca di aumentare massicciamente la pressione su Israele attraverso la diplomazia e il diritto internazionale, mentre l'Egitto delinea una struttura militare che potrebbe modificare in modo duraturo gli equilibri di potere nella regione. Entrambe le iniziative, una politico-diplomatica e l'altra militare-strutturale, mirano a isolare Israele a livello internazionale e a stringere maggiormente il mondo arabo contro lo Stato ebraico.
Per Israele, il progetto comporta attualmente soprattutto dei rischi. I media arabi continuano a ripetere che Israele ha ormai sostituito l'Iran come principale minaccia regionale. I canali palestinesi sottolineano che Israele ha “colpito in sei giorni sei Stati arabi: Palestina, Yemen, Siria, Libano, Qatar e Tunisia”.
La determinazione di Israele suscita preoccupazione e paura in molti paesi musulmani. Fino all'attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele era ancora considerato, in teoria, un potenziale membro o almeno un partner di una tale alleanza contro l'Iran. Ma oggi questa opzione è superata. Inoltre, un cambio di regime in uno degli Stati partner o uno spostamento dell'agenda politica potrebbero in qualsiasi momento rivoltare l'alleanza contro Israele. In tal caso, Gerusalemme si troverebbe di fronte a un fronte arabo compatto e militarmente rafforzato. In pratica, la “NATO araba” è ancora un sogno geopolitico, ma il suo effetto simbolico è reale. Per Israele è un segnale di allarme: la forza militare da sola non garantisce la sicurezza, la vigilanza politica e diplomatica rimane fondamentale.
(Israel Heute, 24 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 18, 9-22
- Quando sarai entrato nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà, non imparerai a imitare le abominazioni di quelle nazioni. Non si trovi in mezzo a te chi faccia passare suo figlio o sua figlia per il fuoco, né chi eserciti la divinazione, né indovino, né chi predice il futuro, né mago, né incantatore, né chi consulta gli spiriti, né chi dice la buona fortuna, né negromante; perché chiunque fa queste cose è in abominio all'Eterno; e, a motivo di queste abominazioni, l'Eterno, il tuo Dio, sta per scacciare quelle nazioni davanti a te. Tu sarai integro verso l'Eterno, il tuo Dio; poiché quelle nazioni, il cui paese voi andate a prendere possesso, danno ascolto agli astrologi e agli indovini; ma, quanto a te, l'Eterno, il tuo Dio, ha disposto diversamente.
- L'Eterno, il tuo Dio, susciterà in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta come me; a lui darete ascolto! Avrai così quello che chiedesti all'Eterno, al tuo Dio, in Oreb, il giorno dell'adunanza, quando dicesti: 'Che io non oda più la voce dell'Eterno, del mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, affinché io non muoia'. E l'Eterno mi disse: 'Quello che hanno detto, sta bene; io susciterò loro un profeta come te, in mezzo ai loro fratelli, e metterò le mie parole nella sua bocca, ed egli dirà loro tutto quello che io gli comanderò. E avverrà che se qualcuno non darà ascolto alle mie parole che egli dirà in mio nome, io gliene chiederò conto. Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome qualcosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta sarà punito con la morte'. E se tu dici in cuor tuo: 'Come riconosceremo la parola che l'Eterno non ha detto?'. Quando il profeta parlerà in nome dell'Eterno, e la cosa non succede e non si avvera, quella sarà una parola che l'Eterno non ha detto; il profeta l'ha detta per presunzione; tu non lo temere.
(Notizie su Israele, 23 ottobre 2025)
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“Se oserete venire qui troverete un Vietnam”
Il vero bersaglio di Hamas è il mondo arabo-islamico
di Davide Romano
Gli attacchi di Hamas al territorio israeliano non sono la classica escalation del conflitto israelo-palestinese. Analizzando più a fondo le dinamiche mediorientali, emerge che il vero bersaglio di Hamas non è tanto lo Stato ebraico, quanto il mondo arabo-islamico. La domanda da porsi infatti è: perché Hamas continua a lanciare attacchi contro Israele, sapendo perfettamente che la risposta militare sarà devastante? L’esercito israeliano, infatti, dispone di una superiorità schiacciante. Hamas lo sa benissimo, visto che è stata decimata in questi due anni dall’Idf. La risposta non risiede in una follia suicida, ma in una strategia comunicativa ben precisa.
Questi attacchi sono messaggi destinati non tanto a Gerusalemme, ma a Riad, al Cairo, ad Amman e alle altre capitali del mondo arabo-islamico che stanno organizzando una forza internazionale per gestire Gaza. Il messaggio è chiaro e brutale: “Se oserete venire qui con le vostre forze di pace, se proverete a sostituirci nel controllo di Gaza, troverete un Vietnam”. È insomma una minaccia esplicita a chiunque nel mondo islamico osasse prendere il controllo della Striscia senza passare attraverso gli islamo-mafiosi di Hamas.
Non è un caso che l’Arabia Saudita, la settimana scorsa, avesse pubblicamente dichiarato che non avrebbe inviato propri soldati a Gaza se la situazione non si fosse calmata. Il riferimento era alle esecuzioni pubbliche che Hamas stava conducendo ai danni di centinaia di palestinesi etichettati come “collaborazionisti”. Il regime saudita, tradizionalmente cauto nelle sue mosse internazionali, aveva colto perfettamente il senso di quella violenza interna: Hamas stava consolidando il proprio potere attraverso il terrore, eliminando qualsiasi opposizione interna e mostrando al mondo arabo chi comanda davvero a Gaza.
Per le forze islamiche di peacekeeping, si prospetta insomma una guerriglia prolungata contro un’organizzazione terrorista che conosce ogni vicolo, ogni tunnel, ogni nascondiglio della Striscia. Quale Paese avrà voglia di mandare i propri soldati a Gaza ad affrontare tali rischi? Questo ci riporta alla questione fondamentale che divide Israele dall’Europa: la natura stessa di Hamas come ostacolo insormontabile alla pace. Mentre l’opinione pubblica europea tende a vedere il conflitto attraverso la lente della tragedia umanitaria palestinese – che è innegabile e drammatica – spesso non comprende che finché Hamas manterrà il controllo di Gaza, qualsiasi prospettiva di pace è un’illusione. L’Unione europea, con la sua tradizione diplomatica basata sul dialogo e sul compromesso, fatica a confrontarsi con la realtà di un’organizzazione che ha fatto della guerra perpetua e del controllo autoritario della Striscia la propria ragion d’essere.
La vera pace a Gaza – quella che permetterebbe ai palestinesi di vivere dignitosamente la propria vita, di sviluppare un’economia funzionante, di costruire istituzioni democratiche – è incompatibile con Hamas. Questa è la scomoda verità che l’Europa si rifiuta di riconoscere, preferendo spesso concentrarsi sulla condanna delle risposte militari israeliane piuttosto che sulle cause profonde del conflitto. Finché questa dinamica non verrà compresa nella sua complessità, la prospettiva di una vera soluzione al dramma palestinese rimarrà lontana. E i primi a pagarne il prezzo continueranno ad essere i civili palestinesi di Gaza, ostaggi involontari di una strategia che li usa in una partita geopolitica che va ben oltre i confini della Striscia.
(Il Riformista, 23 ottobre 2025)
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Washington, Gerusalemme, Il Cairo: tensioni intorno alla seconda fase dell'accordo
La mediazione internazionale su Gaza ha preso ieri sera una piega più frontale, con due interventi televisivi trasmessi dai canali arabi Al-Arabiya e Al-Jazeera.
Da un lato, su Al-Arabiya, il mediatore palestinese-americano Bshara Bahbah, uno degli artefici dell'accordo, ha accusato Israele di cercare di rimodellare il testo del cessate il fuoco. Dall'altro, il responsabile di Hamas Ismaïl Radwan ha tenuto a rassicurare che l'accordo, patrocinato da Washington, non sarebbe fallito: « Israele sta cercando di convincere gli americani a modificare la formulazione della fase successiva e sta usando la presenza delle armi di Hamas come pretesto. Hamas sarà infine costretto a consegnare le sue armi pesanti alle forze arabo-islamico-palestinesi, e immagino che non ci saranno obiezioni, perché alla fine deve esistere un'unica forza militare che garantisca la sicurezza nella Striscia di Gaza ».
Secondo il mediatore, l'obiettivo rimane la creazione di un meccanismo di sicurezza regionale che includa i paesi arabi moderati, una transizione che Washington spera sia rapida, ma che Israele sta cercando di frenare rivendicando un diritto di controllo permanente sul dispositivo.
Poche ore dopo, su Al-Jazeera, Ismaïl Radwan, figura di spicco di Hamas, ha risposto alle crescenti preoccupazioni sulla solidità della tregua: «Lo stesso presidente Trump l'ha adottata e non permetterà che questo accordo fallisca. Quello che sta succedendo ora sono scambi di opinioni o prese di posizione da parte di Israele, in particolare per quanto riguarda la seconda fase. Gli israeliani stanno cercando di sfruttare ogni falla a loro vantaggio. Dobbiamo agire con saggezza: la nostra posizione deve essere quella di esigere l'applicazione dei 20 punti su cui tutto il mondo, compreso Hamas, si è accordato». »
Radwan ha anche respinto le accuse secondo cui il movimento starebbe ritardando la restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani: « Israele continua a impedire l'ingresso di attrezzature pesanti, mentre l'accordo stabilisce esplicitamente che devono essere trasportate a Gaza. È quindi responsabile del ritardo nella restituzione dei corpi degli ostaggi israeliani ».
Secondo diverse fonti vicine al dossier, Washington sta esercitando pressioni sui suoi partner arabi – in particolare Egitto, Giordania ed Emirati – affinché anticipino la formazione di una forza congiunta arabo-palestinese incaricata del controllo della sicurezza a Gaza, mentre Israele insiste per mantenere un diritto di controllo operativo.
Questa mattina, il capo dell'ufficio egiziano per l'informazione governativa, Diaa Rashwan, ha dichiarato in un'intervista al canale Al-Arabiya che una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU è indispensabile per inquadrare il dispiegamento della futura forza internazionale a Gaza: “Per quanto riguarda la creazione della forza internazionale, è necessaria una decisione del Consiglio di sicurezza per conferirle legittimità e definirne il mandato affinché possa agire rapidamente sul campo”.
Rashwan ha sottolineato che la zona interessata, definita “zona gialla”, include elementi che potrebbero destabilizzare la sicurezza: «Nessuna nazione può intervenire in una zona di conflitto e distruzione di tale portata senza il sostegno e la copertura internazionale».
L'Egitto, attore chiave nella mediazione tra Israele, Hamas e Stati Uniti, chiede un mandato esplicito delle Nazioni Unite per garantire la legittimità e la sicurezza delle truppe che dovrebbero essere dispiegate nella Striscia di Gaza dopo il progressivo ritiro dell'esercito israeliano.
(Israj, 23 ottobre 2025- - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Che mago Trump! È riuscito ad avere Hamas dalla sua parte. Hamas e Trump insieme stanno lì per garantire che i 20 punti "su cui tutto il mondo, compreso Hamas, si è accordato" siano scrupolosamente osservati. Tutti lì ad aspettare che le forze-arabo-islamiche-palestinesi "garantiscano la sicurezza nella striscia di Gaza". Solo Israele solleva qualche obiezione. Ma si sa, Israele... e poi che c'entra Israele? M.C.
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 15, 1-18
- Alla fine di ogni sette anni celebrerete l'anno di remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore sospenderà il suo diritto relativo al prestito fatto al suo prossimo; non esigerà il pagamento dal suo prossimo o dal fratello, quando sarà proclamato l'anno di remissione in onore dell'Eterno. Potrai esigerlo dallo straniero; ma sospenderai il tuo diritto su ciò che tuo fratello ha di tuo.
- Tuttavia, non ci sarà nessun bisognoso tra voi; poiché l'Eterno senza dubbio ti benedirà nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà in eredità, perché tu lo possegga, purché, però, tu ubbidisca diligentemente alla voce dell'Eterno tuo Dio, avendo cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti, che oggi ti do. Il tuo Dio, l'Eterno, ti benedirà come ti ha promesso, e tu farai dei prestiti a molte nazioni, e non prenderai nulla in prestito; dominerai su molte nazioni, ed esse non domineranno su di te.
- Quando ci sarà in mezzo a te, in una delle tue città nel paese che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà, qualcuno dei tuoi fratelli che sarà bisognoso, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai generosamente la mano e gli presterai quanto occorre per la necessità nella quale si trova.
- Guardati dall'accogliere nel tuo cuore un cattivo pensiero, che ti faccia dire: 'Il settimo anno, l'anno di remissione, è vicino!', e ti spinga ad essere spietato verso il tuo fratello bisognoso, così da non dargli nulla; poiché egli griderebbe contro di te all'Eterno, e ci sarebbe del peccato in te. Dagli generosamente; e quando gli darai, il tuo cuore non si rattristi; perché, a motivo di questo, l'Eterno, il tuo Dio, ti benedirà in ogni opera tua e in ogni cosa a cui porrai mano. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comandamento, e ti dico: 'Apri generosamente la tua mano al fratello povero e bisognoso nel tuo paese'.
- Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te, ti servirà sei anni; ma il settimo, lo manderai via da te libero. E quando lo manderai via da te libero, non lo rimanderai a vuoto; lo fornirai generosamente di doni presi dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo strettoio; lo farai partecipe delle benedizioni che l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà elargito; e ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d'Egitto, e che l'Eterno, il tuo Dio, ti ha redento; perciò io ti do oggi questo comandamento.
- Ma se avverrà che egli ti dica: 'Non voglio andarmene da te', perché ama te e la tua casa e sta bene da te, allora prenderai una lesina, gli forerai l'orecchio contro la porta, ed egli sarà tuo schiavo per sempre. Lo stesso farai per la tua schiava. Non ti dispiaccia rimandarlo libero da te, poiché ti ha servito sei anni, e un mercenario ti sarebbe costato il doppio; e l'Eterno, il tuo Dio, ti benedirà in tutto ciò che farai.
(Notizie su Israele, 22 ottobre 2025)
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Israele ha una delle aspettative di vita più alte al mondo
PARIGI – «Sarai benedetto sopra tutti i popoli». Così recita il Deuteronomio 7,14 riguardo al popolo d'Israele. Questa promessa biblica trova oggi un riscontro notevole: secondo l'ultimo rapporto dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l'aspettativa di vita media in Israele è di 83,8 anni, al quarto posto tra gli Stati membri, subito dopo Giappone (84,1), Svizzera (84,3) e Spagna (84,0).
Tra il 2022 e il 2023, l'aspettativa di vita delle donne israeliane è aumentata da 84,8 a 85,7 anni e quella degli uomini da 80,7 a 81,7 anni, con un incremento di quasi un anno intero. Un tale balzo in avanti è stato registrato solo in pochi altri paesi. Secondo il Ministero della Salute, ciò riflette non solo una ripresa dopo la pandemia di coronavirus, ma anche un reale miglioramento rispetto all'anno pre-crisi 2019.
• Elevata efficienza nonostante le scarse risorse È degno di nota il fatto che Israele abbia ottenuto questo successo nonostante spenda solo il 7,6% del suo prodotto interno lordo per la sanità, molto meno della Germania (12,3%), della Francia (11,5%) o della Svizzera (11,8%). Nonostante questi investimenti relativamente modesti, il sistema sanitario israeliano registra uno dei tassi di mortalità evitabile più bassi dell'area OCSE: solo 134 decessi ogni 100.000 persone sono considerati evitabili, con un calo di 170 rispetto al 2010.
Il Ministero della Salute attribuisce questo successo a una combinazione di prevenzione efficace, diagnosi precoce e ampia accessibilità ai servizi medici. Ciò include un sistema capillare di medici di base, brevi distanze dai pronto soccorsi e un'alta percentuale di vaccinazioni superiore al 90%, anche per il morbillo.
• Diminuzione delle malattie cardiache e della mortalità infantile Dal 2015 in Israele si osserva un calo continuo della mortalità per malattie cardiovascolari. Con 49,4 decessi ogni 100.000 persone, il Paese si colloca anche in questo caso tra i primi della classifica dei Paesi dell'OCSE. Ciò è dovuto al miglioramento delle misure di prevenzione, all'accesso a terapie moderne e ai programmi di promozione di un'alimentazione sana.
Anche la mortalità infantile, con 2,7 casi ogni 100.000 nascite, è tra le più basse al mondo. Secondo i dati del Ministero della Salute, questi sono i frutti di investimenti mirati nella prevenzione genetica, nel monitoraggio della gravidanza e nella consulenza ai genitori.
• La salute sotto pressione
Il fatto che Israele raggiunga questi valori proprio in una fase di persistente instabilità e condizioni di guerra sottolinea la resilienza del sistema. Anche le vittime dell'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e i morti dei successivi combattimenti sono inclusi nella media statistica, ma l'aspettativa di vita rimane comunque stabile.
“Ciò dimostra che il sistema sanitario israeliano funziona in modo efficiente nonostante le risorse limitate”, afferma Ascher Schalmon, capo del dipartimento per le relazioni internazionali del Ministero della Salute. “È un sistema che punta sulla qualità e non sulle dimensioni, e che funziona anche in tempi di crisi”.
• Le sfide rimangono
Ma il bilancio non è del tutto positivo. Circa il 16% della popolazione israeliana fuma regolarmente. Ciò porta a circa 8.000 decessi all'anno legati al tabagismo. Inoltre, gli esperti del Ministero della Salute israeliano mettono in guardia contro le carenze nell'infrastruttura medica e la crescente carenza di personale infermieristico. “Vediamo risultati impressionanti, ma non dobbiamo adagiarci sugli allori”, afferma Hagar Misrahi, citata dal “Times of Israel”. “Le sfide sono grandi, dall'assistenza sanitaria in tempi di crisi al rafforzamento a lungo termine del personale”.
Nonostante questi ostacoli, Israele rimane uno dei paesi più sani al mondo e dimostra che la stabilità e il progresso sono possibili anche in condizioni difficili. (tko)
(Israelnetz, 22 ottobre 2025)
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Il pericolosissimo equivoco Hamas
di Franco Londei
È bastato smettere di sparare per poche ore per capire che Hamas non solo non era sconfitto, ma era vivo e vegeto. Uomini di Hamas presidiano tutti gli snodi cruciali della Striscia di Gaza. Giustiziano per strada coloro che considerano loro nemici o collaborazionisti. In poche ore hanno dato una prova muscolare del loro stato, del loro essere in vita.
E a chi fa notare che i due anni di guerra non sono serviti a debellare Hamas dalla Striscia di Gaza, anzi, che questa tregua segna per loro una vittoria psicologica di immenso valore che li rende addirittura più forti, viene risposto che “siamo solo al primo punto dell’accordo” e che “Hamas disarmerà e si ritirerà” quando entrerà in vigore il secondo punto.
Si, come no. Al di là della difficoltà oggettiva di debellare il sistema Hamas, di cui il braccio armato è solo un’appendice, la prova di forza che sta dando il gruppo terrorista in queste ore dimostra che le Brigate Izz al-Din al-Qassam sono ancora pressoché integre, almeno la loro parte più letale.
Il Presidente Trump continua a dire di “aver risolto la guerra tra Israele e Hamas”, ma credo che stia prendendo un abbaglio, specialmente se pensa che il gruppo terrorista disarmerà. E ad Hamas delle vuote minacce di Trump non importa nulla.
E voglio dirla tutta: se Hamas ha restituito gli ostaggi vivi, liberandosi cioè della loro arma negoziale più importante, è perché hanno avuto garanzie di ferro non solo sulla loro sopravvivenza, ma sul loro ruolo. Chi ha dato ad Hamas queste garanzie? Il Qatar, la Turchia e probabilmente l’Arabia Saudita, cioè gli estensori del cosiddetto “piano di pace Trump”.
Benjamin Netanyahu si è trovato in mezzo ad un mix di opportunismo arabo e ambizione americana. Una centrifuga di interessi economici e di mire arabe che poco hanno a che fare con un piano di pace serio, un piano cioè con dei punti ben precisi, privi di equivoci o di doppi sensi e omissioni come invece è il “piano di pace Trump”.
A pensar male, visto che è stato scritto e mediato dai due padrini di Hamas, cioè Turchia e Qatar, si potrebbe dire addirittura che quel piano sia stato scritto apposta per far sopravvivere Hamas in qualche forma che gli permetta di non mollare la presa su Gaza.
E a pensar male due volte c’è un altro punto su cui riflettere. Ieri il Middle East Media Research Institute (MEMRI) ha lanciato l’“allarme Turchia” incentrato sul fatto che Erdogan avrebbe seriamente intenzione di attaccare Israele. Ebbene, qualcuno faceva notare che non essendoci prossimità territoriale un attacco turco contro Israele sarebbe alquanto improbabile. Sicuri? La Siria non confina con Israele? E chi ha messo lo jihadista Ahmed Al-Sharaa sul trono di Damasco? E chi vorrebbe inviare “truppe di pace” a Gaza? Non si faccia con Erdogan l’errore di sottovalutazione fatto con Hamas.
Trump ha avuto troppa fretta di chiudere il cosiddetto “accordo di pace”. Ha messo Netanyahu in un angolo credendo di poter far meglio, almeno per i suoi molteplici interessi. Così come ha chiuso troppo in fretta il “problema Iran”. Tutti fronti ancora aperti. Gli interessi nel Golfo mal si legano con le esigenze di sicurezza di Israele.
La fine della guerra, così come propagandata da Trump, è solo un equivoco, un pericolosissimo equivoco che rischia di mettere seriamente in pericolo Israele.
(Rights Reporter, 22 ottobre 2025)
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Israele deluso dalla fiducia di Trump nella Turchia: «Erdogan è un jihadista in giacca e cravatta!»
Mentre Trump valorizza Ankara nei suoi piani postbellici per la Striscia di Gaza, i leader politici israeliani reagiscono con aspre critiche e definiscono la Turchia una forza destabilizzante e nemico dichiarato dello Stato ebraico.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Le tensioni aumentano a causa del coinvolgimento della Turchia nel piano di cessate il fuoco a Gaza mediato dagli Stati Uniti. I politici israeliani lanciano chiari avvertimenti contro la partecipazione di Ankara a qualsiasi ordine postbellico vicino ai confini israeliani.
“Alla Turchia non sarà permesso di operare sul fronte meridionale o settentrionale di Israele”, ha affermato il ministro della Diaspora Amichai Chikli. In un duro intervento su X, Chikli ha definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan un “nemico giurato di Israele e dell'Occidente, un jihadista in giacca e cravatta”.
Le sue dichiarazioni sono arrivate pochi giorni dopo che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva pubblicamente elogiato l'impegno della Turchia nei confronti del nuovo quadro di pace per il Medio Oriente, che prevede la partecipazione di Ankara a una forza multinazionale di stabilizzazione nella Striscia di Gaza.
Secondo il piano, la Turchia dovrebbe inviare squadre di soccorso, aiutare nelle operazioni postbelliche e addestrare le forze di sicurezza locali incaricate di mantenere il cessate il fuoco. Ma i rappresentanti del governo israeliano considerano questa una linea rossa.
Secondo Israel Hayom, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha categoricamente escluso la partecipazione turca alla forza internazionale o alla ricostruzione di Gaza. In un recente discorso alla Knesset, Netanyahu avrebbe parlato di “nuove minacce” all'orizzonte di Israele, ampiamente interpretate come un riferimento alla Turchia e al Qatar, che Trump considera entrambi partner cruciali nella regione.
Chikli ha ribadito l'avvertimento riferendosi a una preghiera pubblica del 30 marzo, in cui Erdogan avrebbe chiesto ad Allah di “distruggere e devastare lo Stato sionista di Israele”.
“Questa frase non è stata pronunciata da Hamas o Hezbollah. È stata pronunciata dal presidente della Turchia”, ha detto Chikli. “Non si tratta di un lapsus. Sono le parole di un nemico pericoloso”.
Ha anche accusato Erdogan di cercare di cancellare la rivendicazione storica del popolo ebraico su Gerusalemme, aggiungendo: “Gerusalemme è la capitale di Israele dai tempi del re Davide, 1.500 anni prima della nascita di Maometto”.
Erdogan si è da tempo posizionato come difensore globale dell'Islam politico e utilizza la retorica anti-israeliana per aumentare la sua popolarità nel mondo musulmano. Il governo turco continua ad ospitare i quadri di Hamas, a finanziare cause radicali e ad espandere la sua influenza negli affari palestinesi, cercando allo stesso tempo di ottenere il riconoscimento internazionale come “partner di pace”.
Per Israele, tuttavia, il bilancio di Erdogan lo squalifica da qualsiasi ruolo costruttivo nella Striscia di Gaza.
Martedì, il deputato della coalizione Zeev Elkin ha espresso preoccupazioni simili a Kan Reshet Bet, affermando che il coinvolgimento della Turchia rafforzerebbe ulteriormente Hamas. “Abbiamo tutti sentito le dichiarazioni di Erdogan. Forse ci si può fidare un po' di più degli Emirati, ma non quando si tratta di disarmare Hamas”, ha detto Elkin.
Secondo alcune fonti, il ruolo della Turchia è stato un tema centrale nei colloqui riservati di Netanyahu di questa settimana con Jared Kushner e Steve Witkoff, i principali negoziatori del presidente Trump per il Medio Oriente.
Trump, che considera Erdogan un importante mediatore e possibile stabilizzatore dell'ordine postbellico, ha elogiato l'impegno della Turchia nei confronti del piano. A Gerusalemme, tuttavia, non si condivide questo ottimismo.
I funzionari israeliani non considerano la Turchia un partner neutrale, ma un sostenitore ideologico di lunga data di Hamas, uno Stato che offre protezione politica, sostegno finanziario e legittimità internazionale all'organizzazione terroristica, nonostante questa sia dedita alla distruzione di Israele.
Analisi: il coinvolgimento della Turchia nel futuro di Gaza non è una formalità diplomatica, ma una linea di demarcazione strategica. L'ostilità di Ankara nei confronti di Israele non è un retaggio dei conflitti passati, ma è attiva, ideologica e persistente. Qualsiasi piano che consideri Erdogan una forza stabilizzante sottovaluta sia l'uomo che la regione.
(Israel Heute, 22 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 13
- Quando sorgerà in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti mostri un segno o un prodigio, e il segno o il prodigio di cui ti avrà parlato si compie, ed egli ti dice: 'Andiamo dietro a dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli', tu non darai retta alle parole di quel profeta o di quel sognatore; perché l'Eterno, il vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate l'Eterno, il vostro Dio, con tutto il vostro cuore e con tutta l'anima vostra. Seguirete l'Eterno, il vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandamenti, ubbidirete alla sua voce, lo servirete e vi terrete stretti a lui. E quel profeta o quel sognatore sarà messo a morte, perché avrà predicato l'apostasia dall'Eterno, dal vostro Dio, che vi ha tratti fuori dal paese d'Egitto e vi ha redenti dalla casa di schiavitù, per spingerti fuori della via per la quale l'Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare.
Così toglierai il male di mezzo a te.
-
Se tuo fratello, figlio di tua madre, o tuo figlio o tua figlia o la moglie che riposa sul tuo seno o l'amico che è per te come un altro te stesso, ti inciterà in segreto, dicendo: 'Andiamo, serviamo altri dèi': dèi che né tu né i tuoi padri avete mai conosciuto, dèi dei popoli che vi circondano, vicini a te o lontani da te, da una estremità all'altra della terra, tu non acconsentire, non dargli retta; il tuo occhio non abbia pietà di lui; non lo risparmiare, non lo nascondere; anzi uccidilo senz'altro; la tua mano sia la prima ad alzarsi su di lui, per metterlo a morte, poi venga la mano di tutto il popolo; lapidalo, e muoia, perché ha cercato di spingerti lontano dall'Eterno, dal tuo Dio, che ti fece uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù. E tutto Israele lo udrà e temerà e non commetterà più in mezzo a te una simile azione malvagia.
- Se sentirai dire di una delle tue città che l'Eterno, il tuo Dio, ti dà per abitarle: 'Degli uomini perversi sono usciti di mezzo a te e hanno sedotto gli abitanti della loro città dicendo: Andiamo, serviamo ad altri dèi', che voi non avete mai conosciuto, tu farai delle ricerche, investigherai, interrogherai con cura e, se troverai che sia vero, che il fatto sussiste e che una tale abominazione è stata realmente commessa in mezzo a te, allora metterai senz'altro a fil di spada gli abitanti di quella città, la voterai allo sterminio, con tutto quello che contiene, e passerai a fil di spada anche il suo bestiame. E radunerai tutto il bottino in mezzo alla piazza, e darai interamente alle fiamme la città con tutto il suo bottino, come sacrificio arso interamente all'Eterno, che è il vostro Dio; essa sarà per sempre un mucchio di rovine e non sarà mai più ricostruita.
Nulla di ciò che sarà così votato allo sterminio si attaccherà alle tue mani, affinché l'Eterno si trattenga dall'ardore della sua ira, ti faccia misericordia, abbia pietà di te e ti moltiplichi, come giurò di fare ai tuoi padri, se tu ubbidirai alla voce dell'Eterno, del tuo Dio, osservando tutti i suoi comandamenti che oggi ti do, e facendo ciò che è giusto agli occhi dell'Eterno, che è il tuo Dio.
(Notizie su Israele, 21 ottobre 2025)
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L’allarme di MEMRI: la Turchia pensa seriamente di attaccare Israele
di Maurizia De Groot Vos
Con un editoriale davvero inquietante pubblicato ieri, Yigal Carmon fondatore e presidente del MEMRI (Middle East Media Research Institute), mette in guardia su un imminente attacco turco a Israele.
Nel suo editoriale Carmon mette in fila, punto dopo punto, i motivi per cui ritiene che Erdogan stia preparando un attacco militare a Israele. E non c’è un punto che non torni.
La cronologia dei fatti è puntuale e dettagliata. Per di più Erdogan non ne fa nessun mistero del fatto che voglia attaccare Israele. Scrive Carmon:
“Il presidente Erdoğan non ha mai designato Hamas come organizzazione terroristica e invece per anni ne ha accolto con favore la leadership e ne ha ospitato gli uffici, compresi gli uffici operativi delle Brigate ‘Izz Al-Din Al-Qassam, guidate da Saleh Al-Arouri, ucciso in un attacco israeliano il 2 gennaio 2024. Da quando Hamas ha commesso il suo massacro in Israele il 7 ottobre 2023, la retorica di Erdoğan, dei suoi alti funzionari e dei suoi media, che sono sempre stati ostili a Israele, sono diventati più allarmanti, suggerendo la possibilità di un imminente attacco turco a Israele”.
Durante una manifestazione a favore della Palestina tenutasi a Istanbul il 28 ottobre 2023, due settimane dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, nel contesto di una discussione su Israele, il presidente Erdoğan ha citato una canzone popolare il cui testo aveva già utilizzato in passato per preannunciare le operazioni militari turche in Iraq e Siria, dicendo: “Potremmo arrivare all’improvviso una notte”.
Poche settimane dopo, il 15 novembre, ha detto: “Oh Israele, hai una bomba atomica, una bomba nucleare, e la usi per minacciare [gli altri]. Lo sappiamo. E ora sta arrivando il momento della tua morte. Puoi avere tutte le bombe nucleari che vuoi. Puoi avere tutto quello che vuoi. Sei finito”.
Il 28 luglio 2024, riferendosi alle operazioni militari turche in altri paesi, il presidente Erdoğan ha dichiarato: “Proprio come siamo entrati nel [Nagorno] Karabakh e proprio come siamo entrati in Libia, faremo qualcosa di simile a [Israele]. Non c’è [motivo] per non farlo”.
Secondo Yigal Carmon, Erdogan sta preparando l’opinione pubblica turca alla guerra con Israele attraverso il grande controllo che ha sui media.
Ibrahim Karagül è un giornalista turco regolarmente descritto come filogovernativo che, dal 2012 alla fine del 2020, è stato caporedattore del quotidiano filogovernativo Yeni Şafak e può essere visto in molte foto con Erdoğan, comprese quelle scattate all’interno dell’aereo privato di Erdoğan. La retorica di Karagül su Israele nell’ultimo anno è stata sorprendente.
Il 13 gennaio 2025 ha scritto: “Dobbiamo tagliare la mano di Israele, che si protende verso i nostri confini… Israele dovrebbe avere paura”. Il 7 aprile: “La guerra tra Turchia e Israele è ormai inevitabile… [Israele] si inginocchierà davanti alla Turchia… Israele è diventato una minaccia esistenziale per la Turchia… Entro uno o tre anni ci sarà una guerra di questo tipo in questa regione”. Il 23 aprile scrive: “Il potere occidentale che ha dato immunità a Israele si è disperso… La Turchia è la proprietaria e l’erede di Israele e rivendicherà il suo diritto su quella terra… Lasciamo che Israele faccia ciò che vuole; lasciamo che pianifichi le agitazioni che vuole, non può né fermare né alterare la direzione di questo grande cambiamento della storia… Questi vani tentativi si scontreranno con il muro della Turchia e si disperderanno. La Turchia sarà su tutti i confini di Israele e, se necessario, lo imprigionerà nella sua casa… La scelta più corretta per Israele potrebbe essere quella di inginocchiarsi davanti alla Turchia e cercare rifugio in essa. Questo è il punto a cui [tutto] sta portando. Gli israeliani decideranno se questo [processo] sarà sanguinoso o incruento”.
Il 1° maggio scrive ancora: “Israele deve essere fermato… Israele è debole. È impotente e spaventato. Il potere occidentale che lo sostiene si è disperso. Il suo potere durerà una settimana… Si dovrebbero provare la guerra asimmetrica e le operazioni segrete. Probabilmente sarà sufficiente… Il periodo del suicidio di Israele è iniziato… Israele pagherà sicuramente un prezzo. Potrebbe subire l’ira della Turchia!… Ripeto: finché Israele non si inginocchierà, subirà la grande ira della Turchia”.
Il 19 maggio: “Bisogna dare inizio al crollo di Israele! Deve perdere il diritto di essere uno Stato… Assisteremo al suicidio di Israele!… Israele dovrebbe essere fermato e liquidato!… Dovrebbe essere disarmato e il suo esercito sciolto…. Israele dovrebbe essere rimosso da questa regione. Dovrebbero essere provati metodi mai sperimentati prima… La sua storia non sarà lunga; Israele sarà costretto a pagare un prezzo molto alto”.
Il 21 maggio: “Il periodo di esistenza di Israele è finito. Entro due anni potremmo assistere a cose straordinarie”.
Il 16 giugno, dopo 12 giorni di guerra aperta tra Israele e Iran, ha scritto: “Israele è un problema anche per la Turchia. Sta conducendo una guerra indiretta contro la Turchia in tutta la regione… Israele è una minaccia esistenziale per la Turchia” Il 18 giugno: “Siamo costretti a strangolare Israele in questa regione”. Il 23 giugno: “È giunto il momento di annientare Israele… Gli Stati Uniti e l’Europa… non entreranno più in grandi guerre per Israele. Non hanno questa possibilità né questo lusso… Ogni paese dovrebbe prepararsi a mettere a tacere quest’arma nucleare che è stata collocata nel mezzo della nostra regione. Le guerre segrete e gli attacchi devono iniziare ora… Netanyahu e la sua squadra devono essere distrutti! Israele deve essere sacrificato per salvare l’umanità… Israele durerà una settimana dal momento in cui perderà il sostegno dell’Occidente, ma il mondo potrebbe arrivare a una condizione tale che nemmeno il sostegno dell’Occidente sarà sufficiente a salvare Israele… Qualunque cosa sia necessaria per avviare il processo di annientamento di Israele dovrebbe essere intrapresa senza perdere tempo”.
Ibrahim Karagül va avanti così per molti mesi fino a ottobre quando il 1° ottobre scrive: “Siamo costretti a combattere Israele. Siamo costretti a mandare Netanyahu e la sua squadra fuori dal mondo, a mettere Israele in ginocchio, a chiamare la comunità ebraica a rispondere di questa barbarie… Israele non può più vincere una guerra. Lo sa bene”. Il 6 ottobre: “Israele ha commesso suicidio. Nessuno può salvarlo ora… Deve essere punito con la guerra… La guerra e il potere dovrebbero mettere Israele in ginocchio; la nazione ebraica che alimenta la sua barbarie dovrebbe essere tenuta sotto controllo… Per quanto possa sembrare “estrema”, una guerra tra Turchia e Israele è assolutamente inevitabile… Se Israele continua così, ci sarà la guerra! La Turchia non sarà paziente!… La vita di Israele è finita. La Basilica di Santa Sofia è stata riaperta e Gerusalemme sarà salvata! Israele non avrà altra scelta che inginocchiarsi davanti alla Turchia. Questo è l’unico modo per sopravvivere. Altrimenti, nel secondo quarto del XXI secolo, Israele non esisterà più. Nella mente dell’uomo che ha riaperto la Basilica di Santa Sofia dopo 86 anni, c’è un piano ben definito per liberare Gerusalemme e regolare i conti del 1917”.
Erdoğan sta intraprendendo azioni concrete contro Israele. La Turchia era il quinto fornitore di Israele nel 2024, fino a quando, nel maggio dello stesso anno, ha interrotto tutte le esportazioni e le importazioni con il Paese. Nell’agosto 2025, la Turchia ha vietato l’accesso ai propri porti alle navi israeliane, ha proibito alle navi turche di entrare nei porti israeliani e ha limitato il proprio spazio aereo agli aerei israeliani. Il suo governo ha permesso che armi e denaro iraniani transitasse attraverso Istanbul per raggiungere gli Houthi nello Yemen. Sta prendendo provvedimenti per prepararsi alla guerra con Israele: dopo la guerra di 12 giorni tra Israele e Iran nel giugno di quest’anno, l’agenzia di intelligence turca MİT ha pubblicato un rapporto di 58 pagine che, tra le altre cose, raccomanda il rafforzamento della difesa aerea turca, l’ulteriore sviluppo dell’industria bellica nazionale e la costruzione di rifugi nelle principali città turche. Sulla base di queste raccomandazioni, è stata avviata la pianificazione per la costruzione di rifugi a lungo termine in tutte le 81 province della Turchia. Durante l’estate, il Paese ha anche presentato i nuovi potenti bunker buster Gazap (“Wrath, ira”) e Hayalet (“Gost, fantasma”) che ha sviluppato e prodotto.
Per quanto possa sembrar esagerato l’allarme lanciato da MEMRI, la determinazione di Erdogan e della Fratellanza Musulmana a distruggere Israele non andrebbe affatto sottovalutata.
Scrive Carmon in conclusione del suo monito: “Può sembrare improbabile che la Turchia, membro della NATO, possa improvvisamente colpire Israele con un attacco a sorpresa, ma l’11 settembre era più che improbabile; era inimmaginabile, così come lo era il 7 ottobre. Anche la presa di Damasco da parte di Erdoğan nel dicembre 2024 era inimmaginabile per molti. Erdoğan e il suo governo attingono, non solo a fini propagandistici ma anche per la pianificazione strategica, all’eredità degli Ottomani, il cui dominio di 400 anni su Gerusalemme conoscono bene e ripetono spesso. Nella mente dei massimi funzionari del governo di Erdoğan, non è una questione se lo Stato turco un giorno correggerà i presunti torti storici del 1917 menzionati da Karagül, ma solo quando lo farà”. E non è da sottovalutare.
(Rights Reporter, 21 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 12
- Queste sono le leggi e le prescrizioni che avrete cura di osservare nel paese che l'Eterno, l'Iddio dei tuoi padri, ti dà perché tu lo possegga, tutto il tempo che vivrete sulla terra.
- Distruggerete interamente tutti i luoghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti, sui colli, e sotto qualunque albero verdeggiante. Demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, darete alle fiamme i loro idoli di Astarte, abbatterete le immagini scolpite dei loro dèi, e farete sparire il loro nome da quei luoghi.
- Non farete così riguardo all'Eterno, al vostro Dio; ma lo cercherete nella sua dimora, nel luogo che l'Eterno, il vostro Dio, avrà scelto fra tutte le vostre tribù, per mettervi il suo nome; e là andrete; là porterete i vostri olocausti e i vostri sacrifici, le vostre decime, quello che le vostre mani avranno prelevato, le vostre offerte votive e le vostre offerte volontarie, e i primogeniti delle vostre mandrie e delle vostre greggi; e là mangerete davanti all'Eterno vostro Dio, e vi rallegrerete, voi e le vostre famiglie, godendo di tutto ciò a cui avrete messo mano, e in cui l'Eterno, il vostro Dio, vi avrà benedetti.
- Non farete come facciamo oggi qui, dove ognuno fa tutto quello che gli pare bene, perché finora non siete giunti al riposo e all'eredità che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà. Ma passerete il Giordano e abiterete il paese che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà in eredità, e avrete riposo da tutti i vostri nemici che vi circondano e starete al sicuro; e allora, porterete al luogo che l'Eterno, il vostro Dio, avrà scelto come dimora del suo nome, tutto quello che vi comando: i vostri olocausti e i vostri sacrifici, le vostre decime, quello che le vostre mani avranno prelevato, e tutte le offerte scelte che avrete consacrato in voto all'Eterno.
- E vi rallegrerete davanti all'Eterno, al vostro Dio, voi, i vostri figli, le vostre figlie, i vostri servi, le vostre serve e il Levita che abiterà nelle vostre città; poiché egli non ha né parte né possesso tra voi. Allora ti guarderai bene dall'offrire i tuoi olocausti in qualunque luogo vedrai; ma offrirai i tuoi olocausti nel luogo che l'Eterno avrà scelto in una delle tue tribù; e là farai tutto quello che ti comando.
(Notizie su Israele, 20 ottobre 2025)
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Chi sono i clan di Gaza che si oppongono ad Hamas?
I clan sono “attori importanti e influenti che controllano centinaia, se non migliaia, di esecutori”.
di Shimon Sherman
Poche ore dopo che i soldati israeliani si erano ritirati dalle loro posizioni di fronte il 10 ottobre, in conformità con l'accordo di cessate il fuoco in 20 punti, Hamas ha iniziato a consolidare il proprio potere attraverso una serie di scontri e purghe in tutta la Striscia di Gaza.
Hamas ha agito rapidamente, mobilitando circa 7.000 combattenti il primo giorno del cessate il fuoco. Parallelamente, ha rapidamente ripristinato le sue capacità di comando e controllo, nominando cinque nuovi governatori in diversi distretti della Striscia. È interessante notare che i governatori non provengono dall'ala politica di Hamas, ma sono piuttosto comandanti militari delle brigate Izz ad-Din al-Qassam.
Poco dopo la mobilitazione, sono scoppiati scontri in tutta la Striscia di Gaza, quando Hamas ha cercato di smantellare i clan rivali. In diversi quartieri della Striscia si sono verificati violenti combattimenti.
Nel quartiere Schejaiya della città di Gaza, sulla linea gialla, dove l'IDF mantiene attualmente una cintura di sicurezza, gli uomini armati di Hamas si sono scontrati con i membri del clan Hellis. A Beit Lahia ci sono stati scontri tra uomini armati vicini ad Ashraf al-Mansi e le forze di Hamas. Nel quartiere di Tel al-Hawa, nella città di Gaza, anche i clan locali hanno opposto resistenza quando gli uomini di Hamas hanno cercato di arrestare importanti capi famiglia ed esecutori.
Domenica, gli scontri tra membri del clan Abu Werda e Hamas nei pressi del porto di Gaza hanno causato la morte di tre combattenti di Hamas e due membri del clan, oltre a decine di feriti.
I combattimenti più violenti si sono verificati nel quartiere Sabra della città di Gaza, dove Hamas ha incontrato il potente clan Doghmush. I combattimenti si sono concentrati principalmente intorno al complesso al-Dhamsha, nel cuore del quartiere.
Fino a domenica, secondo quanto riportato, almeno 52 membri del clan e 12 terroristi di Hamas sono stati uccisi. Secondo alcuni video provenienti dalla zona, Hamas ha fatto irruzione nel territorio delle famiglie utilizzando ambulanze come copertura.
“È un massacro”, ha detto la figlia di un membro del clan. “Portano via le persone, i bambini urlano e muoiono, bruciano le nostre case”.
Parallelamente agli scontri, Hamas sta effettuando una serie di esecuzioni pubbliche orchestrate. In un video diffuso di recente dalla Striscia di Gaza si vedono otto uomini bendati inginocchiati a terra, circondati da una folla enorme che grida e scandisce “Allahu Akbar”.
Il video mostra poi diversi combattenti mascherati di Hamas che sparano ai prigionieri a distanza ravvicinata con i loro fucili.
Secondo quanto riferito, queste esecuzioni pubbliche stanno avvenendo in tutta la Striscia, con centinaia di vittime finora.
• “Vincerà chi è più incline alla violenza”
Il tenente colonnello in pensione Maurice Hirsch, direttore dell'Initiative for Palestinian Authority Accountability and Reform presso il Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs ed ex capo della procura militare per la Giudea e la Samaria, ha spiegato che la disponibilità di Hamas a ricorrere alla violenza estrema le conferisce un vantaggio nella guerra civile in corso.
“Chiunque sia più incline alla violenza vincerà. Al momento, sembra che Hamas, con il suo apparato, sia pronto e in grado di essere il gruppo più violento, senza alcuna restrizione”, ha detto Hirsch a JNS. “Se gli altri gruppi non sono disposti a combattere e difendersi allo stesso modo, sarà molto difficile resistere a Hamas”.
Le purghe condotte da Hamas in tutta la Striscia hanno suscitato ampie condanne. Anche il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha usato parole dure in riferimento alle esecuzioni, affermando: “Hamas è tornata ai suoi ben noti metodi di menzogne e abusi sulle famiglie”. Le ha definite un esempio di “terrorismo nazista”.
Anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha condannato le uccisioni e giovedì ha scritto in un post su Truth Social: “Se Hamas continuerà a uccidere persone a Gaza, cosa che non faceva parte dell'accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderli”.
Anche il comandante del CENTCOM, l'ammiraglio Brad Cooper, ha condannato le esecuzioni e mercoledì, in una dichiarazione scritta, ha esortato Hamas a «cessare immediatamente la violenza e gli attacchi contro civili palestinesi innocenti a Gaza». Cooper ha aggiunto di aver comunicato la sua preoccupazione ai mediatori.
- I clan
Mentre la guerra tra clan entra nella sua seconda settimana, si sta rivelando un fattore cruciale per il futuro della Striscia di Gaza. L'antica struttura clanica, un tempo dominante in gran parte del Medio Oriente, persiste ancora oggi a Gaza, così come in Giudea e Samaria.
“Ciascuno di questi gruppi ha una propria organizzazione interna, le proprie armi e la propria capacità di lottare per qualsiasi parte delle strutture governative o economiche che riesce a ottenere”, ha spiegato Hirsch.
Questa forma di struttura sociale tribale si è storicamente mal conciliata con l'ascesa di blocchi ideologici palestinesi come Hamas e Fatah, causando spesso conflitti di lealtà.
Hirsch ha inoltre osservato che alcuni di questi clan si sono espansi e controllano gran parte della popolazione di Gaza.
“Ogni clan è ovviamente diverso, ma su larga scala alcuni di essi raggiungono dai 10.000 ai 20.000 membri. Sono attori molto importanti e influenti che controllano centinaia, se non migliaia, di esecutori”, ha affermato.
• Ostacoli temporanei
Il generale di brigata in pensione (riserva) Yosef Kuperwasser, direttore del Jerusalem Institute for Strategy and Security (JISS), ha spiegato che, nonostante la notevole influenza delle tribù nella società di Gaza, "nessuno di questi clan rappresenta una vera minaccia per Hamas.
“Anche dopo questi due anni di combattimenti, Hamas è ancora molto più efficiente dal punto di vista organizzativo e molto meglio armato dei clan”, ha detto Kuperwasser a JNS. "Ma nelle loro aree o regioni controllate, le famiglie possono rappresentare un ostacolo temporaneo.
“Inoltre, alcuni di questi gruppi operano in regioni controllate da Israele, quindi non c'è Hamas che possa opporsi a loro”, ha aggiunto.
Kuperwasser ha sottolineato che, sebbene non siano in grado di distruggere Hamas, i clan sono comunque in grado di esaurire in modo significativo le sue risorse e la sua forza lavoro.
“Anche se Hamas è più forte dei clan, subisce comunque perdite piuttosto pesanti a causa di tutti questi combattimenti. Hamas sarà sicuramente indebolito da tutte queste lotte interne”, ha spiegato Kuperwasser.
• Cinque centri di potere tribali come opposizione centrale a Hamas nella Striscia di Gaza
1- Clan Doghmush (Città di Gaza):
La sfida centrale al potere di Hamas nella città di Gaza è rappresentata dal clan Doghmush. È ampiamente considerato il clan più potente della città e ha da tempo un rapporto teso con Hamas. I membri del clan sono stati storicamente legati sia a Hamas che a Fatah.
Il clan è guidato da Mumtaz Doghmush, noto anche come Abu Muhammad, che un tempo era a capo dell'ala armata dei Comitati di resistenza popolare a Gaza City. Il clan è diventato famoso nel 2006, quando Abu Muhammad ha fondato l'Esercito dell'Islam, una milizia indipendente sotto il suo controllo.
L'Esercito dell'Islam ha svolto un ruolo chiave nel rapimento del soldato dell'IDF Gilad Shalit nel giugno 2006. Successivamente, Mumtaz Doghmush e la sua milizia hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico.
Da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia di Gaza nel giugno 2007, il clan Doghmush ha mantenuto una base di potere in gran parte indipendente da Hamas. All'inizio del 2024, Hamas ha iniziato ad accusare il clan di collaborare con Israele, il che ha portato all'esecuzione di Saleh Doghmush, il mukhtar del clan, nel mese di marzo.
2- Clan Hellis (Schejaiya, Gaza City):
Un altro polo di potere è il clan Hellis. Ha sede nel quartiere di Schejaiya ed è politicamente legato a Fatah. La famiglia Hellis è da tempo nemica di Hamas. Negli ultimi decenni ha subito ripetute incursioni e rappresaglie armate da parte di Hamas, tra cui un'invasione nel 2008 che ha causato decine di morti e costretto molti membri del clan a fuggire verso i valichi israeliani.
Dopo l'attuale cessate il fuoco, il leader del clan Rami Hellis si è alleato con Ahmed Jundeya, membro di un altro clan di Schejaiya, per formare un gruppo armato che combatte contro il controllo di Hamas nelle zone del quartiere sotto l'influenza dell'IDF. Alcuni media stimano la forza del gruppo vicino a Hellis a circa 400 uomini, anche se la catena di comando e il pieno sostegno del clan rimangono non confermati.
3- Ashraf al-Mansi (Beit Lahia, nord):
All'estremo nord della Striscia, a Beit Lahia, anche Ashraf al-Mansi ha organizzato una milizia anti-Hamas. Martedì Al-Mansi ha pubblicato un video in cui respingeva le notizie secondo cui Hamas avrebbe attaccato o arrestato i suoi combattenti. Ha affermato che le notizie sulle recenti vittime sono “false” e ha sostenuto che il suo gruppo ha preso il controllo di diverse zone nel nord per metterle in sicurezza, in modo che i civili possano tornare.
Ha lanciato un avvertimento diretto a Hamas: ogni suo combattente che entrerà nell'area controllata dalla milizia “sarà trattato esattamente come Hamas tratta i membri delle milizie”.
4- Clan Al-Majayda (Chan Yunis):
A Chan Yunis, il clan al-Majayda è emerso come un importante sfidante di Hamas.
Il clan, vicino a Fatah, è stato storicamente un importante mediatore in alcune parti della Gaza centrale. Tuttavia, all'inizio di ottobre sono scoppiati scontri armati tra il clan e gli esecutori dell'unità Arrow di Hamas, dopo che Hamas aveva sparato alle gambe di diversi membri della famiglia. I combattimenti si sono conclusi con la morte di cinque membri del clan e undici terroristi di Hamas.
La milizia del clan è guidata da Hossam al-Astal, che sfida costantemente il dominio di Hamas nel quartiere Kizan al-Najjar di Khan Yunis. La milizia ha attirato l'attenzione quando l'IDF ha eliminato un combattente di Hamas che aveva tentato di attaccare le sue forze a Khan Yunis. Secondo quanto riportato da Gaza, sono stati uccisi oltre 22 terroristi di Hamas.
5- Forze popolari / Forze beduine (Rafah orientale):
L'ultima grande forza contro Hamas nella Striscia di Gaza sono le Forze popolari (milizia popolare) di stampo beduino, guidate da Yasser Abu Shabab, attive nella parte orientale della città di Rafah. Israele ha ammesso di aver fornito direttamente armi e sostegno alla milizia di Abu Shabab durante la guerra.
Grazie all'accesso alle armi e agli aiuti finanziari, Abu Shabab è riuscito a reclutare centinaia di combattenti nel sud della Striscia di Gaza. La sua truppa è stimata tra i 400 e i 1.000 combattenti. Un portavoce della milizia ha recentemente affermato che essa non si lascerà intimidire dalle purghe di Hamas.
“Proprio come Hamas ha ceduto alle pressioni e ha accettato di rilasciare gli ostaggi, alla fine rinuncerà anche alle sue armi pesanti”, ha affermato.
• Il futuro di Gaza
L'improvviso aumento della guerra tra clan non promette nulla di buono per il previsto disarmo di Hamas. Hamas ha apertamente segnalato il proprio rifiuto delle condizioni dell'accordo di cessate il fuoco mediato dal presidente Trump, che richiede il suo completo disarmo. Ha dichiarato che l'attuale mobilitazione non è una misura a breve termine, ma una politica generale.
“Non possiamo lasciare Gaza ai ladri e alle milizie sostenute dall'occupazione israeliana. Le nostre armi sono legittime. Esistono per resistere all'occupazione e rimarranno finché esisterà l'occupazione”, ha dichiarato domenica alla BBC un funzionario di Hamas.
Ahmad Sharawi, analista di ricerca presso la Foundation for Defense of Democracies (FDD), ha scritto in un recente comunicato stampa:
"Hamas sta ora regolando i conti a Gaza. Dopo due anni di guerra, i suoi terroristi sono usciti dai loro tunnel per affrontare coloro che si sono opposti a loro. Abbiamo visto clan e milizie armate sfidare il dominio del gruppo e la sua decisione di devastare la striscia costiera.
“Questo momento dimostra che Hamas intende mantenere le sue armi, una realtà che dovrà essere affrontata con criteri chiari e meccanismi di applicazione quando inizieranno i negoziati di fase due sul disarmo”, ha aggiunto.
Finora Israele non ha definito una politica concreta in merito al conflitto clanico emergente. Secondo quanto riferito, Gerusalemme sta attualmente conducendo colloqui con gli Stati Uniti per istituire zone sicure dietro la linea gialla, dove i gazawi che vogliono sfuggire al regime di terrore di Hamas possano trovare rifugio.
Tuttavia, alcuni analisti hanno esortato Israele ad assumere un ruolo più attivo nel conflitto tra clan. In un'intervista a Ynet, giovedì un alto funzionario della sicurezza israeliana ha affermato che è necessario “agire ora” per proteggere i clan di Gaza che hanno combattuto contro Hamas durante la guerra. “Non possiamo lasciarli nelle mani di Hamas”, ha affermato.
Hirsch ha aggiunto che la politica di Israele riguardo alla guerra tra clan potrebbe avere un impatto diretto anche sulle prospettive di normalizzazione con vari clan in Giudea e Samaria.
“Se sei uno dei capi tribù della Giudea e della Samaria, ciò che sta accadendo ora ti renderà molto riluttante a schierarti apertamente con Israele, se non sai se in cambio otterrai questo sostegno”, ha affermato.
(Israel Heute, 20 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Hamas rifiuta di disarmarsi e consolida nuovamente il proprio controllo su Gaza
Mentre l'Occidente festeggia un “piano di transizione”, Hamas emerge dai tunnel per giustiziare i rivali, rifiutare il disarmo e consolidare il proprio potere.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Non c'è alcun dubbio su chi comanda a Gaza.
A meno di due settimane dalla tregua mediata dagli Stati Uniti, i combattenti di Hamas sono riemersi dal loro sistema di tunnel, non per partecipare alla ricostruzione, ma per rintracciare i critici, uccidere i rivali e ristabilire il loro dominio basato sulla paura.
Venerdì, da Doha, l'alto funzionario di Hamas Mohammed Nazzal ha dichiarato a Reuters che l'organizzazione non può impegnarsi a disarmarsi, una condizione fondamentale dell'iniziativa di pace in 20 punti del governo Trump.
“Non posso rispondere sì o no”, ha ammesso Nazzal, mettendo in discussione l'intero piano. “A chi dovrebbero essere consegnate le armi?”
Invece di sciogliersi, Hamas intende rimanere attivo militarmente e politicamente dominante durante la “fase di transizione” proposta. In teoria, potrebbe governare un'amministrazione tecnocratica, ma Nazzal ha chiarito: “Hamas sarà presente sul terreno”.
Questa presenza è già tangibile. Secondo alcune segnalazioni, Hamas sta giustiziando gli abitanti di Gaza sospettati di collaborare con Israele o di criticarlo. Secondo Moumen al-Natour, un avvocato di Gaza fuggito nella clandestinità ed ex prigioniero politico, che ha parlato con Fox News: "I combattenti di Hamas sono usciti dai tunnel e hanno massacrato le famiglie che si erano opposte a loro... Stanno inviando il segnale che sono tornati, attraverso il terrore“.
La scorsa settimana sono state filmate e trasmesse crudeli esecuzioni pubbliche in territorio controllato da Hamas. Nazzal ha difeso le scene, definendole ”misure eccezionali durante la guerra".
Tutto per la pace transitoria.
Nel frattempo, il governo israeliano afferma che Hamas ha già violato la prima fase del cessate il fuoco non restituendo tutti i corpi degli ostaggi israeliani assassinati.
“Hamas sa dove si trovano i corpi”, ha dichiarato inequivocabilmente l'ufficio del primo ministro. “Devono essere disarmati nell'ambito di questo accordo. Senza se e senza ma. Non l'hanno fatto”.
La proposta di pace presentata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 29 settembre prevede il ritiro israeliano da gran parte della Striscia di Gaza, il rilascio degli ostaggi in cambio di migliaia di prigionieri palestinesi e l'amnistia per i membri di Hamas che depongono le armi.
Quest'ultimo punto appare ormai quasi assurdo.
“Sono gli unici che non hanno ancora accettato il piano”, ha ammesso Trump. “Ma ho la sensazione che otterremo una risposta positiva”.
Hamas, tuttavia, ha già risposto con esecuzioni, scuse e un aperto rifiuto di deporre le armi.
Quello a cui stiamo assistendo non è un processo di pace, ma la ri-legittimazione di Hamas sotto bandiera diplomatica. L'organizzazione terroristica al potere a Gaza viene normalizzata politicamente, mentre continua ad assassinare i suoi oppositori, a violare i termini del cessate il fuoco e a rifiutare i presupposti fondamentali per la pace.
Il linguaggio dell'“amministrazione transitoria” ha poco significato se gli uomini armati non hanno alcuna intenzione di scomparire.
(Israel Heute, 19 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Le chiacchiere di quelli che parlano di vittoria di Israele e lodano Trump come moderno "principe della pace" cominciano a diventare insopportabili. M.C.
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Perché Dio ha creato il mondo? - 17
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il metodo di azione di Dio
Nel modo in cui Dio si mette in relazione con qualcuno che vuole coinvolgere nel suo progetto redentivo si possono riconoscere quattro passaggi:
- Dio annuncia all’uomo quello che intende fare in un futuro più o meno prossimo;
- dà precisi ordini e promesse (o minacce) in relazione al suo annuncio;
- compie qualche atto potente che manifesti all’uomo la Sua credibilità;
- osserva la libera reazione dell’uomo.
- Dio valuta la reazione dell’uomo e in base ad essa compie una nuova mossa.
Dio segue questo “schema operativo” con Mosè:
- Dio annuncia a Mosè la sua intenzione di liberare il suo popolo che è in Egitto (Esodo 3:7-9);
- gli dà precisi ordini sul compito che deve svolgere (3:10);
- gli fa vedere la sua potenza con atti prodigiosi (3:11, 4:1-5);
- osserva Mosè che rifiuta di sottoporsi al suo ordine (4:13).
- Dio si adirà e ripete l’ordine in modo netto, aggiungendo altre istruzioni (4:14-17).
Lo stesso schema usa anche con il Faraone:
- Dio informa il Faraone che il suo popolo deve fargli una festa nel deserto (Esodo 5:1);
- gli ordina di lasciar andare il suo popolo (5:1);
- gli mostra la sua potenza con il bastone di Aaronne che ingoia i serpenti dei maghi (7:10-12);
- osserva il Faraone che rifiuta di sottoporsi al suo ordine (7:13).
- Dio ripete l’ordine aggiungendo una minaccia (7:16-18).
Dio seguirà questo schema altre nove volte nel suo rapporto col Faraone, iniziando dal punto 2.
Elencando distintamente questi passaggi, si vogliono sottolineare due cose:
- Si conferma che il personaggio principale dei racconti biblici è Dio stesso, e dunque che da Lui si deve sempre cominciare per cercare di capire i racconti biblici. Non hanno senso valutazioni di atti e parole dei vari personaggi sulla base di valori morali universali che non siano riconducibili direttamente al Dio che si rivela nella Bibbia.
Si mette in evidenza, (punto 4), che la libertà dell’uomo è una possibilità donata da Dio in certi momenti ed entro certi limiti, con la riserva (punto 5) di farne una sovrana valutazione e di trarne le opportune conseguenze.
Nel gioco sempre riapparente tra libertà dell’uomo e sovranità di Dio, qui si vuole sottolineare che la libertà è parte della creazione, come l’uomo stesso. È ridicolo dunque fare della libertà astratta una bandiera con cui ergersi in concorrenza con Dio. Ma d’altra parte, con le zone di libertà concesse da Dio all’uomo nel suo piano di redenzione, questi acquista la massima dignità compatibile con la sua posizione di creatura, perché Dio decide, in certi momenti e in certe zone del Suo programma, di autolimitarsi per aspettare la decisione dell’uomo.
L’esistenza di questi spazi di libertà porta a concludere che la direzione in cui si è avviata la storia biblica in certe biforcazioni critiche è conseguenza di scelte che Dio aveva riservato all’uomo. Si può pensare allora che avrebbero potuto anche essere diverse, poiché non interamente determinate da quanto avvenuto nel passato.
Il primo esempio è stato discusso già all’inizio di questa trattazione, ed è Adamo, che avendo ricevuto da Dio la libertà di scegliere se mangiare il frutto proibito oppure no, ha liberamente scelto e la sua scelta ha determinato la forma assunta in seguito dal creato.
Uomini che invece hanno fatto scelte positive, come Noè e Abramo, avendole fatte nello spazio di libertà a loro riservato, hanno contribuito alla formazione e all’esecuzione del progetto redentivo di Dio, che dunque si costruisce in itinere, perché prevede fin dall’inizio la presenza della “variabile uomo”.
• Lo schema operativo in relazione a Israele
Nel discorso fatto fino ad ora abbiamo parlato di Dio nei rapporti con l’uomo, ma nella concretezza dei fatti storici l’interlocutore fondamentale di Dio è Israele. Con la precisazione che quando si usa questo termine senza altre specificazioni si deve intendere Israele come personalità corporativa, come un unicum di terra, popolo e nazione. Dunque nella lettura biblica, dopo aver posto l’attenzione sul modo di muoversi di Dio, il successivo sguardo deve posarsi su Israele come un tutto.
Nei capitoli dell’Esodo considerati fino ad ora ci sono varie figure che possono attirare l’attenzione, come Mosè, con le sue interessanti storie del cesto abbandonato sul fiume, del roveto ardente che non si consuma, della sua relazione tempestosa con Dio; poi il Faraone, Aaronne, e i maghi egiziani. Ma se di tutta questa storia si dovesse chiedere qual è il fatto centrale, quello a cui tutti gli altri fatti concorrono, la risposta giusta sarebbe una sola: la nascita di Israele come popolo di Dio. È questo il fatto fondamentale che costituisce un punto di arrivo di tutto ciò che è avvenuto prima e un punto di partenza di tutto ciò che avverrà dopo.
Il libro dell’Esodo occupa un posto di rilievo nella Bibbia, perché la nascita e i primi passi di Israele nella storia costituiscono uno snodo fondamentale nel tragitto che Dio seguirà nel Suo piano. Se nella rappresentazione dottrinale che si vorrebbe farne si pongono male i binari, la successiva prosecuzione del viaggio potrebbe far arrivare alle più strampalate “stazioni teologiche”.
Il modo in cui nasce Israele è già ricco di rivelazione. Continuando nel paragone con il parto, si può dire che la nascita non è avvenuta per parto cesareo, cioè con sanguinose rivoluzioni che hanno lacerato il corpo della partoriente. Si potrebbero sollevare obiezioni pensando alla violenza della strage dei primogeniti, ma questa si può considerare piuttosto come una spinta artificialmente provocata, che una volta avvenuta ha reso possibile un parto “naturale” con soddisfazione di tutti.
Collegandosi alla riflessione fatta sopra, si può dire che Dio ha aspettato fino a che entrambe le parti si pronunciassero, esprimendo il loro esplicito consenso a che il distacco avvenisse.
Per la parte del Faraone, si può precisare che le dieci piaghe non sono crudeli punizioni inflitte per episodi di disubbidienza, ma, al contrario, sono pressanti inviti di Dio al Faraone affinché si decida a partecipare, con vantaggi anche suoi, all’opera di formazione del popolo con cui Dio vuole benedire il mondo, e dunque anche l’Egitto.
Si può immaginare una scena di questo tipo. Dio ha deciso, per motivi che risiedono nel suo metodo di azione (nella sua “politica”, potremmo dire), di non usare la forza per strappare Israele dal grembo dell’Egitto, ma di fare in modo che sia il Faraone stesso a dare agli ebrei l’ordine di uscire. Definito questo, il Signore deve cercare i modi per convincere il Faraone a emettere, motu proprio, un “foglio di via” per la comunità ebraica. Non c’è dubbio che Dio avrebbe preferito far nascere il suo popolo in un modo più tranquillo, affidando anche al Faraone una parte onorevole nel suo programma, come aveva fatto col Faraone “che aveva conosciuto Giuseppe”. Ma se non vuole usare la forza, deve convincerlo. Dunque si muove con gradualità. Comincia piano: col bastone di Aaronne che trasformato in serpente ingoia tutti i serpenti dei maghi egiziani. È come dirgli: lascia stare Faraone, non t’impuntare; hai visto che sei più debole; fa’ come ti dico e tutto andrà per il meglio. E invece no: rifiuti su rifiuti. Il Faraone non vuole essere umiliato dal Dio di Mosè, e su istigazione di Satana vuol far vedere a Mosè che lui non ha paura del suo Dio, quindi non si piegherà. Anzi è lui che vuole mettere paura a Mosè, e minaccia di ucciderlo se si ripresenterà (Esodo 10:28).
A questo punto Dio deve rimettere le cose a posto. Farà una cosa che dovrà avere un effetto di deterrenza non solo per il Faraone, ma anche per tutti gli dèi egiziani suoi presunti protettori (Esodo 12:12). Il terrorizzante effetto ci fu, e il Faraone decise, “di sua iniziativa”, di dare l’ordine che Dio aveva previsto fin dall’inizio.
Con ciò è stata fatta giustizia: la giustizia di Dio creatore che si manifesta nell’esercizio della Sua sovranità sulla creatura.
• Pieno successo in politica interna
Ma Dio non vuole neppure che il suo popolo sia trascinato fuori dall’Egitto contro la sua volontà. L’uscita avverrà quando Israele, come un sol uomo, risponderà con convinzione alla Parola di Dio arrivatagli attraverso Mosè e si dichiarerà pronto ad uscire dall’Egitto e a mettersi in marcia verso la terra promessa. Anche lui dunque Dio dovrà cercare di convincere.
I personaggi che intervengono in modo significativo nella trattativa sono tre: Dio, Mosè e il popolo. Quest’ultimo compare tutte le volte che si parla di “anziani d’Israele” o “anziani dei figli d’Israele”.
È da sottolineare che in tutto questo tempo Dio rivolge la parola soltanto a Mosè, da solo o insieme ad Aaronne”. Mosè dunque sta in una posizione intermedia fra Dio e il popolo, perché per origine appartiene alla stirpe dei figli d’Israele, ma è cresciuto alla corte del Faraone, dunque non ha sofferto insieme alla comunità dei vilipesi ebrei. E oltre a questo, all’età di quarant’anni è scappato all’estero non si è più fatto vedere per altri quarant’anni. Ma non è il caso di fare commenti moralistici: se il Signore ha scelto Mosè per lo svolgimento del suo piano, avrà avuto certamente le sue buone ragioni, come nel caso di Abramo, e Dio non è obbligato a rispondere alle nostre eventuali obiezioni.
Anche con Israele Dio agisce secondo lo schema operativo indicato sopra. Annuncia il suo programma di liberazione, ordina al popolo di ubbidire agli ordini di Mosè, fa eseguire davanti a loro fatti prodigiosi e osserva la reazione del popolo alle parole che l’Eterno aveva detto a Mosè. La prima reazione fu indubbiamente buona, perché a queste parole “Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, si inchinarono e adorarono” (Esodo 4:31).
L’Eterno allora inviò Mosè e Aaronne dal Faraone, ma qui purtroppo ci fu quella brutta caduta di Mosè di cui abbiamo trattato estesamente in precedenza. Mosè non osò riportare al Faraone le esatte parole ricevute da Dio e per gli ebrei le cose peggiorarono tremendamente. Così quando Mosè ricevette l’ordine di ripetere ai figli d’Israele la volontà di Dio per loro, “essi non diedero ascolto a Mosè, a causa dell'angoscia del loro spirito e della loro dura schiavitù” (Esodo 6:9).
La reazione del popolo alla volontà di Dio si era modificata e allora Dio ha dovuto compiere una nuova mossa.
Riguardando il nostro schema operativo, si vede che i punti 1) e 2) restano invariati. Cambia invece il punto 3) perché Dio deve fare altri atti potenti davanti al popolo. E questi sono, per l’appunto, le dieci piaghe, che oltre a far capire al Faraone che l’Eterno è il Dio sopra tutti gli dèi che mantiene la sua parola in fatto di minacce, servono anche a convincere il popolo, dalla quarta piaga in poi, che l’Eterno è il Dio degli Ebrei che mantiene la sua parola in fatto di promesse. Così con gli stessi colpi che piombano sull’Egitto, il Signore ottiene due risultati: il Faraone si indurisce e sarà punito, i figli d’Israele si ammorbidiscono e saranno liberati.
Dopo essere stato informato di quello che avrebbe fatto Dio in “quella notte”
“Mosè chiamò tutti gli anziani d'Israele, e disse loro: “Sceglietevi e prendetevi degli agnelli per le vostre famiglie, e immolate la Pasqua” (Esodo 12:21).
E dettò i particolari di quello che dovevano fare per immolare il sacrificio della Pasqua e non essere colpiti dal passaggio dell’angelo sterminatore. E concluse con queste parole:
“Questo è il sacrificio della Pasqua in onore dell'Eterno, il quale passò oltre le case dei figli d'Israele in Egitto, quando colpì gli Egiziani e salvò le nostre case” (12:22).
I figli d’Israele mostrarono con un atto significativo di aver compreso quelle parole e di averle accettate:
“E il popolo si inchinò e adorò. E i figli d'Israele andarono, e fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (12:28).
Il Signore dunque riuscì a convincere il popolo a diventare parte organica del suo progetto redentivo, anche se in quella notte i figli d’Israele capirono soltanto che avrebbero lasciato l’Egitto e si sarebbero incamminati verso una meravigliosa terra in cui “scorre il latte e il miele”.
Fu la fine di un’epoca:
I figli d'Israele dimorarono in Egitto quattrocentotrent'anni. E al termine di quattrocentotrent'anni, proprio il giorno che finivano, tutte le schiere dell'Eterno uscirono dal paese d'Egitto (Esodo 12:40-41),
e l’inizio di un’altra, perché il popolo uscì dalla terra di schiavitù con un preciso ordine che lo vincolerà a Dio per sempre:
“Questa è una notte da celebrare in onore dell'Eterno, perché egli li trasse fuori dal paese d'Egitto; questa è una notte consacrata all'Eterno, per essere osservata da tutti i figli d'Israele, d'età in età” (Esodo 12:42).
Come poi è avvenuto “d'età in età” fino al giorno d’oggi.
(Notizie su Israele, 19 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 8
- Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, vi moltiplichiate, ed entriate in possesso del paese che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri.
- Ricordati di tutto il cammino che l'Eterno, il tuo Dio, ti ha fatto fare questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
- Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell'Eterno avrà ordinato.
- Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni.
- Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, così il tuo Dio, l'Eterno, corregge te.
- E osserva i comandamenti dell'Eterno, del tuo Dio, camminando nelle sue vie e temendolo; perché il tuo Dio, l'Eterno, sta per farti entrare in un buon paese: paese di corsi d'acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; paese di frumento, di orzo, di vigne, di fichi e di melograni; paese di ulivi da olio e di miele; paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro, e dai cui monti scaverai il rame.
- Mangerai dunque e ti sazierai, e benedirai l'Eterno, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato.
- Guardati bene dal dimenticare il tuo Dio, l'Eterno, al punto da non osservare i suoi comandamenti, le sue prescrizioni e le sue leggi che oggi ti do; affinché non avvenga, dopo che avrai mangiato a sazietà e avrai costruito e abitato delle belle case, dopo che avrai visto il tuo bestiame grosso e il tuo minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro, e abbondare ogni cosa tua, che il tuo cuore si innalzi, e tu dimentichi il tuo Dio, l'Eterno, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù; che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senza acqua; che ha fatto sgorgare per te dell'acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
- Guardati dunque dal dire in cuor tuo: 'La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze'; ma ricordati dell'Eterno, il tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, e per confermare, come fa oggi, il patto che giurò ai tuoi padri.
- Ma se tu dimenticherai il tuo Dio, l'Eterno, e andrai dietro ad altri dèi e li servirai e ti prostrerai davanti a loro, io oggi vi dichiaro solennemente che per certo perirete.
- Perirete come le nazioni che l'Eterno fa perire davanti a voi, perché non avrete dato ascolto alla voce dell'Eterno, del vostro Dio.
(Notizie su Israele, 18 ottobre 2025)
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Riflessioni sullo Shabbat
Lettura settimanale – בְּרֵאשִׁית– Bereschit – In principio ; Genesi 1,1 – 6,8 ; Isaia 42,5 – 43,10
Cosa accadde realmente in Paradiso? L'«albero della conoscenza» era solo un simbolo di obbedienza e peccato o nascondeva qualcosa di più profondo, forse anche fisico?
di Anat Schneider
Perché Adamo ed Eva aprirono improvvisamente gli occhi e perché provarono vergogna per la loro nudità? Queste domande antiche ci occupano ancora oggi. In questa riflessione vi invito a rileggere il testo con cuore aperto. Forse scopriremo che la “conoscenza” in paradiso non significava solo sapere, ma il risveglio di un'esperienza profondamente umana.
Non è un segreto che il primo libro della Bibbia, Bereschit, sia il mio libro preferito in assoluto, non solo nella Bibbia, ma in generale. Amo i personaggi, i patriarchi e le matriarche, gli anziani delle tribù. Non appena mi immergo nelle storie, ho la sensazione che i personaggi prendano vita davanti a me, permettendomi di percepire i loro sentimenti e comprendendo così meglio ciò che hanno vissuto.
Ogni volta che lo leggo, questo libro mi rivela qualcosa di nuovo su me stessa, sul mondo della fede e dello spirito e sul mio sviluppo al suo interno. A volte le intuizioni non sono facili e sono persino impegnative, quindi ho bisogno di tempo per elaborarle. E a volte mi sento persino a disagio nel condividere i miei pensieri con gli altri. Tuttavia, sono disposta a correre questo rischio, pienamente consapevole che non tutti saranno d'accordo o accetteranno ciò che scrivo. E va bene così.
Per me è importante che ricordiate: le mie parole sono un'interpretazione soggettiva basata sui testi biblici e ispirata dal mondo ebraico e spirituale. Per questo lo ripeto, è solo un'interpretazione, non siete obbligati ad accettarla. Ma anche se suscita in voi resistenza, vale la pena chiedersi perché e considerare altri punti di vista, a volte molto arricchenti. Questa volta vorrei parlare della storia dell'albero della conoscenza, ben consapevole che ciò che sto per dire non è facile da digerire.
Eppure, la domanda che pongo qui è: cos'è l'albero della conoscenza? Cos'è questo albero così importante nel giardino dell'Eden, dal quale Dio proibì all'uomo di mangiare? “Non mangiare dall'albero della conoscenza (sapienza) del bene e del male, perché nel giorno in cui ne mangerai, morirai sicuramente”. Era davvero un melo, come pensiamo spontaneamente? O forse un fico? Per capirlo, dobbiamo considerare la parola “Daat” (דעת) per “conoscenza” e vedere come viene usata in altri punti della Bibbia. La radice della parola דעת (Daat) è י.ד.ע (J.D.A.), che significa conoscenza, consapevolezza, comprensione. Cosa ci dice questa parola in altri contesti biblici?
Subito dopo l'espulsione dal paradiso, si legge: “E l'uomo conobbe (ידע) sua moglie Eva, che rimase incinta e partorì Caino”. Questo avviene subito dopo l'espulsione, con gli stessi personaggi, Adamo ed Eva, e questo mi fa capire che c'è effettivamente un nesso tra “e l'uomo conobbe/riconobbe sua moglie” e l'albero della conoscenza/sapienza.
Nella storia di Lot si legge: «Quella notte fecero bere del vino al padre. La maggiore andò a coricarsi con lui, ma egli non se ne accorse (לא ידע), né quando lei si coricò né quando si alzò». (Genesi 19,33) E ancora un esempio nella storia di Rebecca: “Era una figlia molto bella, vergine, e non conosceva (לא ידעה) nessun uomo; scese al pozzo, riempì la sua brocca e risalì” (Genesi 24,16). Ci sono altri esempi simili.
Se li consideriamo, vediamo che il verbo “conoscere” (ידע) è associato alle relazioni intime, alla sessualità. Trovo che sia una scoperta notevole, non credete? Potremmo quindi chiederci se l'albero della conoscenza fosse forse il risveglio della sessualità. Notate cosa succede subito dopo, appena dopo aver mangiato dall'albero: «Allora si aprirono gli occhi di entrambi e si accorsero di essere nudi; cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture». Subito dopo aver «mangiato» dall'albero, la loro coscienza si apre e si rendono conto della loro nudità. La prima cosa che fanno è coprire le loro parti intime.
Ciò indica che il risveglio della coscienza è accompagnato da tre cose: colpa, vergogna e occultamento. Coprono le parti del loro corpo e poi si nascondono anche da Dio, vergognandosi del loro atto, il sesso. Questa storia mi suggerisce che mangiare dall'albero della conoscenza ha portato la capacità di scoprire la sessualità e che questa scoperta li ha resi capaci di creare la vita.
Perché cosa succede subito dopo, dopo la cacciata dal paradiso? «E l'uomo conobbe (יָדַע) sua moglie Eva, che rimase incinta e partorì Caino». Per questo mi rimane una domanda aperta, un invito alla riflessione: perché Dio disse che sarebbero morti il giorno in cui avessero mangiato dall'albero? Questa domanda rimane aperta davanti a voi, un vero invito a continuare a pregare su di essa e a dare così spazio alla parola di Dio affinché risuoni in voi.
Shabbat Shalom, che sia pieno di nuova creazione e di un nuovo inizio benedetto.
(Israel Heute, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«… lo ripeto, è solo un'interpretazione, non siete obbligati ad accettarla. Ma anche se suscita in voi resistenza, vale la pena chiedersi perché e considerare altri punti di vista». Ringraziamo Anat Schneider per la sua “interpretazione soggettiva” della Torah e anche e per l’invito a proseguire nella riflessione. M.C.
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 11
- Guardate, io metto oggi davanti a voi la benedizione e la maledizione:
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la benedizione, se ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, del vostro Dio, i quali oggi vi do;
-
la maledizione, se non ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, del vostro Dio, e se vi allontanate dalla via che oggi vi prescrivo, per andare dietro a dèi stranieri che voi non avete mai conosciuto.
-
E quando l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà introdotto nel paese nel quale vai per prenderne possesso, tu pronuncerai la benedizione sul monte Gherizim, e la maledizione sul monte Ebal.
-
Questi monti non sono di là dal Giordano, dietro la via di ponente, nel paese dei Cananei che abitano nella pianura di fronte a Ghilgal presso le querce di More?
-
Poiché voi state per passare il Giordano per andare a prendere possesso del paese, che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà; voi lo possederete e vi abiterete.
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Abbiate dunque cura di mettere in pratica tutte le leggi e le prescrizioni, che oggi io pongo davanti a voi.
Capitolo 12
- Quando l'Eterno, il tuo Dio, avrà sterminato davanti a te le nazioni là dove tu stai per andare a spodestarle, e quando le avrai spodestate e ti sarai stabilito nel loro paese,
- guardati bene dal cadere nel laccio, seguendo il loro esempio, dopo che saranno state distrutte davanti a te, e dall'informarti dei loro dèi, dicendo: 'Come servivano i loro dèi queste nazioni? Anch'io voglio fare lo stesso'.
- Non farai così riguardo all'Eterno, al tuo Dio; poiché esse praticavano verso i loro dèi tutto ciò che è abominevole per l'Eterno e che egli detesta; davano perfino alle fiamme i loro figli e le loro figlie, in onore dei loro dèi.
- Avrete cura di mettere in pratica tutte le cose che vi comando; non vi aggiungerai nulla, e nulla ne toglierai.
(Notizie su Israele, 17 ottobre 2025)
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Il denaro e i centri di intelligenza artificiale sono una panacea per la pace?
Miliardi di dollari affluiscono nella Striscia di Gaza, ma il capitale può sanare vecchie inimicizie o crea solo nuove dipendenze?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Mentre miliardi di dollari vengono investiti nella ricostruzione della Striscia di Gaza e miliardari del settore tecnologico come Jared Kushner, Peter Thiel e Larry Ellison cercano di realizzare la loro visione di una zona high-tech esente da tasse, sorge una domanda fondamentale: il capitale è sufficiente per risolvere decenni di conflitti in Medio Oriente? Le tensioni storiche, bibliche e ideologiche tra Israele, i palestinesi e gli Stati arabi caratterizzano profondamente la regione e non possono essere semplicemente messe da parte con investimenti, centri di intelligenza artificiale o start-up di lusso. L'ambizione economica può colmare i vecchi divari o alla fine il denaro serve solo come nuovo strumento per assicurarsi potere, influenza e controllo geopolitico? A mio parere, il denaro può finanziare la pace, ma non crearla.
Dopo la guerra, la Striscia di Gaza potrebbe trasformarsi in una zona high-tech esente da tasse, aprendo così la strada alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Anche Jared Kushner e Peter Thiel sono coinvolti. Il progetto di ricostruzione da miliardi di dollari sta già attirando Stati, investitori ed ex capi di governo. Kushner vuole creare centri di intelligenza artificiale, mentre i finanziatori internazionali cercano un clima di investimento liberale. Gli esperti vedono in questo un possibile trampolino di lancio economico per un avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, anche grazie all'influenza di Kushner. Ma la strada per arrivarci è irta di ostacoli: Hamas è un ostacolo sia dal punto di vista politico che della sicurezza. Il massacro del 7 ottobre avrebbe dovuto impedire proprio questo sviluppo e ha congelato per il momento il progetto di normalizzazione tra Gerusalemme e Riad, mentre Riad e Parigi stanno ora spingendo per il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese.
Allo stesso tempo, la casa reale saudita continua a intrattenere stretti rapporti economici con gli Stati Uniti e si sta affermando come una potenza emergente nel campo dell'intelligenza artificiale. Miliardi di investimenti da parte di Nvidia e Amazon confluiscono in nuove server farm nel regno, tra cui anche progetti con persone vicine al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L'esempio più recente mostra la portata di questo sviluppo: una gigantesca “acquisizione con finanziamento esterno” (LBO) da 55 miliardi di dollari per l'acquisizione del gigante statunitense dei videogiochi Electronic Arts (EA), produttore dei giochi FIFA. L'operazione è finanziata in gran parte dal fondo sovrano saudita PIF, insieme alla Affinity Partners di Jared Kushner, che gestisce quasi esclusivamente capitali sauditi, e alla Silver Lake, un fondo statunitense con stretti legami con gli Emirati. La partecipazione di Kushner a questa operazione attira critiche e attenzione a livello internazionale, in particolare per quanto riguarda i possibili conflitti di interesse tra vicinanza politica e investimenti privati.
L'obiettivo è quello di trasformare l'Arabia Saudita in una superpotenza nel settore dei giochi e dello sport. Ma mentre nella Striscia di Gaza si negozia ancora la fine della guerra, sullo sfondo si sta già formando un nuovo asse geopolitico: Washington, Riad e Gerusalemme, unite da interessi, tecnologia e potere, molto prima che si parli del “giorno dopo”. Mi chiedo davvero in che misura tutti questi investimenti nella Striscia di Gaza possano portare a una vera pace tra i popoli: palestinesi e israeliani, musulmani ed ebrei? È davvero possibile cancellare l'ideologia radicale dei Fratelli Musulmani dalla mente delle persone nella Striscia di Gaza? Inoltre, l'intera proposta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire tutti i due milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza per ricostruirla è stata spazzata via dal vento.
Dobbiamo ammettere che progetti economici come la zona high-tech di Kushner nella Striscia di Gaza possono creare le condizioni quadro per la cooperazione, ma non possono sostituire la riconciliazione. Finché Hamas, l'Autorità Palestinese, Israele, l'Arabia Saudita e l'Occidente saranno intrappolati in conflitti ideologici e religiosi per il potere, il denaro non sarà una panacea. Il denaro può finanziare la pace, ma non crearla. Può costruire muri, strade, fabbriche e server farm, ma non può cambiare i cuori, perdonare i peccati e sanare la storia. La vera pace in Medio Oriente, come ovunque, non inizia con gli investimenti, ma con la verità, la giustizia e la conoscenza di Dio.
Hadas Lorber, responsabile del progetto Israele-USA presso l'INSS e direttrice dell'Istituto per l'IA responsabile presso l'HIT, vede nella crescente coinvolgimento di Jared Kushner e dell'ex primo ministro britannico Tony Blair nella pianificazione postbellica per la Striscia di Gaza un segnale strategico, anche in vista del riavvicinamento all'Arabia Saudita. “I sauditi e gli emiratini vogliono sedersi al tavolo delle trattative per la ricostruzione della Striscia di Gaza”, ha dichiarato Lorber al quotidiano finanziario israeliano Globes. Secondo i piani di Blair e Kushner, l'intera Striscia dovrebbe essere smilitarizzata, posta sotto l'amministrazione tecnocratica araba e trasformata in una zona start-up esente da tasse: una Singapore nel deserto per il cloud computing, l'IA e la mobilità elettrica. Sono previsti server farm, uno stabilimento Tesla e investimenti da parte di miliardari internazionali come Peter Thiel e Larry Ellison, alla ricerca di zone con una regolamentazione leggera ed esenti da tasse. Ellison sarebbe disposto a investire 350 milioni di dollari nel progetto.
“Trump punta alla stabilità regionale, ma la completa normalizzazione con l'Arabia Saudita continua a dipendere dalle condizioni politiche e dalle richieste palestinesi”, spiega Lorber. Si prevede un modello graduale che rimanda inizialmente decisioni fondamentali come la questione dei due Stati. In futuro Israele potrebbe riconoscere o meno l'autodeterminazione palestinese, a seconda dell'attuazione di determinate condizioni. Nell'era Trump vale una regola: la normalizzazione con Israele passa attraverso leve economiche controllate dagli Stati Uniti. Lorber vede in questo l'inizio di un movimento più ampio che potrebbe coinvolgere anche paesi come l'Indonesia, la Siria, il Libano e gli Stati musulmani africani. Ma queste sono ancora idee lontane all'orizzonte, e qui bisogna davvero chiedersi se il denaro possa davvero portare la pace in Medio Oriente.
I media arabi riportano con diffidenza il gigantesco progetto nella Striscia di Gaza. Al Jazeera scrive: “Il piano arabo per Gaza ha due problemi: Israele e l'Autorità Palestinese”. L'autore Omar H. Rahman spiega che il progetto deve affrontare due ostacoli fondamentali: l'intransigenza di Israele e la debolezza dell'Autorità Palestinese (PA). Non credo che la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza “cambierà idea” sulla sua ideologia radicale profondamente radicata a causa degli investimenti in IA a Rafah, Khan Yunis, Beit Hanun o Gaza City. La loro forte fede musulmana e le strutture sociali e religiose ad essa associate rendono difficile una trasformazione così rapida verso l'alta tecnologia e il liberalismo economico.
E sapete una cosa? La Bibbia afferma chiaramente che la pace (שָׁלוֹם – Schalom) non è il risultato di negoziati politici o di potere finanziario, ma una realtà spirituale che nasce dalla giustizia e dalla verità. «Il frutto della giustizia sarà la pace, e il risultato della giustizia sarà la tranquillità e la sicurezza per sempre», dice il profeta Isaia. La vera pace, secondo le Scritture, non nasce da investimenti, accordi o programmi economici, ma dall'ordine morale, dalla riconciliazione e dal riconoscimento di Dio come fonte di vita. Ogni tentativo di «comprare» shalom senza giustizia è fuorviante. Geremia: «Essi curano superficialmente le ferite del mio popolo, dicendo: “Pace, pace”, ma non c'è pace». Questo antico monito sembra oggi più attuale che mai. Anche ai nostri giorni si cerca di creare la pace attraverso progetti infrastrutturali miliardari, zone high-tech e investimenti internazionali, senza affrontare realmente le profonde ferite della storia, della religione e dell'identità. Ma il benessere materiale non può ricomporre le fratture spirituali e morali dell'umanità. Senza verità e giustizia, ogni «pace comprata» rimane solo una facciata ben intonacata su conflitti irrisolti.
(Israel Heute, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele nella lotta per la sopravvivenza contro Hamas, Hezbollah e Iran
L'ex portavoce delle forze armate israeliane, Arye Sharuz Shalicar, descrive in un nuovo libro le sue esperienze durante la guerra dal 7 ottobre 2023, in qualità di israeliano, portavoce dell'esercito e padre di famiglia.
di Nicolas Dreyer
DRESDA–
Arye Sharuz Shalicar ha presentato a Dresda il suo nuovo libro, intitolato “Überlebenskampf: Kriegstagebuch aus Nahost” (Lotta per la sopravvivenza: diario di guerra dal Medio Oriente). La conferenza con lettura è stata organizzata, tra gli altri, dall'associazione Sächsische Israelfreunde (Amici sassoni di Israele).
Durante la lettura, due anni dopo gli attacchi di Hamas contro Israele, l'ex portavoce delle forze di difesa israeliane ha raccontato in dettaglio come è cambiata la vita delle persone in Israele il 7 ottobre 2023. Il Paese e la popolazione si sono immediatamente mobilitati per difendersi. Ha inoltre illustrato come da allora Israele debba difendersi dalle accuse fuorvianti di crimini di guerra e genocidio nei media internazionali e nell'opinione pubblica.
• Dalla lotta per la sopravvivenza personale a quella nazionale
Figlio di genitori ebrei persiani, è nato a Gottinga ed è cresciuto a Berlino-Wedding. Già il padre di Shalicar lasciò l'Iran negli anni '70 a causa dell'antisemitismo prevalente. Da adolescente ebreo a Berlino, Arye Shalicar ha sperimentato l'antisemitismo musulmano, che lo ha segnato profondamente. Da giovane adulto, nel 2001 è emigrato in Israele. Dal 2009 al 2016 ha prestato servizio come addetto stampa nell'esercito israeliano e da allora è portavoce della riserva.
Nella conferenza, Shalicar ha spiegato quanto il 7 ottobre 2023 gli abbia riportato alla mente la lotta per la sopravvivenza contro l'antisemitismo della sua giovinezza a Berlino. Questa volta, però, non era più lui come singolo ebreo a dover combattere una lotta per la sopravvivenza imposta dai suoi nemici, ma Israele come Stato ebraico in Medio Oriente.
Nel primo capitolo, intitolato “Tregua”, una voce del 24 giugno 2025, Shalicar parla di una “guerra che Israele non ha iniziato. Una guerra che si è abbattuta su Israele da sette direzioni diverse. Una guerra di sopravvivenza che Israele non avrebbe dovuto perdere in nessun caso. Non può perdere! Perché si trattava e si tratta ancora di sopravvivenza”.
• Punto di svolta per Israele
L'autore ha iniziato la sua conferenza con alcune considerazioni sulla situazione di Israele alla vigilia dell'attacco genocida dell'organizzazione terroristica Hamas. Nessuno nel Paese avrebbe potuto immaginare un attacco così violento e una tale vulnerabilità. Al contrario, la popolazione era convinta che le attività di Hamas fossero completamente monitorate da Israele. Alla domanda se Israele esisterà ancora tra cento anni, dopo il 7 ottobre non può più rispondere con la consueta sicurezza. Quel giorno gli ha insegnato che nulla è garantito.
Nel capitolo citato, l'autore usa parole drastiche per sottolineare l'importanza degli attacchi di Hamas per l'identità e la sicurezza di Israele: “Una svolta nella storia moderna del popolo ebraico e dello Stato di Israele. Una svolta anche per me. In Israele, dal 7 ottobre ogni giorno è il 7 ottobre. La caduta è stata troppo profonda, il fallimento troppo grande, la situazione di impotenza e di incapacità troppo traumatizzante”.
Egli continua le sue spiegazioni in un altro punto: «Il massacro del 7 ottobre è il più grave omicidio di massa commesso contro gli ebrei dopo il 1945. Non è il numero delle persone uccise a rappresentare il fattore principale della rottura della civiltà, ma la brutalità degli assassini palestinesi, che hanno smembrato le persone con gioia, le hanno bruciate vive, hanno maltrattato e ucciso bambini accanto ai genitori e genitori accanto ai bambini. »
• Israele sopravvive grazie alla sua forza
Nella conferenza del 6 ottobre, Shalicar si è comunque mostrato convinto della forza e della resilienza di Israele. Ciò si è manifestato soprattutto nella rapida ed enorme prontezza al combattimento e nella solidarietà degli israeliani. Quando Israele è stato attaccato la mattina presto del 7 ottobre, gli israeliani si sono sentiti immediatamente chiamati a difendere il loro Paese. Israele se l'è quindi cavata con un “occhio nero”.
Le forze di sicurezza delle località attaccate, i soldati e le forze di polizia accorsi da tutto il Paese hanno combattuto eroicamente gli aggressori provenienti dalla Striscia di Gaza. Senza questo, Israele avrebbe potuto subire un esito ancora peggiore dell'invasione. Anche dal nord avrebbero potuto esserci attacchi da parte di Hezbollah.
La capacità di reazione di Israele nel difendere il Paese è stata eccezionale, ha sottolineato il relatore. Già il 7 ottobre, riservisti israeliani provenienti da tutto il mondo sono volati in Israele per arruolarsi. Nel giro di un giorno, decine di migliaia di riservisti sono stati chiamati alle armi o si sono arruolati volontariamente ai confini meridionali e settentrionali di Israele.
• Approfondimento sulla quotidianità della guerra e sul Medio Oriente
Ciononostante, la guerra è stata molto dolorosa e costosa per Israele: il 7 ottobre 1.200 persone sono state uccise in modo orribile, 251 sono state prese in ostaggio, circa 1.000 soldati sono caduti in battaglia e quasi 10.000 sono rimasti gravemente feriti o mutilati. Il relatore ha chiarito quante persone in Israele siano direttamente colpite dalla guerra in termini percentuali, in quanto parenti o amici. Per questo motivo, questa nazione relativamente piccola è molto coinvolta nel loro destino.
Il diario di guerra di Shalicar offre una visione approfondita della sua vita e dell'umore della popolazione israeliana negli ultimi due anni. Nel farlo, alterna i diversi ruoli del narratore autobiografico. Come privato cittadino e padre di famiglia, ad esempio, deve spiegare la guerra a sua figlia.
Tuttavia, come cittadino israeliano che ha scelto Israele come proprio rifugio, vive la stessa crisi esistenziale e la stessa quotidianità di guerra dei suoi connazionali. In qualità di portavoce dell'esercito e importante interlocutore dei politici dell'allora governo federale tedesco, dell'opposizione e dei Länder, spiega loro in dettaglio la realtà in Israele, nella Striscia di Gaza e in Medio Oriente.
• Lotta per l'egemonia mediatica
L'opera, pubblicata nel 2025, analizza anche l'attuale crisi mediorientale e le recenti guerre tra Hamas, Iran e Hezbollah da un lato e Israele dall'altro. Descrive la politica nella Striscia di Gaza e l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Affronta lo sviluppo dell'opinione pubblica globale e il rafforzamento dell'antisemitismo nel mondo, sia in Germania che altrove. Ciò include anche il ruolo dei media, delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale (CPI).
In un'intervista con Israelnetz, il portavoce dell'esercito della riserva ha approfondito il ruolo dei media, in particolare dell'emittenza pubblica. Questi ultimi avrebbero una grande responsabilità nell'aumento dell'antisemitismo, poiché la loro parzialità contro Israele alimenterebbe il risentimento antiebraico e quindi l'odio verso Israele.
La lotta per l'interpretazione della realtà nella guerra di Gaza si è svolta in modo molto sfavorevole per Israele. I giornalisti dovrebbero essere più accurati e obiettivi nel valutare ciò che sta realmente accadendo e chi è realmente responsabile. Spesso preferiscono concentrarsi sulla questione di dove ci siano più cadaveri.
Shalicar ritiene assolutamente necessario che sia gli israeliani che gli amici di Israele partecipino alla diffusione di una copertura mediatica accurata e non manipolatoria al di là dei media pubblici, anche con l'aiuto dei social media.
• La pace richiede un Israele forte
Il libro si conclude con alcuni capitoli in cui vengono esaminati gli attacchi di Israele agli impianti nucleari iraniani, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza e il ruolo della Fondazione umanitaria di Gaza (GHF). A ciò si aggiungono alcune riflessioni sulla possibilità di una pace.
Shalicar sottolinea in modo impressionante quanto la pace dipenda dall'attenuarsi dell'odio verso gli ebrei in tutto il mondo, in particolare in Medio Oriente, e dal mantenimento di una “posizione di forza” da parte di Israele. Tuttavia, poiché non è prevedibile che l'odio verso Israele diminuisca, “agli ebrei e allo Stato ebraico non resta che una cosa: vivere e amare la vita ed essere sempre pronti, quando sarà di nuovo necessario, a lottare per la sopravvivenza”.
Shalicar è stato chiamato al servizio di riserva il 7 ottobre 2023 e ha prestato servizio per quasi 350 giorni fino alla fine del 2024 come portavoce ufficiale delle forze armate israeliane. In qualità di portavoce dell'esercito di lingua tedesca, è stato “uno dei principali ‘costruttori di ponti’ tra la Germania e Israele nel periodo più difficile per Israele dalla fondazione dello Stato”, come descrive il suo ruolo nel presente libro.
(Israelnetz, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il ricordo del 16 ottobre con Sant’Egidio
Fadlun: Odio antisemita inizia con parole sbagliate
Il Portico d’Ottavia è stato anche quest’anno lo sfondo della commemorazione del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Comunità ebraica romana. Sul palco allestito in Largo 16 Ottobre, il ricordo di quanto avvenne allora è stato accompagnato da più di un monito sull’antisemitismo risorgente. Anche in Italia, anche a Roma. «Il 16 ottobre è diventato in qualche modo il simbolo della Shoah italiana», ha affermato per primo il rabbino capo della città Riccardo Di Segni. «E in questa nostra memoria si intersecano due dimensioni che sono parallele, si incrociano e hanno entrambe un senso molto importante. La prima dimensione è quella interna alla comunità ebraica: una memoria viva e incancellabile. La seconda è quella collettiva nazionale e internazionale, che è quella che ha consentito di costruire un’Europa giusta, senza (quasi) più guerra». In questa memoria, ha detto il rav, «c’è stata una progressione». E non è una progressione oggi positiva, ha proseguito Di Segni, parlando di «capovolgimento della memoria, di inversione del circuito virtuoso di collaborazione e condivisione tra comunità ebraica e comunità in generale: siamo allarmati». Per il rav, «la storia è fatta di cose rivelate e cose nascoste», la speranza è che crescano «fecondi semi di pace», ma non è possibile ignorare che «siamo in un momento drammatico di passaggio storico».
«La memoria è una responsabilità civile e collettiva», ha esordito il sindaco Roberto Gualtieri, sottolineando come il rastrellamento «non fu incidente della storia, ma fu generato dalla furia nazifascista e fu il risultato più tragico e sanguinoso dell’incontro tra la secolare storia dell’antisemitismo e regimi nati nel segno dell’odio e del razzismo che fecero dell’antisemitismo un riferimento della loro ideologia di morte». Il sindaco ha ancora ammonito: «Viviamo in un tempo fragile, di guerre e odio antisemita che torna ad affacciarsi, persino in questa città». Per poi aggiungere: «Non c’è spazio per l’odio travestito da militanza o da chi la usa per dividere, bisogna reagire all’antisemitismo anche quando travestito da antisionismo».
Il ricordo del 16 ottobre «non è una pagina di storia ma una ferita viva», ha spiegato il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun, anche perché «prima dei treni piombati ci furono le parole, prima della deportazione ad Auschwitz ci furono le leggi razziste, prima del rastrellamento ci fu la legittimazione dell’odio antiebraico». Ecco, ha proseguito Fadlun, «perché noi oggi ricordiamo: la violenza comincia dalla lingua e dalle parole sbagliate che escono da istinti malvagi e pregiudizi antichi e radicati». Anche il 7 ottobre di due anni fa «degli ebrei sono stati portati via» nel corso dei massacri compiuti da Hamas in Israele, ha ricordato Fadlun. E per questo «siamo qui per dire che la memoria è in pericolo, l’antisemitismo non è scomparso, si è trasformato, è tornato nelle strade, nelle piazze, nei comizi, nelle università, non si nasconde più, non ha più paura di mostrarsi».
È poi intervenuto Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. «Vivere è anche dimenticare certi dolori», ha affermato. «Ma per vivere degnamente noi non possiamo dimenticare questo dolore. Non lo possiamo fare se siamo coerenti con noi stessi e con la nostra storia». Le persecuzioni e la Shoah, ha aggiunto, «furono la conseguenza logica dell’antisemitismo che motivava l’odio e il pregiudizio verso l’ebreo, una storia vecchia che risorge quando si dimentica e si abbassano le difese». Per Riccardi, «siamo in una stagione che volta le spalle alla storia, dominata dall’attualità che passa e si fa prendere da passioni folli e immotivate; si sta perdendo il senso della storia e della memoria».
(moked, 17 ottobre 2025)
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Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 6
- Questi sono i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che l'Eterno, il vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nel paese nel quale state per passare per prenderne possesso;
- affinché tu tema il tuo Dio, l'Eterno, osservando, tutti i giorni della tua vita, tu, tuo figlio e il figlio di tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandamenti che io ti do, e affinché i tuoi giorni siano prolungati.
- Ascolta dunque, Israele, e abbi cura di metterli in pratica, affinché tu sia felice e vi moltiplichiate grandemente nel paese dove scorre il latte e il miele, come l'Eterno, l'Iddio dei tuoi padri, ti ha detto.
- Ascolta, Israele: l'Eterno, il nostro Dio, è l'unico Eterno.
- Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze.
- E questi comandamenti che oggi ti do staranno nel tuo cuore;
- li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, quando sarai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai.
- Te li legherai alla mano come un segnale, ti saranno come frontali tra gli occhi,
- e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
- E quando l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà fatto entrare nel paese che giurò ai tuoi padri, Abraamo, Isacco e Giacobbe, di darti; quando ti avrà condotto alle grandi e buone città che tu non hai costruito,
- alle case piene di ogni bene che tu non hai riempito, alle cisterne scavate che tu non hai scavato, alle vigne e agli uliveti che tu non hai piantato, e quando mangerai e sarai sazio,
- guardati dal dimenticare l'Eterno che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù.
- Temerai l'Eterno, il tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome.
- Non andrete dietro ad altri dèi, fra gli dèi dei popoli che staranno attorno a voi,
- perché il tuo Dio, l'Eterno, che sta in mezzo a te, è un Dio geloso; l'ira dell'Eterno, del tuo Dio, si accenderebbe contro di te e ti sterminerebbe dalla terra.
- Non tenterete l'Eterno vostro Dio, come lo tentaste a Massa.
- Osserverete diligentemente i comandamenti dell'Eterno vostro Dio, le sue istruzioni e le sue leggi che vi ha dato.
- E farai ciò che è giusto e buono agli occhi dell'Eterno, affinché tu sia felice ed entri in possesso del buon paese che l'Eterno giurò ai tuoi padri di darti,
- dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come l'Eterno ha promesso.
- Quando, in futuro, tuo figlio ti domanderà: 'Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni che l'Eterno, il nostro Dio, vi ha dato?'.
- Tu risponderai a tuo figlio: 'Eravamo schiavi del Faraone in Egitto, e l'Eterno ci trasse fuori dall'Egitto con mano potente.
- E l'Eterno operò sotto i nostri occhi miracoli e prodigi grandi e disastrosi contro l'Egitto, contro Faraone e contro tutta la sua casa.
- E ci trasse fuori di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci.
- E l'Eterno ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo l'Eterno, il nostro Dio, affinché fossimo sempre felici, ed egli ci conservasse in vita, come ha fatto finora.
- E questa sarà la nostra giustizia: l'avere cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti davanti all'Eterno, del nostro Dio, come egli ci ha ordinato'.
Capitolo 7
- Quando il tuo Dio, l'Eterno, ti avrà fatto entrare nel paese dove vai per prenderne possesso, e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti, i Ghirgasei, gli Amorei, i Cananei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te,
- e quando l'Eterno, il tuo Dio, le avrà date in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio: non farai con esse alleanza, né farai loro grazia.
- Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli,
- perché distoglierebbero i tuoi figli dal seguire me per farli servire a dèi stranieri, e l'ira dell'Eterno si accenderebbe contro di voi, ed egli ben presto vi distruggerebbe.
- Ma farete loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, abbatterete i loro idoli e darete alle fiamme le loro immagini scolpite.
- Poiché tu sei un popolo consacrato all'Eterno, che è il tuo Dio; l'Eterno, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra.
- L'Eterno ha riposto in voi il suo affetto e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, perché anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo;
- ma perché l'Eterno vi ama, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l'Eterno vi ha tratti fuori con mano potente e vi ha redenti dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d'Egitto.
- Riconosci dunque che l'Eterno, il tuo Dio, è Dio: l'Iddio fedele, che mantiene il suo patto e la sua benignità fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti
- ma, a quelli che lo odiano, rende immediatamente ciò che si meritano, distruggendoli; non rimanda, ma rende immediatamente a chi lo odia ciò che si merita.
- Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica.
- E avverrà che, per avere dato ascolto a queste prescrizioni e per averle osservate e messe in pratica, il vostro Dio, l'Eterno, manterrà il patto e la benignità che promise con giuramento ai vostri padri.
- Egli ti amerà, ti benedirà, ti moltiplicherà, benedirà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo: il tuo frumento, il tuo mosto e il tuo olio, i parti delle tue vacche e delle tue pecore, nel paese che giurò ai tuoi padri di darti.
- Tu sarai benedetto più di tutti i popoli, e non ci sarà in mezzo a te né uomo né donna sterile, né animale sterile fra il tuo bestiame.
- L'Eterno allontanerà da te ogni malattia e non manderà su di te nessuna di quelle malattie funeste d'Egitto che ben conoscesti, ma le manderà addosso a quelli che ti odiano.
- Sterminerai dunque tutti i popoli che l'Eterno, il tuo Dio, sta per dare in tuo potere; il tuo occhio non ne abbia pietà; e non servire ai loro dèi, perché ciò sarebbe per te un laccio. Forse dirai in cuor tuo:
- 'Queste nazioni sono più numerose di me; come potrò io scacciarle?'.
- Non le temere; ricordati di quello che l'Eterno, il tuo Dio, fece al Faraone e a tutti gli Egiziani;
- ricordati delle grandi prove che vedesti con i tuoi occhi, dei miracoli e dei prodigi, della mano potente e del braccio steso con i quali l'Eterno, il tuo Dio, ti fece uscire dall'Egitto; così farà l'Eterno, il tuo Dio, a tutti i popoli, dei quali hai timore.
- L'Eterno, il tuo Dio, manderà pure contro di loro i calabroni finché, quelli che saranno rimasti e quelli che si saranno nascosti per paura di te, siano periti.
- Non ti sgomentare a causa loro, poiché il tuo Dio, l'Eterno, è in mezzo a te, Dio grande e terribile.
- E l'Eterno, il tuo Dio, scaccerà a poco a poco queste nazioni davanti a te; tu non le potrai distruggere subito perché, altrimenti, le bestie della campagna si moltiplicherebbero a tuo danno;
- ma il tuo Dio, l'Eterno, le darà in tuo potere, e le metterà interamente in fuga finché siano distrutte.
- Ti darà nelle mani i loro re, e tu farai scomparire i loro nomi sotto il cielo; nessuno potrà resisterti, finché tu le abbia distrutte.
- Darai alle fiamme le immagini scolpite dei loro dèi; non desidererai né prenderai per te l'argento che è su di esse, affinché tu non ne sia preso come da un laccio; perché sono un'abominazione per l'Eterno, che è il tuo Dio;
- e non introdurrai cosa abominevole in casa tua, perché saresti maledetto come lo è quella cosa; dovrai detestarla e aborrirla assolutamente, perché è un interdetto.
(Notizie su Israele, 16 ottobre 2025)
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Più che archeologia da toccare con mano
In Israele si incontrano siti storici ovunque. Molti sarebbero rimasti nascosti senza la scienza dell'archeologia. Un'attrazione turistica relativamente nuova a Gerusalemme offre uno sguardo su questa professione.
di Antje C. Naujoks *
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L'archeologo Jehuda Maimun illustra il suo lavoro
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Israele conta oltre 200 musei e quindi, in rapporto alla densità di popolazione, il numero più alto di musei per abitante. Sebbene il relativamente nuovo campus archeologico di Gerusalemme presenti reperti antichi unici, questa struttura non arricchisce il panorama dei musei classici di Israele.
Il campus archeologico è infatti un luogo di lavoro. Oltre ai depositi che ospitano diversi milioni di reperti archeologici, qui si trovano anche gli uffici amministrativi dell'Autorità israeliana per i beni culturali, fondata nel 1948 insieme allo Stato di Israele. Il cuore del campus è tuttavia costituito dai laboratori e dalle officine degli archeologi.
Sebbene si tratti di un luogo di lavoro di archeologi con le più svariate qualifiche professionali, che si estende su una superficie di 36.000 metri quadrati e brulica di vita, qui si è pensato anche ai visitatori. Agli interessati viene offerta la possibilità di conoscere da vicino questa professione. La visita deve essere prenotata in anticipo, perché non è così facile per gli estranei passeggiare in questo luogo di lavoro.
Il biglietto d'ingresso di 9 euro per i visitatori adulti è un prezzo più che ragionevole per una visita guidata in un gruppo per lo più ristretto. Il personale dell'Autorità per i Beni Culturali non è interessato a far passare masse di visitatori e a recitare un testo standard. Piuttosto, risponde volentieri a tutte le possibili domande curiose degli ospiti, perché desidera fornire agli interessati una visione più approfondita della propria professione.
• Ubicazione e architettura
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La tettoia ricorda le vele parasole dei siti archeologici
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Il sito e l'edificio a più piani sono stati progettati in modo tale da riflettere le caratteristiche essenziali dell'archeologia. L'accesso avviene allo stesso livello del vicino Museo d'Israele e del Museo Bibelland, situato proprio accanto. Da lì si scende piano dopo piano, proprio come gli archeologi scavano dalla superficie terrestre verso gli strati più profondi.
Il rinomato studio di architettura di Moshe Safdie di Gerusalemme, che ha progettato anche il memoriale nazionale della Shoah di Israele, Yad Vashem, descrive così la progettazione del campus: “Mentre gran parte dell'edificio scavato nel pendio rimane nascosto o appare discreto, l'imponente tettoia conferisce al campus un'identità unica”.
Questa tettoia sopra il livello d'ingresso del campus archeologico è ispirata a una vela parasole. Per quanto riguarda le dimensioni e la progettazione dettagliata – in inverno l'acqua piovana viene convogliata in modo visibile e udibile tre piani più in basso in una vasca nel cortile interno – questa tettoia ombreggiante è un elemento che attira l'attenzione. Si ispira ai teloni che gli archeologi tendono sui loro siti di scavo a cielo aperto.
• Immergersi nel mondo del lavoro degli archeologi
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Il campus offre uno sguardo sul lavoro degli archeologi
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Al livello dell'ingresso del campus archeologico, questa tettoia si estende a protezione dei mosaici che sono stati scoperti in sinagoghe, chiese e monasteri in tutto il paese, nonché in moschee, e qui trasferiti. Qui i visitatori non solo vengono familiarizzati con iscrizioni in ebraico, greco, arabo, latino e samaritano, ma apprendono anche ulteriori dettagli sulle particolarità e sulle questioni ancora aperte che i testi di diversi periodi sollevano.
Ma già qui si vede ciò che caratterizza l'intera visita guidata. Si risponde alle domande dei visitatori. In questo modo tutti gli ospiti scoprono come gli archeologi riescono a trasferire dal luogo del ritrovamento queste opere d'arte uniche dell'antichità, composte da decine di migliaia di minuscole pietre, senza danneggiarle.
Al livello successivo, una sorta di sala di ricevimento con posti a sedere, vengono presentati vasi di terracotta e sigilli. Un archeologo spiega ai visitatori quali caratteristiche consentono di attribuire i reperti a un determinato periodo in un batter d'occhio.
Il livello successivo è un po' più “arido”, poiché ospita una biblioteca. Tuttavia, essa colpisce per il fatto di essere la più grande collezione di contributi scientifici sull'archeologia della Terra Santa. Non meno di 60.000 libri contenenti studi archeologici e pubblicati in Israele o su Israele sono conservati qui in una biblioteca di consultazione.
Ma già al piano successivo, ancora più in basso, la teoria arida torna a prendere vita. I visitatori possono infatti dare un'occhiata ai luoghi di lavoro degli archeologi. Dalla galleria interna, le pareti di vetro consentono di vedere due livelli con laboratori e officine.
Non si vedono solo attrezzi e strumenti, ma anche reperti su cui si sta lavorando. Qui i manufatti vengono ulteriormente portati alla luce, puliti o assemblati. Ma qui i collaboratori svolgono anche attività di documentazione e conservazione. Probabilmente ci sarà voluto un po' di tempo per abituarsi a un posto di lavoro trasparente. Ma il lavoro con pennelli e soluzioni chimiche, al microscopio e con altre apparecchiature high-tech, così come con carta e matita, continua indisturbato durante le visite guidate, poiché i visitatori camminano sopra gli esperti.
• Coinvolgimento attivo dei visitatori
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Non tutti i reperti possono essere attribuiti in modo univoco
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I visitatori non si limitano a guardare gli archeologi da dietro le spalle. Imparano di più sui metodi di lavoro e ricevono ulteriori
spiegazioni davanti a vetrine con oggetti esemplificativi. Sono esposti anche reperti che gli archeologi non sono ancora in grado di spiegare.
La cosa bella è che gli archeologi non solo ammettono di non avere idea di quale fosse l'uso, ad esempio, di un oggetto di vetro dalla forma strana. Chiedono ai visitatori di contribuire spontaneamente con le loro associazioni e idee. Proprio come un tempo il pubblico era stato invitato a partecipare al più grande puzzle dell'umanità: la composizione dei frammenti dei rotoli del Mar Morto, che ora sono conservati per la maggior parte nei magazzini di questo campus archeologico inaugurato nel 2024 dopo dodici anni di lavori.
Va notato che durante questa parte della visita guidata non è consentito fotografare, al fine di impedire la possibile pubblicazione di novità archeologiche da parte di terzi non coinvolti. Tuttavia, una volta raggiunto l'ultimo piano, i visitatori possono mettere mano. Qui è possibile toccare i reperti. I visitatori possono prendere in mano gli strumenti di lavoro degli archeologi e guardare attraverso i microscopi, in modo da vedere esattamente ciò che gli archeologi scoprono durante il loro lavoro.
Ogni mese il campus archeologico espone un reperto scoperto di recente. Alcuni mesi fa, ad esempio, si trattava di anfore rinvenute durante uno scavo marittimo sulla costa israeliana. Anche in questo caso non ci sono state solo spiegazioni generali, ma è stato risposto con pazienza alle domande dei visitatori. Senza dubbio un'esperienza unica, che offre una visione molto speciale del lavoro degli archeologi israeliani, ai quali dobbiamo l'accesso a molti siti storici notevoli in Israele.
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* Antje C. Naujoks ha studiato scienze politiche alla FU di Berlino e all'Università Ebraica di Gerusalemme. Tra le altre cose, lavora come traduttrice freelance e vive in Israele da quasi 40 anni, di cui più di un decennio a Be'er Sheva.
(Israelnetz, 16 ottobre 2025)
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L'architettura clanica di Gaza: l'unica alternativa alla rinascita di Hamas
L'attacco di Hamas contro Israele nell'ottobre 2023 ha messo in luce una verità fondamentale: il controllo di Hamas ha mascherato, ma non eliminato, le più profonde lealtà tribali.
di Gregg Roman
L'annuncio del 13 ottobre 2025 secondo cui Hamas ha ricevuto l'approvazione americana per condurre operazioni di sicurezza a Gaza rappresenta un errore strategico catastrofico che mina l'obiettivo a lungo termine di eliminare l'organizzazione terroristica dal governo di Gaza. La dichiarazione del presidente Trump secondo cui “abbiamo dato loro l'approvazione per un periodo di tempo” per affrontare l'illegalità contraddice fondamentalmente il principio fondamentale del suo piano di pace in 20 punti: Hamas non deve avere alcun ruolo, diretto, indiretto o in qualsiasi forma, nella futura governance di Gaza. Mentre i restanti 19 punti del quadro continuano a essere negoziati e attuati, questa prematura legittimazione del ruolo di Hamas in materia di sicurezza garantisce di fatto la sua completa ricostituzione.
L'imperativo strategico rimane invariato: potenziare le strutture claniche di Gaza, che rappresentano il 72% dei 2,3 milioni di residenti di Gaza attraverso 608 mukhtar registrati e sei grandi confederazioni beduine, per colmare il vuoto di governo man mano che Hamas viene sistematicamente rimosso.
• Errore fatale di valutazione del ruolo di Hamas nella sicurezza
La parziale distruzione delle infrastrutture militari di Hamas ha creato quella che dovrebbe essere un'opportunità unica per una fondamentale ristrutturazione della governance. Tuttavia, come dimostra il cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti, Hamas è sopravvissuto come entità organizzativa nonostante il degrado militare, conservando circa il 10-15% del suo arsenale di razzi, mantenendo la sua leadership esterna a Doha e preservando la sua struttura di comando militare sotto Izz al-Din al-Haddad. Il reclutamento di 15.000 nuovi combattenti da parte dell'organizzazione durante la guerra, secondo le valutazioni dell'intelligence statunitense, significa che essa entra in questo periodo di transizione con risorse umane rinnovate e desiderose di dimostrare il proprio impegno alla causa.
L'offerta di amnistia del 13 ottobre da parte del Ministero dell'Interno di Hamas ai membri delle bande che si uniscono alle sue forze di sicurezza rivela la strategia dell'organizzazione per una rapida ricostituzione. Ogni individuo che accetta questa amnistia diventa un agente di Hamas, ampliando la rete di intelligence dell'organizzazione e il controllo territoriale sotto la copertura legittima del mantenimento dell'ordine pubblico. I continui scontri nei quartieri di Sabra e Shuja'iyya tra le forze di Hamas e attori indipendenti dimostrano che Hamas non sta impedendo l'illegalità, ma sta sistematicamente eliminando le alternative alla sua autorità.
La giustificazione del presidente Trump secondo cui “quasi 2 milioni di persone tornano in edifici che sono stati demoliti” richiede una sicurezza immediata diagnostica fondamentalmente in modo errato il problema. Il vuoto di sicurezza esiste proprio perché il controllo totalitario di Hamas ha impedito lo sviluppo di strutture di potere alternative in 18 anni di governo. Colmare questo vuoto con la stessa organizzazione che lo ha creato, anche temporaneamente mentre si negoziano altri elementi strutturali, garantisce il perpetuarsi della patologia sottostante che ha portato al 7 ottobre.
• Capacità comprovata delle forze dei clan
L'attacco di Hamas contro Israele nell'ottobre 2023 ha messo in luce una verità fondamentale sull'architettura sociale di Gaza: il controllo di Hamas ha mascherato, ma non eliminato, le più profonde lealtà tribali. Quando all'inizio del 2024 le forze israeliane hanno offerto opportunità di collaborazione a 12 clan principali, 11 hanno rifiutato non per un impegno ideologico nei confronti di Hamas, ma per un calcolato istinto di autoconservazione di fronte a un futuro incerto. Ciò dimostra sia l'autonomia strategica dei clan sia il loro potenziale come attori razionali in grado di prendere decisioni pragmatiche basate su incentivi mutevoli.
L'emergere di efficaci forze di sicurezza basate sui clan durante il conflitto fornisce una prova concreta della loro capacità. Le Forze Popolari di Yasser Abu Shabab, con 400 combattenti, hanno garantito con successo i corridoi umanitari per sei mesi consecutivi. La forza d'attacco antiterrorismo di Hossam al-Astal ha dimostrato la capacità di ripulire i quartieri dalle cellule di Hamas, mantenendo al contempo la protezione dei civili. Quando l'unità Arrow di Hamas ha tentato di riaffermare il controllo nell'ottobre 2025, i combattenti del clan al-Mujaida, sostenuti dalle forze di al-Astal e dalla copertura aerea israeliana, hanno respinto con successo l'attacco. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante le risorse minime e le continue intimidazioni di Hamas, dimostrando ciò che è possibile fare con un adeguato sostegno.
Il successo ottenuto nel marzo 2025 dalle forze dei clan nel garantire la sicurezza dei convogli del Programma alimentare mondiale verso i magazzini della città di Gaza, ponendo fine a mesi di saccheggi sistematici, dimostra la loro capacità di fornire la sicurezza pratica di cui la popolazione di Gaza ha disperatamente bisogno. A differenza di Hamas, la cui sicurezza è sempre stata al servizio di obiettivi militari, le forze dei clan si concentrano sulla protezione delle attività economiche e delle operazioni umanitarie che vanno a diretto beneficio delle popolazioni che li compongono.
• Fondamenti economici
Il controllo dei clan sull'attività economica di Gaza attraverso reti commerciali consolidate, aziende agricole e relazioni commerciali li posiziona come attori indispensabili nella ricostruzione. I membri della confederazione Tarabin in Gaza, Egitto e Giordania forniscono reti commerciali transfrontaliere essenziali per la ripresa economica. I clan della confederazione Tayaha che controllano i territori orientali offrono competenze agricole fondamentali per la sicurezza alimentare. I membri del clan Barbakh impegnati nel commercio rappresentano una capacità imprenditoriale che nessun comitato tecnocratico potrebbe eguagliare.
Queste reti economiche si sono evolute nel corso di sette secoli di dominio esterno – ottomano, britannico, egiziano, israeliano, dell'Autorità Palestinese e di Hamas – adattandosi a ciascun regime e preservando al contempo le funzioni commerciali fondamentali. A differenza dei movimenti ideologici che subordinano la razionalità economica agli obiettivi politici, i clan operano sulla base di calcoli pragmatici in cui la prosperità prevale sull'ideologia. Quando affluiranno i fondi per la ricostruzione, i leader dei clan daranno la priorità ai progetti che danno lavoro ai loro membri e sviluppano i loro territori, piuttosto che prepararsi al prossimo scontro militare.
La realtà pre-2023, in cui i tunnel controllati dai Dughmush fornivano merci distribuite dalle reti Tarabin, dimostra che gli incentivi economici possono superare le rivalità tradizionali quando esiste un vantaggio reciproco. Questa cooperazione pragmatica, impossibile nel quadro ideologico di Hamas, diventa la base per uno sviluppo economico sostenibile che soddisfa le esigenze dei civili piuttosto che le narrazioni della resistenza.
• Capacità amministrativa
Il periodo 2007-2011 ha dimostrato l'efficacia dell'integrazione delle strutture claniche nella governance formale. L'Amministrazione Generale per gli Affari Clanici di Hamas ha incorporato con successo 608 mukhtar e istituito 41 comitati di riconciliazione che hanno trattato oltre 19.000 controversie fino al 2010. Ciò dimostra che le strutture claniche possono funzionare all'interno di quadri amministrativi moderni se organizzate correttamente. La differenza fondamentale ora sta nell'orientare queste strutture verso una governance costruttiva piuttosto che sostenere le infrastrutture terroristiche.
I 320 mukhtar registrati nel 2011, organizzati attraverso giurisdizioni familiari, tribali e territoriali, mantenevano una conoscenza dettagliata delle affiliazioni politiche, delle attività economiche e delle dinamiche sociali delle loro comunità. Questa capacità di intelligence granulare, sviluppata nel corso di generazioni, supera qualsiasi cosa un comitato tecnocratico esterno potrebbe sviluppare in anni. Il ruolo tradizionale dei mukhtar nella gestione della risoluzione delle controversie ha permesso loro di gestire il 70-90% delle controversie al di fuori dell'infrastruttura dei tribunali formali durante il periodo di transizione.
I precedenti storici sostengono la capacità amministrativa dei clan. L'amministrazione di successo di Sa'id al-Shawwa del Comune di Gaza dal 1906 al 1916 ha combinato l'autorità tradizionale con la governance moderna, costruendo ospedali, scuole e infrastrutture, mantenendo al contempo l'ordine pubblico attraverso le reti dei clan. Le famiglie importanti di Gaza, come gli Abd al-Shafi e i Rayyes, nonostante le perdite subite durante la guerra, mantengono reti di professionisti – medici, avvocati, ingegneri, educatori – che possono ricoprire posizioni tecniche mantenendo la legittimità del clan che i tecnocrati stranieri non potrebbero mai raggiungere.
• Prevenire la frammentazione
I critici avvertono giustamente che dare potere ai clan rischia di creare signori della guerra rivali e di frammentare Gaza in feudi ostili. Questa preoccupazione richiede un impegno serio, ma non dovrebbe paralizzare l'azione quando l'alternativa è la ricostituzione di Hamas. La chiave sta nella creazione di meccanismi istituzionali che incanalino la competizione tra clan in modo costruttivo, prevenendo al contempo una frammentazione distruttiva.
Il quadro dovrebbe imporre operazioni congiunte dei clan per tutte le principali iniziative di sicurezza e ricostruzione, impedendo a qualsiasi singolo clan di raggiungere il dominio. Le famiglie più importanti, tra cui Astal, Sikik e Abu Warda a Khan Yunis, devono collaborare all'amministrazione della provincia. I vari territori dei clan della città di Gaza richiedono una gestione coordinata. Questa cooperazione forzata, inizialmente mantenuta attraverso la supervisione militare israeliana, crea abitudini di collaborazione che persisteranno anche con la diminuzione della supervisione esterna.
L'integrazione economica fornisce il baluardo più forte contro la frammentazione. Ogni progetto di ricostruzione dovrebbe richiedere lavoratori provenienti da più territori dei clan. Le catene di approvvigionamento devono deliberatamente attraversare i confini tradizionali, mentre le licenze commerciali dovrebbero imporre partnership multi-clan. L'entità del budget per la ricostruzione, che probabilmente supererà i 50 miliardi di dollari, fornisce risorse sufficienti per rendere la cooperazione più redditizia del conflitto. La Palestine Scholars' League di Hamas ha dimostrato come i quadri istituzionali possano incanalare le energie competitive, passando da 20 membri che hanno trattato 1.000 casi nel 2004 a 500 membri che hanno trattato 13.408 casi nel 2010.
L'esercito israeliano, in qualità di attuale garante della sicurezza, deve mantenere un chiaro controllo gerarchico durante il periodo di transizione. Le milizie dei clan operano sotto la supervisione israeliana, impedendo azioni autonome e sviluppando al contempo capacità di coordinamento. Questo accordo temporaneo, sebbene imperfetto, fornisce la stabilità necessaria per lo sviluppo istituzionale, impedendo al contempo sia la ricostituzione di Hamas che la guerra tra clan.
• Il fallimento dei modelli alternativi
L'inadeguatezza complessiva dell'Autorità Palestinese la rende irrilevante per le esigenze immediate di Gaza. Le sue forze di sicurezza non sono riuscite a impedire il colpo di Stato di Hamas del 2007, nonostante l'addestramento e le attrezzature internazionali. Il suo apparato amministrativo rimane profondamente corrotto, con gli aiuti internazionali regolarmente dirottati verso l'arricchimento personale piuttosto che verso il servizio pubblico. Il presidente Abbas, 89 anni e al 20° anno del suo mandato quadriennale, non gode di alcuna legittimità a Gaza.
Un'amministrazione internazionale senza partner locali richiederebbe un massiccio dispiegamento militare che nessun paese è disposto a fornire. Il comitato tecnocratico previsto dal piano Trump, sebbene teoricamente allettante, manca della capacità di applicazione senza forze armate fedeli alla sua autorità. I tecnocrati possono fornire consulenza e pianificare, ma non possono imporre il rispetto delle regole a una popolazione che li considera imposizioni straniere prive di autorità legittima.
L'esperienza israeliana con le Leghe dei Villaggi negli anni '80 fallì perché tentò di creare strutture di leadership artificiali invece di lavorare con le organizzazioni sociali esistenti. L'opportunità attuale è fondamentalmente diversa: ai clan non viene chiesto di collaborare contro un movimento di resistenza popolare, ma di sostituire un'organizzazione terroristica che ha portato una distruzione senza precedenti su Gaza. Questa distinzione cambia sia i calcoli morali che quelli pratici che i leader dei clan devono fare.
• Il periodo di transizione
L'attuale periodo, mentre i restanti 19 punti del quadro sono in fase di negoziazione, rappresenta la massima vulnerabilità per la ricostituzione di Hamas. L'organizzazione sfrutterà il suo ruolo temporaneo di sicurezza per ricostruire le capacità che hanno richiesto due anni di guerra per essere degradate. Il successo richiede il riconoscimento che l'eliminazione di Hamas è un processo graduale che richiede una pressione costante piuttosto che un accomodamento prematuro che ne consenta la ricostituzione.
Le operazioni militari israeliane devono continuare a prendere di mira le infrastrutture e la leadership di Hamas, nonostante le restrizioni del cessate il fuoco. Anche se le operazioni su larga scala sono cessate, devono continuare gli attacchi mirati contro i comandanti di Hamas che organizzano le forze di sicurezza, gli specialisti delle armi che ricostruiscono le capacità e gli operatori politici che ristabiliscono le reti di governance. Il messaggio deve essere inequivocabile: i membri di Hamas che conducono operazioni di “sicurezza” rimangono obiettivi militari legittimi, indipendentemente dalle dichiarazioni americane di approvazione temporanea.
Le forze dei clan richiedono un immediato rafforzamento delle capacità, anche se Hamas conduce operazioni di sicurezza parallele. I consiglieri militari israeliani dovrebbero integrarsi con le milizie dei clan, fornendo addestramento, intelligence e supporto alla pianificazione operativa. È necessario fornire immediatamente attrezzature di comunicazione, veicoli e armi difensive. È fondamentale che i pagamenti regolari degli stipendi ai combattenti dei clan superino qualsiasi offerta di Hamas, creando incentivi economici per la lealtà dei clan che persistano indipendentemente dagli sviluppi politici.
L'84% dei gazawi che si fida del diritto consuetudinario piuttosto che dei tribunali formali dimostra una profonda preferenza per le strutture autoritarie familiari rispetto alle imposizioni straniere. Questa realtà sociale significa che il governo dei clan gode di una legittimità intrinseca che né l'estremismo di Hamas né la tecnocrazia internazionale possono eguagliare. Il processo di riconciliazione sulha, con le sue procedure consolidate per i negoziati di tregua, gli accordi di risarcimento e la responsabilità pubblica, fornisce meccanismi di risoluzione dei conflitti che mantengono la coesione sociale affrontando al contempo le rivendicazioni.
• La via da seguire
L'obiettivo a lungo termine di eliminare completamente Hamas da Gaza rimane realizzabile nonostante le attuali battute d'arresto, ma richiede disciplina strategica e un'attuazione metodica nel corso di anni piuttosto che di mesi. Il ruolo temporaneo di Hamas in materia di sicurezza, sebbene profondamente problematico, non deve necessariamente diventare permanente se durante il periodo di attuazione del quadro vengono sviluppate con attenzione alternative claniche. La chiave sta nel riconoscere che la rimozione di Hamas è un processo che richiede una pressione costante su tutti i fronti: militare, economico, politico e sociale.
La priorità immediata deve essere quella di impedire a Hamas di tradurre il suo ruolo di sicurezza in un'autorità permanente. Ogni giorno che Hamas gestisce posti di blocco e pattuglia le strade, ricostruisce la legittimità che due anni di guerra avrebbero dovuto distruggere. I negoziati quadro devono stabilire scadenze chiare e applicabili per il trasferimento delle responsabilità di sicurezza da Hamas alle strutture dei clan, con parametri di riferimento specifici e conseguenze in caso di mancato rispetto. Il linguaggio vago sui “periodi di transizione” fornisce ad Hamas l'ambiguità di cui ha bisogno per trasformare un accomodamento tattico in una vittoria strategica.
L'architettura clanica di Gaza rappresenta l'unica alternativa palestinese praticabile in grado di fornire sicurezza immediata, capacità amministrativa e gestione economica senza estremismo ideologico. Le loro profonde radici nel tessuto sociale di Gaza, la comprovata capacità operativa durante il conflitto e l'orientamento pragmatico verso la prosperità piuttosto che verso la resistenza perpetua li rendono partner indispensabili per impedire la rinascita di Hamas. La comunità internazionale deve superare il suo disagio nei confronti delle strutture di autorità tradizionali e riconoscere che, nella realtà attuale di Gaza, la scelta non è tra soluzioni ideali e compromessi, ma tra sfide gestibili con il governo dei clan e una catastrofe garantita con la ricostituzione di Hamas.
Il costo del fallimento va oltre i confini di Gaza. Se Hamas riuscirà a trasformare il suo ruolo di sicurezza temporaneo in autorità permanente, il precedente convaliderà il terrorismo come strategia di successo a lungo termine per qualsiasi organizzazione in grado di sopravvivere alla pressione militare. Il successo del quadro richiede il riconoscimento che la pace a Gaza non sarà costruita con i partner che vorremmo esistessero, ma con le strutture tradizionali che comandano lealtà, controllano il territorio e possiedono l'orientamento pragmatico necessario per scegliere la prosperità piuttosto che il conflitto perpetuo. I clan offrono questa strada, se la comunità internazionale dimostrerà la pazienza strategica e la chiarezza morale necessarie per dare loro potere, eliminando sistematicamente l'organizzazione terroristica che non ha portato altro che distruzione alla popolazione di Gaza, da tempo martoriata.
(Middle East Forum, 15 ottobre 2025)
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Che cosè il sionismo?
Il sionismo è il movimento storico che Dio ha usato per riportare al centro dell'attenzione mondiale il fatto che, per sua esplicita volontà, il popolo ebraico costituisce una nazione che ha ricevuto da Lui un compito unico. L'attuale Stato d'Israele, fondato sulla terra che biblicamente e storicamente appartiene alla nazione ebraica, non è il regno messianico promesso a Davide ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo. Dichiararsi sionisti significa dunque, come cristiani, riconoscere questa volontà e proclamarla pubblicamente prendendo posizione a favore di Israele. Non si tratta di approvare e sottoscrivere tutte le decisioni che il governo israeliano prende, ma di ribadire che su quella terra lo Stato d'Israele non ha soltanto una presenza di fatto come "entità aliena", ma ha un'esistenza di diritto che non ha bisogno di essere continuamente confermata dalla benevolenza delle altre nazioni. Opporsi a questo significa essere antisionisti, e essere antisionisti in questo senso significa prepararsi a diventare, nel migliore dei casi, antisemiti passivi.
Molti dicono di "non avere niente contro gli ebrei", però sono capaci di fare lunghi elenchi delle cose brutte che fanno. Non si tratterebbe, a sentir loro, di malevola ostilità preconcetta, ma di pura e semplice realtà di fatto. Sono i fatti compiuti dagli ebrei quelli che renderebbero difficile la loro la vita in seno ai popoli; e sono i fatti compiuti dal governo israeliano quelli che renderebbero precaria la posizione dello Stato d'Israele in seno alla comunità internazionale, mettendo in forse la sua esistenza come nazione.
Ma nessun fatto che possa accadere nel mondo, e neppure nessuna azione che possano compiere gli ebrei, potrà provocare la scomparsa dalla terra della nazione ebraica. I cristiani non dovrebbero aver bisogno di acute analisi politiche per esserne certi, perché sta scritto:
"Così parla il Signore, che ha dato il sole come luce del giorno e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare in modo che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: il Signore degli eserciti. «Se quelle leggi verranno a mancare davanti a me», dice il Signore, «allora anche la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza». Così parla il Signore: «Se i cieli di sopra possono essere misurati e le fondamenta della terra di sotto, scandagliate, allora anch'io rigetterò tutta la discendenza d'Israele per tutto quello che essi hanno fatto», dice il Signore" (Geremia 31:35-37).
In questo passo è contenuta una frase che suonerebbe come musica alle orecchie di molti antisemiti. Sta scritto infatti che "... la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza". Ma sono specificate anche le condizioni: questo avverrà quando il sole non sarà più la "luce del giorno" e verranno a mancare "le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte". Si tratta quindi soltanto di aspettare un po'.
E se gli uomini, stanchi di tutto quello che gli ebrei hanno fatto e continuano a fare in mezzo alle nazioni, vorrebbero farla finita una volta per tutte con questa storia del "popolo eletto", il Signore si dichiara disposto ad accontentarli invitandoli a misurare "i cieli di sopra" e a scandagliare "le fondamenta della terra di sotto". Quando questa ricerca scientifica sarà portata pienamente a compimento, in modo che null'altro si possa aggiungere, allora anche il Signore si dichiarerà stanco di tutto quello che gli ebrei hanno fatto e li rigetterà.
Fino a quel momento, si può essere certi che la discendenza d'Israele continuerà ad essere una nazione alla presenza del Signore.
E Israele non sparirà.
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Ostaggi di Hamas
“Noi palestinesi dobbiamo liberarci dell’islam radicale”. Parla Husseini, esule in Francia
di Giulio Meotti
ROMA - . “Una parte significativa della popolazione palestinese anela alla sicurezza, alla dignità e alla possibilità di vivere normalmente, richieste che non possono essere soddisfatte attraverso la mera retorica o il mantenimento delle attuali strutture politiche”. Parla così al Foglio Waleed al Husseini, che ha trascorso dieci mesi in una prigione palestinese per “blasfemia”. “Bruciatelo vivo!”, urlavano i commentatori di Ramallah e Gaza. Un palestinese perseguitato per le proprie idee non sotto Hamas, ma sotto il potere statale in Cisgiordania. Quello “moderato” di Abu Mazen. Questo blogger viveva a Qalqilya, in Cisgiordania. E’ stato arrestato mentre si trovava in un internet café della sua città. L’“apostata” che si prende gioco dell’islam. Da allora, al Husseini è andato a vivere in Francia dopo una mobilitazione che gli ha salvato la vita. Questa è la prima volta che parla dopo il massacro terroristico del 7 ottobre. “Sono rimasto in silenzio perché la mia famiglia è ancora in Cisgiordania e, in questo clima di totale insicurezza, ogni mia parola avrebbe potuto mettere in pericolo la loro vita. Il pericolo per loro non proviene solo da Hamas: anche l’Autorità palestinese costituisce una vera e propria fonte di minaccia, con il suo autoritarismo e la sua logica di tutela degli interessi privati”.
• “Nonostante guerra e distruzione, Hamas è ancora popolare”
Husseini non crede che Hamas lascerà il potere a Gaza. “Non di sua spontanea volontà. Nonostante l’indebolimento militare e l’assassinio di molti suoi leader, la base popolare del movimento non è del tutto scomparsa. A Gaza, Hamas ha formato un’intera generazione e costruito una rete di istituzioni che credono ancora nel suo progetto e nella sua legittimità. Lo scenario di una partenza immediata e ordinata di Hamas è irrealistico. Anche dopo considerevoli perdite umane e materiali, il movimento mantiene una solida struttura istituzionale e di sicurezza, ancorata a un complesso contesto locale e regionale. I sondaggi indicano che il suo sostegno rimane più forte a Gaza che in Cisgiordania, sebbene abbia recentemente subìto oscillazioni, in particolare a causa del deterioramento della situazione umanitaria e delle pressioni politiche”.
• "Il 7 ottobre va inserito nella prospettiva del jihad"
“La scelta di Hamas di chiamare la sua operazione ‘diluvio di al Aqsa’ dimostra chiaramente la dimensione religiosa del 7 ottobre. Usando il nome al Aqsa, il movimento cerca di attivare la carica emotiva del sacro nella coscienza musulmana. Per loro, si tratta di jihad, nel senso religioso del termine: un dovere individuale, un fard ‘ayn, che i militanti compiono in nome della comunità musulmana per ‘liberare’ Gerusalemme. Ma deve essere chiaro: questa idea di jihad non è un concetto spirituale o simbolico, è una nozione guerriera, radicata nella tradizione islamica e utilizzata per secoli per giustificare la violenza in nome della fede. Hamas sta semplicemente ripetendo questa narrazione letterale, aggiungendo una dimensione politica moderna. Il risultato è una giustificazione religiosa per un atto di guerra, dove la religione non eleva l’uomo, ma serve a santificare la morte e lo scontro”.
• "Noi occidentali pensiamo ai palestinesi come un monolite“
Ciò che molti occidentali continuano a ignorare è la complessità interna del mondo palestinese: non può essere ridotto a un’unica autorità o a un’unica narrazione politica. Una parte significativa della popolazione anela soprattutto alla sicurezza, alla dignità e alla possibilità di vivere normalmente, richieste che non possono essere soddisfatte attraverso la mera retorica o il mantenimento delle attuali strutture politiche. Dobbiamo anche riconoscere un’altra realtà, spesso trascurata: l’incapacità delle élite, compresi settori dell’Autorità nazionale palestinese, di soddisfare le aspettative quotidiane della popolazione. Per alcuni osservatori – e per me – questo legittima la ricerca di soluzioni transitorie alternative, a condizione che rispettino i diritti fondamentali e vietino qualsiasi forma di sfollamento forzato. Finché l’analisi occidentale si limiterà a schemi geopolitici senza tenere conto delle dinamiche sociali e morali, rimarrà parziale”.
• "Non aiutano le flotille"
“Credo che persino gli organizzatori sapessero che non avrebbero mai raggiunto Gaza. Non voglio accusarli, ma è chiaro che cercavano principalmente di riconquistare la ribalta. Dire che volevano ‘attirare l’attenzione su Gaza’ è inutile, visto che tutto il mondo ne stava già parlando. In altre parole, sono salpati principalmente per cavalcare l’onda dell’interesse”.
L’Europa e l’appeasement Islam radicale e islamizzazione costituiscono un ostacolo immenso. “L’islam radicale è un ostacolo importante per i palestinesi che aspirano a vivere con dignità. Troppo spesso si trovano costretti a sottomettersi a slogan religiosi e discorsi ideologici, invece di poter esercitare liberamente i propri pensieri e le proprie scelte. La mobilitazione costante, che si tratti di moschee, media o televisione, trasforma la vita quotidiana in un’arena di propaganda, limitando l’autonomia personale. Questi meccanismi non liberano la popolazione; al contrario, mantengono una dipendenza ideologica che impedisce loro di costruire un’esistenza veramente dignitosa e autonoma”.
• "Husseini non è molto ottimista“
Se la situazione rimane così com’è, una nuova guerra è probabile. Il futuro di Israele e dei palestinesi rimane estremamente incerto finché le politiche regionali e internazionali favoriranno soluzioni parziali o simboliche. Il problema non è solo esterno; deriva da dinamiche interne. L’Autorità nazionale palestinese sfrutta la nozione di nazionalità e si presenta come rappresentante del popolo, mentre essenzialmente difende gli interessi di una piccola élite beneficiaria; da parte sua, Hamas strumentalizza la religione per fini politici. Da parte mia, sono convinto che dobbiamo rompere con il dominio di queste rare élite politiche e religiose – una minoranza con una ‘voce forte’ che monopolizza il discorso pubblico – e sostituirle con meccanismi di responsabilità, trasparenza e reale rappresentanza, attraverso mezzi pacifici, legali e democratici. Senza una profonda riforma che ponga la dignità, la libertà e la responsabilità della popolazione al centro del progetto politico, il ciclo di violenza continuerà a ripetersi”.
• "Husseini critica anche l’Europa"
“Non deve accontentarsi dell’appeasement: deve avere una visione d’insieme e proporre una chiara alternativa politica; altrimenti, continuerà a essere percepita come incoerente e politicamente impotente”. E l’occidente è condannato a lungo termine. “Se parliamo della corrente islamica che si sta sviluppando in Europa, è chiaro che continua a crescere e a influenzare profondamente la società. A ciò si aggiungono crescenti tensioni interne: culturali, sociali e demografiche. L’Europa rischia quindi di essere logorata dall’interno e, a lungo termine, la sua sopravvivenza come civiltà strutturata potrebbe essere minacciata”.
Il Foglio, 15 ottobre 2025)
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"Guai ai figli ribelli"
- “Guai ai figli ribelli”, dice l'Eterno, “che formano dei disegni, ma senza di me, che contraggono alleanze, ma senza il mio Spirito, per accumulare peccato su peccato;
- che vanno giù in Egitto senza aver consultato la mia bocca, per rifugiarsi sotto la protezione del Faraone e cercare riparo all'ombra dell'Egitto!
- Ma la protezione del Faraone vi tornerà a confusione, e il riparo all'ombra dell'Egitto a vergogna.
- I prìncipi di Giuda sono già a Soan, e i suoi ambasciatori sono già arrivati ad Anes;
- ma tutti saranno delusi di un popolo che non giova loro nulla, che non porta né aiuto né vantaggio, ma è la loro infamia e la loro vergogna.
- È pronto il carico delle bestie per il mezzogiorno; attraverso un paese di avversità e di angoscia, da cui vengono la leonessa e il leone, la vipera e il drago volante, essi portano le loro ricchezze sul dorso degli asinelli e i loro tesori sulla gobba dei cammelli, a un popolo che non gioverà loro nulla.
- Poiché il soccorso dell'Egitto è un soffio, una vanità; per questo io chiamo quel paese: 'Gran rumore per nulla'.
(Isaia, cap. 30)
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Il sionismo durante e dopo la prima guerra mondiale
In un momento storico in cui sembrano prevalere euforie e immaginazioni disancorate dalla realtà, accenniamo ai due fondamentali riferimenti su cui si ancora la presenza passata presente e futura di Israele: Bibbia e storia. Dopo l'accenno biblico riportato sopra, proponiamo la rilettura di un articolo già presente da tempo sul nostro sito, estratto dall'Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Sionismo”. Risale a un periodo che va tra il 1936 e il 1938, ed è interessante leggere come l’argomento sia stato trattato in un tempo e sotto un regime in cui il filosionismo non era certamente molto diffuso. Tra l’altro, il testo conferma, ancora una volta, che la nascita dello Stato ebraico non è stata una conseguenza della Shoah.
Il risalto in colore è stato aggiunto.
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Carta della Palestina degli anni '30. E'
evidente che con questo nome s'intendeva
anche la zona
a est del Giordano |
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Nel periodo della guerra mondiale l'attività sionistica pratica dovette naturalmente subire un arresto; d'altro canto si iniziarono quelle trattative col governo inglese che condussero prima (agosto 1917) alla formazione della Legione ebraica, che poi partecipò accanto alle milizie degli alleati a varie battaglie in Palestina, e quindi alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), preparata da un'intensa attività esercitata specialmente da Hayyim Weizmann che aveva, durante la guerra, reso segnalati servigi all'Inghilterra, e dai suoi collaboratori. In tale dichiarazione Arthur James Balfour, ministro inglese degli Esteri, affermava che il governo inglese intendeva favorire la creazione e lo sviluppo in Palestina di una sede nazionale (national home, «focolare nazionale») per il popolo ebraico, salvi restando i diritti dei non Ebrei in Palestina e quelli degli Ebrei nei vari paesi. Dichiarazioni analoghe fecero in seguito gli altri governi alleati (l'Italia il 9 maggio 1918).
Prima ancora che la guerra finisse, una commissione sionistica, accompagnata da un rappresentante del governo inglese, si recava in Palestina per gli studi preliminari. Il 24 luglio dello stesso anno veniva posta la prima pietra dell' università ebraica sul Monte Scopo presso Gerusalemme. Terminata la guerra, il sionismo agì attivamente per ottenere l'effettiva costituzione della sede nazionale ebraica. Il 24 aprile. 1920 il consiglio delle Potenze decideva, a Sanremo, che la dichiarazione Balfour fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Il 1o luglio dello stesso anno veniva insediato, quale alto commissario della Palestina, sir Herbert Samuel, ebreo. Il trattato di Sèvres, stipulato con la Turchia il 10 agosto, comprendeva la clausola della sede nazionale ebraica.
L'elaborazione del testo del mandato fu lunga e difficile. Un movimento, condotto da capi arabi, tendeva a impedire che la sede nazionale venisse costituita: l'opposizione araba ebbe anche episodi di violenza.
 II testo del mandato, approvato a Londra il 24 luglio 1922 dal Consiglio della Società delle nazioni, ripete il contenuto della dichiarazione Balfour; stabilisce, fra l'altro, per la potenza mandataria l'obbligo di mettere il paese in condizioni tali da assicurare l'adempimento delle clausole della dichiarazione stessa; costituisce una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, per cooperare con l'amministrazione inglese della Palestina in tutto quanto riguarda la creazione della sede nazionale ebraica, con l'obbligo all'amministrazione del paese di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando a che non sia recata offesa o danno alle altre parti della popolazione. La potenza mandataria deve assumere la responsabilità dei Luoghi Santi; come lingue ufficiali della Palestina vengono stabilite l'inglese, l'arabo e l'ebraico; come giorni di riposo per i membri delle varie comunità i giorni festivi di ciascuna di esse.
 Il lavoro ebraico intanto proseguiva non senza gravi difficoltà nel campo politico e in quello pratico. Gl'immigrati, provenienti parte non piccola dalla borghesia e dalla classe intellettuale dell'Europa orientale, si adattarono mirabilmente alle esigenze della vita agricola e del lavoro materiale: le vecchie colonie erano in incremento e nuove se ne fondarono. Tra le regioni bonificate e colonizzate nei primi anni dopo la guerra è particolarmente notevole la vallata di Esdrelon. Il 1o aprile 1925 veniva inaugurata l'università ebraica sul Monte Scopo. Da segnalarsi è l'attività del Qeren ha-yesod (fondo di costruzione) istituito nel 1920 con lo scopo di raccogliere 25 milioni di sterline per mezzo di un'imposta straordinaria a cui veniva invitato ad assoggettarsi ogni singolo ebreo mediante prelevamento di un decimo del suo capitale o del suo reddito annuo. Nei primi quindici anni di vita, e cioè fino al giugno 1935, questa istituzione ha raccolto ed erogato oltre 5 milioni di sterline. In politica prevalsero le tendenze moderate e concilianti del Weizmann, il quale, mentre sosteneva il principio della necessità della collaborazione con l'elemento arabo, favoriva l'allargamento della Jewish Agency, nella quale entrarono anche elementi non sionisti in senso stretto, rappresentanti delle varie istituzioni della diaspora, sì da fare di quella come una rappresentanza generale del popolo ebraico; tendenze contrarie avevano, e hanno tuttora, i «revisionisti», capitanati da Vladimiro Jabotinski, i quali ritengono che solo con la prossima creazione di uno stato ebraico in Palestina si possa risolvere il problema ebraico, mentre i seguaci del Weizmann, detti «sionisti generali», pensano piuttosto a una collettività palestinese binazionale, ebraica e araba.
 Allo sviluppo agricolo, segnato dalla fondazione di nuove colonie (alcune delle quali a sistema cooperativo) nelle varie parti della regione, e a quello urbano, rappresentato, oltreché dalla città di Téll Abib (Tel Aviv), popolata ora da oltre 100 mila abitanti (2000 nel 1914), dalla costruzione di nuovi quartieri ebraici a Gerusalemme e a Haifa (la quale ultima città è fornita di un ottimo porto, inaugurato nel 1933) si è aggiunto recentemente quello industriale, segnato particolarmente dall'attività della società elettrica Ruthenberg e di imprese per l'estrazione del potassio dal Mar Morto. La questione araba, sempre aperta, ebbe alcuni episodi sanguinosi, specialmente nel 1929, in cui parecchi centri ebraici furono improvvisamente assaliti dagli Arabi, contemporaneamente quasi alla prima riunione del consiglio della Jewish Agency. In seguito a tali avvenimenti, vennero inviate dal governo inglese delle commissioni per l'accertamento dei fatti. Alcune affermazioni contenute nelle relazioni, che sembravano dare interpretazioni assai restrittive alle clausole del mandato relative all'immigrazione ebraica, suscitarono malcontento e proteste da parte dei sionisti: il Weizmann, alla fine del XVI congresso, che in quell'anno ebbe luogo a Zurigo, si ritirò dalla presidenza dell'organizzazione sionistica e della Jewish Agency; in seguito al XVII congresso (Basilea 1931) la presidenza fu assunta da Nahum Sokolow che la tenne fino a che, nel XIX congresso (Lucerna, agosto-settembre 1935), essa fu ripresa dal Weizmann.
 Negli ultimi anni l'immigrazione ebraica, per quanto contenuta entro angusti limiti dalla potenza mandataria, raggiunse cifre assai elevate: un forte contingente le fu dato dall'emigrazione dalla Germania, in conseguenza delle leggi ostili ai «non ariani», ossia agli ebrei.
 L'istruzione e l'educazione sono impartite in circa 300 scuole di vario grado, con una popolazione scolastica complessiva di circa 30.000 alunni, poste sotto la sorveglianza dell'organizzazione sionistica. L'università ebraica, con annessi vari istituti scientifici, è in continuo incremento; con l'inizio dell'anno scolastico 1935-36 sono state costituite le facoltà di matematica e scienze naturali. Essa ha presso di sé la Biblioteca Nazionale che possiede attualmente oltre 300 mila volumi. Anche le arti (musica, pittura) e le lettere sono in piena efficienza: nell'anno ebraico 5696 (settembre 1934-settembre 1935) sono stati pubblicati in Palestina circa 500 libri ebraici. La popolazione ebraica della Palestina è di oltre 300 mila anime, che costituiscono il 25% della popolazione totale.
(Enciclopedia Italiana Treccani, Vol. XXXI, pag. 865)
«Trumpeldor e altri eroi»
Riportiamo il primo capitolo del libro “Leone di Pietra - Leone di Giuda” di Giacobbe Damkani, ebreo nato in Israele da una famiglia sefardita proveniente dalla Persia.
Qiryat Shemona, una cittadina ai piedi delle alture del Golan, non lontano dal confine con il Libano. In quel Giorno della Memoria del 1964 la bandiera israeliana era issata a mezz’asta. Noi scolari stavamo tutti in fila, in lunghe file diritte, e i nostri occhi erano puntati sul vessillo dello Stato ebraico. Oggi non ricordo più i tanti, solenni discorsi che ci venivano rivolti dal Direttore e dagli alunni delle classi superiori nelle feste di commemorazione. Parlavano in modo austero e commovente delle terribili atrocità commesse dai criminali nazisti contro gli ebrei in un lontano paese chiamato Germania.
Quand’è che di preciso è scoppiata la seconda guerra mondiale? Dieci anni fa? Duemila anni fa? Chi lo sapeva! In fin dei conti, nella storia del popolo ebraico ci sono infiniti racconti di simili delitti. Ogni festa nazionale e religiosa rinnova il ricordo di nemici che in ogni generazione si sono avventati contro di noi per annientarci. Ma il Dio Santo, che sia lodato, ci ha sempre liberati dalle loro mani. Nella coscienza di un dodicenne tutte queste storie si mescolavano insieme in un groviglio di persecuzioni, inimicizie, malvagi decreti, odio verso gli ebrei. Alla Chanukkà avevamo i Greci, al Purim i Persiani, alla Pésach gli Egiziani, al Lag Ba-Omer i Romani e al Giorno dell’Indipendenza gli arabi. Come faceva un bambino a distinguere fra tutti i nemici che c’erano stati nelle varie generazioni, nei secoli e nei millenni della nostra storia?
Ma una frase che veniva detta in quelle occasioni mi è rimasta impressa fino ad oggi: «Non dimenticheremo mai e non perdoneremo mai!» Ricordo anche le pesanti atmosfere di lutto e l’urlo delle sirene, che a me sembrava come il grido di dolore di una madre sul suo bambino morto. Con il canto dell’inno nazionale Hatikvà terminava la commemorazione.
Tentavo seriamente di immaginare quello che effettivamente era successo nella Germania nazista e speravo di riuscire a cogliere almeno una piccola goccia dal mare di morte dei campi di sterminio e delle camere a gas. Ma non ci riuscivo. Non riuscivo a far vivere nella memoria quello che era morto e sepolto in terra straniera. Restavo lì, immobile, in fila con gli altri scolari nell’enorme cortile della scuola. I miei occhi osservavano la bandiera israeliana che sventolava a mezz’asta nella brezza mattutina della Galilea. La familiare melodia dell’inno nazionale mi riempiva il cuore della fierezza di essere un cittadino d'Israele. L’amore per la patria e la prontezza ad impegnarmi in ogni momento per la sua difesa m’inondavano il cuore.
Un giorno comparve davanti alla nostra casa un gigantesco bulldozer. A quel tempo abitavamo in una strada all’estremo nord di Qiryat Shemona, molto vicino al confine con il Libano. Le capre, le oche e i polli che scorrazzavano liberamente nel cortile scapparono davanti al rumoroso veicolo. Io osservavo il bulldozer mentre scavava un profondo fosso nel terreno. I miei pensieri andarono alle fosse maledette dell’Europa, riempite di corpi di uomini e donne, di vecchi e giovani del nostro popolo. «Nessuno scaverà mai più fosse come queste nel nostro paese!» giurai a me stesso.
Ma quel fosso, come tutti gli altri che venivano scavati allora in città, serviva a tutt’altro scopo. Lo rivestirono di tavole di legno e misero al suo interno un reticolato di ferro su cui versarono del cemento. Alla fine venne fuori un rifugio antiaereo. Sulla terra nera che lo ricopriva piantarono degli anemoni rossi e blu. Ai miei occhi rappresentavano il sangue degli ebrei che erano stati colpiti - e ancora adesso sono colpiti - dai razzi katjusha provenienti dal Libano.
Stavo lì, osservavo il rifugio antiaereo appena costruito e pensavo: «I nostri nemici non hanno mai fatto mistero del loro odio verso di noi. Se e quando scoppierà un’altra guerra, noi di Qiryat Shemona saremo i primi ad essere colpiti dai loro attacchi. L’urlo delle sirene ci farà scappare nei bunker come conigli spaventati. Correrò anch’io e andrò a nascondermi? Scapperò anch’io?»
«No, mai!» giurai solennemente a me stesso, «io restituirò i colpi! Non permetterò mai che questi gentili ci procurino ancora sofferenze! Buon Dio, perché mai hai creato i gentili? Non potevi farli tutti ebrei? Non sarebbe stato interessante vedere come veniva il mondo se tutti gli abitanti fossero stati ebrei?»
Gli Shabbat familiari e le altre feste erano qualcosa di speciale per la mia famiglia. Dopo la funzione del mattino nella sinagoga ci raccoglievamo tutti intorno alla lunga tavola imbandita a festa che mia madre e le mie sorelle avevano apparecchiato. Dopo aver recitato il kiddush su yayin e challà, in questa atmosfera benedetta mangiavamo il pranzo tradizionale: patate al forno, barbabietole rosse e uova sode che avevano bollito tutta la notte fino a prendere un colore scuro. E sopra ci bevevamo un indimenticabile tè dolce e forte. C’erano inoltre pezzi di melanzane al forno, zucche e qualche volta pesce in salsa rossa. Dopo pranzo, mentre mio padre andava a farsi il consueto sonnellino dello Shabbat e mia madre si inquietava per tutto e con tutti, io mi facevo la mia passeggiata pomeridiana sulle colline circostanti. Coglievo fiori, osservavo le farfalle, mangiavo lamponi, fichi e melagrane selvatiche che crescevano spontaneamente nella zona. Mi rinfrescavo nell’acqua fresca del fiume e gustavo l’aria saporita della Galilea settentrionale.
Sopra Qiryat Shemona si trova Tel Hai con le tombe degli eroi caduti. Lì andavo a visitare il mio amico Trumpeldor. Le sensazioni e gli odori che avvertivo in quei primi giorni di primavera sulla strada per Tel Hai mi tornano alla memoria come se fosse ieri. Giganteschi eucalipti adombravano la strada d’asfalto che saliva ripida e piena di curve. I bambini del vicino kibbuz scendevano lungo la strada sui loro carri tirati da un mulo dalle lunghe orecchie nere. Sento ancora il peso della cesta con le olive da conservare che portavo a casa per la mamma.
Una quantità di pensieri e di sentimenti m’assaliva mentre m’inerpicavo su questa collina “gravida di sangue”. Entravo nell’area del cimitero militare di Tel Hai a capo chino e con profondo rispetto. I morti, le cui grida sembravano essere inghiottite dalla terra, erano per me un modello di patriottismo e un esempio di amore per la patria. Mi venivano in mente le leggendarie ultime parole di Yosef Trumpeldor: «E’ bello morire per la patria!» Aveva pronunciato quelle parole non come il “leone ruggente” scolpito nella statua di pietra che troneggia sulla sua tomba; le aveva sussurate in un ultimo sospiro sul letto di morte. Quel sussurro era già nel suo cuore quando con le sue proprie mani portò l’aratro sui campi di Tel Hai. E risuona ed echeggia ancora oggi nel profondo dell’anima di ogni ebreo...
Otto eroi erano caduti lì, e per questo la città venne chiamata in loro onore Qiryat Shemona. «Vivo io oggi perché il loro sangue è stato versato? Se questi otto eroi di Tel Hai non fossero stati offerti sull’altare della rinascita nazionale, non sarei forse nato e cresciuto in territorio straniero?»
Ogni visita a Tel Hai risvegliava in me profondi pensieri e molte domande senza risposta: «Come si starà a vivere da ebreo in mezzo a gentili antisemiti? Perché il popolo ebraico della diaspora è stato così tanto perseguitato? Per quale motivo i miei antenati hanno dovuto lasciare la loro patria? Perché per tanti anni sono stati esiliati dalla loro terra e poi hanno potuto di nuovo ritornare nel loro paese?»
I nostri Rabbi insegnavano che nel suo primo esilio il nostro popolo dovette restare lontano dalla patria 70 anni per i peccati di idolatria, lussuria e spargimento di sangue. Negli ultimi 2000 anni invece siamo stati scacciati dalla nostra terra per un “odio immotivato” . «E’ vero questo? Quanti giorni, settimane e mesi ci sono in 2000 anni? Contro chi si è scagliato questo odio immotivato? Perché non siamo tornati prima per conquistare il deserto, far fiorire i luoghi selvatici, far rivivere i terreni improduttivi? Perché non siamo venuti prima a bonificare le paludi malariche della valle di Hula?
Siamo stati dispersi fra tutti i popoli pagani e la terra che Dio ci ha dato è diventata una dimora di sciacalli. Perché Dio ha deciso di farci tornare proprio adesso?
Comincia a realizzarsi qui ed ora, sotto i nostri occhi, la redenzione d'Israele? Siamo davvero “l’ultima generazione della schiavitù e la prima generazione della salvezza?” Siamo forse più buoni e più santi dei nostri predecessori? In che modo abbiamo meritato il privilegio di essere “l’inizio della salvezza”? Perché appartengo a questa generazione?
Perché proprio io? Di tutte le persone, perché proprio io? Perché possiamo finalmente vivere in un paese che fino ad oggi è stato considerato “un paese che divora i suoi abitanti” ? E’ Dio o è il paese che ci ha detestato e vomitato? Esiste sulla terra qualche altro popolo che per due volte è stato esiliato dalla sua patria e poi è ritornato per far rivivere lo spirito e la lingua del popolo? A chi spetta l’onore e il ringraziamento per questo ritorno? A Theodor Herzl? A Lord Balfour? A Chaim Weizmann o a David Ben Gurion? O dobbiamo invece ringraziare molto di più l’onnipotente Dio d’Israele che ci ha scacciati dal nostro paese per i nostri peccati e ci ha fatti ritornare a casa per le Sue promesse eternamente valide?»
Tutte queste domande esistenziali mi giravano continuamente per la testa. «Per quale motivo e per chi emette il suo muto ruggito il leone di pietra di Tel Hai? Vuole sfidare l’odio e la ferocia dei nostri nemici che dalle alture di Golan osservano i nuovi insediamenti del nostro giovane Stato? O alza il suo capo in atto di sfida - Dio ci guardi - contro il Signore che ha permesso ai gentili di condurci al patibolo come pecore al macello? Quali orrendi peccati abbiamo commesso perché tutto il mondo ci debba odiare così tanto? Chi è che perseguiterà i nostri successori?»
Guardavo all’orizzonte il monte Hermon innevato e il paesaggio verde intorno a me. Il contrasto tra la bellezza della natura e la bruttezza della storia mi sconcertava. Nel Giorno della Memoria, quando la bandiera israeliana è issata a mezz’asta, pensavo alle crudeltà dei cristiani e mi chiedevo dov’era Dio quando i nazisti ci massacravano spietatamente. A Tel Hai pensavo all’odio accanito degli arabi musulmani contro di noi. Nella sinagoga pregavo e mi chiedevo che cosa significa essere un ebreo, e perché Dio, tra tutti i popoli della terra, ha scelto proprio noi.
Dell’esistenza di Dio non ho mai dubitato; ma non riuscivo a capire per quale ragione e a quale scopo Egli aveva permesso ai gentili di perseguitarci con tanta ferocia. «Perché ha permesso loro di ucciderci? E’ per questo che siamo stati eletti? Che cosa vuole Dio di preciso da noi? E perché è così difficile piacergli?»
In mezzo al cimitero degli eroi di Tel Hai , su una parete di pietra scolpita sono incise a carattere cubitali queste parole:
Nel sangue e nel fuoco Giuda è caduta:
col sangue e col fuoco Giuda risorgerà dalle ceneri!
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Una volta, mentre guardavo questa scritta pensai: «Abbiamo sempre dovuto passare per fiumi di sangue e di fuoco. Anche oggi dobbiamo combattere e pagare il nostro tributo di sangue per proteggere il nostro prezioso paese, altrimenti la nostra terra cadrebbe di nuovo in mano ai nostri nemici!» E d’improvviso mi salì alla mente un pensiero ribelle, eretico: «Se è per questo che siamo stati eletti, non sarebbe meglio essere incirconcisi come le nazioni intorno a noi? Il Goy non sta forse meglio del circonciso ebreo che è sempre inseguito dalla spada annientatrice?»
«Dio ci guardi! Via da me questi pensieri empi!» mi rimproverai. «Non sono forse un ebreo? Sono nato ebreo per non contaminarmi mai con cose abominevoli! Preferirei farmi bruciare vivo piuttosto che condurre la vita di questi pagani incirconcisi che si rotolano in ogni sorta di immoralità e sudiciume!»
Fin dalla più tenera infanzia i nostri insegnanti ci avevano inculcato un profondo senso di disgusto per gli spregevoli “ellenizzanti” e “convertiti”: questi traditori che preferivano il comodo e spensierato modo di vivere dei gentili invece di essere contenti della semplice spiritualità della vita ebraica. Avevamo imparato a disprezzare quelli che pavidamente cercavano di evitare le persecuzioni dei Goyim. Volevano sfuggire al crudele destino che attendeva tutti noi, odiati ebrei.
«Noi ebrei siamo la prova vivente dell’effettiva esistenza di Dio» pensavo. Se ci comportiamo come i gentili, non ci sarà più nessuno al mondo che renderà testimonianza dell’unico vero Dio! I pagani che vogliono liberarsi degli ebrei, in realtà vogliono sbarazzarsi di Dio per essere padroni e signori di sé stessi. Non è forse questo che i pagani tramano: buttare giù Dio dal trono della Sua signorìa e impossessarsi della Sua autorità?
Ma non è forse quello che anche noi ebrei cerchiamo di fare?
Che cosa, veramente, distingue l’uomo dalle bestie? Che cosa distingue me, ebreo, dal resto della creazione, dagli alberi, dalle rocce e dai mari? Può il gentile vedere in me qualcosa di speciale e di attraente? Il segno della circoncisione inciso nella mia carne lo invoglia a conoscere il mio Dio e ad amarlo più di ogni altra cosa? Ma come fa il gentile a capire che io sono circonciso? In fondo, questa non è una cosa che si può mettere in mostra! E se anche fosse fatto, che differenza farebbe?
Forse sono le kippot, i tzitziyot e i peyot - che comunque la maggior parte degli ebrei oggi non porta più - quelli che ci distinguono dal resto dell’umanità e mostrano che siamo il popolo eletto di Dio? E se anche fosse così, provocherebbe questo la gelosia dei gentili e farebbe nascere in loro il desiderio di essere come noi?
Nonostante il mio orgoglio nazionale, non riuscivo a immaginarmi di essere invidiato da qualcuno che cercava il Dio d’Israele. Dovetti ammettere di non essere un esempio di uomo di Dio, da Lui scelto per essere luce delle genti.
«Ma se forse cercassimo di essere moralmente migliori degli altri popoli, non riconoscerebbero i gentili l’esistenza di Dio in noi? Ma noi siamo migliori? E anche se riuscissimo a diventare il popolo più amabile e gentile della terra, non abuserebbero i gentili della nostra bontà e non sfrutterebbero la nostra gentilezza? Che cosa è meglio, sfruttare o essere sfruttati? Chi può rispondere a tutte queste domande difficili e sconcertanti?»
Il profondo silenzio del cimitero mi ricordava il silenzio solenne che regnava sul terreno della scuola durante le cerimonie di commemorazione della Shoà e dei Caduti. Le lunghe file di tombe mi sembravano come le lunge, diritte file degli scolari nel cortile della scuola. Inevitabilmente ero portato a pensare che molti giovani, quasi bambini, giacevano sotto la nera terra di Tel Hai, così vicino a Qiryat Shemona. E tuttavia i ragazzi di Qiryat Shemona non sono come queste tombe di marmo! Sprizzano vita, i loro cuori desiderano un futuro migliore, sperano in una vita da poter vivere in un mondo senza paura: senza la paura del rumore improvviso di un aereo a reazione a bassa quota o del fischio di un razzo proveniente dal Libano.
«Fino a quando dovremo camminare per questa oscura valle di morte che richiede da noi un così alto tributo di sangue? Certo, questo prezioso pezzo di terra apparteneva ai nostri padri, Dio ce l’ha dato in eredità. Ma sono giustificate per questo tutte le vittime che abbiamo dovuto offrire? Io, in ogni caso, difenderò la mia terra fino all’ultimo respiro. La proteggerò con il mio corpo e non permetterò a nessun nemico di rubarmela! Al tempo dovuto entrerò nell’esercito: diventerò pilota, o quanto meno paracadutista! Combatterò per il mio amato paese, costi quello che costi!»
Per il mio cuore impaurito il muto ruggito del leone di pietra sopra la tomba di Trumpeldor era diventato un grido. Il monumento di pietra aveva lasciato un’impressione indelebile nel mio animo di bambino. Mi avviai allora sulla strada del ritorno e lasciai dietro di me i morti che riposavano in pace nella terra.
Gli alti abeti toccavano il cielo senza nuvole, gli uccelli cantavano allegri sui rami degli alberi. Non spirava neanche un filo d’aria e mi sembrava che perfino il vento trattenesse il respiro per onorare il santo Shabbat. Fiori selvatici ornavano il bordo della strada con macchie di colore. Anemoni rossi e papaveri selvatici, gialli crisantemi e tappeti di senape selvatico giallo emanavano il loro gradevole profumo. La catena dei monti Neftali troneggiava alla mia destra. Ad ovest si elevavano le lontante alture del Golan con le loro ombre celesti sugli scintillanti vivai della fertile valle di Hula. Riempii i polmoni di aria pura, cercando di conservare per sempre queste sensazioni nel mio cuore: il miracolo della creazione e il miracolo della sopravvivenza del popolo ebraico - il mio popolo - lungo i secoli della nostra esistenza.
D’un tratto venni ripreso dalla realtà, con i suoi doveri quotidiani e le sue preoccupazioni. Tuttavia sapevo, senza alcun dubbio, che era bello - anche se non facile - essere un ebreo.
(Notizie su Israele, 13 ottobre 2025)
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Il lavaggio principale di Dio
di Thomas Lieth
Certamente conosci quelle belle lavatrici che fanno in modo che i nostri vestiti tornino puliti e non puzzino più. C'è il lavaggio delicato, il prelavaggio, il lavaggio principale e, se ho sbagliato qualcosa, anche un lavaggio aggiuntivo, ecc. Anche in Ezechiele 36 si parla di purificazione, ovvero della purificazione del popolo d'Israele.
Innanzitutto va detto che il Dio di Israele – il Signore dei signori e unico vero Dio creatore – ha creato il popolo degli Israeliti per sé. E ha promesso di restaurare il suo popolo, che è caduto ripetutamente nel peccato. Ciò richiede una purificazione assoluta e completa (cfr. Isaia 43,1-3.5-7).
Questa purificazione non avviene in modo indolore, ma attraversa tutte le fasi di un processo di purificazione fino al ripristino definitivo, compreso il ciclo di centrifugazione, come ci illustra la storia di Israele.
1. Il ritorno di israele
«Vi farò uscire dai popoli pagani, vi radunerò da tutte le nazioni e vi ricondurrò nel vostro paese... Abiterete nel paese che ho dato ai vostri padri, sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ezechiele 36,24.28).
Presumo che non sia necessario raccontarvi molto della storia di Israele. Per contestualizzare, vorrei soffermarmi brevemente sulla dispersione. Quando si parla qui di Israele che viene tolto dalle nazioni pagane, si presuppone che questo popolo eletto da Dio fosse stato precedentemente disperso tra le nazioni (Ezechiele 36,19).
Tre eventi salienti hanno determinato questa dispersione:
- la dispersione del regno settentrionale di Israele tra gli Assiri nel 722 a.C., prima che Ezechiele vivesse;
- la cattività babilonese di Giuda (regno meridionale), iniziata intorno al 600 a.C., durante la vita di Ezechiele;
- la schiavitù degli ebrei da parte dei romani a partire dal 70 d.C., molto tempo dopo la morte di Ezechiele.
Al più tardi dal II secolo d.C., con l'ultima rivolta ebraica contro i romani, gli ebrei erano dispersi in tutto il mondo. Quando Ezechiele scrisse le sue profezie, l'esilio del regno settentrionale era già avvenuto (passato); la cattività babilonese del regno meridionale era presente; la dispersione romana era ancora futura dal suo punto di vista (circa 600 anni dopo).
Se consideriamo il nostro testo, sorge la domanda a quale di questi tre eventi si riferisca Ezechiele 36,24. In definitiva, si tratta del ritorno dei figli d'Israele alla fine dei tempi. Il ritorno dall'esilio babilonese ha certamente un ruolo importante: era l'aspettativa imminente degli ebrei e la situazione da cui Ezechiele scriveva. Ma le sue visioni vanno oltre: non solo su Giuda, ma su tutto Israele, e guardano fino alla fine dei tempi, cioè al Regno Millenario.
Ciò chiarisce che la storia di Israele non è finita e che il popolo ebraico non sarà mai – sottolineo: mai – sterminato. Quando si tratta della «soluzione finale» degli ebrei, Dio ha l'ultima parola, proprio come in Isaia 54,7-8.
«Per un breve istante ti ho abbandonato... ma con grande misericordia ti raccoglierò. Con ira improvvisa ti ho nascosto per un momento il mio volto, ma con grazia eterna avrò pietà di te, dice il Signore, tuo redentore».
Nonostante tutte le minacce di giudizio e le punizioni, Dio ha sempre promesso che Israele sarebbe stato restaurato. Ogni giudizio non ha mai significato la fine di Israele, ma purificazione, purificazione e un nuovo inizio. Il ciclo di centrifugazione era ed è necessario per poter stare davanti a Dio completamente purificati. Dio ha sempre conservato un residuo per raggiungere la meta con il suo popolo. La disobbedienza e il peccato non rimangono mai senza conseguenze; a volte provocano tutta la durezza dell'ira di Dio. Tuttavia, Dio non può rinnegare se stesso; porterà comunque a termine il suo piano di salvezza e di redenzione, in cui Israele gioca un ruolo decisivo. In Deuteronomio 30,4 si legge: «Se i tuoi esuli fossero all'estremità del cielo, anche da lì il Signore, tuo Dio, ti radunerebbe e da lì ti prenderebbe». Non è forse straordinario? Per dirla in modo esagerato: anche se gli ebrei colonizzassero Marte, Dio farebbe in modo che fossero cacciati dagli «uomini di Marte» antisemiti e riportati in Israele, che lo volessero o no.
In definitiva, questo ritorno a casa non riguarda solo il ritorno alla terra promessa, ma anche il ritorno al Dio dei loro padri, indissolubilmente legato alla terra e alla città di Gerusalemme (cfr. Ezechiele 36,28).
Israele viene riportato nella terra dei suoi padri per essere riconciliato con il Dio dei suoi padri. Questo processo è in pieno svolgimento. Noi che viviamo in questi tempi emozionanti possiamo vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie questa profezia che si sta attualmente realizzando. Che privilegio! Siamo anche testimoni diretti di ciò che è scritto in Amos 9:
«Io cambierò la sorte del mio popolo Israele, ed essi ricostruiranno le città devastate e le abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, pianteranno giardini e ne mangeranno i frutti. Li pianterò nella loro terra e non saranno più strappati dalla terra che io ho dato loro, dice il Signore, tuo Dio» (Amos 9,14-15) .
Canaan, la terra promessa, era descritta come una terra dove scorrevano latte e miele. Tuttavia, a causa dell'idolatria e della disobbedienza, si verificarono ripetute carestie. Più tardi, dopo la schiavitù romana, solo pochi ebrei rimasero nel paese, che degenerò in un deserto e in una palude infestata dalla malaria. Mark Twain scrisse nel 1867 nel suo diario di viaggio: «Di tutti i paesi con un paesaggio desolato, questo deve essere il peggiore». Non era certo una buona pubblicità per un viaggio in Israele. L'allora Palestina era una terra inospitale, dove vivevano più capre che persone e alla quale quasi nessuno era interessato. Ora però, dopo che gli ebrei sono stati riportati per grazia di Dio nella terra dei loro padri, vediamo già qualcosa di ciò che ancora deve completarsi: la terra un tempo arida fiorisce, prospera e cresce - e diventerà ancora più meravigliosa.
2. La purificazione di israele
«E spruzzerò su di voi acqua pura e sarete purificati; vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli. Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne; sì, metterò il mio spirito dentro di voi e vi farò camminare secondo le mie leggi, osservare e mettere in pratica le mie prescrizioni. ... Vi libererò da tutte le vostre impurità, chiamerò il grano e lo moltiplicherò, e non vi sarà più carestia. Moltiplicherò anche i frutti degli alberi e il raccolto dei campi, affinché non dobbiate più sopportare l'onta della fame tra le nazioni pagane. Allora ricorderete le vostre vie malvagie e le vostre azioni che non erano buone, e proverete disgusto per voi stessi a causa dei vostri peccati e delle vostre abominazioni» (Ezechiele 36,25-27.29-31).
Il ritorno nella terra donata da Dio non è la fine dell'opera salvifica di Dio nei confronti del suo popolo, ma un passo verso la meta, una sorta di prelavaggio. Alla fine si tratta del ciclo di lavaggio principale: la purificazione e il ripristino spirituale.
Ciò che colpisce qui è l'«Io» sovrastante di Dio: «Spruzzerò su di voi acqua pura ... e vi purificherò da tutti i vostri idoli». Nella Legge, chiunque si fosse contaminato doveva sottoporsi alle prescrizioni di purificazione (cfr. Numeri 19). Questo è il principio della legge, il percorso dal basso verso l'alto: l'uomo offre qualcosa a Dio (sacrificio, dono, abluzione). Nel nostro testo, invece, si dice: Dio spruzza acqua pura sul popolo, Dio lo purifica da tutte le sue impurità. Questo è il principio della grazia, il percorso dall'alto verso il basso. La Lettera agli Ebrei fa riferimento alla purificazione dell'Antico Testamento e allo stesso tempo spiega che il Signore Gesù ha compiuto questa purificazione (Ebrei 10,19.22).
Tutti i tentativi dell'uomo dal basso verso l'alto sono destinati al fallimento: possono al massimo alleviare temporaneamente, ma non guarire veramente. Per rimanere nell'immagine:
il lavaggio umano rimuove lo sporco superficiale, ma l'impurità interiore rimane. È solo questione di tempo prima che lo sporco esterno riemerga e il fresco profumo della purificazione lasci il posto al fetore del peccato. Qui però si parla di «acqua pura», che non riguarda solo i sintomi e l'aspetto esteriore, ma la causa, l'interno e la radice di tutti i mali. Solo Dio può compiere una purificazione così completa e profonda. È assolutamente necessaria affinché Israele possa incontrare nuovamente il suo Dio e si realizzino le promesse già fatte ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè e Davide. Proprio come in Isaia 44,21-22:
«Israeliti, discendenti di Giacobbe, ricordate sempre: io vi ho creati, voi mi appartenete e siete miei servi! Non vi dimenticherò mai. Vi ho perdonato le vostre colpe e tutti i vostri peccati. Sono scomparsi come nuvole, come nebbia al sole. Tornate a me, perché vi ho redenti!»
Notiamo che Dio non dice: «Tornate a me e allora vi redimerò», ma: «Vi ho redenti; perciò potete tornare a me». Questa è la fedeltà di Dio, questa è la grazia, la via dall'alto verso il basso!
Il prelavaggio – il ritorno a casa – è praticamente completato, anche se non ancora concluso. Sarà completato alla fine dei giorni, contemporaneamente alla restaurazione spirituale di Israele, quando avverrà, per così dire, un «rapimento verticale» degli ultimi ebrei nella terra promessa (cfr. Ezechiele 39,28). Il ciclo di lavaggio principale è già programmato e in parte in corso. Lo vediamo ovunque sempre più ebrei credono nel Signore Gesù. Il culmine deve ancora arrivare e sarà un percorso difficile: la centrifuga, che Israele non potrà evitare. «L'angoscia di Giacobbe» di Geremia 30 – la «grande tribolazione» – costituisce il cupo culmine del processo di purificazione di Dio nei confronti del suo popolo; ciò che Israele dovrà ancora sopportare supererà persino gli orrori dell'Olocausto. Solo un residuo del residuo sopravviverà e sarà condotto al pentimento. Così si legge in Zaccaria 13,8: «E avverrà, dice il Signore, che in tutto il paese due terzi saranno sterminati e periranno, ma un terzo rimarrà».
In Ezechiele 36,26 si legge inoltre: «Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo».
Anche questo è un atto che può avvenire solo dall'alto verso il basso, per grazia di Dio. Ricorda molto la nuova alleanza promessa in Geremia (Geremia 31,31-33): Dio mette la sua legge nel loro intimo e la scrive nei loro cuori. Il vecchio cuore, il «cuore di pietra», è duro, irragionevole, ribelle e concentrato sul proprio io. Il cuore nuovo, «di carne», è obbediente, comprensivo e misericordioso, concentrato su Dio e sul Salvatore. Tutti noi dovremmo avere un cuore così! Ciò implica una vita nello Spirito, lontana da me stesso e dal mio io (in cui non c'è nulla di buono) e vicina a Dio, a cui spetta tutta la gloria. «... e vi farò camminare secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie prescrizioni» (Ezechiele 36,27). Ciò significa che senza lo Spirito di Dio, senza il cuore nuovo e senza la sua grazia, il popolo d'Israele non sarà mai in grado di vivere in modo gradito a Dio. Per noi non è diverso: senza lo Spirito di Dio non potremo mai soddisfare il suo volere e la sua giustizia.
Anche il ritorno in patria non sarebbe stato possibile senza Dio; esso è stato frutto solo della sua grazia e della sua guida (Salmo 124,1-3).
Gli ebrei non sarebbero mai tornati nella terra promessa da Dio se Dio non lo avesse voluto e guidato. Anche se fossero tornati con le loro sole forze, senza la protezione di Dio sarebbero stati da tempo nuovamente espulsi o addirittura sterminati. Senza Dio questa terra e questo popolo non esisterebbero più! Quanto più questo vale per il ritorno spirituale e la restaurazione di Israele. Se Dio stesso non intervenisse, se non dicesse ripetutamente «Io voglio...» (o «Io farò»), Israele non accetterebbe mai il Messia, ma rimarrebbe con il cuore indurito. Ma Dio dice: «Vi porterò via dalle nazioni. Vi radunerò da tutti i paesi. Vi porterò nella vostra terra. Spruzzerò su di voi acqua pura. Vi darò un cuore nuovo e toglierò il cuore di pietra dalla vostra carne. Cambierò la sorte del mio popolo Israele. Farò in modo che...» - tutto per la salvezza e la redenzione di Israele e di tutti coloro che vogliono essere salvati.
3. La glorificazione di Dio
«Allora ricorderete le vostre vie malvagie e le vostre azioni che non erano buone, e proverete disgusto per voi stessi a causa dei vostri peccati e delle vostre abominazioni. Non per voi farò questo, dice il Signore Dio, sappiatelo bene! Vergognatevi e arrossite per le vostre vie, voi della casa d'Israele!» (Ezechiele 36,31-32).
«Allora mi dispiacque per il mio santo nome, che la casa d'Israele aveva profanato tra le nazioni dove era giunta. Perciò di' alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Non per voi faccio questo, casa d'Israele, ma per il mio santo nome, che voi avete profanato tra le nazioni dove siete giunti. Perciò renderò santo il mio grande nome, che è stato profanato tra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro. E le nazioni sapranno che io sono il Signore, dice il Signore Dio, quando mi mostrerò santo davanti ai loro occhi» (Ezechiele 36,21-23).
Che trionfo, che finale! Il ritorno a casa, la purificazione e la restaurazione spirituale sfociano nella glorificazione di Dio. Questa è una prova dell'onnipotenza,grazia, sovranità, maestà, potenza e unicità del santo Dio creatore. Si può solo dire con il profeta Michea: «Dov'è un Dio come te?», e rispondere: «Non c'è nessun altro Dio».
Si potrebbe pensare che Israele gioirà e si rallegrerà per la restaurazione spirituale e la salvezza. E di questo parla anche Geremia 31,4-7. Che gioia e che esultanza sarà! Tuttavia, il popolo sarà sconvolto quando penserà ai peccati commessi in passato, come descrive Zaccaria 12,10:
« ... e si lamenteranno quando guarderanno colui che hanno trafitto, e piangeranno amaramente su di lui ... ».
Nonostante tutta la gioia, si proverà allo stesso tempo un profondo disgusto, perché si è respinta per così tanto tempo la mano misericordiosa e salvifica di Dio e si è praticata la prostituzione spirituale. La prostituzione non è uno scivolone, ma un allontanamento consapevole e volontario; per questo in Geremia 30,12 si parla di «apostasia incurabile»: «Poiché così dice il Signore: La tua frattura è incurabile, la tua ferita è grave!» Se ci occupassimo solo dell'idolatria di Israele, non capiremmo che Israele ha comunque un futuro e che Dio ricondurrà comunque il suo popolo. Così si legge in Esdra 9,13.15:
«E dopo tutto ciò che ci è accaduto a causa delle nostre cattive azioni e della nostra grande colpa, tu, perché sei il nostro Dio, ci hai risparmiato più di quanto meritassero le nostre trasgressioni e ci hai concesso tanti scampati! ... O Signore, Dio d'Israele, tu sei giusto, perché noi siamo rimasti e siamo scampati, come è oggi il caso. Ecco, siamo colpevoli davanti a te, perché non possiamo resistere davanti a te!»
Non vale lo stesso anche per noi? Quale grazia è stata concessa anche a noi! Ognuno può giudicare da sé. Io, in ogni caso, posso solo dire: «Grazie, Signore! Non ho meritato nulla di ciò che mi hai donato».
Torniamo al «lavaggio della testa» di Dio sul suo popolo: quando Israele si pentirà e il residuo accetterà la grazia di Dio, proverà dolore e disgusto per se stesso, come chi si confronta con la propria colpa e si pente sinceramente. Ciò non avviene senza lacrime. Ma questo disgusto è un segno di vero pentimento, di vera conversione. All'orrore della consapevolezza del peccato segue la sincera confessione del peccato e la sensazione di non meritare il perdono. La grazia è immeritata. Nessuno ha diritto al perdono. Quando viene concesso il perdono, è un atto di bontà e misericordia. Lo stesso vale anche qui: Israele, e questo vale per tutti gli esseri umani, nessuno ha diritto al perdono.
Dio sottolinea la grande colpa, in realtà imperdonabile, del suo popolo e ribadisce che, per amore della sua santità, del suo nome, della sua parola e della sua glorificazione, purifica, rinnova e ravviva il popolo ribelle (Ezechiele 36,21-23.32).
Notiamo che con Dio non si scherza: ogni persona e ogni popolo dovrà un giorno giustificarsi davanti a Dio. Beato colui la cui giustificazione è Gesù Cristo; questa è l'unica cosa che Dio accetterà! Dio mantiene la sua parola e adempie le promesse che ha fatto ai patriarchi di Israele. «Io, il Signore, ho parlato, e lo farò» (Ezechiele 36,36). Il residuo riconoscerà veramente il suo Dio, odierà i peccati commessi e glorificherà il suo Salvatore. Quando ciò accadrà, risuonerà il grido di cui al Salmo 115,1, con cui concludo:
«Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per la tua misericordia, per la tua fedeltà!»
Ringraziamo il Signore di cuore. Dovremmo aspirare a che anche la nostra vita contribuisca alla glorificazione di Dio.
(Nachrichten aus Israel, ottobre 2025/5786 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele: arrivati i primi soldati americani che garantiranno la tregua a Gaza
I soldati americani non metteranno piede a Gaza, ma coordineranno le truppe estere incaricate di mantenere l'ordine e faciliteranno la transizione
Il dispiegamento delle truppe americane in Israele questo fine settimana segna l’inizio di uno sforzo straordinariamente complesso per garantire una fragile pace a Gaza e stabilire un quadro di riferimento per governare l’enclave.
Circa 200 soldati sotto il comando dell’ammiraglio Brad Cooper del Comando Centrale degli Stati Uniti sono già arrivati in Israele per istituire un centro di coordinamento che monitorerà il cessate il fuoco e organizzerà il flusso di aiuti umanitari, logistica e assistenza alla sicurezza a Gaza.
I funzionari statunitensi hanno ribadito venerdì che non è previsto che queste truppe, composte principalmente da pianificatori, specialisti dei trasporti e dell’ingegneria ed esperti di sicurezza, mettano piede a Gaza.
Ciononostante, i funzionari stanno già discutendo la creazione di una “Forza internazionale di stabilizzazione” composta da migliaia di soldati, la cui missione sarebbe quella di garantire la sicurezza dell’enclave. La sua composizione deve ancora essere determinata, ma potrebbe attingere a truppe provenienti dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto, dalla Turchia, dal Marocco, dall’Indonesia e forse da diverse nazioni dell’Asia centrale.
Il ruolo degli Stati Uniti è degno di nota per un’amministrazione che ha a lungo evitato missioni di nation-building all’estero e ha posto l’accento sulla difesa dell’emisfero occidentale. Tuttavia, funzionari attuali ed ex funzionari affermano che un ruolo politico e militare americano è essenziale per consolidare il cessate il fuoco e trasformare la prima fase del piano della Casa Bianca per Gaza in una pace duratura.
Lo sforzo di reclutare e sostenere la forza di stabilizzazione andrà di pari passo con i piani per formare un organo di governo per Gaza che fornirà servizi essenziali dopo il conflitto iniziato quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023, uccidendo 1.200 persone e prendendo 251 ostaggi.
Secondo il piano di Trump, Gaza sarebbe amministrata da un comitato tecnocratico palestinese supervisionato da un “Consiglio di pace”. Trump presiederebbe il consiglio e anche l’ex primo ministro britannico Tony Blair avrebbe un ruolo.
Mettere insieme quel comitato tecnocratico potrebbe rivelarsi difficile. Circa 30.000 membri del personale tecnico, amministrativo e di sicurezza a Gaza sono sul libro paga dell’Autorità palestinese e potrebbero potenzialmente aiutare a mantenere i servizi essenziali e avviare una transizione verso l’amministrazione palestinese dell’enclave, come previsto nel piano di Trump, ha detto un ex funzionario statunitense. Il precedente progetto di Trump di trasferire i palestinesi fuori da Gaza, che aveva suscitato critiche diffuse nella regione, è stato accantonato.
Ma le divisioni politiche potrebbero complicare i piani di governance. Gli Emirati Arabi Uniti, a differenza dell’Arabia Saudita, hanno insistito affinché l’Autorità Palestinese venga riformata radicalmente prima di assumere un ruolo sostanziale nell’eventuale amministrazione di Gaza.
La creazione di una forza internazionale di stabilizzazione deve affrontare numerose sfide, a cominciare dagli sforzi per disarmare Hamas. I diplomatici hanno discusso un processo di “smantellamento” delle armi, un termine che riecheggia l’accordo che ha posto fine alla violenza nell’Irlanda del Nord sotto la guida di Blair.
Tali accordi di “smantellamento” dovrebbero essere elaborati nella prossima fase dei negoziati, che probabilmente inizierà dopo il rilascio degli ostaggi.
La pianificazione preliminare di una forza di stabilizzazione durante l’amministrazione Biden prevedeva un ruolo degli Stati Uniti che comprendeva logistica, trasporti, intelligence e supporto. Tali sforzi dovevano essere supervisionati da un generale americano con base in Egitto, il presunto punto di ingresso per le forze arabe e internazionali schierate a Gaza.
Tale approccio rifletteva il riconoscimento che l’esercito statunitense ha capacità uniche nell’organizzazione di operazioni di spedizione e rispondeva alle richieste arabe di coinvolgimento americano. Ma l’amministrazione Biden ha escluso l’invio di truppe a Gaza e ha invece preso in considerazione la possibilità di affidare il comando della forza a un comandante egiziano o degli Emirati Arabi Uniti.
L’amministrazione Trump non ha ancora specificato quali potrebbero essere le dimensioni della Forza Internazionale di Stabilizzazione, per quanto tempo rimarrebbe schierata o in che modo gli Stati Uniti la assisterebbero dall’esterno di Gaza.
“Stiamo già discutendo con diversi governi la creazione di questa ISF”, ha detto giovedì ai giornalisti un alto funzionario statunitense. “Con l’ammiraglio Cooper, sarà molto più facile”.
La Casa Bianca ha sottolineato ai suoi sostenitori MAGA che nessuna truppa statunitense entrerà nell’enclave. “Non è prevista l’entrata di truppe statunitensi a Gaza”, ha detto un secondo alto funzionario. “Si tratta solo di aiutare a creare il centro di controllo congiunto e integrare le altre forze di sicurezza che entreranno”.
Gli Stati Uniti hanno ancora un piccolo contingente nella penisola del Sinai in Egitto come parte della forza che monitora gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele.
Una questione centrale tra diplomatici ed ex funzionari è se Trump e il suo team manterranno la pressione diplomatica che ha portato all’imminente rilascio degli ostaggi. “Questo sarà mantenuto oltre la dichiarazione di vittoria di Trump?”, ha detto un ex funzionario. “Tutto questo richiederà una leva straordinaria per realizzarsi”.
(Rights Reporter, 11 ottobre 2025)
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Sondaggio: 6 israeliani su 10 non credono che Hamas sarà disarmato
Un sondaggio condotto da i24NEWS dall'istituto Direct Polls, diretto da Tzuriel Sharon, rivela un profondo scetticismo dell'opinione pubblica israeliana sulle prospettive di disarmo di Hamas e sulla stabilità dell'attuale tregua.
Alla domanda se l'accordo raggiunto nell'ambito del piano Trump porterà allo smantellamento militare del movimento terroristico islamista, il 60% degli intervistati risponde di non crederci, contro il 26% che pensa di sì e il 14% che non si pronuncia.
Per quanto riguarda la situazione della sicurezza, il 63% degli israeliani ritiene che un nuovo ciclo di combattimenti a Gaza sia inevitabile, mentre solo il 18% ritiene che la minaccia proveniente dal territorio sia stata scongiurata. Gli altri (19%) dichiarano di non sapere.
Il sondaggio ha anche esaminato il ruolo del ministro Ron Dermer nella formulazione del piano Trump: il 33% degli intervistati ritiene che la sua influenza sia stata “decisiva”, il 37% la giudica “parziale” e il 17% ritiene che non abbia avuto alcun impatto.
Condotto su 538 intervistati, il sondaggio presenta un margine di errore del 4,2%. Esso riflette un clima di persistente sfiducia nell'opinione pubblica israeliana, nonostante l'annuncio del cessate il fuoco e la graduale attuazione del piano americano per Gaza.
(i24, 11 ottobre 2025)
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Una “pace” che assomiglia a una estorsione
di David Elber
La recente firma per un cessate il fuoco tra Israele e i terroristi di Hamas non si può annoverare come una “pace”, ma piuttosto come l’ennesimo cessate il fuoco con annessa estorsione. Perché non è una pace? Perché è un’estorsione? Ora proviamo a spiegarne le ragioni.
Per prima cosa è doveroso sottolineare che l’unica cosa positiva di questo accordo è il rilascio (se ciò accadrà nei prossimi giorni) di tutti gli ostaggi vivi e morti. Per gli ostaggi ancora vivi e per le famiglie dei vivi e dei morti, è senza dubbio la fine di un interminabile incubo.
Non si può parlare di pace per molteplici ragioni. Per prima cosa un trattato di pace lo firmano due Stati nemici, qui siamo in presenza di uno Stato, Israele, che è stato aggredito con ferocia; e di un’organizzazione terroristica, che si è impossessata di un territorio, che è stato trasformato in un enorme centro logistico del terrore sia in superficie che sotto terra, dal quale è partita l’aggressione. Secondo, la pace la firmano due Stati che si riconoscono come legittime espressione dei propri popoli. Infatti, gli arabi nel 1949 firmarono con Israele dei meri accordi per il cessate il fuoco e non dei trattati di pace, perché questo avrebbe implicato il riconoscimento della legittimità di Israele, cosa inaccettabile per gli arabi. Anche quando furono firmati i trattati di pace tra Israele e Egitto (1979) e Giordania (1994) ad un riconoscimento formale di Israele non è mai seguita una vera pace: nessun scambio culturale, nessuna presenza di turisti da questi paesi arabi in Israele, scambi commerciali a senso unico: Israele esporta acqua e gas in Giordania e gas in Egitto ma solo perché questi paesi ne hanno un disperato bisogno. Dal punto di vista culturale, politico e diplomatico, erano, e sono estremamente ostili a Israele, questo perché, per loro, Israele è, e rimane, uno Stato illegittimo. Pensare a qualcosa di diverso con Hamas, soprattutto dopo il 7 ottobre, è una pericolosa illusione.
Poter pensare di firmare una “pace” con Hamas o con l’Autorità Palestinese, richiede un cambiamento di paradigma che richiederà generazioni non anni. Perché non basta che Hamas cambi il proprio statuto genocida o che l’Autorità Palestinese riconosca la legittimità dell’esistenza di Israele. Bisogna che queste due organizzazioni criminali cessino l’incitamento all’odio antiebraico che inizia all’asilo, prosegue nelle scuole primarie e secondarie fino alle università. Odio e delegittimazione che vengono diffuse nei giornali, nelle televisioni, nello sport, con il culto dei martiri e soprattutto con il pagamento degli stipendi degli assassini di ebrei visti come eroi e martiri.
Per capire quanto durerà questo cessate il fuoco, lo vedremo nei prossimi mesi quando si capirà se qualcuno (che non sia Israele) sarà in grado di disarmare i terroristi di Hamas perché, di propria iniziativa, loro non lo faranno. Per ora bisogna accontentarsi del rilascio degli ostaggi a caro prezzo.
Perché si può parlare di estorsione. Perché Hamas a fronte di una aggressione genocidiaria compiuta il 7 ottobre 2023, anziché essere messa all’angolo dal mondo “civile” e costretta di conseguenza alla capitolazione incondizionata, ha trovato l’appoggio politico necessario per sopravvivere e dettare le condizioni per il cessate il fuoco. A fronte dell’eccidio di 1.200 persone, ha ottenuto, con l’appoggio internazionale, la liberazione di migliaia di assassini condannati per omicidio (anche i più efferati), il riconoscimento del fantomatico “Stato di Palestina” da parte di un gran numero di paesi occidentali che in teoria sono amici di Israele. Infine la propria sopravvivenza che è vista come un premio e un merito della “resistenza” palestinese.
A tutto quanto detto bisogna aggiungere il fatto che, sempre, in passato la liberazione di terroristi omicidi non ha mai portato avanti la “pace” ma è vero l’opposto: ad ogni rilascio di terroristi in cambio di ostaggi, è seguita un’ondata di sangue sempre maggiore. Basti pensare che quasi tutti gli organizzatori del 7 ottobre erano nelle carceri israeliane e furono scarcerati nello scambio per il soldato Gilad Shalit nel 2011.
In attesa di vedere entro pochi giorni la liberazione di tutti gli ostaggi, a mio avviso cosa tutt’altro che scontata, per Israele c’è solo da sperare che la gioia per la loro liberazione (se questo avverrà nei prossimi giorni), nel prossimo futuro, non si trasformi in un lutto ancora più grande di quello vissuto il 7 ottobre.
(Inviato dall'autore, 10 ottobre 2025)
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Il fantasma di Gaza: come Hamas è sopravvissuto
Come un cessate il fuoco ha strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria, garantendo al gruppo terroristico di sopravvivere per combattere un altro giorno
di Gregg Roman
| Il gabinetto israeliano, di fronte a una pressione senza precedenti da parte del presidente Donald Trump e a una crisi politica interna, ha approvato un quadro che rappresenta tutto ciò contro cui si era messo in guardia nelle precedenti analisi strategiche: negoziare con i terroristi da una posizione di vittoria incompleta.
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Il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato la sospensione dell'offensiva in seguito alla richiesta pubblica di Trump a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”. ... Questa decisione, presa nel momento di massima influenza israeliana, rappresenta il punto di svolta critico della guerra.
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| Il piano di Trump sfrutta il genuino esaurimento arabo nei confronti della causa palestinese per costruire un'architettura di sicurezza regionale a sostegno del cessate il fuoco. L'Egitto, che ha allagato i tunnel di Hamas e li ha designati come terroristi, ospita negoziati cruciali a Sharm el-Sheikh.
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Se i negoziati falliranno completamente e Israele riprenderà le operazioni militari, torneranno le critiche internazionali, amplificate dalle accuse di malafede nei negoziati da parte di Israele.
La deterrenza basata sulla comprensione reciproca fallisce contro avversari la cui ideologia richiede la distruzione di Israele.
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Il 10 ottobre 2025, alle 1:20 del mattino, è entrato in vigore un cessate il fuoco a Gaza, ponendo fine a due anni di conflitto iniziati con il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas. Il gabinetto israeliano, sottoposto a pressioni senza precedenti da parte del presidente Donald Trump e a una crisi politica interna, ha approvato un accordo che rappresenta tutto ciò contro cui avevano messo in guardia le precedenti analisi strategiche: negoziare con i terroristi da una posizione di vittoria incompleta, rilasciare militanti incalliti in cambio di ostaggi e accettare vaghe promesse di futura smilitarizzazione al posto dell'attuale sconfitta militare.
Cosa succederà ora? La prima fase dell'accordo prevede il ritiro tattico di Israele dalla città di Gaza, il rilascio dei 48 ostaggi rimasti entro 72 ore e lo scambio di 250 prigionieri palestinesi condannati all'ergastolo più 1.700 detenuti. La seconda fase, i cui negoziati dovrebbero iniziare durante l'attuazione della prima fase, dovrebbe affrontare il disarmo di Hamas, il ritiro completo di Israele e il futuro politico di Gaza. Tutti i precedenti storici suggeriscono che la fase due crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni, lasciando Israele in una posizione peggiore rispetto a prima del cessate il fuoco, mentre Hamas ricostituirà le sue capacità e dichiarerà la vittoria strategica.
L'errore fondamentale alla base di questo accordo è quello di trattare la Fase Uno e la Fase Due come componenti sequenziali di un piano unificato, quando in realtà si tratta di quadri incompatibili costretti in una sequenza artificiale. La Fase Uno presuppone che Hamas possa essere un partner affidabile nel rilascio degli ostaggi e nella transizione di governo. La Fase Due presuppone che Hamas possa essere costretto al disarmo e alla marginalizzazione politica permanente. Queste ipotesi non possono essere vere contemporaneamente. O Hamas mantiene un potere e una legittimità sufficienti per funzionare come autorità di governo in grado di liberare gli ostaggi – nel qual caso non accetterà mai il disarmo completo – oppure è stato sufficientemente sconfitto da non avere più la capacità di governare, nel qual caso i meccanismi della Fase Uno diventano inattuabili. Israele ha scelto il peggiore dei due approcci: concedere a Hamas la legittimità attraverso i negoziati, pur non avendo il potere di costringerlo a rispettare gli obiettivi dichiarati dell'accordo.
• Le contraddizioni dell'accordo quadro
Il piano in 20 punti annunciato dal presidente Trump il 29 settembre rappresenta una diplomazia ambiziosa che affronta contemporaneamente molteplici dimensioni: rilascio degli ostaggi, aiuti umanitari, transizione di governo, cooperazione regionale in materia di sicurezza e sviluppo economico a lungo termine. La sofisticatezza del documento è evidente, ma non la sua attuabilità. Il piano impone che Hamas non possa avere alcun ruolo, diretto, indiretto o di qualsiasi altra forma, nella futura governance di Gaza, richiedendo al contempo che Hamas rilasci gli ostaggi, coordini i ritiri e accetti la sostituzione tecnocratica. Questa logica circolare presuppone che Hamas faciliterà il proprio scioglimento.
Si considerino le disposizioni sul disarmo. Il quadro di Trump richiede la completa smilitarizzazione, con la distruzione di tutte le infrastrutture militari sotto la supervisione internazionale e la messa fuori uso permanente delle armi. La risposta di Hamas del 3 ottobre ha accettato il rilascio degli ostaggi e la transizione di governo, ma non ha fatto alcun riferimento al disarmo. L'alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha dichiarato esplicitamente: “Consegneremo le [nostre] armi al futuro Stato palestinese, e chiunque governerà Gaza avrà le armi in mano”. Quando gli è stato fatto notare che Israele aveva già distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, Abu Marzouk ha risposto: “Se hanno distrutto il 90% delle capacità militari di Hamas e ucciso la maggior parte dei combattenti di Qassam, come dice il presidente Trump, di chi sono le armi che intendete disarmare?”.
Questa domanda retorica mette in luce la contraddizione centrale dell'accordo. Se Hamas è stato sconfitto militarmente nella misura dichiarata, allora il disarmo diventa superfluo o impossibile: superfluo se le capacità non esistono più, impossibile se le armi sono sepolte sotto le macerie o distribuite tra cellule decentralizzate. Se Hamas mantiene una significativa capacità militare, allora possiede un mezzo di pressione per resistere al disarmo e utilizzerà il periodo di cessate il fuoco per ricostituirsi. In entrambi i casi, la clausola sul disarmo esiste solo sulla carta, senza meccanismi di applicazione al di là della ripresa delle operazioni militari, che riporterebbe semplicemente entrambe le parti allo status quo precedente al cessate il fuoco.
La transizione di governance presenta problemi simili. A Hamas è stato chiesto di farsi da parte per lasciare spazio a un “comitato tecnocratico palestinese composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali” supervisionato da un “Consiglio di pace” presieduto da Trump e che include l'ex primo ministro britannico Tony Blair. Hamas ha immediatamente respinto questa struttura. Abu Marzouk ha dichiarato: “Non accetteremo mai che qualcuno che non sia palestinese controlli i palestinesi”, opponendosi in particolare a Blair dato il suo ruolo nella guerra in Iraq del 2003. L'Autorità Palestinese, che dovrebbe assumere il controllo in attesa delle riforme, rimane debole, corrotta e profondamente impopolare. Il presidente Abbas, 89 anni e al ventesimo anno del suo mandato quadriennale, ha definito i membri di Hamas “figli di cani”, pur non avendo la capacità di governare il territorio che controllano.
La sequenza del ritiro israeliano amplifica queste contraddizioni. Netanyahu ha sottolineato ripetutamente nella sua intervista del 5 ottobre che “Israele effettua un ritiro tattico, rimane a Gaza”. Tuttavia, il leader di Hamas Khalil al-Hayya chiede il completo ritiro dalla Striscia di Gaza con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Il piano di Trump afferma che il ritiro sarà “basato su standard, tappe fondamentali e tempistiche concordati legati alla smilitarizzazione”, un linguaggio che non risolve nulla poiché la smilitarizzazione stessa rimane controversa. Israele non si ritirerà completamente finché Hamas non deporrà le armi; Hamas non deporrà le armi finché Israele non si ritirerà completamente. Non si tratta di una differenza negoziabile, ma di una contraddizione esistenziale che nessuna formula diplomatica potrà risolvere.
• Dimensione militare: la missione incompleta
L'operazione israeliana Gideon's Chariots II, lanciata il 15 settembre con 60.000 riservisti e tre divisioni complete, ha rappresentato la campagna più ambiziosa della guerra: la conquista sistematica della città di Gaza per costringere Hamas alla resa incondizionata. Il 1° ottobre, l'IDF aveva completato la conquista del corridoio di Netzarim, tagliando fuori la città di Gaza dal centro di Gaza e dividendo il nord dal sud. Il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che Israele stava “stringendo l'assedio” intorno alla città di Gaza con avvertimenti di “ultima possibilità” per i residenti di evacuare verso sud. Coloro che fossero rimasti sarebbero stati trattati come “terroristi e sostenitori del terrorismo”.
La logica militare dell'offensiva era valida: concentrare una forza schiacciante, isolare la leadership di Hamas, distruggere le infrastrutture rimanenti e costringere alla resa da una posizione di dominio. Tra il 27 settembre e il 3 ottobre, Israele ha colpito oltre 300 obiettivi in tutta Gaza City, con Netanyahu che ha affermato: “50 torri del terrore abbattute in due giorni”. Al 30 settembre, circa 1.250 edifici erano stati distrutti nella città di Gaza. La pressione militare stava dando i suoi frutti: l'accettazione da parte di Hamas, il 3 ottobre, del quadro proposto da Trump derivava direttamente da questa realtà sul campo di battaglia.
Poi, il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato la sospensione dell'offensiva in seguito alla richiesta pubblica di Trump a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”. L'IDF è passata a “operazioni esclusivamente difensive”: le truppe hanno mantenuto le posizioni senza avanzare né ritirarsi. Questa decisione, presa nel momento di massimo vantaggio israeliano, rappresenta il punto di svolta critico della guerra. Anziché completare l'operazione e negoziare da una posizione di dominio assoluto, con la leadership di Hamas isolata e le infrastrutture distrutte, Israele ha accettato un cessate il fuoco che preserva la struttura organizzativa di Hamas e fornisce un margine di manovra per la ricostituzione.
Le implicazioni militari si estendono su più dimensioni. Israele sostiene di aver ucciso tra i 17.000 e i 23.000 militanti di Hamas, anche se il database dei servizi segreti israeliani a maggio 2025 confermava solo 8.900 combattenti di Hamas e della Jihad Islamica uccisi. I servizi segreti statunitensi hanno stimato che Hamas abbia reclutato circa 15.000 nuovi combattenti durante la guerra, suggerendo che l'organizzazione abbia continuato a reclutare nonostante le perdite. L'IDF ha annunciato di aver smantellato 20 dei 24 battaglioni di Hamas, con le forze israeliane che controllano circa il 75% del territorio della Striscia di Gaza, lasciando ad Hamas il controllo effettivo solo del 20-25% del territorio.
Queste statistiche possono essere interpretate in modo diverso a seconda della prospettiva. Da un punto di vista, Hamas ha subito un degrado catastrofico con l'eliminazione della leadership senior, la distruzione della struttura di comando e la riduzione del controllo territoriale a un quarto della striscia. Da un altro, Hamas ha dimostrato una notevole resilienza, reclutando tanti combattenti quanti ne ha persi, mantenendo la coesione organizzativa nonostante la decapitazione della leadership e costringendo Israele ad accettare i negoziati nonostante detenga solo il 20-25% del territorio che possedeva prima della guerra. La questione non è quale interpretazione sia accurata, ma quale sia più importante dal punto di vista strategico. Un Hamas indebolito ma intatto che sopravvive per combattere un altro giorno rappresenta un successo strategico per l'organizzazione, indipendentemente dalle perdite tattiche.
Si consideri la rete di tunnel, la risorsa strategica più preziosa di Hamas e l'infrastruttura che ha reso possibile l'attacco del 7 ottobre. Sebbene Israele abbia distrutto molti ingressi e pozzi dei tunnel, la mappatura completa e la distruzione dell'intera rete rimanevano incomplete al momento dell'interruzione delle operazioni. L'accordo di cessate il fuoco impone la distruzione dei tunnel sotto la supervisione internazionale, ma i meccanismi di applicazione rimangono indefiniti. Gli osservatori internazionali avranno accesso a tutte le posizioni sospette dei tunnel? Possederanno le competenze tecniche per verificare la completa distruzione? Hamas collaborerà nell'identificazione dei tunnel che ha impiegato decenni a costruire? Più fondamentalmente, una volta che le forze israeliane si saranno ritirate e il monitoraggio sarà diminuito, cosa impedirà a Hamas di riaprire i tunnel sigillati o di costruirne di nuovi utilizzando le stesse competenze che ha utilizzato per costruire la rete originale?
Il cessate il fuoco lascia intatto circa il 10-15% dell'arsenale di razzi prebellico di Hamas, composto da 20.000 proiettili, con capacità di lancio sporadica. Sebbene ridotta rispetto ai bombardamenti continui dell'ottobre 2023, questa capacità residua diventa strategicamente significativa durante la ricostituzione.
Hamas ha conservato le conoscenze tecniche, le competenze ingegneristiche e le infrastrutture industriali necessarie per fabbricare razzi durante tutta la guerra, nonostante i bombardamenti israeliani.
Il cessate il fuoco fornisce il tempo e lo spazio necessari per ricostruire gli impianti di produzione, addestrare nuovo personale e ripristinare la capacità. A meno che i “programmi di smantellamento” menzionati nel piano di Trump non comportino la distruzione fisica di ogni tornio, fresatrice e officina a Gaza – cosa impossibile – Hamas finirà per ripristinare la produzione di razzi.
Cosa ancora più importante, Izz al-Din al-Haddad, noto come “Il fantasma di Al-Qassam”, è emerso come nuovo leader militare e amministrativo di Hamas dopo la morte di Mohammed Sinwar nel maggio 2025. Il comandante cinquantacinquenne, che parla correntemente l'ebraico, è sopravvissuto a sei tentativi di assassinio da parte di Israele e ha perso due figli durante la guerra, pur mantenendo il comando. Israele ha offerto 750.000 dollari per informazioni che portassero alla sua cattura o alla sua morte. Al-Haddad detiene il potere di veto su qualsiasi accordo di cessate il fuoco o di rilascio degli ostaggi ed è descritto come più pragmatico dei suoi predecessori per quanto riguarda i negoziati, pur rimanendo impegnato nella resistenza armata. Il cessate il fuoco lo lascia vivo, al comando e in posizione di orchestrare la ricostituzione di Hamas.
• Dimensione psicologica: vittoria negata
Le guerre non finiscono quando una delle parti non è più in grado di combattere, ma quando accetta di non poter vincere. Questa dimensione psicologica, ovvero la convinzione dell'avversario che continuare a resistere sia inutile, è più importante dei dati relativi al campo di battaglia. L'esercito della Germania nazista fu distrutto alla fine del 1944, ma la guerra continuò per un altro anno fino a quando l'occupazione fisica del Reich e il suicidio di Hitler non distrussero ogni speranza di vittoria. Il Giappone aveva la capacità di continuare a combattere dopo Hiroshima e Nagasaki, ma il discorso radiofonico senza precedenti dell'imperatore che annunciava la resa spezzò la volontà della popolazione. Le Tigri Tamil controllavano il territorio e comandavano i combattenti fino a quando la morte di Prabhakaran e l'accerchiamento militare dimostrarono in modo definitivo che la loro causa era persa.
L'accettazione da parte di Hamas del quadro proposto da Trump rappresenta un adeguamento pragmatico alla realtà del campo di battaglia, non una sconfitta psicologica. L'organizzazione è sopravvissuta, la sua leadership continua a operare da Doha, il suo comandante militare è ancora vivo a Gaza e ha costretto con successo Israele a negoziare, nonostante controlli solo un quarto del territorio. Dal punto di vista di Hamas, il cessate il fuoco rappresenta un successo strategico: hanno attaccato Israele, uccidendo 1.195 israeliani, tra cui 815 civili, preso 251 ostaggi, scatenato una guerra che ha distrutto gran parte delle infrastrutture di Gaza, eppure ne sono usciti con la capacità di negoziare i termini e la sopravvivenza dell'organizzazione intatta.
La narrativa che Hamas promuoverà in tutto il mondo arabo e islamico è semplice: il 7 ottobre hanno inflitto una dura sconfitta a Israele, hanno resistito a due anni di bombardamenti, hanno costretto l'IDF a ritirarsi dalla città di Gaza attraverso la resistenza e hanno negoziato il rilascio di 2.000 prigionieri palestinesi, tra cui 250 terroristi condannati all'ergastolo. La distruzione di Gaza sarà presentata come un eroico sacrificio nella resistenza all'occupazione. Le vittime civili, risultato diretto dell'uso di scudi umani da parte di Hamas e dell'inserimento di infrastrutture militari in aree civili, saranno attribuite interamente a Israele dalla sua macchina propagandistica.
Consideriamo il destino dei vertici di Hamas. Sì, Israele ha eliminato Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar, Marwan Issa e Ismail Haniyeh, l'intera leadership che ha pianificato il 7 ottobre. Ma dal punto di vista ideologico di Hamas, questi uomini hanno raggiunto il martirio portando avanti la causa. Yahya Sinwar è morto combattendo contro le forze israeliane, senza arrendersi. Mohammed Deif è stato eliminato mentre era ancora al comando delle operazioni militari. Queste morti saranno commemorate, le strade intitolate a loro nome e le nuove reclute ispirate dal loro esempio. L'assenza di processi pubblici significa che non ci sarà alcun confronto con i loro crimini, nessun riconoscimento forzato delle atrocità, nessuna rottura della narrativa del martirio. Sono morti come terroristi piuttosto che affrontare la giustizia per i loro crimini.
Il comitato direttivo temporaneo di cinque membri con sede a Doha continua a governare Hamas con Khaled Mashal, Khalil al-Hayya e altri che operano apertamente in Qatar. Le elezioni della leadership, rinviate a causa della guerra, alla fine si terranno, garantendo continuità. A differenza delle Tigri Tamil, la cui intera leadership è stata uccisa o catturata, o di Sendero Luminoso, la cui aura mistica è svanita quando Abimael Guzmán è stato esposto in una gabbia, la leadership esterna di Hamas rimane intatta, ben finanziata e trattata come partner negoziale legittimo da vari attori internazionali. Il precedente dell'incontro tra i funzionari dell'amministrazione Trump e i rappresentanti di Hamas e i mediatori arabi che hanno facilitato le discussioni conferisce all'organizzazione la legittimità che ha cercato per decenni.
L'effetto psicologico sulla società palestinese richiede una valutazione onesta. Mentre alcuni abitanti di Gaza hanno manifestato contro il governo di Hamas con slogan come “fuori, fuori, Hamas fuori” e un sondaggio del maggio 2025 ha mostrato il 48% di approvazione per le manifestazioni anti-Hamas, l'organizzazione mantiene un significativo sostegno ideologico. La macchina propagandistica di Hamas attribuirà le disposizioni umanitarie del cessate il fuoco – aumento degli aiuti, fondi per la ricostruzione, ripristino dei servizi – al proprio successo negoziale piuttosto che alla moderazione di Israele o alla pressione internazionale.
L'obiettivo dichiarato di Israele all'inizio di questa guerra era eliminare Hamas come forza militare e di governo. Due anni dopo, Hamas non governa nulla, ma esiste come organizzazione politico-militare in grado di schierare combattenti, negoziare accordi e comandare lealtà. Ciò rappresenta la sconfitta degli obiettivi di guerra di Israele, indipendentemente dai successi militari tattici. Quando il Vietnam del Nord accettò gli Accordi di pace di Parigi nel 1973, non aveva sconfitto militarmente gli Stati Uniti, ma era sopravvissuto abbastanza a lungo da superare la volontà politica americana. Due anni dopo, Saigon cadde. Il parallelo con la pazienza strategica di Hamas è ovvio e minaccioso.
• Dimensione istituzionale: il vuoto di governance
Hamas è molto più che militanti armati nei tunnel. In oltre 18 anni di governo di Gaza dal 2007, ha costruito un'infrastruttura istituzionale completa che tocca ogni aspetto della vita palestinese: istruzione, sanità, servizi sociali, istituzioni religiose, media, amministrazione civile e attività economica. Questa profondità istituzionale spiega la resilienza di Hamas nonostante la decapitazione della leadership e il degrado militare. Distruggere l'organizzazione richiede lo smantellamento di queste istituzioni e la loro sostituzione con alternative che servano la popolazione di Gaza senza dare potere ai terroristi. L'accordo di cessate il fuoco presuppone che questa transizione possa avvenire attraverso una sostituzione tecnocratica supervisionata da osservatori internazionali. L'evidenza storica suggerisce il contrario.
Si consideri l'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione che ha assunto i partecipanti del 7 ottobre e le cui strutture ospitavano le armi di Hamas. Il piano di Trump richiede la chiusura definitiva dell'UNRWA a Gaza, con indagini sui dipendenti e procedimenti giudiziari contro gli affiliati di Hamas. Si tratta di una politica corretta, ma che solleva immediatamente alcune domande: chi fornirà istruzione, assistenza sanitaria e servizi sociali a due milioni di palestinesi se l'UNRWA cesserà le sue attività? Il piano di Trump menziona nuove “strutture di aiuto non politicizzate”, ma crearle da zero mentre l'UNRWA chiude comporterà enormi lacune nei servizi. Hamas ha prosperato colmando le lacune nei servizi quando l'Autorità Palestinese si è dimostrata inefficace. Le bande criminali e le milizie rivali hanno già colmato il vuoto di potere nelle aree in cui Hamas ha perso il controllo. A meno che non vengano istituite istituzioni sostitutive contemporaneamente alla rimozione di Hamas, prevarrà il caos piuttosto che un governo tecnocratico.
Il sistema educativo rappresenta il campo di battaglia più critico per il futuro di Gaza. I libri di testo di Hamas hanno insegnato il martirio e l'antisemitismo a un'intera generazione. Gli insegnanti hanno indottrinato i bambini. Le strutture scolastiche sono state utilizzate come depositi di armi e ingressi di tunnel. Il riferimento del piano Trump ai tecnocrati che sviluppano nuovi programmi di studio che enfatizzano la matematica, la scienza e la formazione professionale sembra sensato, ma ignora gli ostacoli pratici. Il corpo docente di Gaza è stato istruito sotto il governo di Hamas, impiegato dai ministeri di Hamas e in molti casi ha collaborato attivamente con le operazioni di Hamas. È impossibile controllare ogni insegnante; sostituirli in massa significa che nessuna scuola funzionerà. L'alternativa – accettare che gli insegnanti formati da Hamas impartiscano programmi “riformati” sotto il controllo internazionale – non fa altro che dare una nuova immagine all'infrastruttura educativa di Hamas.
La rete di moschee utilizzata per il reclutamento e l'incitamento presenta sfide simili. Arrestare gli imam che predicavano la violenza e demolire le moschee utilizzate come depositi di armi sembra appropriato, ma crea problemi immediati. La leadership religiosa a Gaza si è evoluta nel corso di decenni all'interno di strutture controllate da Hamas. Trovare “una nuova leadership religiosa, controllata per il suo rifiuto della violenza e dell'estremismo” richiede l'identificazione di musulmani palestinesi che godano di rispetto, possiedano credenziali religiose e si oppongano a Hamas, una popolazione esigua data la realtà politica di Gaza. Monitorare i sermoni del venerdì per individuare incitamenti presuppone una capacità di monitoraggio che non esiste e non può essere sostenuta. Più fondamentalmente, la teologia radicale predicata da Hamas non è unica a Gaza, ma riflette interpretazioni estremiste più ampie prevalenti in tutta la regione. Cambiare la cultura religiosa di Gaza richiede una trasformazione generazionale, non un rimescolamento istituzionale.
Il sistema sanitario che Hamas ha utilizzato per scopi militari, con ospedali che ospitano centri di comando e personale medico che partecipa alle attività di Hamas, deve essere ricostruito in base alle disposizioni umanitarie del cessate il fuoco. Il piano Trump sottolinea giustamente che solo 14 dei 36 ospedali erano parzialmente funzionanti a ottobre e nessuno era completamente operativo. Gli aiuti internazionali ricostruiranno le strutture, formeranno il personale e ripristineranno i servizi. Ma a meno che gli amministratori affiliati a Hamas non vengano epurati e il personale medico che ha partecipato al terrorismo non perda la licenza, il sistema sanitario ricostruito si limiterà a ripristinare le infrastrutture di Hamas. L'alternativa, importare personale medico straniero per sostituire i medici e gli infermieri di Gaza, non è né fattibile né sostenibile. Gaza ha bisogno dei propri professionisti medici, che operano all'interno delle reti politico-sociali che Hamas ha coltivato per anni.
Il vuoto di governance creato dall'uscita concordata di Hamas dall'amministrazione formale crea opportunità per l'emergere di centri di potere alternativi. Le bande criminali hanno già riempito i vuoti nelle aree perse da Hamas con l'“erosione della barriera della paura” tra i civili di Gaza. Gruppi estremisti rivali più radicali di Hamas competono per ottenere influenza. I clan familiari e le strutture tribali riaffermano l'autorità tradizionale. L'Autorità Palestinese, debole e corrotta, non gode di alcun rispetto. In questo caos, il piano Trump introduce un “comitato tecnocratico palestinese” supervisionato da un “Consiglio di pace” internazionale che Hamas ha già respinto. Anche se istituito, cosa governa esattamente questo comitato? Non controlla forze armate, non gode della fedeltà popolare, non possiede profondità istituzionale e dipende interamente dalla protezione e dai finanziamenti esterni. Si tratta di autorità la cui legittimità deriva dal sostegno straniero piuttosto che dal consenso interno.
• Dimensione regionale: esaurimento arabo senza allineamento
Il piano Trump sfrutta il genuino esaurimento arabo nei confronti della causa palestinese per costruire un'architettura di sicurezza regionale a sostegno del cessate il fuoco. L'Egitto, che ha allagato i tunnel di Hamas e li ha designati come terroristi, ospita negoziati cruciali a Sharm el-Sheikh. Il Qatar media nonostante ospiti la leadership di Hamas a Doha. La Giordania accoglie con favore il quadro. L'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Bahrein - i firmatari degli Accordi di Abramo più i sauditi - sostengono tutti pubblicamente il piano. Questo consenso regionale rappresenta un reale progresso diplomatico e risponde alle legittime preoccupazioni israeliane riguardo alla minaccia che Gaza potrebbe rappresentare in futuro per la stabilità regionale.
Tuttavia, il sostegno arabo rimane condizionato, limitato e, in ultima analisi, allineato agli interessi arabi piuttosto che a quelli israeliani.
Si consideri il ruolo dell'Egitto. Il presidente al-Sissi ha definito il cessate il fuoco un “momento storico che incarna il trionfo della volontà di pace” e l'Egitto stabilirà una presenza di sicurezza nel sud di Gaza nell'ambito del piano. Ma l'interesse primario dell'Egitto è quello di impedire che il caos di Gaza si estenda oltre il confine del Sinai, mantenendo al contempo buoni rapporti con la nuova amministrazione Trump. L'Egitto non ha alcun interesse a governare Gaza, a confrontarsi militarmente con Hamas per conto di Israele o ad accogliere i rifugiati di Gaza. Quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, l'Egitto ha chiuso il confine e ha lasciato morire di fame i palestinesi piuttosto che aprire i valichi. La “cooperazione in materia di sicurezza” egiziana significa impedire il contrabbando di armi e mantenere la sicurezza delle frontiere, cosa importante ma insufficiente per garantire la sconfitta definitiva di Hamas.
La posizione della Giordania è simile. Avendo represso la propria rivolta palestinese durante il Settembre Nero, la Giordania comprende la minaccia dell'estremismo palestinese. La cooperazione dei servizi segreti giordani nel controllare gli amministratori e il personale di sicurezza aiuta a identificare gli infiltrati di Hamas. Ma la Giordania non schiererà forze a Gaza, non governerà i territori palestinesi né si assumerà la responsabilità dei risultati politici palestinesi. La popolazione a maggioranza palestinese della Giordania fa sì che la stabilità del regno dipenda dal non essere visto come un soppressore delle aspirazioni palestinesi. La Giordania coopera a distanza, assicurandosi che i problemi di Gaza rimangano responsabilità di qualcun altro.
Gli Stati del Golfo offrono fondi per la ricostruzione con aspettative di ritorni commerciali. Gli Emirati Arabi Uniti potrebbero ricostruire il porto di Gaza; l'Arabia Saudita potrebbe finanziare gli alloggi. Questi progetti fornirebbero occupazione, ripristinerebbero le infrastrutture e dimostrerebbero tangibili dividendi di pace. Tuttavia, i finanziamenti del Golfo sono soggetti a condizioni, principalmente che si verifichino riforme della governance palestinese e che la sicurezza si stabilizzi. Se la Fase Due fallisce e la violenza riprende, gli investimenti del Golfo svaniscono. Inoltre, gli Stati del Golfo danno sempre più priorità allo sviluppo economico e al contenimento dell'Iran rispetto alle questioni palestinesi. Il loro sostegno al piano di Trump riflette l'allineamento con la politica americana e l'interesse personale nella stabilità regionale, non l'impegno a garantire la sicurezza di Israele contro una rinascita di Hamas.
La posizione dell'Arabia Saudita merita particolare attenzione. Il regno era tra gli “Stati arabi e musulmani chiave” da cui Trump ha ottenuto il sostegno, aderendo a una dichiarazione congiunta del 29 settembre che accoglieva con favore i suoi sforzi. Tuttavia, l'Arabia Saudita sostiene che la normalizzazione con Israele rimane subordinata ai progressi verso la creazione di uno Stato palestinese basato sull'Iniziativa di pace araba, alla fine dell'occupazione e al ritiro israeliano dai territori occupati. Queste condizioni non sono soddisfatte dal linguaggio vago di Trump su un “percorso credibile verso l'autodeterminazione palestinese” una volta completate le riforme dell'Autorità Palestinese. L'Arabia Saudita cerca garanzie di sicurezza americane, tecnologia nucleare e leadership regionale, obiettivi perseguiti sostenendo il piano di Trump indipendentemente dai risultati per Israele.
Il ruolo della Turchia rivela in modo più evidente i limiti del consenso regionale. Il presidente Erdoğan, che descrive Hamas come un “gruppo di liberazione” piuttosto che come un'organizzazione terroristica, ha dichiarato il 4 ottobre che “si è aperta una finestra di opportunità per una pace duratura”. Il sostegno della Turchia al piano riflette il miglioramento delle relazioni di Erdoğan con Trump e il desiderio di cooperazione economica, non un autentico allineamento con gli interessi di sicurezza israeliani. La Turchia non eserciterà pressioni su Hamas oltre quanto necessario per mantenere la buona volontà di Trump. I servizi segreti turchi non condividono alcuna informazione con Israele. Le organizzazioni della società civile turca che parteciperanno alla ricostruzione di Gaza sostengono ideologicamente Hamas e forniscono una copertura per il mantenimento dell'influenza di Hamas.
I paesi firmatari degli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco – rappresentano i partner regionali più promettenti, date le loro relazioni formali con Israele. Tuttavia, queste relazioni rimangono subordinate all'allineamento della politica israeliana con gli interessi arabi. Il pacchetto di sanzioni dell'UE di settembre che prende di mira alcuni individui israeliani, sebbene richieda l'approvazione unanime dell'UE per essere attuato, segnala una crescente pressione internazionale. Se i negoziati della Fase Due falliscono e Israele riprende le operazioni militari, le nazioni degli Accordi di Abramo dovranno affrontare pressioni interne per prendere le distanze da Israele. Il loro sostegno al cessate il fuoco riflette l'attuale allineamento politico; il loro sostegno a Israele in caso di fallimento del cessate il fuoco è incerto.
• Dimensione internazionale: pressione senza strategia
Il cessate il fuoco ha ottenuto un notevole sostegno internazionale, con il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres che ha accolto con favore l'accordo, il sostegno dell'UE ai principi di smilitarizzazione, il presidente francese Macron che ha ringraziato Trump per il suo “impegno per la pace”, il cancelliere tedesco Merz che lo ha definito “la migliore opportunità per la pace” e il primo ministro britannico Starmer che lo ha descritto come “un significativo passo avanti”. Questa unanimità diplomatica rappresenta un risultato autentico che distingue l'ottobre 2025 dai precedenti tentativi falliti. La pressione internazionale sostenuta da parte dei funzionari dell'amministrazione Trump, tra cui l'inviato speciale Steve Witkoff e Jared Kushner che hanno partecipato direttamente ai negoziati, si è rivelata decisiva. L'ultimatum di Trump del 3 ottobre, che avvertiva di “un vero e proprio INFERNO” se Hamas avesse rifiutato il piano, combinato con la sua richiesta a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”, ha dimostrato la volontà di esercitare pressioni su entrambe le parti.
Il dispiegamento da parte del Comando Centrale degli Stati Uniti di 200 militari in Israele per istituire un centro di coordinamento a sostegno del monitoraggio del cessate il fuoco e del flusso di aiuti umanitari segnala l'impegno americano per il successo dell'accordo. È fondamentale sottolineare che non si tratta di truppe da combattimento e che non saranno dispiegate a Gaza stessa. Il coinvolgimento americano rimane strettamente diplomatico e logistico, senza fornire garanzie di sicurezza al di là della pressione politica per il rispetto dell'accordo. Se Hamas violerà l'accordo, la risposta degli Stati Uniti sarà una condanna diplomatica, non un'azione militare. Ciò limita l'influenza americana alla persuasione piuttosto che alla coercizione, sufficiente forse per mantenere il cessate il fuoco, ma insufficiente per costringere Hamas al disarmo contro la sua volontà.
L'interesse personale dell'amministrazione Trump nel successo di questo accordo crea sia opportunità che vincoli. Trump presiede il “Consiglio di pace” e ha puntato la sua reputazione diplomatica sul raggiungimento di ciò che le amministrazioni precedenti non sono riuscite a ottenere. L'attenzione presidenziale garantisce un impegno costante ad alto livello che potrebbe impedire l'incuria che ha condannato gli accordi precedenti. Tuttavia, ciò significa anche che la flessibilità della politica americana è limitata dall'impegno personale di Trump. Se i negoziati della Fase Due si arenano, Trump dovrà affrontare dei costi politici nell'ammettere che il quadro non può produrre i risultati promessi. La tentazione di fare pressione su Israele affinché accetti un disarmo parziale di Hamas o impegni vaghi piuttosto che riconoscere i limiti del piano diventa significativa.
Le organizzazioni umanitarie internazionali inonderanno Gaza di fondi per la ricostruzione, creando incentivi economici per mantenere il cessate il fuoco. La Banca Mondiale ha stimato 53 miliardi di dollari di danni materiali diretti a febbraio 2025, con il 92% degli edifici residenziali danneggiati o distrutti. I costi effettivi di ricostruzione potrebbero superare i 100 miliardi di dollari in 3-5 anni. Ciò rappresenta un'opportunità per trasformare l'economia di Gaza e migliorare le condizioni di vita. Tuttavia, i fondi per la ricostruzione che passano attraverso i tecnocrati palestinesi senza robusti meccanismi anticorruzione e senza il monitoraggio di Hamas saranno dirottati per la ricostituzione di Hamas.
La capacità di monitoraggio internazionale è limitata e organizzazioni come l'UNRWA si sono dimostrate vulnerabili all'infiltrazione di Hamas. Il denaro destinato alle scuole e agli ospedali può finanziare la ricostruzione dei tunnel e l'acquisto di armi.
L'influenza della comunità internazionale su Israele rimane principalmente economica e diplomatica piuttosto che militare. Vari organismi internazionali e nazioni possono esercitare pressioni, ma gli aiuti militari americani continuano indipendentemente dalle scelte politiche israeliane. L'effetto combinato crea una pressione sufficiente a costringere l'accettazione di un cessate il fuoco quando le circostanze lo favoriscono, ma insufficiente a forzare l'allineamento della politica israeliana alle preferenze internazionali se il governo israeliano ritiene che la sua sicurezza richieda approcci diversi. Ciò crea una dinamica problematica: la pressione internazionale impedisce a Israele di ottenere una vittoria militare decisiva, ma non può imporre risultati che pongano realmente fine al conflitto.
• Lo scambio di ostaggi: il rischio morale si è concretizzato
I 48 ostaggi rimasti – 20 ritenuti vivi, 28 deceduti – rappresentano l'ultima risorsa strategica di Hamas e il tallone d'Achille emotivo di Israele. Il loro rilascio entro 72 ore dal ritiro israeliano rappresenta il risultato umanitario più immediato del cessate il fuoco e il suo costo strategico più profondo. Israele rilascerà 250 palestinesi che stanno scontando l'ergastolo per reati legati al terrorismo, oltre a circa 1.700 palestinesi detenuti a Gaza dal 7 ottobre, comprese tutte le donne e i bambini. Si tratta del più grande rilascio di prigionieri nella storia di Israele, superiore persino all'accordo Shalit del 2011 che ha liberato 1.027 prigionieri, tra cui Yahya Sinwar, che ha orchestrato il 7 ottobre.
Il calcolo morale che deve affrontare la leadership israeliana si rivela incredibilmente crudele: accettare le condizioni di Hamas e riportare a casa gli ostaggi, oppure mantenere la pressione militare che potrebbe uccidere gli ostaggi ma evita di rafforzare il terrorismo futuro. Le famiglie degli ostaggi, riunite a Hostages Square a Tel Aviv, sono esplose di gioia all'annuncio, con Einav Zangauker, madre dell'ostaggio Matan, che ha dichiarato: “Ho pregato per queste lacrime... Matan sta tornando a casa!”. La carica emotiva di questo momento è innegabile e l'imperativo umanitario di salvare vite umane è profondo. Nessun leader israeliano può facilmente dire a queste famiglie che i loro cari devono rimanere prigionieri per ragioni strategiche.
Tuttavia, il precedente stabilito da questo scambio garantisce virtualmente futuri sequestri di ostaggi. L'attacco di Hamas del 7 ottobre ha ucciso 1.195 israeliani e preso 251 ostaggi. Nonostante due anni di devastanti risposte militari che hanno ucciso i leader, distrutto le infrastrutture e ridotto Hamas al controllo del 20-25% del suo territorio prebellico, Hamas è riuscita a negoziare il rilascio di 2.000 prigionieri, tra cui 250 condannati all'ergastolo. Dal punto di vista di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche che osservano, questo rapporto di scambio conferma che il sequestro di ostaggi è strategicamente efficace. I futuri attacchi daranno la priorità alla cattura di israeliani, sapendo che un numero sufficiente di ostaggi costringe a negoziare indipendentemente dai risultati militari.
Le foto degli ostaggi scattate da Hamas il 7 ottobre 2023 sono esposte a Tel Aviv. Tra le persone ancora detenute ci sono sette americani.
I prigionieri specifici che saranno rilasciati amplificano queste preoccupazioni. Mentre il governo ha confermato che Marwan Barghouti, leader di Fatah che sta scontando cinque ergastoli e potenziale futuro leader palestinese, non sarà rilasciato, altri 250 prigionieri condannati all'ergastolo saranno liberati. Si tratta di individui condannati per aver pianificato o eseguito attacchi che hanno causato la morte di israeliani. Molti possiedono competenze tecniche, esperienza operativa e impegno ideologico che li rendono risorse preziose per Hamas. Alcuni torneranno direttamente al terrorismo; altri addestreranno nuove reclute, ricostruiranno reti e trasferiranno conoscenze. La lezione dell'accordo Shalit del 2011 è istruttiva: Yahya Sinwar, rilasciato in quello scambio, è diventato il leader di Hamas a Gaza e l'artefice del 7 ottobre. Quanti futuri Sinwar sono inclusi negli attuali 250?
I 1.700 palestinesi detenuti dal 7 ottobre presentano preoccupazioni diverse. Questi detenuti includono partecipanti al 7 ottobre, membri di Hamas arrestati durante la guerra e civili detenuti in operazioni militari. Il piano di Trump offre l'amnistia ai membri di Hamas che si impegnano a convivere pacificamente e a smantellare le armi, con un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza per coloro che desiderano lasciare Gaza. Ciò presuppone che gli agenti di Hamas abbandonino sinceramente la loro causa, un'ipotesi contraddetta dall'impegno ideologico e dalle reti familiari/sociali che li legano alla resistenza continua. La maggior parte dei prigionieri rilasciati rimarrà a Gaza o in Cisgiordania, dove si riunirà alle reti di Hamas o ne creerà di nuove.
Il termine di 72 ore per il rilascio crea ulteriori complicazioni. Le valutazioni dei servizi segreti israeliani suggeriscono che Hamas potrebbe non conoscere l'ubicazione di 7-15 ostaggi deceduti, i cui resti potrebbero essere sepolti sotto le macerie nelle zone devastate dai bombardamenti israeliani. Alcuni ostaggi sono detenuti da gruppi che Hamas non controlla completamente, tra cui la Jihad islamica e altre fazioni. Se Hamas non riuscisse a consegnare tutti gli ostaggi entro 72 ore, Israele considererebbe l'accordo violato e riprenderebbe le operazioni? Il piano non prevede alcun meccanismo per affrontare questo scenario. In alternativa, se Israele accetta il ritorno parziale degli ostaggi, quale incentivo ha Hamas per localizzare gli ostaggi rimanenti in un secondo momento?
La manipolazione emotiva utilizzata da Hamas durante la prigionia, attraverso la diffusione di video degli ostaggi in condizioni deplorevoli, che mostravano grave malnutrizione e torture psicologiche, ha esercitato con successo pressioni su Israele affinché avviasse i negoziati. Questa tecnica verrà replicata. Le future organizzazioni terroristiche che osservano il successo di Hamas capiranno che tenere gli ostaggi in condizioni sufficientemente crudeli, diffondere video che documentano le loro sofferenze e attendere che la pressione dell'opinione pubblica costringa il governo a concedere concessioni rappresenta una strategia collaudata.
Questo precedente allontana il terrorismo dalla violenza immediata per orientarlo verso il sequestro prolungato di ostaggi come tattica primaria.
L'approccio alternativo, che consiste nel mantenere la pressione militare senza negoziare per gli ostaggi, sembra impossibilmente duro, ma rappresenta una logica di deterrenza a lungo termine. Se la presa di ostaggi si dimostrasse costantemente controproducente perché Israele risponde con operazioni militari intensificate che uccidono i rapitori senza concedere concessioni, i gruppi futuri eviterebbero questa tattica. Le operazioni militari dello Sri Lanka contro le Tigri Tamil sono continuate nonostante le vittime civili e la pressione internazionale fino alla completa distruzione dell'organizzazione. L'approccio della Russia nei confronti dei terroristi ceceni che hanno preso ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca e nella scuola di Beslan ha comportato assalti militari che hanno ucciso terroristi e ostaggi piuttosto che negoziati. Questi approcci hanno impedito futuri sequestri di ostaggi dimostrando che sarebbero falliti.
La società israeliana, tuttavia, non può sostenere una tale spietatezza, data la responsabilità democratica e i legami emotivi tra cittadini e soldati. La dichiarazione del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi secondo cui “la nostra lotta non è finita, e non finirà, fino al ritorno dell'ultimo ostaggio” coglie il sentimento pubblico che nessun governo israeliano può ignorare all'infinito. Questo impulso umanitario rappresenta la forza morale della società israeliana, ma crea vulnerabilità strategiche che le organizzazioni terroristiche sfruttano. Il rischio morale insito nello scambio – salvare questi ostaggi incoraggia futuri sequestri – non può essere risolto attraverso la politica, ma riflette la tensione fondamentale tra i valori democratici e le esigenze della lotta al terrorismo.
• Fase due: la crisi imminente
L'attuazione della fase uno nelle prossime 72 ore procederà senza intoppi – tutti gli ostaggi saranno liberati, i prigionieri scambiati, le forze israeliane si ritireranno sulle linee concordate, gli aiuti umanitari arriveranno – oppure fallirà immediatamente a causa dell'incapacità o della riluttanza di Hamas a consegnare gli ostaggi. Se la fase uno avrà successo, l'attenzione si sposterà immediatamente sui negoziati della fase due, che dovrebbero iniziare durante l'attuazione della fase uno. È qui che il cessate il fuoco si consoliderà in un accordo sostenibile o fallirà in un nuovo conflitto.
Le questioni fondamentali che richiedono una risoluzione nella Fase Due sono:
- Il completo disarmo di Hamas, compresa la distruzione delle armi rimanenti, lo smantellamento degli impianti di produzione e la dismissione permanente delle infrastrutture militari. Hamas non ha assunto alcun impegno in materia di disarmo nella sua risposta del 3 ottobre e ha dichiarato esplicitamente che non deporrà le armi fino alla creazione di uno Stato palestinese. Israele considera il disarmo assolutamente non negoziabile. Ciò pone i negoziati della Fase Due come un confronto a somma zero: o Hamas disarma e cessa di esistere come forza militare, oppure mantiene le armi e rimane una potenziale minaccia. Non esiste una via di mezzo; il disarmo parziale significa che Hamas mantiene la sua capacità di operare in futuro.
- Ritiro completo di Israele da Gaza, compreso l'evacuazione del Corridoio di Philadelphi e delle zone cuscinetto di sicurezza. Hamas chiede il “ritiro completo dalla Striscia di Gaza” con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Israele insiste che il ritiro è subordinato ai progressi nella smilitarizzazione con accordi di sicurezza permanenti che garantiscano che Gaza non rappresenti una minaccia. Netanyahu ha ripetutamente affermato che “Israele effettua un ritiro tattico, rimane a Gaza” con le forze israeliane che mantengono una presenza di sicurezza perimetrale fino a quando Gaza non sarà al sicuro dalle minacce terroristiche. Il linguaggio del piano Trump che collega il ritiro a “standard, traguardi e tempistiche concordati legati alla smilitarizzazione” non risolve nulla, poiché la sequenza rimane controversa.
- Transizione di governance da Hamas ai tecnocrati palestinesi sotto la supervisione internazionale. Sebbene Hamas abbia accettato di rinunciare all'autorità di governo, ha rifiutato la struttura del “Consiglio di pace” con Trump e Blair, insistendo sul fatto che solo i palestinesi possono controllare i palestinesi. L'Autorità palestinese non ha la capacità e la credibilità per assumere il controllo. Chi governa effettivamente l'amministrazione quotidiana di Gaza, fornisce servizi, mantiene l'ordine, impiega funzionari pubblici e gode di legittimità popolare rimane irrisolto. Senza un governo efficace, gli elementi criminali, le fazioni militanti rivali e Hamas che opera segretamente riempiranno il vuoto.
- La statualità palestinese rappresenta l'orizzonte politico finale che potrebbe fornire una soluzione duratura, ma rimane volutamente vaga nel piano di Trump. Il quadro menziona solo che “quando il programma di riforma dell'Autorità Palestinese sarà fedelmente attuato, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese”. Netanyahu ha categoricamente e ripetutamente respinto la creazione di uno Stato palestinese, definendola “il premio finale per il terrorismo” e dichiarando alle Nazioni Unite il 26 settembre: “Israele non vi permetterà di imporci uno Stato terrorista”. Ha sottolineato che questa è “la politica dello Stato e del popolo dello Stato di Israele”. Hamas insiste sulla creazione di uno Stato che comprenda tutta la “Palestina” storica con Gerusalemme come capitale. Questo divario tra le due posizioni non può essere colmato attraverso i negoziati.
La crisi politica interna di Netanyahu complica notevolmente i negoziati della Fase Due. La sua coalizione detiene solo 60 seggi nella Knesset, che ne conta 120, e non ha la maggioranza parlamentare. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno entrambi votato contro l'accordo della Fase Uno, con Ben Gvir che ha dichiarato che il suo partito lascerà il governo se Hamas non verrà smantellato nella Fase Due. L'accordo è stato approvato solo perché il leader dell'opposizione Yair Lapid ha offerto una “rete di sicurezza” politica, fornendo voti per impedire il crollo del governo. Questa cooperazione senza precedenti tra rivali quando gli interessi nazionali coincidono dimostra la resilienza della democrazia israeliana, ma crea dinamiche insostenibili. Netanyahu deve negoziare contemporaneamente con Hamas e gestire i partner della coalizione che considerano intollerabile qualsiasi accordo con Hamas.
Se i negoziati della Fase Due produrranno un accordo che richiede ulteriori concessioni da parte di Israele – accettare il disarmo parziale di Hamas, concordare il ritiro completo senza garanzie di sicurezza ferree o riconoscere percorsi verso la creazione di uno Stato palestinese – Ben Gvir e Smotrich probabilmente faranno cadere il governo. Se Netanyahu resisterà alle richieste di Hamas e i negoziati si bloccheranno, aumenterà la pressione internazionale affinché Israele dia prova di flessibilità, mentre Hamas consoliderà il controllo sulle aree da cui Israele si è ritirato. Se i negoziati falliranno completamente e Israele riprenderà le operazioni militari, torneranno le critiche internazionali, amplificate dalle accuse di malafede nei negoziati da parte di Israele.
Lo scenario più probabile prevede negoziati prolungati nella fase due che porteranno ad accordi parziali su questioni secondarie, mentre le questioni fondamentali – disarmo, ritiro, governance, statualità – rimarranno irrisolte. Hamas attuerà riforme sufficienti a mantenere il sostegno internazionale, preservando al contempo la sua capacità di condurre operazioni future. Israele manterrà la sua presenza di sicurezza in alcune aree, ritirandosi da altre, creando accordi ambigui che non soddisfano nessuno. Verranno istituite strutture di governance tecnocratiche sulla carta, mentre Hamas influenzerà qualsiasi amministrazione attraverso reti di clientelismo e intimidazioni. Entrambe le parti rivendicheranno progressi, preparandosi al contempo a un eventuale scontro.
I precedenti storici suggeriscono che gli accordi di cessate il fuoco che non risolvono realmente le questioni fondamentali finiscono per fallire. Il cessate il fuoco del novembre 2023 è durato una settimana. Il cessate il fuoco del gennaio 2025 è fallito a marzo. Entrambi i fallimenti sono stati caratterizzati da reciproche accuse di malafede, con Israele che sosteneva che Hamas si fosse rifiutato di rispettare gli accordi e Hamas che accusava Israele di sabotare deliberatamente gli accordi. Questo schema non suggerisce che una delle due parti sia particolarmente inaffidabile, ma che le questioni di fondo che le dividono non possono essere risolte attraverso un compromesso negoziato. O Hamas viene sconfitto militarmente e cessa di esistere come minaccia, oppure sopravvive e alla fine riprende il conflitto quando le circostanze lo favoriscono.
• Conclusione: la via da seguire
Il cessate il fuoco del 10 ottobre 2025 rappresenta un punto di svolta nella guerra più lunga di Israele. L'accordo porta benefici immediati tangibili: il ritorno a casa degli ostaggi, l'aiuto umanitario, la riduzione della pressione internazionale e la sospensione delle operazioni militari, consentendo così alle forze di difesa israeliane di riorganizzarsi e prepararsi per future contingenze. Questi risultati sono importanti e non devono essere sottovalutati. Il ritorno a casa di un solo ostaggio vivo giustifica costi significativi. Fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza risponde sia a imperativi morali che a interessi strategici, dimostrando l'impegno di Israele a ridurre al minimo le sofferenze dei civili mentre prende di mira i terroristi di Hamas.
Tuttavia, la traiettoria strategica del cessate il fuoco punta verso un rinnovato conflitto piuttosto che verso una pace sostenibile. Le contraddizioni fondamentali dell'accordo – il disarmo di Hamas, la transizione di governance senza alternative funzionali, il ritiro subordinato a una sicurezza che non esisterà, le aspirazioni di statualità incompatibili con la politica israeliana – non possono essere risolte attraverso i negoziati perché riflettono posizioni realmente inconciliabili. Hamas sopravvive militarmente indebolito ma organizzativamente intatto. La sua ideologia – secondo cui la distruzione di Israele è possibile e obbligatoria – rimane immutata. La sua leadership esterna continua a operare da Doha. Il suo comandante militare a Gaza è sopravvissuto. La sua infrastruttura istituzionale, sebbene danneggiata, conserva la capacità di ricostituirsi.
La scelta strategica di Israele si cristallizza nei negoziati della Fase Due. Una strada prevede l'accettazione di risultati parziali: Hamas cede la maggior parte delle armi, ma non tutte, Israele si ritira dalla maggior parte del territorio, ma non da tutto, la transizione di governo è parziale mentre Hamas mantiene un'influenza informale, la statualità rimane una vaga possibilità. Questa strada mantiene il cessate il fuoco, soddisfa l'opinione pubblica internazionale e offre un momento di respiro. Assicura anche la sopravvivenza di Hamas e il suo eventuale ritorno al conflitto quando le sue capacità saranno ripristinate. L'altra strada consiste nell'insistere sulla completa attuazione di tutte le disposizioni della Fase Due: disarmo totale, ritiro completo solo dopo la verifica, esclusione assoluta di Hamas dal governo e rifiuto esplicito della statualità per le entità terroristiche. Questa strada rischia di far fallire i negoziati, di innescare la ripresa delle operazioni militari e di ripristinare le critiche internazionali. Ma potenzialmente completa la missione della sconfitta permanente di Hamas.
La scelta non è tra la vittoria e il compromesso, ma tra un'azione decisiva e una deriva strategica. Il governo dello Sri Lanka ha affrontato una scelta simile nel 2009: accettare accordi di condivisione del potere con le Tigri Tamil, preservando così la loro capacità, o completare le operazioni militari distruggendole completamente nonostante la pressione internazionale. Lo Sri Lanka ha scelto il completamento. Oggi le Tigri Tamil non esistono più. Il Perù ha affrontato una scelta simile con Sendero Luminoso: negoziare la condivisione del potere o catturare la sua leadership e spezzare il movimento. Il Perù ha scelto di catturare i leader. Oggi Sendero Luminoso è un ricordo storico. La Germania nazista e il Giappone imperiale non sono stati negoziati fino alla moderazione, ma distrutti completamente con società riformate ricostruite da zero. Questi esempi storici hanno avuto successo non grazie alla sofisticatezza diplomatica, ma grazie all'impegno costante nel raggiungere una vittoria autentica a prescindere dai costi.
L'attuale cessate il fuoco offre a Israele l'opportunità di prepararsi al collasso della Fase Due rafforzando il suo governo di coalizione, assicurandosi il sostegno internazionale per una potenziale ripresa delle operazioni, mantenendo la prontezza militare e sviluppando strutture di governance alternative per Gaza che non dipendano dalle capacità dell'Autorità Palestinese. Se i negoziati della Fase Due riuscissero sorprendentemente a costringere Hamas al completo disarmo e all'esclusione permanente dal governo, Israele dovrebbe accogliere con favore tale risultato, mantenendo al contempo meccanismi di verifica per impedire la ricostituzione segreta di Hamas. Se la Fase Due fallisse come previsto, Israele dovrebbe essere pronto a completare le operazioni in modo deciso, piuttosto che accettare un altro cessate il fuoco che preservi Hamas in forma indebolita.
I due anni trascorsi dal 7 ottobre hanno dimostrato la vulnerabilità di Hamas a una pressione militare prolungata. La sua leadership è stata eliminata, le capacità militari sono state ridotte, il controllo territoriale è stato ridotto, le risorse finanziarie sono state esaurite e la rete di sostegno internazionale è stata interrotta. L'organizzazione è sopravvissuta, ma a malapena. Per completarne la sconfitta occorre forse un altro anno di operazioni: distruzione completa dei tunnel, eliminazione della leadership rimanente, smantellamento istituzionale e sostituzione dell'establishment governativo. Questo percorso comporta dei costi: ulteriori vittime dell'IDF, continue critiche internazionali, impegno militare prolungato e tensioni politiche interne. Ma l'alternativa – accettare la sopravvivenza di Hamas e scommettere che gli accordi politico-diplomatici ne impediranno la rinascita – garantisce futuri conflitti in circostanze potenzialmente meno favorevoli di quelle attuali.
L'attacco di Hamas era militarmente irrazionale: garantiva una risposta devastante da parte di Israele senza alcuna possibilità realistica di vittoria strategica. Hamas lo ha lanciato comunque perché l'ideologia ha prevalso sul calcolo razionale. La convinzione che Hamas, dopo aver sperimentato la potenza militare israeliana, accetterà ora una coesistenza pacifica attraverso accordi di governance tecnocratica confonde il pragmatismo tattico con la sconfitta strategica. I nemici veramente sconfitti non negoziano i termini; si arrendono incondizionatamente o cessano di esistere.
Israele deve decidere: accettare i benefici immediati del cessate il fuoco, pur riconoscendo che probabilmente preserva piuttosto che risolvere il conflitto sottostante, oppure utilizzare i negoziati della Fase Due per insistere sulla completa sconfitta di Hamas, comprendendo che ciò potrebbe richiedere la ripresa delle operazioni. Entrambe le strade comportano rischi profondi. La scelta sbagliata, tuttavia, è credere che un compromesso negoziato possa colmare il divario tra l'esistenza di Israele e l'ideologia di Hamas che chiede la distruzione di Israele. Alcuni conflitti finiscono con un compromesso, altri con una vittoria. Il 7 ottobre ha dimostrato in quale categoria rientra questo conflitto. La domanda è se Israele possiede la chiarezza strategica e la volontà politica per agire di conseguenza.
Gli ostaggi torneranno a casa. Gaza sarà ricostruita. Il cessate il fuoco sarà temporaneo. I negoziati della fase due inizieranno con la dovuta serietà diplomatica. E a un certo punto – settimane, mesi, forse un anno da oggi – le contraddizioni fondamentali insite in questo accordo verranno a galla, poiché Hamas resisterà al disarmo, Israele rifiuterà il ritiro completo, le strutture di governo si dimostreranno inadeguate ed entrambe le parti si prepareranno a un nuovo conflitto. Quando arriverà quel momento, Israele dovrà scegliere tra accettare un accordo inadeguato che preserva la minaccia terroristica o completare la missione che il 7 ottobre ha reso necessaria. La scelta di oggi è prepararsi per quella decisione inevitabile di domani.
(Middle East Forum, 10 ottobre 2025)
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La gioia e le molte incognite
L’accordo raggiunto ieri a Sharm El Sheikh e trionfalisticamente salutato come una svolta epocale, lascia grandi incognite. Hamas ha acconsentito a rilasciare i 48 ostaggi detenuti ancora nella Striscia ma chiede in cambio che Israele non riprenda la guerra e che il suo esercito lasci l’enclave, e sembra che abbia ottenuto questa garanzia.
Ieri, Trump ha spiegato che quello che conta adesso è la liberazione degli ostaggi e che dopo si vedrà. Non ha saputo o voluto rispondere sul meccanismo che imporrebbe a Hamas il disarmo completo e che è contento nel suo ambizioso piano di pace e di rinnovo. Questa è la grande incognita. Se a Israele, dopo la consegna degli ostaggi, che deve ancora avvenire, non verrà permesso di riprendere la guerra e verrà imposto di ritirare le truppe da Gaza, chi potrà garantire l’uscita di scena di Hamas, che ha già dichiarato che non si disarmerà e che non ha intenzione di lasciare il governo di Gaza nelle mani di un organismo internazionale percepito come colonizzatore?
È ovviamente di grande rilevanza che gli ostaggi possano tornare a casa, ma gli ostaggi sono anche l’unico scudo che Hamas ha avuto fino ad oggi per garantirsi la sopravvivenza. Lasciarli andare significa esporsi completamente e dunque appare difficile immaginare che attraverso Turchia, Qatar e fondamentalmente Stati Uniti, esso non abbia ottenuto una solida assicurazione di non essere spazzato via. Se è così, Israele è stato costretto a rinunciare alla vittoria militare in cambio del rilascio degli ostaggi e a dovere accettare la permanenza di Hamas a Gaza anche per il futuro. Su questo punto il governo Netanyahu è appeso a un filo poiché i suoi alleati più coriacei sulla liquidazione di Hamas, Ben Gvir e Smotrich hanno dichiarato che la mancata demilitarizzazione di Hamas e la sua permanenza a Gaza, significa automaticamente la fine del governo Netanyahu.
Dietro la facciata rutilante dell’accordo raggiunto, con festeggiamenti e coccarde, danze e una Knesset addobbata di blu e rosso per il discorso che Trump dovrà tenervi, restano intricati e irrisolti problemi vasti.
(L'informale, 10 ottobre 2025)
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Decine di migliaia di persone pregano per gli ostaggi
La festa dei pellegrini, la festa delle capanne Sukkot, prevede la tradizionale benedizione sacerdotale. Giovedì mattina si è percepita chiaramente la gioia per l'annunciato rilascio degli ostaggi.
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Ebrei di Israele e di tutto il mondo approfittano dell'opportunità di ricevere la benedizione di centinaia di sacerdoti
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GERUSALEMME – Giovedì mattina decine di migliaia di persone si sono radunate al Muro del Pianto di Gerusalemme per la tradizionale benedizione sacerdotale (Birkat HaKohanim). Inoltre, è stata recitata una preghiera di ringraziamento per la notizia, giunta poche ore prima, che gli ostaggi sarebbero stati liberati nei prossimi giorni.
Dopo la benedizione sacerdotale, il Gran Rabbino ashkenazita Kalman Ber ha recitato una preghiera pubblica. In essa ha fatto riferimento ai “quattro tipi” e al loro significato simbolico per gli ebrei: "Guarda come il tuo popolo Israele è unito davanti a te! Tu ci hai comandato di riunire l'etrog, il ramo di palma, il mirto e il salice: uno che ha la Torah e compie buone azioni; uno che ha solo la Torah; uno che compie solo buone azioni; e persino uno che non ha né l'una né l'altra. Ma quest'anno, o Sovrano dell'universo, è difficile trovare un ‘salice’ - perché è difficile trovare un ebreo senza buone azioni“.
Il Gran Rabbino ha poi continuato la preghiera: ”Siamo tutti qui insieme, provenienti da ogni angolo del paese, di ogni tipo e genere. Benedici noi, nostro Padre, che siamo qui riuniti in unità e alla luce del tuo volto. Da due anni preghiamo gli uni per gli altri, ci prendiamo cura gli uni degli altri, condividiamo il nostro dolore, la nostra speranza e la nostra fede. Possano gli ostaggi tornare – tutti, senza che nessuno rimanga indietro!"
La folla si è unita alle preghiere dei rabbini. Ha pregato per il ritorno degli ostaggi, per il successo dell'esercito e dei soldati e per la guarigione di tutti i feriti in guerra.
• Ripetizione della benedizione domenica
Oltre al sindaco di Gerusalemme Moshe Lion e a centinaia di sacerdoti, anche alcuni ministri hanno partecipato alle preghiere pubbliche. Erano presenti anche gli ostaggi liberati Lena e Sascha Trufanov e i familiari di altri ostaggi.
La benedizione pubblica dei sacerdoti al Muro del Pianto si tiene durante le festività di Pesach e Sukkot. In essa, centinaia di Kohanim, membri della stirpe sacerdotale, benedicono la comunità e il popolo d'Israele con la benedizione aaronitica, come è scritto in Numeri 6: “Il Signore ti benedica e ti protegga; il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio; il Signore rivolga il suo volto verso di te e ti dia pace”.
La tradizione è iniziata 55 anni fa sotto il rabbino Menachem Mendel Gafner. Ora è organizzata dalla Fondazione per il patrimonio del Muro del Pianto. La fondazione ha comunicato che dall'inizio della Festa delle Capanne, martedì sera, più di 250.000 persone hanno visitato il sito.
Per consentire ad altre persone di ricevere la benedizione, questa verrà pronunciata nuovamente domenica mattina. L'evento potrà essere visto e ascoltato in diretta sul sito web della Fondazione del Muro del Pianto.
(Israelnetz, 10 ottobre 2025)
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«Non parlatemi di pace»
di Emanuel Segre Amar
Accordo firmato, Trump ha ovviamente avuto l’onore di annunciarlo per primo, e tutti vissero felici e contenti, ma.
Premesso che sono contento per il rilascio dei 20 rapiti ancora in vita e per i loro familiari (ma per tutti loro adesso inizierà un altro momento molto duro da superare: chissà in quali condizioni fisiche e psicologiche si trovano i pochi sopravvissuti a due anni di vita durissima),
Ancora una volta Israele ha dovuto arrendersi al divieto di vincere imposto dal mondo intero. Israele si era imposta entrando a Rafah contro la volontà di tutti, si era imposta entrando a Gaza contro la volontà di tutti, ma adesso deve abbandonare tutti, o quasi, i posti conquistati con il sangue e l’eroismo dei nostri militari.
Non a caso molti dicono che il Piano Trump in realtà è il piano suggeritogli dagli stati arabi (Qatar e Turchia in testa) incontrati prima della pubblicazione del piano che porta il suo nome e imposto a un Netanyahu recalcitrante nonostante le ovvie smentite.
Non a caso oggi, nelle vie di Gaza, i “civili” urlano: “abbiamo vinto”.
L’IDF riceve l’ordine di una immediata e rapidissima ritirata da quasi tutta la striscia (ma chi poteva credere a quel “non si fermerà” tanto sbandierato?).
L’Occidente tutto (tranne pochi) non vuol capire che i musulmani non si pongono limiti di tempo, sanno di poter aspettare un giorno, un mese, un anno, un secolo, glielo assicura la fede in Allah.
E non parlatemi di pace: mi fa venire in mente la pace che avrebbe dovuto durare per sempre dopo la I guerra mondiale, dopo quella terribile carneficina che tutti abbiamo studiato sui libri di storia, e sappiamo come è poi andata a finire.
Qui sarà anche peggio. Trump e Bibi NON HANNO FERMATO LA MARCIA DELL’ISLAM VERSO L’OCCIDENTE.
Mi auguro soltanto che l’ingegno degli israeliani li metta al sicuro con le nuove tecnologie difensive, in primis il raggio laser e la capacità di individuare tunnel sotto terra.
Per il resto, cari amici, è una pagina nera per l’Occidente che, non pago di non aver capito nulla dopo Oslo, adesso ha dimostrato ai fedeli di Maometto che anche solo con la minaccia della forza potranno eseguire quanto il Corano ha ordinato.
(Inviato dall'autore, 10 ottobre 2025)
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Il sogno di una Gaza “deradicalizzata”
Il mondo proseguirà con la ricostruzione, congratulandosi con se stesso per i progressi compiuti, ignorando il fatto che in realtà non ce ne sono stati.
di Josh Katzen
L'accettazione questa settimana da parte di Israele e Hamas del piano di pace in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla guerra a Gaza ha dato il via a una serie di eventi che potrebbero significare un ritiro parziale di Israele dalla Striscia e il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani ancora detenuti dai terroristi.
Ma mentre si festeggia la conclusione degli attuali combattimenti, è importante ricordare che nessuna delle modifiche promesse dal nuovo piano – smilitarizzazione, raccolta delle armi, governo da parte di un “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” – porterà alla pace fino a quando non sarà soddisfatto il punto n. 1 del piano Trump: “Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non rappresenta una minaccia per i suoi vicini”. E questo è altamente improbabile che accada.
Per più di un secolo, alla società palestinese di Gaza è stato insegnato che il suo obiettivo nazionale non è quello di costruire una patria per sé stessa, ma di distruggere quella ebraica: Israele. Non si tratta di una convinzione marginale. È il consenso culturale. L'idea non è oggetto di dibattito a Gaza; è il principio unificante di tutta la politica, la cultura e la religione. Ogni aula scolastica, moschea, mezzo di comunicazione e istituzione pubblica palestinese rafforza lo stesso messaggio: Israele deve scomparire e uccidere gli ebrei è il mezzo per raggiungere questo fine.
Questa ideologia non è iniziata con Hamas. Il gruppo terroristico ha semplicemente trasformato in arma ciò che la cultura palestinese predicava già da generazioni. Dall'Autorità Palestinese alle scuole gestite dall'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA), i bambini sono stati educati a vedere la “liberazione” come sinonimo di annientamento. L'identità stessa dei palestinesi, l'essenza della loro “aspirazione nazionale”, è costruita attorno a questo obiettivo genocida.
Affermare che Gaza possa diventare “deradicalizzata” senza una completa rivoluzione culturale significa confondere uno slogan con una strategia.
La deradicalizzazione non è un progetto di costruzione. Non può essere realizzata con consulenti occidentali, finanziamenti stranieri o un nuovo programma scolastico progettato a Bruxelles. Non si possono cancellare cinque generazioni di odio con un piano di ricostruzione decennale. Non si può invertire l'ideologia genocida generazionale in pochi mesi di ricostruzione o in pochi anni di “supervisione internazionale”.
Una deradicalizzazione su questa scala richiederebbe decenni – forse 50 anni o più – di riforme educative complete, un controllo rigoroso dei media e delle istituzioni religiose e l'applicazione di una vera educazione alla pace. Significherebbe sostituire ogni insegnante, imam, libro di testo e canale mediatico palestinese e applicare una quarantena morale contro l'incitamento. Per diverse generazioni.
Nessuno – né gli Stati Uniti, né Israele e certamente non la comunità internazionale – è disposto ad aspettare così a lungo. Il mondo porterà avanti la ricostruzione della Striscia di Gaza nel prossimo decennio, congratulandosi con se stesso per la “deradicalizzazione” e ignorando il fatto che in realtà non c'è stata alcuna deradicalizzazione.
Ecco perché Israele non può permettersi di restituire Gaza fino a quando la deradicalizzazione non sarà dimostrata, non promessa. Qualsiasi cosa di meno significherebbe ripetere lo stesso ciclo che ha portato agli eventi del 7 ottobre: ritiro, radicalizzazione e guerra.
Se Gaza dovrà mai essere ricostruita, dovrà prima essere rieducata. Fino a quando ciò non accadrà, restituire il controllo a una società palestinese ancora ostile non è costruzione della pace. È suicidio nazionale.
(JNS, 9 ottobre 2025)
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I terroristi con le mani sporche di sangue che saranno liberati nell'ambito dell'accordo
Nell'ambito dell'accordo negoziato sotto l'egida del presidente americano Donald Trump per il rilascio degli ostaggi israeliani, Israele si appresta a liberare 2.000 prigionieri palestinesi, molti dei quali responsabili di attentati sanguinosi. Il ministero della Difesa ha annunciato venerdì che, in conformità con le direttive politiche e previa approvazione del governo, nelle prossime ore le famiglie delle vittime saranno informate dell'imminente liberazione degli autori degli attentati che hanno causato la morte dei loro cari. Tra i detenuti che figurano nella lista ci sono diverse figure di spicco condannate per atti terroristici di grande rilevanza. Maher Abu Srour, che ha assassinato l'agente dello Shin Bet Haim Nahmani nel gennaio 1993, sarà liberato. Lo stesso vale per Jihad Karim Aziz-Rom, condannato all'ergastolo per l'omicidio dell'adolescente Youri Gouchtsine a Ramallah nel luglio 2001 e per la sua partecipazione al linciaggio di due riservisti dell'esercito israeliano, Vadim Norjitz e Yossef Avraham, nell'ottobre 2000. Mohammed Amran, coinvolto nell'attentato all'asse dei fedeli a Hebron che ha causato la morte di 12 ebrei e autore di altri attentati, sarà anch'egli rilasciato senza essere espulso. Mohamed Haroub, condannato nel 2024 a 19 anni di carcere per aver ferito gravemente un arabo che aveva scambiato per un ebreo alla vigilia dello Yom Kippur, tornerà a casa sua in Giudea e Samaria. Ali Hamed, responsabile di un attacco con un'auto lanciata contro la folla a Tel Aviv nel 2022, sarà rilasciato dopo tre anni di detenzione. Tra gli altri nomi figura Houssam Matar, un arabo di Gerusalemme Est arrestato nel 2007 per il rapimento e l'omicidio di un collaboratore, che aveva anche progettato di assassinare un ministro. Mohammed Abou Tabikh, responsabile dell'attentato mortale all'incrocio di Megiddo che ha causato 17 morti e decine di feriti, sarà anch'egli rilasciato, così come Ashraf Hajajra, condannato per aver trasportato l'autore dell'attentato nel quartiere di Beit Israel a Gerusalemme, che ha causato 11 morti e decine di feriti.
• Tra i rilasciati figurano anche alcuni condannati all'ergastolo
L'elenco comprende anche Baher Badr, responsabile di un attentato suicida a Tzrifin nel 2004 e di un attentato dinamitardo a Tel Aviv, condannato a 11 ergastoli. Ibrahim Alqam, assassino della famiglia Tsour nel 1996, e Ahmed Saada, responsabile dell'omicidio di 11 israeliani nell'attentato alla linea di autobus 20 a Gerusalemme nel 2002, figurano anch'essi nell'elenco. Sono interessati anche Iham Kamamji, arrestato nel 2006 e che sta scontando due ergastoli per il suo coinvolgimento nel rapimento e nell'omicidio di Eliahou Ashri a Ramallah, e Riyad Al-Amour, membro di alto rango del Tanzim condannato per la morte di nove cittadini israeliani, tra cui il colonnello Yehuda Edri, e per l'omicidio di tre palestinesi sospettati di collaborazionismo. Altri detenuti di rilievo includono Nabil Abu Hadid, condannato per l'omicidio di sua sorella accusata di collaborazione con lo Shin Bet, e Iyad Abu Al-Roub, capo del braccio militare della Jihad islamica nella regione di Jenin, in Giudea e Samaria. Tra i prigionieri liberati figurano anche un terrorista già rilasciato durante lo scambio Shalit e ricatturato durante un'operazione all'ospedale Shifa di Gaza, uno dei leader del Fronte Popolare che ha continuato le sue attività terroristiche in prigione e uno degli evasi dalla prigione di Gilboa.
• I termini dell'accordo
Il gabinetto politico e di sicurezza si è riunito giovedì per una discussione speciale sull'approvazione dell'accordo per il rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, come firmato in Egitto. Durante la notte, i ministri hanno approvato l'accordo, nonostante l'opposizione dei ministri del Sionismo religioso. Nell'ambito di questo accordo, 250 detenuti condannati all'ergastolo saranno liberati sui 270 detenuti dall'amministrazione penitenziaria, insieme a 1.700 abitanti di Gaza non coinvolti negli eventi del 7 ottobre. I condannati all'ergastolo saranno espulsi “verso Gaza o all'estero”, mentre i gazawi saranno rimandati nella Striscia di Gaza. Inoltre, saranno restituiti anche 360 cadaveri di terroristi.
(i24, 10 ottobre 2025)
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Accordo storico: verso la liberazione degli ostaggi e la fine della guerra
Netanyahu: “Con l’aiuto di D-o, riportiamo tutti a casa”. Trump: “Un grande giorno”
di Samuel Capelluto
Ore decisive in Medio Oriente. Nella notte tra mercoledì e giovedì, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato ufficialmente che Israele e Hamas hanno firmato la prima fase del piano di pace americano, aprendo così la strada a una fine della guerra nella Striscia di Gaza e al rilascio imminente di tutti gli ostaggi israeliani.
In un post pubblicato sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha dichiarato:
“Sono molto orgoglioso di annunciare che Israele e Hamas hanno firmato la prima fase del nostro piano di pace. Tutti gli ostaggi saranno liberati molto presto, e Israele ritirerà le sue forze fino a una linea concordata, come primo passo verso una pace forte, stabile e duratura. Tutte le parti riceveranno un trattamento equo. Questo è un grande giorno per il mondo arabo e musulmano, per Israele, per i Paesi della regione e per gli Stati Uniti. Ringraziamo i mediatori di Qatar, Egitto e Turchia che hanno lavorato con noi per rendere realtà questo evento storico e senza precedenti. Beati i costruttori di pace”.
Quasi in contemporanea, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scritto:
“Con l’aiuto di D-o, riportiamo tutti a casa”.
“Un grande giorno per Israele. Domani convocherò il governo per approvare l’accordo e riportare a casa tutti i nostri cari ostaggi.
Ringrazio i coraggiosi soldati dell’IDF e tutte le forze di sicurezza: grazie al loro coraggio e al loro sacrificio siamo arrivati a questo giorno.
Ringrazio dal profondo del cuore il presidente Trump e il suo team per il loro impegno in questa sacra missione di liberazione dei nostri ostaggi.
Con l’aiuto di D-o, insieme continueremo a raggiungere tutti i nostri obiettivi e ad ampliare la pace con i nostri vicini”.
Secondo fonti saudite e libanesi, la firma ufficiale dell’accordo di cessate il fuoco è prevista per oggi alle ore 12:00 al Cairo, con la partecipazione delle delegazioni israeliana e di Hamas. Le ultime ore sono state caratterizzate da un clima di ottimismo crescente: i negoziati si sono conclusi con la definizione dei dettagli tecnici e linguistici dell’intesa, dopo settimane di trattative complesse.
Il primo passo concreto sarà il rilascio simultaneo di 20 ostaggi israeliani vivi, previsto tra sabato e domenica, accompagnato dalla restituzione di alcuni corpi di ostaggi caduti. Gli altri verranno riconsegnati in fasi successive, secondo tempi stabiliti nell’accordo.
L’annuncio è stato accolto con emozione in Israele. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso sollievo e speranza: “Il governo deve approvare immediatamente l’accordo. Ogni ritardo può costare caro agli ostaggi e ai soldati” ha dichiarato il Quartier Generale di alcune delle famiglie. “La nostra responsabilità morale e nazionale è riportare tutti a casa, vivi e caduti”.
Le immagini provenienti dall’Egitto mostrano scene senza precedenti: membri delle delegazioni israeliana, palestinese e dei Paesi mediatori che si stringono la mano e si abbracciano. In una foto simbolica si vede il generale israeliano in riserva Nitzan Alon, oggi incaricato dei negoziati sugli ostaggi, stringere la mano al Primo Ministro del Qatar, a dimostrazione della portata storica dell’intesa.
Israele entra in questa fase con una posizione chiara: difendere i propri principi e riportare ogni cittadino a casa, senza rinunciare alla sicurezza nazionale. L’accordo — frutto della determinazione israeliana — segna un passaggio potenzialmente decisivo verso la fine della guerra iniziata due anni fa, alla vigilia di Simchat Torah, il 7 ottobre 2023, giorno che ha cambiato per sempre la storia del Paese e del popolo ebraico.
Per milioni di israeliani e per la diaspora ebraica nel mondo, questo è un momento carico di speranza, di fede e di unità. La strada verso una pace duratura è ancora lunga, ma il ritorno degli ostaggi rappresenta una svolta storica, un raggio di luce che squarcia mesi di oscurità e dolore, e che riaccende la fiducia nella forza di un popolo che non smette mai di lottare per la vita e per la libertà.
(Shalom, 9 ottobre 2025)
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«Con l’aiuto di D-o, insieme continueremo a raggiungere tutti i nostri obiettivi e ad ampliare la pace con i nostri vicini”». Netanyahu avrebbe fatto meglio a risparmiarsi il riferimento a Dio e alla pace. La guerra è finita perché Israele ha perso. Aveva già perso quando ha cominciato a trattare con Hamas. Ma se è vero che Israele ha perso, guai a chi pensa di aver vinto. "Guai all'Assiria, verga della mia ira! Il bastone che ha in mano, è lo strumento della mia indignazione" (Isaia 10:5)..M.C.
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Dietro la facciata del successo
di Niram Ferretti
Si sigla a Sharm El Sheik l’accordo tra Israele e Hamas dopo due anni di guerra. Si sigla la cosiddetta “prima fase”, con la mediazione-benedizione del Qatar e della Turchia, che di Hamas sono sostenitori e, con quella decisiva americana, in virtù della quale Israele non riprenderà più la guerra.
Gli ostaggi ancora detenuti a Gaza e le salme dei defunti saranno riconsegnati a Israele in cambio del rilascio di circa duemila assassini, tra i quali molti ergastolani. Felicità per le famiglie di coloro che in questo due anni sono stato tenuti in cattività. Tornano finalmente a casa, ma a che prezzo?
L’accordo prevede altre fasi, ma è impensabile che Hamas abbia deciso di rinunciare alla sua unica assicurazione sulla vita, gli ostaggi, unicamente in cambio del rilascio di detenuti.
Gli obiettivi della guerra erano due per Israele: la vittoria sul gruppo terrorista, la sua eliminazione da Gaza e il ritorno degli ostaggi. Il secondo è stato raggiunto al netto di tutti quelli che sono morti nel frattempo, il secondo è fallito. Hamas non è stato distrutto e nonostante i proclami di Trump, che dovrà disarmarsi e rinunciare ad avere un ruolo politico a Gaza nel futuro, appare fantasioso immaginare che ciò avverrà, soprattutto con la garanzia ottenuta già nella prima fase dell’accordo, che Israele progressivamente ritirerà l’esercito e lascerà la Striscia. Questi sono gli obiettivi dell’organizzazione jihadista fin dal principio, ben sapendo che non avrebbe mai potuto vincere l’esercito israeliano militarmente ma a intestarsi la vittoria nell’unico modo possibile, dimostrando di avere “resistito” fino alla fine.
Guardare in faccia la realtà significa vedere che Israele aveva le spalle al muro, che dopo due anni non era più in grado di vincere la guerra a causa di molteplici fattori. Il primo, la presenza degli ostaggi, la carta fondamentale che Hamas ha saputo giocare spregiudicatamente e che ha costretto l’IDF a operazioni militari che dovevano tenere conto come obiettivo essenziale la salvaguardia della loro salvezza. Il secondo, a causa della contrarietà di una parte dell’esercito e dei Servizi alla sconfitta totale di Hamas, che si è espressa costantemente, fin dall’inizio della guerra, contrastando i continui proclami di vittoria di Netanyahu. Anche recentemente, Eyal Zamir, capo di stato maggiore, alla vigilia dell’attacco a Gaza City aveva espresso la sua contrarietà, affermando che l’attacco avrebbe messo in mora la vita degli ostaggi e quella dei soldati e aggiungendo che l’idea di occupare Gaza da parte di Israele esigeva un costo troppo alto. Il terzo, a causa di una pressione internazionale insostenibile, che ha progressivamente trasformato, soprattutto in virtù di una impressionante rete di sostegno mediatico nei confronti di Hamas, Israele in uno Stato criminale.
L’attacco fallito a Doha a settembre, che il Mossad non ha appoggiato (altro segno tangibile delle fratture tra governo e Servizi) è stato l’episodio che ha segnato lo spartiacque in questa guerra e si è rivelato per Israele un boomerang.
Il Qatar, la cui leva lobbistica a Washington è massiccia, è riuscito trasformare questo insuccesso di Israele in una grande vittoria personale, ottenendo dagli Stati Uniti una cosa mai concessa a uno Stato arabo, la garanzia che se dovesse essere ancora attaccato gli Stati Uniti interverrebbero in sua difesa. A corredo di ciò, Netanyahu è stato costretto pubblicamente a scusarsi telefonicamente con l’emiro del Qatar.
Il Qatar e la Turchia, che in Egitto hanno avuto un ruolo decisivo nella mediazione che si è conclusa ieri sera, sono insieme all’Iran, i padrini di Hamas e, per il loro protetto, hanno ottenuto la salvaguardia che Israele non riprenderà la guerra.
Israele incassa il ritorno degli ostaggi, Trump il podio su cui può presentarsi al mondo come il facitore della risoluzione del conflitto “millenario”(è previsto un suo discorso alla Knesset) in attesa che qualcuno a Stoccolma prenda sul serio la sua aspirazione al Nobel per la Pace, e Israele una vittoria mutilata, l’unica che poteva sperare di ottenere in un Medioriente che al netto dei trionfalismi non ha subito una palingenesi e dove, lo Stato ebraico, da Hezbollah, all’Iran a Hamas, ha ottenuto importanti successi tattici ma nessuna vittoria conclamata.
(L'informale, 9 ottobre 2025)
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La Caporetto di Israele e il tranello del piano di pace “di Trump”
Quella stramaledetta mania del Premio Nobel per la pace
di Franco Londei
Premesso che sono felicissimo per la liberazione degli ostaggi (quando avverrà), premesso ancora che sono felice che gli israeliani possano tornare a fare una vita la più vicina possibile alla normalità. Detto questo, il piano della Fratellanza Musulmana denominato impropriamente “piano Trump” non solo è una Caporetto per Israele, ma vanifica 24 mesi di guerra su sette fronti.
Prima di tutto, il piano è stato scritto da Qatar e Turchia, leader della Fratellanza Musulmana, non da Trump che ha fatto solo da “mezzo di pressione” su Netanyahu, anche se è convinto di averlo suggerito lui, il piano.
L’accordo sembra essere fatto apposta per permettere la sopravvivenza di Hamas. Israele ha dovuto cedere su tutta la linea. Ripeto: ha dovuto cedere su tutta la linea sotto l’impressionante spinta (ricattatoria?) di Donald Trump. Oltre duemila terroristi saranno liberati in cambio dei 20 ostaggi ancora vivi. Israele dovrà anche ritirarsi in posizioni molto vicine a quelle precedenti il 7 ottobre 2023. Hamas non dovrà disarmarsi, così come la Jihad Islamica e gli altri gruppi. Almeno per quello che si conosce.
L’IDF dovrà ritirarsi anche dal valico di Rafah, lasciando libero quello che è il canale più importante per Hamas.
Sintetizzando: Hamas, Jihad Islamica e gruppi vari rimarranno a Gaza e sicuramente volgeranno la propria attenzione alla Cisgiordania. Nel frattempo Hezbollah rimane una minaccia seria mentre l’Iran ha ripreso i suoi “giochetti” con i terroristi palestinesi.
Non un solo fronte è stato chiuso in modo permanente. Due anni di guerra per ritrovarsi quasi alla casella di partenza. Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e l’Iran (quasi) con la bomba atomica.
Secondo me, ma potrei essere di parte, la chiave di tutto sta nelle probabilissime immense pressioni fatte da Trump su Netanyahu. Del tipo «non ti do più nemmeno una cartuccia». Accidenti a lui e alla sua mania del Nobel per la pace.
Gli arabi e i turchi, che sono furbissimi, si sono preparati un super piano di pace che salva Hamas facendo credere che lo abbia scritto Trump. Lo hanno fatto credere pure a lui. Così adesso Netanyahu non può più nemmeno dire di no altrimenti sarebbe quello che ha fatto saltare il piano di pace “scritto da Trump”.
Dobbiamo ammetterlo, su questo fronte questa volta ha vinto la Fratellanza Musulmana, e non è una buona notizia nemmeno per l’occidente.
(Rights Reporter, 9 ottobre 2025)
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Hamas saluta “la vittoria del popolo palestinese” e chiede l'unità nazionale attorno al piano Trump
L'alto funzionario di Hamas, Houssam Badran, ha definito il 7 ottobre 2023 il "giorno fondante" del conflitto con Israele, affermando che questa data ha confermato al mondo il "diritto del popolo palestinese alla libertà e all'autodeterminazione". Secondo lui, l'accordo concluso oggi è il "frutto della resistenza" e dei "sacrifici del popolo di Gaza", "uomini, donne, bambini e anziani". Badran ha salutato i "martiri e i combattenti della resistenza" e ha affermato che Hamas ha gestito il piano Trump con una visione nazionale palestinese globale, cercando di creare una posizione unificata di fronte alle sfide. Ha rivelato di aver tenuto negli ultimi giorni intense consultazioni con le fazioni, i leader e le élite palestinesi per raggiungere una risposta comune.
Hamas si impegna ora in un dialogo nazionale al Cairo per garantire un consenso sui prossimi passi e sull'attuazione dell'accordo.
"Ciò che abbiamo ottenuto oggi, e ciò che otterremo domani, è il risultato della fermezza del nostro popolo e della nostra resistenza", ha concluso.
(i24, 9 ottobre 2025)
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La cultura dell’odio. Un libro necessario per capire la propaganda contro Israele
di Francesco Erario
“In un mondo come quello dell’editoria, dove i toni del sensazionalismo sono abitualmente usati, è fin troppo frequente trovarsi di fronte a recensioni che parlano di “libri necessari”.
Per La cultura dell’odio, scritto da Nathan Greppi, tale giudizio è invece certamente adeguato. Nel testo edito per Lindau, Greppi tratta ciò che è oramai diventato indicibile, mettendo in fila — documenti alla mano — ciò che troppi scelgono di ignorare. La cultura dell’odio racconta come la guerra ideologica contro Israele, e contro gli ebrei, sia ormai diventata il centro gravitazionale della cultura occidentale mainstream, portata avanti nei talk show, nei cortei e soprattutto là dove si forma il pensiero: nelle università, nei giornali, nelle serie tv, nelle fondazioni.
Greppi parte da un dato verificabile da chiunque: il 7 ottobre 2023 un’organizzazione terroristica, Hamas, ha pianificato un massacro di civili israeliani, usando stupro, mutilazioni e rapimenti come armi. Eppure, fin dai primissimi momenti, gran parte dei media e del sistema delle ONG ha dato il via a un fuoco di sbarramento volto alla costruzione di una narrazione opposta, dove Israele diventa il carnefice e Gaza — roccaforte e base operativa di Hamas — la vittima.
Tra i tanti episodi emblematici richiamati dall’autore nel libro, vi è certamente il bombardamento dell’ospedale di Al-Ahli, che i maggiori media occidentali attribuirono subito, e senza alcuna prova, a Israele, salvo poi ritrattare tardi e debolmente. Ed è questo uno dei meriti del libro: mettere in luce i mille modi mediante cui l’internazionale pro-Pal costruisce l’accusa affinché si sedimenti nell’opinione pubblica, soprattutto quando è totalmente falsa e smentita dalla realtà.
Una campagna comunicativa che da decenni dipinge Israele come uno Stato oppressore, coloniale, paragonabile alla Germania nazista. Un racconto dove la tragica origine del conflitto viene cancellata e la storia riscritta in modo selettivo, omettendone volontariamente interi capitoli, a partire dai secoli di occupazione arabo-islamica prima ed ottomana poi.
Greppi ricostruisce anche come, grazie a centinaia di milioni di dollari provenienti da Paesi islamici, sia stato possibile alimentare l’odio verso Israele, coltivandolo nei campus, nei partiti, nella sinistra terzomondista e nelle ONG. Un processo che ha portato all’accettazione pressoché totale di una forma di pensiero dogmatico, con simboli e parole d’ordine ben riconoscibili: prime fra tutte, «Free Palestine, from the river to the sea» o «Non vogliamo due Stati, vogliamo tutto», inserite in una narrazione che ricorda in tutto e per tutto le tecniche usate nel marketing per la creazione e diffusione di un nuovo brand.
Con precisione e metodo, La cultura dell’odio mostra al lettore come le università siano da anni diventate centri di propaganda, evidenziando il legame tra fiumi di denaro e incremento di posizioni apertamente pro-Hamas all’interno delle accademie e dei grandi quotidiani. Un sistema che sfrutta e valorizza l’esibizione di quegli attivisti ebrei, israeliani e non, che si proclamano pro-Pal, che strizza l’occhio al sempreverde topos del complotto giudaico, che vede questa volta l’IDF a conoscenza dell’attacco imminente, o quello altrettanto efficace dell’ebreo vampiro assetato di sangue di bambini, e molto altro ancora.
Il libro è foriero di dettagli che, messi insieme, tracciano un quadro agghiacciante fatto di uso deliberato della menzogna e dell’occultamento della realtà, raccontato descrivendo i numerosi episodi simbolo di una colpevole e malcelata doppiezza. Uno su tutti: la volontà di non nominare l’attore israeliano David Cunio, rapito da Hamas il 7 ottobre (assieme alla moglie, alle figlie di tre anni, alla cognata e alla nipote) nel corso del Festival del cinema di Berlino 2024, festival che lo aveva visto partecipe nel 2013.
Un’edizione, quella del 2024, dove — neanche a dirlo — sono stati invece numerosi gli episodi e le dichiarazioni di sostegno pro-Pal. E nulla, da allora, pare essere cambiato, se si guarda a quanto accaduto da poco agli Emmy Awards o al Festival di Venezia.
Greppi dedica spazio anche alle narrazioni storiche, come all’uso della Nakba contrapposto alla rimozione dell’esodo forzato degli ebrei dai Paesi arabi dove vivevano da secoli, o alla costruzione del mito della cosiddetta età dell’oro sotto i califfati islamici, durante la quale ebrei e cristiani sopravvissero sì, ma come dhimmi, cioè soggetti di “serie B” sottomessi ai musulmani in condizioni di segregazione. Una narrazione che oggi viene ribaltata ovviamente su Israele, accusato di praticare l’apartheid ai danni della propria popolazione araba, nonostante sia l’unico Stato del Medio Oriente dove arabi ed ebrei vivono alla pari, siedono nello stesso Parlamento, crescono e proliferano, decuplicando il loro numero dal 1948 a oggi.
La cultura dell’odio è un libro scomodo ma necessario, principalmente per coloro che hanno fatto della battaglia pro-Pal un elemento identitario, un cardine della costruzione del proprio sé politico come individuo parte di una comunità. Una comunità che, per la massima parte, è spinta a credere di stare dalla parte dei deboli, degli oppressi e degli indifesi, grazie anche alla tempesta di falsi video e falsi contenuti social artatamente creati per far leva su sentimentalismo e senso di colpa.
La cultura dell’odio è un testo che non piacerà a chi si rifugia nel relativismo, ma che offre a chi vuole capire fatti, fonti e strumenti per smontare una delle più limpide mistificazioni del nostro tempo, edificata sulla sempre efficace riproposizione della dinamica oppressi vs oppressori.
La cultura dell’odio pone diversi interrogativi e mina alla base le convinzioni di tanti, offrendo però un solido piano — forse l’unico — da cui ripartire: se si vuole porre fine alle sofferenze di due popoli, si può e si deve ricominciare dalla verità.
(Setteottobre, 9 ottobre 2025)
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Cosa abbiamo imparato dal 7 ottobre?
Contrariamente alle aspettative dei suoi nemici, la resistenza di Israele è più forte e più duratura della loro.
di Caroline Glick
(JNS) Il 7 ottobre 2023 è stato il giorno più terribile nella storia dello Stato di Israele e sarà ricordato per sempre come tale. Ma come ha scritto il giornalista del New York Times Bret Stephens in un articolo in cui analizzava gli insegnamenti tratti da quel giorno e dalla guerra che ne è seguita: “Nonostante tutti i suoi innegabili orrori, questa guerra potrebbe alla fine essere ricordata come liberatoria”.
Israele ha risposto al giorno del genocidio perpetrato da Hamas con una guerra volta a distruggere l'asse iraniano, di cui Hamas faceva parte. Stephens ha spiegato come la guerra di Israele abbia liberato i popoli della regione.
In Libano, grazie alla distruzione di Hezbollah da parte di Israele, la popolazione è libera dai rappresentanti dell'Iran per la prima volta in vent'anni. Lo smantellamento di Hezbollah ha portato alla caduta del dittatore siriano e rappresentante dell'Iran Bashar Assad, offrendo al popolo siriano la prima possibilità di libertà a memoria d'uomo.
Sotto la protezione dell'IDF, i drusi nel sud della Siria hanno l'opportunità di plasmare il loro futuro in modo sicuro. Dopo il successo dell'operazione militare di Israele – alla quale hanno partecipato anche gli Stati Uniti – per impedire all'Iran di acquisire armi nucleari e accumulare un arsenale di decine di migliaia di missili balistici, il popolo iraniano ha la migliore opportunità da 46 anni a questa parte di rovesciare il suo regime terroristico e costruirsi un futuro in libertà.
E con l'indebolimento di Hamas, gli abitanti della Striscia di Gaza hanno per la prima volta in vent'anni la possibilità di vivere liberi dal regime jihadista, se vogliono cogliere questa opportunità.
Sebbene il suo elenco fosse completo, Stephens ha evitato di menzionare come Israele abbia ottenuto questa serie di vittorie impressionanti dopo la più grande catastrofe della sua storia.
L'8 ottobre, mentre le truppe dell'IDF stavano ancora combattendo nei kibbutz che erano stati invasi da Hamas il giorno prima, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato al suo gabinetto ancora sotto shock che Israele si sarebbe ripreso dal brutale massacro del giorno prima e avrebbe cambiato il Medio Oriente.
Nella stessa riunione, il comandante militare supremo disse a Netanyahu e ai suoi ministri che avrebbero dovuto dimenticare per sempre i 251 uomini, donne e bambini che erano stati presi in ostaggio il giorno prima. Netanyahu respinse questa affermazione e insistette che Israele avrebbe sconfitto Hamas e riportato a casa tutti gli ostaggi con un adeguato mix di forza massiccia e negoziati. Finora Israele ha riportato a casa 205 ostaggi, di cui 148 vivi, e Hamas è sul punto di essere completamente distrutta.
Grazie al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Israele potrebbe assistere al ritorno degli ultimi 48 ostaggi entro pochi giorni.
Nei primi 15 mesi di guerra, Netanyahu ha guidato Israele in questo conflitto, trovandosi di fronte a un governo ostile a Washington. L'amministrazione Biden ha perseguito una politica passivo-aggressiva, ritardando e poi interrompendo completamente le forniture di armi, mentre chiedeva a Israele di non intraprendere azioni militari, come ad esempio assumere il controllo del confine internazionale di Gaza con l'Egitto, che erano decisive per la vittoria.
Nel bel mezzo della guerra di Israele per la sua sopravvivenza nazionale, l'amministrazione Biden si è presentata come un fedele difensore di Israele, ma ha collaborato con gruppi e politici anti-Netanyahu per minare il governo.
Netanyahu non ha ceduto. È rimasto fedele alla sua linea. Se Netanyahu avesse ascoltato l'amministrazione Biden o i suoi rivali e nemici politici, che lo esortavano a porre fine alla guerra senza ottenere la vittoria, i capi terroristi di Hamas sarebbero ancora vivi. Hezbollah continuerebbe a controllare il Libano.
Assad controllerebbe ancora la Siria. L'Iran sarebbe sul punto di dichiararsi una potenza nucleare e di accumulare un arsenale di decine di migliaia di missili balistici che minaccerebbero non solo l'esistenza di Israele, ma la sicurezza del mondo intero.
La decisione di Stephens di ignorare il ruolo cruciale del primo ministro come leader di Israele in questa guerra non è sorprendente. Prima di elencare i modi in cui Israele ha liberato la regione, Stephens accusa erroneamente Netanyahu di essere responsabile per il 7 ottobre.
Stephens ha scritto che Netanyahu è disposto a “tollerare Hamas” per “comodità ideologica”. Ma è vero il contrario. Netanyahu si è dimesso dal governo dell'allora primo ministro Ariel Sharon nel 2005 perché contrario al piano di Sharon di ritirarsi dalla Striscia di Gaza. Netanyahu avvertì allora che questa mossa avrebbe portato Hamas al potere. Da quando è primo ministro, dal 2009, Netanyahu ha combattuto senza sosta il regime di Hamas.
Stephens ha anche affermato che la percezione di debolezza di Israele nei mesi precedenti il 7 ottobre era dovuta alla “frettolosa spinta del governo Netanyahu verso una riforma giudiziaria che a milioni di israeliani è apparsa come un salto verso l'autoritarismo”.
I modesti controlli che il governo Netanyahu voleva esercitare sui poteri attualmente incontrollati della magistratura israeliana non avevano nulla di “autoritario”. Se nei mesi precedenti al 7 ottobre Israele è stato percepito come debole, tale percezione era dovuta alla campagna senza precedenti condotta da attori politici finanziariamente potenti e ben collegati per sciogliere le unità di riserva d'élite dell'IDF.
Nel tentativo di ricattare Netanyahu e i suoi ministri affinché rinunciassero ai loro sforzi di riforma del sistema giudiziario israeliano, nei mesi precedenti il 7 ottobre i leader della campagna antigovernativa di sinistra hanno annunciato che migliaia di riservisti delle unità d'élite dell'IDF avrebbero rifiutato di prestare servizio. Dal 7 ottobre sappiamo che Hamas ha ripetutamente fatto riferimento alla campagna anti-IDF nei suoi media, nei rapporti dei servizi segreti e nelle riunioni di pianificazione per dimostrare che Israele è vulnerabile alle invasioni e alla distruzione.
Stephens ha intitolato il suo articolo “Lezioni da una lunga guerra”. Due lezioni gli sono sfuggite. Primo: il popolo israeliano, e in particolare i soldati del suo esercito di cittadini, sono una nazione di eroi. Contrariamente alle aspettative dei suoi nemici, la resistenza di Israele è più forte e più duratura di quella dei suoi avversari.
Inoltre, la leadership nazionale è di fondamentale importanza. Senza una leadership competente e coraggiosa, anche i soldati e le nazioni più coraggiosi vacillano.
Netanyahu, il capo di Stato più longevo di Israele, ha raccolto la sfida. La sua saggezza strategica, il suo coraggio morale e la sua forza di volontà nella guerra più lunga di Israele hanno dimostrato che è degno di guidare questa nazione in questo momento critico della sua storia.
(Israel Heute, 8 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I pro-Hamas detestano le vittime dei terroristi e ora escono allo scoperto
di Iuri Maria Prado
È mutato il generale atteggiamento pubblico verso Hamas. Al di là di stracche e routinarie dichiarazioni di condanna delle gesta dei macellai del 7 ottobre – puntualmente accompagnate da grappoli di “ma” e “però” appuntati su ciò che Israele ha fatto dopo – già dal pomeriggio del Sabato Nero montava il borbottio minimizzante e assolutorio che magari non parteggiava per la forza terrorista, ma insomma ne ridimensionava le responsabilità.
Quel mugugno si è fatto voce più limpida e si è disinibito, nel tempo, sino a manifestare una franca preferenza per Hamas rispetto a Israele. Una larga, larghissima parte dei manifestanti “per Gaza” che nei giorni scorsi hanno riempito le strade d’Italia non è neppure, come si dice, equidistante: parteggia francamente per il terrorismo palestinese e per le forze che ne rivendicano la legittimità, lo organizzano, lo esercitano. Perché amano il terrorismo? No, ma detestano Israele e ciò che esso rappresenta, vale a dire il fatto che gli ebrei abbiano uno Stato e un esercito che lo difende. Ritengono, cioè, che le forze del terrorismo palestinese – a prescindere dalle atrocità che esse commettono e indipendente dalle ambizioni sterminazioniste che le animano – possano vantare un titolo morale, civile e politico che Israele non ha. Quei manifestanti, dunque, e il vasto apparato editorial-culturale che ne vellica il ventre, sono letteralmente “Pro Hamas” in questo senso: riconoscono all’organizzazione terroristica palestinese un diritto prioritario. Un diritto da premiare anche quando si esercita in barbarie perché non si oppone a un altro diritto, ma soverchia un sopruso.
Per questo preferiscono Hamas, perlopiù inconfessatamente ma non di rado esplicitamente. Perché il “male” di Hamas, semmai ammesso e riconosciuto, per i più timidi è una risposta necessaria al male più grande e risalente costituito dalla protervia sionista e per i più disinvolti non è neppure un male ma il giusto strumento riscatto di un popolo oppresso. Sono “Pro Hamas” non perché amano i terroristi, ma perché detestano le vittime dei terroristi. Per questo strappano i manifesti con le immagini degli ostaggi e per questo un vilipendio simile passa inosservato. Per questo un’intera platea insorge se qualcuno osa evocare gli ostaggi. Perché, secondo questa concezione, l’ingiustizia di cui i sequestrati sono destinatari – abbiano otto mesi o ottant’anni – è meno grave della colpa che grava sulla loro stirpe.
(Il Riformista, 8 ottobre 2025)
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Le terre rubate ai palestinesi: un falso d’autore
di Fabio Fineschi
Da circa sessant’anni s’è diffusa la convinzione che lo Stato di Israele sorga sulle terre che i sionisti avrebbero rubato ai palestinesi. Una bieca prevaricazione dell’Occidente sul Medioriente.
Tale convinzione, profusa a piene mani dall’URSS [1]e poi da tutta la sinistra militante, costituisce il principio per il quale lo Stato di Israele deve sparire e la Palestina tornare libera dal fiume al mare.
Il falso ha attecchito come un’edera bugiarda che scala i muri delle ideologie antioccidentali fino al punto in cui anche il Segretario Generale dell’ONU, Il portoghese António Guterres, ebbe a dire che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 non vengono dal nulla, tradotto: se non giustificabili sono almeno comprensibili. Secondo questo cliché anche l’annientamento nucleare di Israele da parte dell’Iran diverrebbe, almeno, comprensibile.
Il fondamento storico è l’unico dato su cui far fede per distinguere il vero dal falso. Il principio ordinatore di ogni ragionamento a tale riguardo dovrebbe partire dalle seguenti premesse:
- Gerusalemme fu fondata nel 3000 avanti Cristo, circa, ma fu Re David della stirpe di Giuda, ebreo fino all’osso, a renderla capitale del Regno di Israele un millennio prima di Cristo. Il figlio Salomone vi costruì il Primo Tempio.
- Quella che oggi è conosciuta come la Spianata delle moschee, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia risalenti al 705 e al 691, è, in realtà, il sito del primo e del secondo tempio ebraico: il Beit ha-Miqdash, l’importantissimo luogo della memoria degli ebrei, dove sorge il Muro del pianto. I due templi risalgono all’833 a.C. e al 515 a.C. Ci troviamo vicini alla collina di Sion, conquistata da Re David nel 1010 a.C. Stiamo parlando di quasi 2000 anni prima della nascita dell’Islam.
- Sempre nella zona abbiamo la valle di Kidron, che nell’Antico e nel Nuovo Testamento è chiamata la valle dei Re e/o valle di Giosafat. Proprio qui Gesù dodicenne giunse con Maria e Giuseppe nel Suo pellegrinaggio della Pasqua ebraica e qui predicò nel tempio.
- Nel 1947 vennero scoperti i rotoli del Mar Morto, quelli di Qumràn, una desolata terra desertica della Giudea dove la setta giudaica degli Esseni aveva il suo centro vitale fra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Proprio lì, sempre lì.
- Nel primo secolo D.C. i romani annientarono lo stato indipendente della Giudea. Dopo la rivolta fallita di Bar Kokhba nel secondo secolo d.C. l’Imperatore romano Adriano determinò di spazzare via l’identità di Israele-Giuda-Giudea. Perciò Egli impose il nome “Palestina” alla terra di Israele.
- La maggior parte della terra in possesso degli ebrei, accusati di furto, fu in realtà comprata ai latifondisti arabi. E gli arabi furono, secondo le definizioni degli avvocati, «ben disposti venditori». Nella relazione finale della Commissione Peel[2], reperibile su Internet in inglese, si fa questa importante osservazione: «…la popolazione araba mostra un notevole aumento dal 1920, ed ha beneficiato della prosperità della Palestina. Molti proprietari terrieri arabi hanno beneficiato della vendita di terreni, ottenendo un investimento redditizio dal prezzo d’acquisto. La condizione dei fellah (i contadini arabi, ndr) è nel complesso migliorata rispetto al 1920. Questo progresso arabo è stato in parte dovuto all’importazione di capitale ebraico in Palestina e da altri fattori associati con la crescita della Nazione ebraica. In particolare, gli arabi hanno beneficiato dei servizi sociali che non avrebbero potuto essere erogati su larga scala senza le entrate ottenute dagli ebrei […] Gran parte del territorio (coltivato dagli ebrei, ndr), ora piantato a aranceti, era costituito da dune di sabbia o da paludi, incolto al momento dell’acquisto[3].
- Se esiste veramente un antico popolo palestinese in qualche modo distinto da tutti i suoi parenti arabi musulmani cos’è che lo rende tale? Dov’è la sua antica storia precedente agli anni ’60 del ventesimo secolo? Anche un rapido esame della storia recente dimostra che si tratta di un’etichetta politicamente conveniente (Daniel Greenfield[4])
Tuttavia, l’UNESCO ha deciso di ritenere la zona una pura eredità islamica e così la storica denominazione di “Monte del Tempio” è divenuta “Spianata delle moschee”. Tale inesattezza o falsificazione da parte dell’UNESCO dovrebbe essere evidenziata anche a fronte di un importante documento storico di cui sotto.
• Lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon a Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat.
Il Regno Unito, Nazione mandataria per la Palestina, secondo la vulgata corrente, avrebbe conferito agli ebrei un ingiusto privilegio: la realizzazione di un focolare in Palestina dopo aver promesso la stessa terra agli arabi. Tale spregio sarebbe, dunque, avvenuto dopo che gli inglesi avevano illuso il mondo arabo, sotto l’egida dell’impero Turco-Ottomano che, una volta finita la guerra (I° guerra mondiale), avrebbe concesso loro la disponibilità di ampie estensioni territoriali sì da formare la grande Nazione Araba.
Normalmente si fa riferimento alla lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon (Alto Commissario britannico) al governatore della regione di Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Tale documento viene nominato anche su tiktok come prova della disonestà inglese ma senza mai dire che nel testo della missiva non si dice affatto che la Palestina sarebbe stata concessa agli arabi secondo gli accordi presi.
Essa non viene nominata ma si dice che le zone non ritenute puramente arabe (si citavano le zone ad ovest di Damasco) non avrebbero fatto parte degli accordi. La Palestina rientrava fra queste. Nella lettera si parlava dei distretti di Mersin e di Alessandretta, e zone della Siria che si espandono a ovest del distretto di Damasco, Homs, Hama e Aleppo…, ma non si nominava mai il sangiaccato[5] di Gerusalemme, che era la divisione amministrativa ottomana che copriva la maggior parte della Palestina. Tale sangiaccato comprendeva cinque cazà: Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba.
Nel Libro bianco del 1939 (Churchill White Paper) stabilì che la frase in cui si parlava dei “distretti a ovest di Damasco” doveva intendersi come inclusiva del Sangiaccato di Gerusalemme e del vilayet di Beirut (cioè la Palestina). A proposito del Monte del Tempio si ribadisce il concetto di zone non puramente arabe. Nonostante le due diaspore, l’ultima nel 70 d.C. gli ebrei non hanno mai abbandonato completamente le loro terre ma, in quantità più o meno cospicue sono sempre rimasti là dove avevano le loro radici.
Gli ebrei non sono giunti nell’inesistente stato palestinese perché lo ha voluto il Regno Unito, essi non sono i colonizzatori di terre altrui ma sono coloro che, in parte, ritornano nell’antica casa della terra di Israele. Gli ebrei in quei luoghi non sono immigrati ma rimpatriati. Il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito (attraverso la lettera Balfour, la conferenza di Parigi e la Conferenza di Sanremo) non fu quello di inventarsi lo Stato di Israele ma quello di far sì che la comunità ebraica, già esistente in Palestina e già con caratteristiche proprie di uno stato, potesse svilupparsi compiutamente in tal senso.
Di seguito quanto scritto in un brano del Libro Bianco inglese del 1922:
Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80.000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. La comunità ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmente l’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici.»
Nel 1922 la Società delle Nazioni emette il mandato britannico per la Palestina e nel preambolo del mandato si afferma: «Considerato che in tal modo è stato riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e le ragioni per ricostituire la propria patria nazionale in quel paese.»
Tutti gli atti prodotti dalla Società delle Nazioni e dal Regno Unito per giungere alla costituzione dello Stato di Israele partono dal presupposto fondamentale del riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con quell’area chiamata Palestina dall’Imperatore Adriano nel 135 d.C, in realtà Terra di Israele ed è questo ciò che è stato riconosciuto a partire dalla dichiarazione di Arthur James Balfour, segretario al ministero degli affari esteri britannico, a Lord Rothschild,capo dell’agenzia sionista per lo Stato di Israele.
• La risoluzione ONU 181 del 29 novembre del 1947
Sappiamo che la risoluzione ONU non rappresenta il comando che determina un obbligo ma “solo” un suggerimento da parte di un organismo sovranazionale legalmente riconosciuto. Come è noto in quella occasione venne raccomandata caldamente la soluzione dei due popoli e due stati. I sionisti accettarono senza riserve e dettero vita allo Stato di Israele. Tuttavia, è opportuno evidenziare il fatto che in tutti i passaggi burocratici internazionali precedenti, quelli di cui sopra, quindi il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito, si è sempre parlato di un focolare ebraico in Palestina e non in una parte di questa. A tale proposito la risoluzione 181 fu penalizzante proprio per gli ebrei. La reazione degli arabi a tale suggerimento e alla proclamazione dello Stato di Israele fu la guerra del 1948 scatenata da Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq contro il nuovo Stato.
• Conclusioni
L’illegalità dello Stato di Israele in Palestina è una menzogna di dimensioni colossali sotto tutti i punti di vista. Del resto, chiunque abbia un minimo di cognizione dei Vangeli e/o dell’Antico Testamento comprende benissimo che gli ebrei e quei luoghi costituiscono quasi la carta d’identità gli uni degli altri. Non si tratta di simpatizzare o avversare nessuno ma solo di riconoscere la verità storica che in molti, troppi, si ostinano a ignorare o a falsificare.
Vorrei concludere con alcune considerazioni personali a proposito della risoluzione 181 dell’ONU. Questa non concede niente agli ebrei in quanto il diritto alla costituzione del loro Stato in Palestina è sancito dalla verità storica e da quanto stabilito dalla Società delle Nazioni nelle varie vicende istituzionali. Tuttavia, c’è chi sostiene che gli ebrei avrebbero dovuto accordarsi con gli arabi prima di passare alla costituzione del loro Stato ma questo è assai falso. In primo luogo si deve tener conto di quanto viene messo in risalto da David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, «la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.»
In secondo luogo si tenga presente che gli arabi, anche nelle consultazioni internazionali con l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), che precedettero l’emissione della risoluzione 181, avevano reclamato a gran voce e con la violenza il diritto all’istituzione di uno stato arabo su tutta la Palestina e fecero capire in ogni modo la loro indisponibilità ad accettare altre soluzioni. Diritto che non avevano per tutte le ragioni suddette.
La risoluzione 181, nel suo preambolo, pone tutta una serie di condizioni inderogabili ai fini della formazione dei due stati e una su tutte è quella che si creino stati democratici. A questa dicitura fa seguito un elenco di richieste che caratterizzano le società democratiche. La risoluzione 181 propone una concezione dello stato di stampo illuminista, burocratico e lontano da ogni tendenza teocratica, qualcosa che non poteva rientrare nell’orizzonte esistenziale dell’arabo musulmano. A mio parere vi è una questione culturale-religiosa che sovrasta tutto il resto. Detto in parole povere: gli ebrei avevano la capacità di ragionare in termini politici aconfessionali, i musulmani no. Per gli arabi musulmani costituirsi in uno stato democratico, secondo i criteri richiesti dall’ONU, era difficile assai. Stiamo parlando di etnie avvezze ad assetti “politici” che comprendevano emirati e sultanati sia prima della dominazione Turca-ottomana che, in alcuni casi, durante. Lo stato palestinese non è mai esistito perché il concetto stesso di “Stato” nell’arabo musulmano è assai incompatibile con quello occidentale ma qui potremmo aprire un lungo capitolo non adatto a questa sede.
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[1] L’URSS fu la prima a riconoscere de Jure lo Stato di Israele tre giorni dopo la sua costituzione.
[2] La soluzione proposta dalla Commissione Peel (Lord William Peel) era radicale: dividere la Palestina in due Stati indipendenti l’uno dall’altro, uno ebraico (più piccolo) ed uno arabo, con la città di Gerusalemme e l’area circostante che sarebbe rimasta sotto il controllo del Mandato britannico. L’Agenzia Ebraica, con a capo David Ben-Gurion, pur dispiacendosi per Gerusalemme che sarebbe rimasta al di fuori dello Stato ebraico, accettò il piano di spartizione; gli arabi lo rifiutarono in toto perché contrari a qualsiasi diritto di Stato per gli ebrei, anche in aree della regione a maggioranza ebraica.
[3] Dimitri Buffa, l’Opinione delle libertà, 19/4/2012.
[4] Daniel Greenfield è un giornalista di origine israeliana che scrive per pubblicazioni conservatrici.
[5] Il sangiaccato di Gerusalemme (Suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano; sopravvive ancora in alcuni paesi arabi)è stato una provincia dell’Impero ottomano fino al 1918. Parte della Palestina, la quale faceva parte del vilayet di Sham (Siria), il sangiaccato di Gerusalemme era formato da cinque cazà (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba)[1]. Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
(Rights Reporter, 8 ottobre 2025)
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Pacco, doppio pacco e contropaccotto!
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
PACCO: A fine agosto decine di volontari e volenterosi hanno ammassato nel porto di Genova una quantità smisurata di cibo e medicinali destinati alla popolazione di Gaza. A dire il vero ne sarebbero bastate solo 40 tonnellate, tale era la stima approssimativa degli organizzatori e la capacità effettiva delle stive delle imbarcazioni, impegnate a forzare il blocco navale imposto da Israele. Tuttavia, i beni consegnati in modo del tutto spontaneo dalla generosità di gente comune, superavano di 10 volte il limite preventivato.
DOPPIO PACCO: La flotta di circa 50 imbarcazioni si avvicinava lentamente all’obiettivo di raggiungere la Palestina e quindi il blocco navale, così nella preoccupazione generale, molti esponenti della politica italiana hanno iniziato a scongiurare la possibilità dello scontro con i militari di Israele, proponendo in alternativa la consegna dei beni umanitari, precedentemente raccolti e stivati sulle imbarcazioni, a Cipro, dove è stato istituito da tempo un corridoio marittimo verso Gaza. In questo modo gli aiuti sarebbero arrivati per certo e avrebbero effettivamente dato un sostegno concreto alla popolazione sfollata. Proposta rispedita al mittente, il comitato direttivo della Flotilla determinava di rimanere fedele al proposito di fare “rotta verso una Palestina libera”.
CONTROPACCOTTO: 1 Ottobre, le forze israeliane prima sparano cannonate di avvertimento ad acqua, poi salgono a bordo delle imbarcazioni dove trovano gli attivisti impegnati a perseguire il proprio impegno di protesta. Come ultimo, disperato gesto, forse per proteggere i reali propositi, gettano in mare cellulari e dispositivi elettronici. Quindi vengono trasportati a terra per essere rimpatriati. Le prime immagini delle stive delle imbarcazioni sono scioccanti. Vuote, salvo alcuni pacchi di cibo e poco altro, forse più necessario ai naviganti che ai gazawi, sembra non ci sia nulla di tutto quello che era stato precedentemente raccolto e promesso alla popolazione bisognosa.
Nel film di Nanni Loy del ’93, in una Napoli che vive di espedienti, si innesca tutta una serie di truffe a catena, truffati e truffatori, che a loro volta sono truffati da qualcuno che è, apparentemente, più furbo di loro. Ma se effettivamente le cose stessero così, questa truffa, mediatica, social-mediatica, propagandistica, non si dovrebbe accettare, come se nulla fosse. Se penso a tutti quelli che hanno portato cibo e medicinali, ma che ne hanno fatto, li hanno buttati in mare? Se penso a tutti quelli che si sono mobilitati per far arrivare, per davvero, gli aiuti a Gaza, sfido che non potevano lasciarli a Cipro, non ce li avevano proprio… Se penso a tutti quelli che hanno manifestato il 3 Ottobre, compresi alcuni miei alunni (altri che non sono venuti a scuola saranno andati solo a farsi un giro per la verità), ma quelli che ci credevano veramente, come si saranno sentiti al pensiero che hanno sfasciato tutto per un cargo vuoto? Per la verità a qualcuno era stata fatta qualche proposta, del tipo, ma se i palestinesi venissero qui in Italia, li accogliereste nelle vostre case, li vestireste, li sfamereste? Troppo facile parlare di quale fosse in fondo il vero scopo della Flotilla, invece mi va di parlare dei palestinesi, i gazawi, ma a chi interessano veramente?
C’è qualcuno tra quelli che fanno proclami che ha veramente a cuore dell’esistenza dignitosa e della salute di un popolo che un popolo non lo è mai stato a partire dalla sua presunta nascita, non voluta nemmeno da quelli che dovrebbero essere fratelli? C’è qualcuno che pensa veramente di fare del bene ai palestinesi, tenendoli legati visceralmente ai propositi di violenza, impartiti dalla più tenera età, molto prima che un bambino possa imbracciare il fucile, e che hanno come unico scopo la cancellazione di Israele? Al liceo ho conosciuto uno studente palestinese che viveva a Nazareth, mi diceva che per un palestinese il posto migliore dove vivere è Israele. In Israele nonostante tutto c’è la democrazia, un parlamento eletto con una componente musulmana, la vita che si vive in Israele è simile a quella che si vive in qualsiasi città in Occidente. Cosa che non si può dire di tutte le altre città del vicino oriente. In ultimo, ma non ultimo, forse la cosa più importante e la più incredibile, proprio il Dio degli ebrei, che si è fatto conoscere al mondo come il Dio di Israele, probabilmente è l’unico a cui la gente di Gaza sta veramente a cuore. G.M.
(Notizie su Israele, 8 ottobre 2025)
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«Il nuovo sonno della ragione»
di Massimo Giuliani
Il lascito morale e politico dello sciopero generale di venerdì scorso e del “pacifico” corteo pro-Gaza o pro-Pal è ben visibile a Roma sui muri delle vie attraversate dai manifestanti. Davanti al Colosseo leggiamo “Israele assassino”; in via Labicana “odio Israele” e “Israele stato terrorista”; in via Merulana un grande “morte a Israele” e “intifada fino alla vittoria” sul muro della Pontificia Università francescana (parlando di pacifismo) chiamata Antonianum, che a tre giorni da quel corteo non ha ancora ripulito le sue mura da queste oscenità (con quale coerenza teologica, mi chiedo, se nelle loro cappelle pregano con i salmi di David ha-melek “il Custode di Israele”…?). Ma come stupirsi: questo linguaggio è stato sdoganato da partiti politici, intellettuali, preti con la kefiah, testate giornalistiche e poco ci manca da alcuni servizi della Rai. L’Italia è stata palestinizzata, l’islam radicale ha prevalso, la narrativa di Hamas ha vinto quando si può mettere in testa a un corteo pro-Gaza uno striscione che equipara il 7 ottobre a un atto di resistenza. Sono gli effetti di un “sonno della ragione” che ricorda le folle acclamanti degli anni Trenta. Da oltre nove anni è in corso una guerra dei sauditi contro lo Yemen, che ha fatto più di 370 mila morti, dove ci sono fame ed epidemie… ma sui muri di Roma l’assassino da odiare è solo e soltanto Israele.La flottiglia ha mostrato il vero scopo, il vero collante di tutta questa “solidarietà umana”: non aiutare chi soffre ma distruggere chi ha saputo ricostruirsi una vita e costruire uno stato dopo un vero genocidio. Loro vogliono demolire e riscrivere la storia (l’ho sentito con le mie orecchie la sera di Kippur, quando sono stato costretto ad attraversare l’ennesima manifestazione propal per tornare a casa), Israele e la diaspora ebraica la stanno costruendo. E sarà a beneficio anche dei palestinesi che, abbandonando l’odio, vorranno davvero convivere nelle terre di Abramo.
(moked, 6 ottobre 2025)
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7 ottobre - La poesia di Carmela
Io sto con Israele! Con i giovani soldati che ogni giorno combattono mettendo a rischio i loro splendidi venti anni!
Ora e sempre io sto con Israele! Contro questo mare d’odio e di antisemitismo! Il sangue di Gesù Cristo alla croce mi ha purificata da tutti i miei peccati! Il sangue degli ebrei mi è molto caro.
Io sto con Israele! Il mio cuore batte per questa terra meravigliosa e per il popolo ebraico! La mia preghiera quotidiana è per la pace di Gerusalemme (Salmo122).
Io sto con Israele! Con gli ostaggi e i loro familiari, per la liberazione ed un tempo di consolazione!
Io sto con Israele! Questa terra benedetta, martoriata dal nemico che vuole possederla a tutti i costi!
Io sto con Israele! Le tue lacrime le comprendo tutte! Certo, ci sarà restaurazione…
Io sto con Israele!
Carmela Palma
(Notizie su Israele, 7 ottobre 2025)
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È ancora il 7 ottobre
di Stefano Parisi
Sono passati due anni ed è ancora il 7 ottobre. Gli ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas, Israele è esausto e immerso nel dolore, i palestinesi sono ostaggi di Hamas e del loro odio secolare verso gli ebrei. Ma l’orrore del 7 ottobre sta continuando a devastare anche la nostra comunità democratica, è penetrato nell’ideologia suicida antioccidentale e nel sottofondo di antisemitismo finalmente libero di esprimersi con tutta la sua violenza e il suo odio. Il 7 ottobre è stato un punto di non ritorno, un evento che ha devastato Israele, che ha colpito nel profondo il mondo libero, che ha reso evidente un asse del male che unisce la Russia di Putin, il regime degli ayatollah in Iran, e la Cina che li supporta. Un attacco senza precedenti a Israele, forte e pronto a reagire, e all’Occidente, debole e tremebondo.
È ancora il 7 ottobre in Israele, fino a che non saranno liberati gli ostaggi. 732 giorni nel lager di Gaza, le storie di 251 persone innocenti, strappate alla loro vita. 251 storie drammatiche che si uniscono a quelle dei tanti israeliani uccisi il 7 ottobre e dei tanti giovani militari morti in guerra per difendere il loro Paese e la vita delle loro famiglie. Israele è diviso sulla sorte degli ostaggi. Centinaia di migliaia di persone manifestano tutte le settimane per richiedere il loro rilascio mentre la guerra per liberare Israele dalla minaccia di Hamas mette a rischio la loro vita. Fino a che gli ostaggi non saranno tornati a casa, Israele non sarà libero di costruire il suo futuro. Israele è più isolato che mai! Il 7 ottobre ha costretto Israele a reagire, per distruggere la capacità offensiva dei suoi nemici, che perseguono l’obiettivo di cancellare Israele “dal fiume al mare”. I terroristi islamici hanno aggredito Israele su tutti i fronti; Israele li ha colpiti, indeboliti, ha annientato la loro capacità militare, ha umiliato l’Iran che li ha armati, ma il mondo libero gli ha voltato le spalle.
È ancora il 7 ottobre in Europa. Abbiamo lasciato solo Israele nella sua guerra contro il nostro nemico. L’Islam radicale ha penetrato le nostre città, si sta impossessando della nostra libertà per annullarla, per sostituire lo Stato di Diritto con la Sharia. Con la sua propaganda ha fatto presa tra le nostre élite pigre, ha ridato un senso alla loro vita alimentata dal rancore e dall’invidia, ha dato il via libera all’odio per gli ebrei vivi che si alimentava soffocato dalla retorica della memoria per gli ebrei morti. All’inizio piccole frange negavano il 7 ottobre, frutto della propaganda sionista; oggi fiumi di persone nelle nostre piazze celebrano l’orrore del 7 ottobre come festa della resistenza palestinese, vestiti come quei terroristi che hanno stuprato, mutilato, bruciato, ucciso ebrei, musulmani, beduini, drusi. Chiedono la morte degli ebrei, si augurano che vengano appesi all’albero di Natale per risparmiare sugli addobbi, i loro bambini vengono portati nelle piazze a urlare slogan che richiedono il genocidio degli ebrei “dal fiume al mare”. Hanno il consenso della stampa, i partiti di sinistra sperano di raccogliere i loro voti, l’accademia si inchina a loro, la magistratura ne condivide le battaglie, ai loro profeti viene concessa la cittadinanza onoraria.
Finirà la guerra, gli ostaggi torneranno a casa, Israele si è difeso da solo, senza di noi e da solo saprà riprendersi dallo sfinimento. Si troverà un nuovo assetto in Medio Oriente, purtroppo un assetto precario. Non sarà sradicato l’odio degli arabi verso gli ebrei, ma inizierà un lungo e lento percorso di sicurezza e cooperazione economica. Gli israeliani dovranno ancora vivere nella paura, nella difesa dalla guerra, nella straordinaria energia di un Paese consapevole che convive con tutto questo da sempre. Il 7 ottobre in Israele finirà, rimarrà nella memoria di un popolo che sa ricordare, senza retorica, ma con la forza della sua storia. Ma dopo la guerra, in Europa il 7 ottobre non finirà. Siamo in un tunnel di orrore. Gli ebrei sono perseguitati, il valore della libertà è annullato nelle scuole e nelle università, dove i ragazzi non sono più liberi neanche di avere dubbi, neanche liberi di stare in silenzio. Devono odiare Israele, gli ebrei, i sionisti, l’Occidente, la libertà. Avremo molto da lottare, a testa alta per gli ebrei, per noi, per salvare le nostre vite e la nostra libertà.
(Il Riformista, 7 ottobre 2025)
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Quella viscida forma di astio antiebraico
Questo sito si rivolge in particolar modo a cristiani evangelici. È inevitabile allora che il riferimento esplicito a Israele possa provocare dibattiti, differenze di vedute e anche possibili divisioni. In questa funesta ricorrenza riteniamo utile allora riproporre un articolo di qualche mese fa, pensato particolarmente per un ambito evangelico. L’articolo è lungo perché per prendere posizione su un avvenimento così complesso come quello richiamato oggi, con una valenza biblica e politica enorme, occorre necessariamente partire da lontano. La superficialità su certi argomenti è una colpa.
All’articolo abbiamo cambiato soltanto il titolo, per segnalare il più forte pericolo che si corre oggi in certi ambienti.
di Marcello Cicchese
La guerra di Gaza è forse l’ultima forma in cui si presenta oggi al mondo la “questione ebraica”. Se per secoli sono stati gli ebrei come gruppo sociale a costituire un problema all’interno delle singole nazioni in cui vivevano, da circa un secolo è l’esistenza di una nazione che vuol dirsi “ebraica” a costituire un problema. Ha diritto di esistere una “nazione ebraica?” è questa la forma in cui il problema oggi si pone. E inoltre, ha diritto di vivere ed esercitare la sovranità sulla terra che ora occupa? Israele dice “sì”, Hamas dice “no”.
Immaginiamo allora che in un paese ci sia la famiglia A in lotta da generazioni con la famiglia B sulla rivendicazione di proprietà di un certo possedimento. Col tempo avvengono fatti di violenza tra le due parti e i paesani finiscono per parteggiare per una o per l’altra parte. Quasi sempre lo fanno per simpatia, o per interessi, oppure, nel migliore dei casi, per valutazioni di ordine morale. “Quelli sono altezzosi e offendono”, dicono gli uni; “e loro sono violenti e rubano”, dicono gli altri; e cose simili. Quale sarà il modo giusto per porre fine alla contesa? Risposta: accertare presso il Demanio a chi appartiene per diritto la proprietà del possedimento. Tutto il resto viene di conseguenza.
La contesa sulla terra "dal Giordano al mare" proviene allora da una questione giuridica tuttora in corso e non ancora risolta. Trattandosi di diritto, la contesa non può che svolgersi all'interno di una struttura giurisdizionale entro cui sono stabilite le norme e si può verificare se sono rispettate o no. In questo caso, in cui sono presenti concetti come “ebrei” e “nazione”, la questione richiede per sua natura una giurisdizione che si colloca su un piano superiore al solito: si deve decidere qual è il sistema ideologico entro cui si vogliono collocare le nozioni di bene e male, di giusto e ingiusto, di vero e falso.
Trascurando visioni ideologiche come quella islamica o cattolica tradizionale, per i cristiani evangelici entrano in gioco, e in tensione fra loro, due visioni del problema: quella biblica e quella secolare. Più precisamente: la tensione tra diritto biblico e diritto internazionale. E’ lo stesso tipo di tensione che il singolo credente sperimenta quando deve scegliere tra sottomissione a Dio e sottomissione alle autorità.
Essendo una questione di diritto, occorre avere conoscenza del sistema di norme giuridiche entro cui ci si colloca. Per muoversi nella visione biblica, ovviamente è indispensabile conoscere la Bibbia; e per quella secolare è indispensabile conoscere la storia. Essere privi di adeguata conoscenza nei due ambiti non è una colpa, ma è comunque un pericolo, perché ci si ritrova a galleggiare in un mare di ignoranza su cui naviga la menzogna.
Sono molti i battelli della menzogna che percorrono il mare dell’ignoranza con la scritta “Palestina-Israele”. I nuotatori in difficoltà li incontrano in quei video in rete che si propongono di spiegare, una volta per tutte, le radici “storiche” del contrasto tra israeliani e palestinesi. Il naufrago viene issato a bordo e gli viene proposto di vedere un film che è un assemblaggio di spezzoni di video accuratamente scelti, con una voce suadente che racconta come sono andate le cose e spiega tutto. Dopo una mezz’ora il nuotatore issato a bordo è convinto di sapere ormai abbastanza sull’argomento e di non avere bisogno di altro. La conseguenza è che il naufrago non soltanto è stato imbarcato su un battello della menzogna, ma gli è stato infilato addosso anche un mantello impermeabile che lo proteggerà in futuro da ogni successivo accostamento della verità.
Fuor di metafora, quando vent’anni fa un oratore andava a spiegare a un pubblico evangelico la questione di Israele con dati ricavati da studio della Bibbia ed esame di documenti storici, poteva trovare un pubblico poco addentro nell’argomento ma anche attento e desideroso di apprendere. Oggi invece sarebbe molto diverso, perché oggi tutti sanno tutto. Qualunque cosa si dicesse in merito, potrebbe sempre alzarsi qualcuno a dire che non è vero. Perché lui l’ha visto coi suoi occhi. In un video. E c’erano pure scene di fatti avvenuti cento anni fa… Vuoi mettere?
• Le nazioni nella Bibbia
Per uscire dal mare dell'ignoranza, e se del caso scendere dal battello della menzogna, bisogna anzitutto prendere atto che il problema ruota intorno al concetto di nazione, presente sia nella Bibbia, sia nel diritto secolare.
Nella Bibbia le nazioni non fanno parte del progetto originario di Dio: esse sono conseguenza di peccato; sono frutto della superbia dell’uomo, che nel suo desiderio di diventare come Dio si impegnò nella costruzione della torre di Babele. Fu un peccato “globalista”, frutto del desiderio di unire tutti gli uomini in un'armonica rivendicazione di universale autonomia rispetto a Dio.
In risposta a questo “nobile” progetto, Dio agì signorilmente: non fulminò i ribelli, ma senza farsi accorgere ne vanificò il progetto obbligandoli a dividersi in nazioni.
Ma a questo punto sorge un problema: il piano salvifico di Dio prevede la Sua personale discesa sulla terra nella persona del Messia; in quale nazione allora sarebbe dovuto scendere il Signore? Forse noi avremmo stabilito una graduatoria a punti e scelto la nazione col maggior punteggio; Dio invece ha agito diversamente: ha deciso di formarsi la sua propria nazione.
Quando Dio dice ad Abramo: “… farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:2), questo è un impegno solenne che Dio prende con Se stesso. Quando il popolo di questa nazione, a cui nella storia di Giacobbe Dio ha dato il nome di “Israele”, arrivò a formarsi nel seno dell’Egitto, Dio diede a Mosè l’incarico di comunicare al faraone una notizia importante:
"Tu dirai al faraone: Così dice l’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:23).
A questa notizia seguì l’ordine perentorio di far uscire suo figlio da quella terra, cosa che come sappiamo il monarca egiziano fece molta fatica ad accettare.
Questo dovrebbe essere sufficiente a far capire che qualunque cosa avvenga nel mondo, il popolo di Israele, in quanto figlio primogenito di Dio, non è, e non sarà mai, una nazione come tutte le altre. Secondo la Scrittura, anzi, essa costituisce fin dall’origine il metro di confronto usato da Dio per la costituzione delle altre nazioni:
“Quando l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d'Israele” (Deuteronomio 32:8).
Dunque Israele ha da sempre e per sempre una posizione di primato rispetto alle altre nazioni, le quali sono addirittura invitate dal Signore a gioire e a pregare per lui:
“Così parla l’Eterno: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, prorompete in grida, per il capo delle nazioni; fate udire le vostre lodi, e dite: o Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele!" (Geremia 31:7).
• Il posto di Israele
Se Israele è il capo delle nazioni, resta da decidere quale posto si deve riconoscere nel piano biblico alla nazione che oggi porta il nome Israele; e quale valutazione si vuole dare di ciò che sta accadendo intorno alla terra su cui esercita la sovranità.
Come persona che su questo tema riflette ormai da decenni, ritengo sia utile riportare qualcosa che nel passato è stato pubblicato sul mensile evangelico “Il Cristiano”, dove nel 2002 è comparsa una serie di miei cinque articoli, raccolti in seguito in un inserto dal titolo “Dio ha scelto Israele - Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa”, trasformato poi in un libro di cui è uscita l'anno scorso la quarta edizione.
Il primo articolo, dal titolo “La nascita del sionismo politico”, si apre con questa introduzione:
"Il ristabilimento della nazione di Israele e il miracoloso ritorno dei suoi cittadini sparsi in tutto il mondo fa capire che Dio non ha cambiato opinione riguardo al "Suo popolo, che ha preconosciuto". L'interesse per Israele non può limitarsi al passato prima di Cristo e al futuro dopo il rapimento della Chiesa, perché quello che sta avvenendo oggi nella terra promessa ad Abramo non merita soltanto riflessione, ma richiede anche decisione."
Nell’ultima pagina di copertina dell’inserto sta scritto:
"L’autore ripercorre le tappe che nella Storia dimostrano in modo inequivocabile l'unicità di Israele fra tutti i popoli della terra.
Da dove viene questa unicità? Israele è l'anomalia che sconvolge le "leggi" della politica, della religione, dell'antropologia ... della storia.
Da dove viene questa anomalia? La Rivelazione biblica, che legge ed interpreta la Storia, ci dà una risposta precisa: l'unicità e l'anomalia provengono da Dio che ha scelto Israele per testimoniare il suo Nome fra le nazioni e, soprattutto, per realizzare il suo progetto universale di salvezza. Il fatto che Israele non abbia spesso assecondato i piani di Dio, non svilisce il valore e gli obiettivi della scelta."
• Israele oggi
Ribadendo allora la validità di queste valutazioni, resta da stabilire se lo Stato che oggi porta il nome “Israele” ha qualche collegamento con l’Israele biblico o è soltanto un incidente della storia profana.
Una risposta adeguata richiede un esame in parallelo di quello che dice la Bibbia sul futuro di Israele dopo Gesù e di quello che dicono i documenti storici sui fatti che hanno portato alla formazione dell'attuale Stato di Israele. Tutto questo non si può fare certamente nei limiti di un singolo articolo, ma è bene prendere atto che si può arrivare ad averne conoscenza, se davvero lo si desidera.
Per quanto riguarda l’aspetto biblico della questione, si può indicare un saggio di Arnold Fruchtenbaum: Il moderno Stato di Israele, in cui si dimostra, con abbondanza di citazioni bibliche, che l’attuale Stato di Israele corrisponde a quello che le profezie bibliche prevedono, cioè il ritorno degli ebrei nella loro terra in una posizione di incredulità rispetto al Messia. Questo significa che Dio stesso ha voluto la fondazione dell’attuale Stato di Israele, ed esso rimane dunque sotto la sua personale amministrazione. Si può non essere d’accordo, ma allora si deve mostrarne le ragioni con la Bibbia alla mano.
Per quanto riguarda l’aspetto storico, la questione è ancora più impegnativa, perché si tratta di smontare la convinzione più diffusa, cioè che gli ebrei avrebbero invaso una terra che non appartiene a loro e avrebbero soggiogato i suoi abitanti. Secondo questa tesi, ad avere il diritto di proprietà sulla terra d’Israele non sarebbero dunque gli ebrei, ma i cosiddetti “palestinesi”. E questo è falso.
E' vero il contrario: secondo il diritto internazionale, Israele è l'unica nazione ad avere pieno diritto di sovranità sulla terra che ora occupa.
Un’affermazione così categorica può lasciare perplessi, ma proprio per questo deve essere ripetuta con forza, insieme alla disponibilità a dare risposte a chi sinceramente le chiede, se davvero desidera uscire dal "mare dell'ignoranza".
Per essere concreti, si può indicare un recente libro di David Elber, Il diritto di sovranità in terra d’Israele, Salomone Belforte, 2024. E’ un libro chiaro, conciso, che contiene in modo documentato tutto ciò che è necessario per arrivare alla conclusione più ovvia, cioè che secondo il diritto internazionale, basato su fatti storici e formulazioni giuridiche di patti fra nazioni, il diritto di proprietà della terra che va “dal Giordano al mare”, appartiene al popolo ebraico, dunque a Israele.
Certo, un libro simile richiede una lettura attenta, essendo frutto di una ricerca analitica fatta su documenti storici, come si farebbe con documenti dell'archivio del Demanio per appurare a chi appartiene la proprietà di un immobile conteso.
Altri studi e indicazioni sull'argomento si possono trovare naturalmente su questo sito, e precisamente alla rubrica "Approfondimenti", dove ci sono saggi di tutte le misure e di tutti i tagli (ma non di tutti i gusti).
• Israele in rapporto alle nazioni
Per arrivare all’attualità, chi ha ragione oggi nella contesa tra Israele e Hamas? Se proprio si richiede una posizione netta, per chi scrive la risposta è una sola: ha ragione Israele, senza se e senza ma.
Se è vero che in questo momento Israele occupa la terra che Dio gli ha assegnata, e contemporaneamente è vero che Hamas dichiara di volerlo distruggere come nazione e cacciare gli ebrei da quella terra, la conseguenza biblica è che Hamas si è costituito apertamente come nemico di Dio e servo di Satana. Hamas si agita fra quei nemici di Dio di cui si parla nel Salmo 83:
"Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!" (Salmo 83:2-4).
La distruzione di Israele come nazione è uno dei principali obiettivi di Satana, perché questo significherebbe la vanificazione del progetto universale di salvezza di Dio. Il Signore avverte minacciosamente chi ha queste intenzioni distruttive:
"...così parla l'Eterno degli eserciti: ... chi tocca voi tocca la pupilla dell'occhio suo" (Zaccaria 2:8).
Davanti al tentativo di Hamas di distruggere lo Stato d'Israele (sprezzantemente denominato "entità sionista"), e soprattutto davanti alla dichiarata, reiterata volontà di ripetere indefinitamente questo tentativo fino a ottenimento del risultato, Israele ha reagito: ha espresso a sua volta la volontà di distruggere Hamas. E ora sta provando concretamente a farlo. Nel piano di Dio, questo è conforme a giustizia. Dio disciplina il suo popolo, anche duramente, ma guai a quella nazione che si propone di distruggerlo. E' stato sempre così nel passato e sempre così sarà. E' un'espressione della volontà ultima di Dio: i nemici dichiarati del suo popolo saranno distrutti, prima o poi, perché sono nemici di Dio.
La discussione sui modi in cui la contesa si svolge, la previsione di come andrà a finire, il conteggio dei morti, la commozione per le sofferenze di donne e bambini palestinesi, il palleggiamento delle responsabilità morali da una parte all'altra, sono cose del tutto fuori luogo in questa ottica. E' possibile che Israele non riesca in tempi politici a distruggere Hamas; è possibile anche che i suoi modi di agire avrebbero potuto essere diversi; ma questo non altera la valutazione secondo giustizia del fatto in sé. Con l'assalto del 7 ottobre Hamas ha manifestato, in parole e opere, il suo odio contro il popolo che Dio si è scelto, la volontà di cacciarlo fuori dalla terra che gli appartiene e distruggerlo come nazione. Si è messo contro Dio e ne subirà le conseguenze. Come già è accaduto più volte nel passato.
Quanto alle sofferenze che ne subisce ora la popolazione di Gaza, da un punto di vista biblico e non genericamente umanitario, esse possono essere considerate come un avvertimento e un'anticipazione di ciò che capiterà un giorno alle nazioni che si muoveranno in guerra contro Gerusalemme:
"In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:6).
"In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme" (Zaccaria 12:9).
E inoltre:
"Questo sarà il flagello con cui l’Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, i loro occhi si scioglieranno nelle orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca" (Zaccaria 14:12).
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). E va sottolineato che l’indignazione di Dio è causata proprio dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna.
• Israele in rapporto a Dio
Come abbiamo già detto, non è per quello che Israele ha fatto e sta facendo ai palestinesi che Dio lo rimprovera; ma pur dicendo che Israele ha pienamente ragione rispetto ad Hamas, non è detto che Israele abbia ragione anche nei suoi rapporti con Dio. Ci si può chiedere infatti se oggi Israele stia vivendo in modo degno della sua particolare elezione. A nessun altro popolo Dio ha rivolto parole così tenere, come quelle di un innamorato:
"... tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te" (Isaia 43:4-5).
Ma il Signore è un Dio geloso, e non sopporta che Israele lo abbandoni per onorare e servire altri dei. L'idolatria del suo popolo è un tradimento che lo provoca ad ira:
"I figli d'Israele continuarono a fare ciò che è male agli occhi dell'Eterno e servirono gli idoli di Baal e di Astarte, gli dèi della Siria, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi dei figli di Ammon e gli dèi dei Filistei; abbandonarono l'Eterno e non lo servirono più. L'ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei e nelle mani dei figli di Ammon" (Giudici 10:6-7).
La gravità della situazione in cui si trova oggi Israele dovrebbe indurre i suoi cittadini a porsi serie domande: stiamo forse servendo dei stranieri, come popolo e nazione? stiamo coltivando forme di idolatria pagana?
La riflessione potrebbe cominciare proprio dall'esame di ciò che è avvenuto quel 7 ottobre.
Quella mattina i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma la provocazione organizzata di una collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, il risultato che poi si è ottenuto proprio non se lo potevano immaginare.
Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina. «L’ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei» (Giudici 10:7).
• L'odio antiebraico cresce e si diffonde
Quale che sia la valutazione che il Signore vorrà dare della condotta odierna di Israele, gli uomini dovranno un giorno rispondere a Dio dell'atteggiamento che avranno assunto nel confronti del suo popolo.
Colpisce allora la rapidità, l'intensità e l'estensione con cui pochi giorni dopo la mattanza del 7 ottobre è cresciuto nel mondo l'odio contro gli ebrei. "Genocidio" è la sintetica parola che si è ben presto diffusa; e naturalmente chi commette genocidio è Israele. Il semplice fatto di usare questo termine in questo contesto fa emergere in chi lo usa la sua antipatia, per non dire l’odio, verso gli ebrei. Naturalmente chi ne fa uso lo negherà, ma non sarà convincente. Genocidio? Quale sarebbe il genere umano ucciso? Quello dei palestinesi? perché, i palestinesi di Gaza costituiscono un genere? come gli ebrei? come i curdi? qual è il gruppo etnico caratteristico dei palestinesi? Ma è inutile porre queste domande, perché chi nomina disinvoltamente il genocidio in questo contesto non è interessato alle risposte: l’importante è che il termine sia entrato nell’uso e sia riferito ripetutamente a Israele. Il bollo infamante gli è stato appiccicato addosso, e bravo chi riuscirà a staccarlo. Forse ci vorranno secoli, come nel caso del deicidio.
Come cristiani evangelici, dobbiamo renderci conto che anche noi corriamo il rischio di essere contagiati dall'atmosfera antiebraica che si respira oggi nella nostra società. Per avvertirne il rischio possiamo riportarci indietro, al tempo della Germania hitleriana. E' in un clima per certi aspetti simile al nostro che si arrivò fino all'invio degli ebrei nelle camere a gas. Possiamo chiederci allora quale fu il comportamento dei credenti in Cristo di quella nazione davanti ai fatti che li coinvolgevano. Ma ancora prima di questo, c'è da chiedersi se riuscirono a capire quello che stava accadendo.
Nella sopra citata serie di cinque articoli del 2002 pubblicati su "Il Cristiano", l'ultimo articolo ha come titolo: "Il tentativo sempre rinnovato di distruggere Israele". Nella parte finale si dice:
"Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione hanno saputo riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare."
Poco più avanti si fa un avvertimento che se valeva allora vale tanto più ancora oggi, dopo oltre vent'anni:
"I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele."
Quello che sta avvenendo oggi, 2025, nella terra promessa ad Abramo richiede dunque riflessione, affinché si sappia capire di che natura sono i fatti che avvengono; e decisione, affinché si sappia prendere posizione, o quanto meno si decida di non mettersi a "ululare coi lupi", cioè di non associarsi a quella viscida forma di astio antiebraico che si sta diffondendo oggi, forse purtroppo anche tra evangelici.
A questo punto non posso che rinnovare l'avvertimento personale che diedi vent'anni fa, sempre sul mensile evangelico "Il Cristiano", dove nei numeri di gennaio e febbraio del 2005 comparve un mio lungo articolo in due puntate dal titolo: "Antisemitismo 'evangelico', moderato ed equilibrato".
L'articolo è introdotto da queste parole:
«Esaminare i fatti accaduti nella Germania del periodo nazista e considerare l’atteggiamento tenuto dai credenti evangelici tedeschi nei confronti degli ebrei può aiutare a riflettere su quello che oggi si pensa e si dice sugli ebrei di oggi, e ad assumersene la dovuta responsabilità.»
E si conclude poi con queste parole, che mi sento di ripetere oggi nella stessa identica formulazione:
«E’ di fondamentale importanza verificare quello che pensiamo, biblicamente, storicamente, politicamente e psicologicamente, degli ebrei di oggi. Pensieri anche biblicamente corretti sugli ebrei di ieri (prima di Gesù) e di domani (dopo il rapimento della chiesa) non sono sufficienti a garantire la fedeltà alla Parola di Dio. Dovrebbe essere chiaro che il tema “ebrei”, inevitabilmente collegato oggi allo “Stato d’Israele”, è non solo di scottante attualità politica, ma è anche e soprattutto di cruciale importanza spirituale. Quello che si pensa, quello che si dice (spesso con preoccupante leggerezza) sul popolo ebraico e sullo Stato d’Israele può avere conseguenze gravi sulla vita della persona, della chiesa e della società. Il campanello d’allarme dell’antisemitismo ha ripreso a suonare. Sapremo riconoscere e tacitare quelli che con le loro politiche e teologiche chiacchiere stanno cercando di coprirne il suono? Mai forse come in questo caso sono appropriate le parole del Signore Gesù:
"Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato" (Matteo 12:36).»
(Notizie su Israele, 7 ottobre 2025)
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Ricordando il 7 ottobre 2023. Il racconto di un testimone dell’attacco al Kibbutz Nir Yitzhak
«Abbiamo sentito i nostri vicini mentre li rapivano»
di Ilaria Myr
Daniel Lanternari è un ebreo romano che dal 1995 vive nel Kibbutz Nir Yitzhak, uno dei villaggi agricoli situati nella zona intorno a Gaza, la cosiddetta ‘envelope’ nei 7 km intorno alla striscia governata da Hamas. E anche il suo kibbutz, come tutti i villaggi della zona, è stato travolto dalla furia omicida dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Nell’attacco sono morti tre residenti, e 9 persone sono tutt’oggi disperse. Lo abbiamo contattato a Eilat, dove si trova con la sua famiglia, la moglie, i tre figli (9,12 e 15 anni) e due cani.
«Ci siamo svegliati sabato mattina alle 6.30 al suono delle sirene, ma c’era anche una quantità enorme di missili e siamo corsi nella stanza di sicurezza. Abbiamo aspettato che finisse il lancio dei razzi per uscire, ma intanto abbiamo ricevuto messaggi che c’erano state delle infiltrazioni a Sderot nella zona al nord della striscia. Dopo qualche minuto, portando mio figlio al bagno dalla finestra abbiamo visto una quindicina di terroristi che sono entrati dall’entrata del kibbutz si sono nascosti dietro la mia macchina e hanno iniziato a sparare. Siamo subito rientrati nella stanza di sicurezza e ci siamo chiusi bene dentro, in modo che non potessero entrare dall’esterno. Ma hanno cercato di entrare dalla finestra della camera, e quando ho visto un filo di luce mi sono detto ‘è finita’. Continuavano a girare intorno, sentivamo spari e urla in arabo, ma abbiamo anche sentito urlare nella casa dei nostri vicini, da dove – abbiamo poi saputo – hanno portato via cinque persone. Sono entrati anche da noi, hanno distrutto quello che c’era e hanno cercato di entrare nella stanza, dove eravamo, per fortuna senza riuscirci.
In tutto questo, abbiamo cercato di mantenere il sangue freddo anche per trasmettere sicurezza ai bambini. E ancora non mi spiego per quale motivo anche i cani non hanno abbaiato, loro che di solito appena sentono un rumore lo fanno: sono stati in silenzio come se sentissero le nostre preghiere.
In totale abbiamo passato lì dentro più di 12 ore, senz’acqua, cibo e per fare i nostri bisogni usavamo un secchiello. Non potevamo uscire perché non sapevamo se c’erano miliziani in casa o bombe. Solo verso le 19 sono arrivati i soldati: appena usciti ci siamo rifocillati e abbiamo visto che oltre ai bossoli, che erano ovunque, sul terrazzo c’erano tre razzi rpg pronti per l’uso, una veste, cartucce per kanalshnikov. Se li avessero usati in casa la situazione sarebbe stata certamente differente ….
L’esercito ci ha divisi in diversi asili, che sono antimissile, in modo da potere controllare solo un luogo, mentre altri perlustravano il kibbutz alla ricerca di terroristi. Non ci hanno però evacuato subito perché si temeva che sulla strada ci fossero terroristi nascosti dietro agli alberi. Solo domenica sera verso le 23 siamo stati caricati su vari autobus e ci hanno portato qui a Eilat.
Il bilancio del nostro kibbutz al momento è di tre morti sicuri e nove scomparsi. Purtroppo, sapere che hanno preso le nostre macchine per portare gli ostaggi fa ancora più male. Così come fa male avere scoperto che il motivo per cui erano scomparse tutte le biciclette era che i terroristi avevano portato con loro bambini piccoli per metterli a girare nel kibbutz e fare da scudo, per distrarre l’esercito e i sorveglianti.
Vogliamo sapere perché per tante ore nessuno è venuto a bussare alla nostra porta. Il nostro più grande rispetto per i soldati che stanno ancora facendo il loro lavoro, ma qualcosa non è andato bene.
Nel nostro kibbutz c’erano fino a oggi persone dalla striscia che lavoravano da noi, amici che aiutavamo, ma si deve capire che i miliziani entrati non hanno fatto nessuna distinzione davanti anche a beduini, drusi, donne, bambini, anziani. Hanno sgozzato bambini, bruciato famiglie vive, ragazzi che ballavano a un rave, persone innocenti che sono state ammazzate solo perché si trovavano nella terra di Israele, non importa di che etnia o età fossero.
Sono sicuro che non è finita. Ora i bambini qui sono in vacanza ma il giorno che potremo tornare a casa nessuno si sentirà al sicuro, adulti e i bambini. Soprattutto, quando torneranno a scuola vedranno insegnanti e compagni che non ci sono più, si racconteranno le storie drammatiche che hanno vissuto e lì inizierà una nuova battaglia non fisica ma mentale.
Se torneremo a vivere nel kibbutz? È presto per prendere una decisione: non nego che ci sono molti che dicono che vogliono tornare lì, alcuni dicono di spostare il kibbutz altrove, ma sicuramente in molti andranno via.
Di certo, anche se torniamo, non sarà più la stessa cosa. Fino ad adesso dicevamo “per colpa dei razzi viviamo per il 95% in paradiso, ma per viverlo abbiamo questo 5% di inferno da subire ogni tanto”. Questa volta ci sono delle barriere che sono state oltrepassate che difficilmente le persone sapranno come superare».
(Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2025)
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A due anni dal 7 ottobre
di Fiamma Nirenstein
Piangeremo adesso ricordando il sette di ottobre, ma non ci limiteremo a piangere. Saremo anche forti e orgogliosi, saremo ancora e per sempre il popolo che ha dato al mondo la legge morale e la democrazia, nessuno pensi di vedere gli ebrei piegati e umiliati. E sarà perché lo Stato d’Israele insieme alla nostra storia millenaria ce ne dà la forza, qualsiasi cosa si faccia e si sia fatto per piegarci.
Siamo stati capaci di esaminare l’accaduto e di capire con coraggio che era il momento di svoltare rispetto al tema della nostra sicurezza. Israele combatte, la diaspora al suo fianco è consapevole delle nuove difficoltà e le affronta con coraggio. L’atmosfera d’odio che ci ha aggredito anche dopo il 7 di ottobre non ci piegherà, ovunque siamo, ci stringeremo insieme con forza, non ci metteremo in ginocchio: la sorpresa dell’ondata di antisemitismo ci renderà, anzi, sempre più consapevoli delle nostre ragioni e del fatto che sempre, come dicono i testi, hanno cercato di distruggerci, e non ci sono mai riusciti perché la nostra bandiera è quella della vita, tantopiù quando è una setta di morte come quella della jihad a sfidarci. Il peggiore di tutti gli attacchi subiti dal tempo dei pogrom e della Shoah ci ha aggredito mentre gli ebrei, non solo in Israele ma anche nella diaspora, credevano da decenni che offrire, spiegare, farsi paladini di una visione di eguaglianza e di condivisione, di comprensione pacifista fosse la chiave per il tikkun olam, il perfezionamento della Creazione con l’aiuto dell’uomo. Per questo, dal 1948, l’offerta di terra ci sembrava la più convincente anche se “i no” si sono moltiplicati negli anni.
In realtà, mentre Israele cresceva in giustizia e democrazia, in contributo alla scienza e alla cultura, una parte del mondo che avremmo voluto coinvolto nella nostra crescita coltivava con molti mezzi, molta determinazione, un piano di aggressione per distruggere lo Stato d’Israele e tutti gli ebrei del mondo.
Così ricordare il Sette di Ottobre per noi ebrei significa non soltanto ricordare la mostruosa macelleria di Hamas, fiancheggiata da una parte del mondo islamico capeggiato dall’Iran, ma anche il sorgere di un’ondata di odio verso gli ebrei che si nutre di menzogne senza fine, che sono sfociate nella parola “genocidio”. È l’inversione della realtà di cui ha parlato a suo tempo nel definire il nuovo antisemitismo Robert Wistrich, il maggiore storico dell’argomento: prima c’è stata la persecuzione religiosa, gli ebrei erano gli assassini di Cristo; poi quella razziale, gli ebrei erano immondi esseri inferiori; adesso c’è quella dell’inversione: gli ebrei sono nazisti, e lo si vede nella loro trasformazione in sionisti.
Israele, Netanyahu, bambini cui si spara volontariamente in testa… è un festival di bestemmie e di false notizie che arrivano alla parola “genocidio” e causano episodi di violenza e espulsione continua nei confronti degli ebrei in tutto il mondo, quando cantano, quando fanno sport, quando scrivono, quando vanno a scuola e all’università, quando mangiano la pizza a Napoli…
È stata dura vedere la muraglia sorgere intorno a noi proprio mentre dovevamo affrontare lutti che, nonostante la battaglia sia sempre stata viva, non avevamo mai dovuto affrontare in questi termini dalla fine della seconda guerra mondiale. E, secondo la nota teoria della propaganda nazista, è entrata nella narrativa comune la ripetizione all’infinito di formule senza senso, irrelate ai fatti per cui Israele combatte la sua guerra di sopravvivenza con il minor danno possibile contro i civili, introducendo cibo e aiuti, avvisando sempre la gente dentro gli edifici della indispensabile distruzione di postazioni militari, cercando di dividere i civili dai terroristi di Hamas.. e intanto gli si contrapponeva la determinazione, peraltro dichiarata, di Hamas di usare la propria gente come scudo umano e usarne il sacrificio per suscitare un’ondata di consenso.
Sì, abbiamo sofferto e soffriamo per i rapiti, per i soldati che muoiono, per l’ondata di antisemitismo, ma dal Sette di Ottobre abbiamo anche visto che il popolo ebraico ha avuto la forza e la determinazione, affiancato da alcuni fedeli amici fra cui splendono gli Stati Uniti, mentre sprofonda nel buio l’Unione Europea, di affermare il primato della libertà e della democrazia di fronte a un attacco senza precedenti di grandi, ricchissime forze oscure, e lo ha saputo portare avanti senza paura: non ha avuto paura di attaccare il più pericoloso fra gli odiatori, l’Iran; il più pericoloso fra gli aggressori, Hezbollah; non si è tirato indietro di fronte alla necessità di mettere in sicurezza i confini di una Siria cambiata e incerta; non ha indietreggiato dal colpire un nemico plagiato e ubriaco di odio che dista duemila chilometri, gli Houthi nello Yemen, mentre seguitava a battere i continui attentati terroristici. Dall’inizio dell’anno ne ha evitati mille. Intanto, battendosi per la liberazione degli ostaggi, numero uno degli scopi di ogni ebreo del mondo, i ragazzi dell’IDF hanno combattuto una guerra in cui ogni famiglia è coinvolta, ogni madre, ogni moglie.
Abbiamo pianto mille soldati con compostezza e dignità, stiamo curando 20mila feriti senza alzare le mani. Intanto nella diaspora il mondo ebraico si è stretto intorno a Israele con valore e resistenza, con maggiore consapevolezza della sua identità meravigliosa, correndo nuovi rischi, nuove espulsioni, soffrendo l’ingiustizia di esclusioni e malevolenze senza demordere. Certo, c’è stato, come sempre nella storia, anche fra di noi, chi si è fatto da parte e chi si è unito al coro degli aggressori, spesso per dimostrare che la vecchia strada dell’identificazione dell’ebraismo con una parte politica non veniva a mancare nemmeno in questo momento.
Non solo episodi rilevanti: importante è che si cominci a capire nel mondo che chi odia Israele, e lo si vede nelle piazze, chi insulta gli ebrei, di fatto odia, qui in Italia, anche il proprio Paese, i suoi valori di base, la democrazia, che l’antisemitismo come nel secolo scorso è una bandiera di sovversione fascista di qualsiasi colore la si dipinga.
Il cancelliere tedesco l’ha detto chiaramente: “Israele fa per noi il lavoro sporco”, ovvero affronta la grande sfida che soffrono le democrazie da parte da un’asse rosso-woke-islamico. Chi ancora non l’ha capito, dovrà presto rendersene conto, speriamo mentre la pace finalmente che Israele ha perseguito dalla sua nascita, diventi realtà. Ma una pace vera, Israele e gli ebrei non accetteranno nessun inganno, la forza della storia, della religione, del popolo, li difende.
(Shalom, 6 ottobre 2025)
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Proponiamo la visione di due video del podcast NordVPN.
Il primo di quattro giorni fa:
Cancellare HAMAS o cancellare ISRAELE?
Il secondo di nove giorni fa:
Nascita di Israele: la STORIA contro la PROPAGANDA - con David Elber. storico.
Questi video, e soprattutto i commenti dei lettori, fanno capire che l’odio del mondo contro Israele è invincibile con razionali armi umane, perché è di natura diabolica. Il diritto all’esistenza di Israele è stato fissato in origine da Dio stesso, ed è per questo che Israele è per natura e genesi indistruttibile. Tutti un giorno dovranno rispondere di come avranno considerato e trattato il Suo popolo, compresi coloro che oggi storicamente ne fanno parte. M.C.
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Due nomi in gioco: Israele e Palestina
Qual è il vero obiettivo dell’Autorità Palestinese? La risposta si può leggere sulle carte geografiche dei loro libri scolastici. Su tutta la regione compresa tra il Giordano e il mare compare un solo nome: Palestina. Il nome “Israele” non si trova. L’obiettivo è dunque quello del salmo 83: far sparire dalla terra il nome di Israele.
Naturalmente i sapienti di questo mondo non danno importanza a queste cose: per loro quello che conta sono gli accordi politici ad alto livello. Per la Bibbia invece i nomi sono importanti, perché dare il nome esprime autorità. Due nomi allora sono in gioco in questo conflitto: Israele e Palestina.
Chi ha scelto il primo nome? Il Dio che ha creato i cieli e la terra:
“Perciò di’: Così parla Dio, il Signore: Io vi raccoglierò in mezzo ai popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d’Israele” (Ezechiele 11:17).
E chi ha scelto il secondo nome? L’imperatore romano che ha distrutto Gerusalemme e si era proposto di cancellare il nome di Israele dalla terra.
Israele e Palestina sono dunque due nomi dietro i quali sono in lotta due campi spirituali: da una parte Dio e il Suo popolo, dall’altra Satana e le nazioni. I ben intenzionati, gli “amanti della pace” che soffrono per le intolleranze degli “opposti estremismi” vorrebbero risolvere il problema facendo a metà: due zone, due Stati, due nomi: Israele e Palestina. Come dire: un po’ a Dio e un po’ a Satana. Questi pacifisti che credono di poter essere più buoni di Dio assumendo il ruolo di mediatori tra due gruppi di violenti in lotta, in realtà finiscono sempre per difendere una sola delle due parti: la Palestina. Alla fine costituiranno le truppe di riserva dell’esercito di Satana: dopo i falchi oltranzisti dell’Islam, scenderanno in campo contro Israele le colombe accomodanti delle Nazioni Unite. E tutti e due i gruppi parteciperanno alla comune sconfitta.
“In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d’Israele, dice Dio, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici [...] Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui. Così mostrerò la mia potenza e mi santificherò; mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 38:18,22-23).
(da "Dio ha scelto Israele")
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Navi vuote, ipocrisia tanta. Segui i soldi della flotilla e trovi Hamas
Le navi erano desolatamente vuote, altro che aiuti umanitari
di Stephen M. Flatow *
Ancora una volta, la cosiddetta “flotilla di aiuti per Gaza” si è rivelata meno un’operazione di soccorso e più un’operazione mediatica. Nonostante tutte le dichiarazioni roboanti sul “rompere l’assedio” e “fornire aiuti”, le autorità israeliane non hanno trovato alcun carico umanitario a bordo delle navi intercettate. Niente. Neanche un pallet di cibo, medicine o attrezzature mediche: solo poche centinaia di attivisti che navigavano sotto la bandiera della superiorità morale. Non si è trattato di una missione di soccorso, ma di una trovata pubblicitaria in mare.
• Teatralità anziché sostanza
Anche dopo che Israele ha invitato la flotilla ad attraccare ad Ashdod, dove qualsiasi aiuto reale avrebbe potuto essere ispezionato e trasportato legalmente a Gaza, gli organizzatori hanno rifiutato. Hanno persino respinto un appello personale del Papa in tal senso. Quel rifiuto la dice lunga: se l’obiettivo fosse stato quello di consegnare aiuti, avrebbero accettato. Ma il vero obiettivo era quello di essere intercettati, di ottenere quelle foto drammatiche delle navi della marina israeliana che si avvicinavano e di proclamare la propria vittimizzazione sui social media prima che i fatti venissero alla luce. Per gli attivisti che speculano sull’indignazione morale, ciò che conta è lo scontro, non il carico.
• Un movimento diviso al suo interno
La flottiglia di quest’anno ha anche messo in luce le profonde fratture all’interno del movimento di “solidarietà globale”. Gli attivisti LGBTQ che erano stati coinvolti sono stati messi da parte. Greta Thunberg, un tempo beniamina della sinistra protestante, è stata sfruttata per la sua visibilità e poi abbandonata, letteralmente. Alla faccia della solidarietà. Sembra che l’inclusione arrivi solo fino al momento della foto. Una volta che le telecamere smettono di girare, la politica interna prende il sopravvento e coloro che sono considerati scomodi vengono silenziosamente allontanati dalla scena. Quando la leadership inizia a epurare le voci queer e a emarginare gli alleati, ciò che rimane non è una causa morale, ma un test di purezza ideologica mascherato da compassione.
• Segui i soldi e troverai Hamas
Ogni volta che queste coalizioni della “società civile” appaiono dal nulla, completamente finanziate e pronte per i media, bisogna chiedersi: chi paga per tutto questo? Noleggiare navi, equipaggi, logistica, coordinamento dei media internazionali… non è economico. La storia fornisce un indizio. Nel corso degli anni, le indagini condotte da Israele e da osservatori indipendenti hanno tracciato i legami finanziari tra gli organizzatori della flottiglia diretta a Gaza e i gruppi di facciata vicini a Hamas. L’incidente della Mavi Marmara del 2010 ha rivelato come la turca IHH (Humanitarian Relief Foundation), uno dei principali sponsor della flottiglia, avesse legami con le reti di raccolta fondi di Hamas. Da allora, lo stesso ecosistema di “ONG solidali” ha continuato a raccogliere fondi con pretesti umanitari, incanalando i fondi attraverso canali opachi che confondono il confine tra aiuti e finanziamento del terrorismo. La flottiglia odierna segue lo stesso schema. La mancanza di aiuti reali a bordo suggerisce che il vero scopo dell’operazione non era il soccorso, ma il ripulimento della reputazione. Fingendosi attivisti umanitari, gli organizzatori creano una copertura per più ampie iniziative di propaganda che avvantaggiano indirettamente Hamas. Ogni scontro inscenato aiuta Hamas a presentarsi come vittima e distoglie l’attenzione dallo sfruttamento della popolazione e delle risorse di Gaza da parte del regime. E non ci sono dubbi: Hamas prospera grazie a questa messinscena. Ogni volta che le telecamere del mondo si concentrano sulle “navi di aiuti” intercettate, Hamas può continuare a recitare la parte della vittima, mentre tassa i gazawi, dirotta i carichi di aiuti e ricostruisce le scorte di razzi sotto ospedali e scuole.
• Il costo di una falsa missione
La vera tragedia qui non è che alcuni cercatori di pubblicità siano stati sorpresi a mentire sul loro carico. È che hanno sminuito il vero lavoro umanitario. Ogni volta che un gruppo come questo mette in atto una trovata pubblicitaria, rende più difficile il lavoro delle organizzazioni legittime. Aumenta lo scetticismo, diminuiscono le donazioni e la popolazione di Gaza, che ha davvero bisogno di aiuto, ne paga le conseguenze. C’è anche la questione dell’onestà. Sollecitare donazioni per “aiuti a Gaza” quando a bordo non ci sono aiuti sembra una frode, anche se è mascherata dal linguaggio della resistenza. Qualcuno ne subirà le conseguenze? Probabilmente no. La comunità internazionale degli attivisti ha la memoria corta e un’attenzione ancora più breve quando uno dei suoi membri viene sorpreso a prendere scorciatoie morali.
• Un’ultima considerazione
La “Global Sumud Flotilla” dovrebbe servire da monito: quando la politica sostituisce i principi, quando le foto sostituiscono gli obiettivi e quando gli slogan sostituiscono la sincerità, ci si ritrova con una nave vuota, una metafora perfetta della bancarotta morale di chi la guida. Gli attivisti possono affermare quello che vogliono. Ma la verità è semplice: non sono venuti per aiutareGaza. Sono venuti per usarla e, così facendo, hanno aiutato ancora una volta Hamas più di quanto abbiano aiutato un solo bambino affamato.
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* Stephen M. Flatow è presidente dei Sionisti Religiosi d’America (RZA). È il padre di Alisa Flatow, uccisa nel 1995 in un attacco terroristico palestinese sponsorizzato dall’Iran, e autore di A Father’s Story: My Fight for Justice Against Iranian Terror (La storia di un padre: la mia lotta per la giustizia contro il terrorismo iraniano). Nota: la RZA non è affiliata ad alcun partito politico americano o israeliano.
(Rights Reporter, 6 ottobre 2025)
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La stupidità criminale e le sue conseguenze
di Davide Cavaliere
La fine della soap opera sulla «Global Sumud Flotilla», che aveva deliziato i suoi sostenitori con false partenze, musica degli Abba, balletti e battibecchi tra i suoi membri, ha scatenato un’ondata di reazioni isteriche, pianti, singhiozzi, nonché appelli a «dare fuoco a tutto». È un fenomeno noto in psicologia come «lutto post-serie TV».
Questi atteggiamenti scomposti e collerici, non possono non indurci a riprendere il discorso sulla stupidità degli adepti della religione politica «palestinista». Jean Cocteau scrisse: «La tragedia del nostro tempo è che la stupidità ha cominciato a pensare». Ed è proprio questa la cifra della stupidità dei filo-palestinesi: essa è dotata dei segni esteriori dell’intelligenza e adornata dalla retorica dell’impegno. Una stupidità benpensante, che si vuole prestigiosa e si pavoneggia sui media.
La loro caratteristica è quella di sistemarsi comodamente nel campo delle «buone battaglie» e delle provocazioni calcolate, al fine di incarnare con la necessaria fermezza il Bene e il Giusto. Assumono così la forma dei «nobili estremisti», e più in particolare di «attivisti» impegnati, nientemeno, che per la salvezza del mondo e della nostra comune umanità.
La «causa palestinese» è la più facile delle lotte, non solo perché ha alle spalle una lunga storia di estremismo politico, ma perché si rivolge contro Israele, uno Stato nazionale sovrano, dotato di una solida economia capitalista e di un’identità radicata nella tradizione religiosa, che ne fanno il bersaglio perfetto di tutti gli «ismi» e gli «anti-ismi» di buona reputazione: femminismo, antirazzismo, anticapitalismo, ambientalismo, decolonialismo, antifascismo.
Tra le fila degli «attivisti», accanto agli stupidi semplici e comuni che, colpiti da una generale debolezza della comprensione, credono davvero alle menzogne raccontate su Israele e gli ebrei, illustrando così una stupidità «onesta» o schietta, spesso sfruttata attraverso contenuti altamente emotivi come quello dei «bambini uccisi a Gaza», troviamo un gran numero di individui che incarnano la forma «più pericolosa», secondo Robert Musil, della stupidità: quella sofisticata, «colta», a volte sottile ma sempre immodesta. Non la semplice mancanza di intelligenza, riducibile alle difficoltà di comprensione proprie di una mente passiva, ma una forma di attività del pensiero che mette l’intelligenza al servizio di cause criminali.
La testa dello stupido sofisticato non è vuota, ma piena di certezze condensate in un numero limitato di frasi preconfezionate, slogan e sillogismi capziosi. Convinzioni ideologiche che lo eccitano e lo spingono all’azione «radicale» (salpare con la Flotilla è una di queste). Tale genere di «attivista» non pensa, bensì «è pensato» dall’ideologia. Vive immerso in una «seconda realtà» dove causa ed effetto sono invertiti e la coscienza, invece d’intendere i «fatti», genera immagini mentali sostitutive della realtà. È così che il «palestinista» militante, su uno sfondo di serietà intellettuale, riesce a credere alle più volgari panzane della propaganda antisionista: dai soldati dell’IDF che sparerebbero ai testicoli dei bambini fino al negazionismo sugli stupri del 7 ottobre.
Siamo così di fronte a quella che Eric Voegelin chiamava «stupidità criminale», dal momento che si pone al servizio di chi danneggia altri esseri umani, sempre foriera di catastrofi quando cede alla vertigine dell’allineamento e diventa «di massa». Queste «anime belle» rincretinite sono diaboliche: sventolando pretese umanitarie, si genuflettono alla barbarie islamista.
(L'informale, 6 ottobre 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 16
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Una questione di sovranità
Nella rilettura panoramica della Bibbia che si vuol fare in questa trattazione, partiamo da due punti già acquisiti:
- In tutti i racconti della Bibbia il personaggio principale è sempre Dio;
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in tutto l’Antico Testamento, da Abramo in poi, l’interlocutore umano di Dio è sempre e unicamente Israele, come nazione e popolo.
Aggiungiamo che tutti i singoli personaggi che compaiono nei vari racconti acquistano importanza soltanto in relazione al posto che occupano nella storia di Israele. Un’eccezione potrebbe essere il libro di Giobbe, in cui non compare alcuna traccia di Israele. A questo riguardo rimandiamo all’articolo “Il mio servo Giobbe”, presente su questo sito, in cui si sostiene che il libro appartiene alla preistoria di Israele, che precede Abramo ma appartiene a Israele come rivelazione ricevuta in esclusiva da Dio affinché la conosca e ne tenga conto per sé e per il resto del mondo.
Ripetiamo allora che il primo compito che Dio si è dato con la promessa fatta ad Abramo è di formare in lui una grande nazione, rendere grande il suo nome, benedire lui e renderlo fonte di benedizione (Genesi 12:1-3). La volontà di mantenere questa promessa costituirà per Dio la base del suo progetto redentivo.
Due aspetti sono legati in un complesso unico a Israele:
- ha la forma di una nazione come tutte le altre, dunque con esse è paragonabile e si mette in relazione;
- ha il carattere unico di essere stata generata da Dio.
Mosè ha ricevuto da Dio l’incarico di presentare Israele al Faraone come “mio figlio”, affinché il re della più potente nazione del mondo sapesse che nei suoi rapporti con quel particolare gruppo di immigrati da Canaan che ha preso il nome di Israele da un loro lontano progenitore a cui Dio stesso aveva dato questo nome, dovrà sempre e in ogni caso vedersela con Dio, che gli piaccia o no.
Il contrasto tra Mosè e il Faraone, espressione della guerra asimmetrica fra Dio e Satana, deve dunque mettere in chiaro una questione di sovranità. Chi è che comanda? questo è il problema.
Il vero motivo dell’ostinazione del Faraone viene fuori dopo la settima piaga, quella della grandine, quando Mosè annuncia al Faraone:
“Così dice l'Eterno, l'Iddio degli ebrei: 'Fino a quando rifiuterai di umiliarti davanti a me?” (Esodo 10:3).
Umiliarsi come re d’Egitto davanti al Dio degli ebrei che gli presenta Mosè è il massimo riconoscimento di una sconfitta che risulta intollerabile a chi si è sempre pensato come un favorito speciale degli dei. Non per nulla il Faraone aveva alla sua corte uno stuolo di maghi, ognuno con le sue particolari linee di collegamento con gli dèi del cielo, che gli garantivano sostegno e protezione dall’alto.
La prima umiliazione gli era arrivata da quel bastone di Aaronne trasformato in serpente che aveva ingoiato uno dopo l’altro tutti i serpenti dei suoi maghi. Una botta dura. Ma dopo quella prima mano a poker persa, il Faraone aveva sempre sperato di potersi rifare, come infatti spesso accade in questo gioco. E invece no: era stato sempre Mosè ad averla vinta. Intollerabile. Alla fine il Faraone ha rovesciato il tavolo da gioco:
“Il Faraone disse a Mosè: “Vattene via da me! Guardati bene dal comparire più in mia presenza! poiché il giorno che comparirai alla mia presenza, tu morirai!”. E Mosè rispose: “Hai detto bene; io non comparirò più in tua presenza” (Esodo 10:28-29).
Il gioco è finito. Dopo averlo informato sulle intenzioni di Dio, “Mosè uscì dalla presenza del Faraone, acceso d'ira” (11:9).
Sta scritto che “Mosè era un uomo molto mansueto, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra (Numeri 12:3), questo significa allora che quella di Mosè era ira di Dio. Sarebbe la seconda volta che questo avviene nella Bibbia: la prima volta l’ira si era accesa contro Mosè (4:14).
Una cosa accomuna questi due casi: l’ira di Dio compare in ritardo, dopo un ripetuto rifiuto dell’uomo. Si noti infatti la pazienza con cui Dio tratta entrambi i casi.
A Mosè Dio concede di fare, una dopo l’altra, quattro obiezioni, e alla fine Mosè dice no: “O Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (4:13), che è come dire “manda qualcun altro”. Allora “l'ira dell'Eterno si accese contro Mosè” (4:14), e l’ordine fu ripetuto ancora una volta, in modo netto e deciso. E Mosè ubbidì.
Al Faraone Dio concede di rifiutare quattro volte l’ordine dato, eseguendo ogni volta le punizioni promesse e offrendo ogni volta una nuova possibilità di ubbidienza. Ma con il quinto rifiuto il Faraone raggiunge il punto di non ritorno: Dio stesso indurisce il suo cuore e i successivi ordini, dati sapendo che non avrebbe ubbidito, sarebbero serviti a rivelare il grado di iniquità da lui raggiunto. Dio allora avverte Mosè che il Faraone non gli avrebbe dato più ascolto “affinché i miei prodigi si moltiplichino nel paese d'Egitto” (11:9). Il Faraone, che aveva cominciato col dire: “Io non conosco l’Eterno” (5:2), finirà per conoscerlo come Dio sovrano su tutta la creazione e come “l’Eterno, l’Iddio degli ebrei” (5:1). Parola e azione tra loro collegate sono i modi con cui Dio si fa conoscere dall’uomo.
• La nascita di Israele
A mezzanotte l'Eterno colpì tutti i primogeniti nel paese di Egitto, dal primogenito del Faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il Faraone si alzò di notte: lui con tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e ci fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto. Allora egli chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d'Israele; e andate, servite l'Eterno, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!”. E gli egiziani forzavano il popolo per affrettarne la partenza dal paese, perché dicevano: “Noi siamo tutti morti” (Esodo 12:29-33).
Il giudizio che Dio fa cadere sul Faraone e sul popolo d’Egitto è tremendo, ma perché questa fretta del Faraone che si alza di notte, convoca i suoi servitori, chiama immediatamente Mosè e Aaronne per dare l’ordine, non il permesso, di andarsene, e subito? E perché gli egiziani stessi forzano il popolo ad andare via il più presto possibile? Risposta: perché temevano di subire un genocidio. Lo dicono infatti: siamo tutti morti!
Il grande grido che secondo la Scrittura si levò in Egitto al passare dell’angelo sterminatore fu in concreto una somma di gridi che si levarono da ogni famiglia. Non avvennero tutti contemporaneamente, ma ogni volta al passare dell’angelo. Fu un susseguirsi spaventoso e caotico di gridi che s’innalzano da ogni famiglia vicina o lontana. Ma che succede? è la domanda che passa di bocca in bocca. “È l’angelo degli ebrei che colpisce le case degli egiziani perché il Faraone non li lascia partire”, si sente dire da diverse parti. E corre voce che l’angelo continuerà a colpire fino a che l’ultimo ebreo non avrà lasciato il paese. Non è vero, ma certe voci paurose corrono alla velocità della luce e appaiono subito verissime a chi già per conto suo ha una paura che se lo porta via. Ed ecco allora la fretta messa agli ebrei: andate via, andate via subito, se no qui fra poco saremo tutti morti.
E si spiega anche la fretta del Faraone, che forse ricorda quello che avvenne quando ci fu la piaga delle mosche velenose. Allora Mosè gli disse che ci sarebbe stata un’eccezione per il paese di Goscen, dove abitano gli ebrei, perché l’Eterno aveva detto:
“lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo” (8:22-23).
Dunque l’Eterno stava in mezzo al paese, e c’è ancora adesso - pensa il Faraone - e sta mettendo in pratica quello che aveva promesso di fare:
“Verso mezzanotte, io passerò in mezzo all'Egitto; e ogni primogenito nel paese d'Egitto morirà... Ma fra tutti i figli d'Israele, tanto fra gli uomini quanto fra gli animali, neppure un cane muoverà la lingua, affinché conosciate la distinzione che l'Eterno fa tra gli Egiziani e Israele” (11:4,7).
Ecco perché ora il Faraone ha una fretta tremenda di vedere gli ebrei andare via: perché in mente sua vede l’Eterno che passa in mezzo all’Egitto e continua a fare strage di egiziani. E forse gli viene anche il dubbio che se il popolo comincia a temere che la carneficina non si fermi ai primogeniti, e che la causa di tutto il guaio stia nel suo ostinato divieto di lasciar andare gli ebrei, le cose potrebbero mettersi male per lui.
Per il Faraone questa è la giusta nemesi: il tentativo fallito di fare una strage di ebrei ha ottenuto come risultato di veder fare una strage di egiziani. E questo giorno, che per l’Egitto fu di tragica calamità, diventò per il popolo d’Israele il giorno della sua nascita:
E avvenne che in quello stesso giorno l'Eterno trasse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto, secondo le loro schiere (Esodo 12:51).
È in questo giorno infatti che avviene il parto: dal grembo egiziano in cui era cresciuto in forma embrionale per oltre quattrocento anni, Israele viene ora alla luce come popolo. È un giorno che dovrebbe essere festeggiato tra gli ebrei come “Natale di Israele”, perché in questo giorno è nato colui che l’Eterno aveva presentato al Faraone con le parole: “Israele è mio figlio, il mio primogenito” (4.22), con la raccomandazione più volte ripetuta: “Lascia andare il mio popolo, affinché mi serva” (Esodo 4.23; 7.16; 8,1,20; 9.1,13; 10.3).
Adesso il figlio è venuto alla luce. È la luce della parola che ora può ricevere direttamente da Dio, senza che passi attraverso l’autorità pagana a cui era stato sottoposto per secoli.
Ha ottenuto la libertà? A dire il vero, qui Dio pretende di avere suo figlio “affinché mi serva”, non affinché possa godersi la sua libertà. Israele passa da un’autorità all’altra, da una schiavitù che minaccia morte e sfocia nella morte, a un servizio che produce vita e dona vita a chi serve e a chi è servito. In altre parole, si passa da Satana a Dio.
Il paragone col parto può essere spinto più avanti. Le piaghe sono spinte di travaglio che si susseguono fino alla spinta finale che provoca l’espulsione del corpo che nasce, insieme alla perdita di sangue del corpo che espelle. E’ sangue del corpo egiziano, quello che esce mentre viene espulso il corpo ebraico. Questo deve avere il suo significato.
È soltanto una colorita metafora? Un antropomorfismo? Potrebbe essere, se mettiamo l’uomo al centro di tutto e l’idea di Dio come un’espressione della sua sensibilità. Ma potrebbe anche essere che certe analogie esprimano forme fondamentali del modo di agire di Dio creatore; azioni che si ripetono in vari contesti e assumono quindi forme diverse, che però fanno intravedere inaspettate analogie. Può essere un modo in cui Dio rivela qualcosa di Sé, nel desiderio di farsi conoscere come Dio creatore usando un linguaggio che gli uomini potrebbero capire.
In particolare, le questioni genetiche, quelle in cui si passa dal non essere all’essere, sono quelle che più di altre dicono qualcosa intorno a Dio, non in termini di essenza, come fanno i filosofi pagani, ma attraverso il parlare e l’agire di Dio nei fatti della storia, come riportati nella Bibbia. Il fatto allora che nel libro dell’Esodo Mosè riceva l’ordine di dire al Faraone: “Così dice l’Eterno: Israele è il mio figlio primogenito” (Esodo 4:22), e nel Vangelo di Matteo si usi la stessa terminologia quando, dopo il battesimo di Gesù, una voce dal cielo dice: “Questo è il mio diletto figlio nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3:17), non può essere un accostamento casuale. In entrambi i casi Dio rivela un modo creativo di agire nel suo porsi in relazione con gli uomini.
Tentare un approccio olistico alla rivelazione biblica significa allora porsi in osservazione attenta del muoversi di Dio in parole e fatti quando entra in rapporto con gli uomini, nella convinzione che se anche nel succedersi del tempo i fatti e le parole cambiano forma, dietro a tutto c’è sempre l’unico vero Dio che rimane fedele a Se stesso.
Israele dunque ora è nato, come popolo generato da Dio per un preciso servizio da svolgere sulla terra. Con il popolo si è formata la prima parte di quella che è destinata ad essere la “grande nazione” promessa da Dio ad Abramo. Le due parti che mancano, comuni ad ogni nazione degna di questo nome, sono una terra propria e un governo proprio. La terra è già stabilita fin dall’inizio: Canaan; e in quella direzione il Signore comincerà subito a guidare il suo popolo. Quanto al governo, Dio provvederà strada facendo.
(Notizie su Israele, 5 ottobre 2025)
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Hamas divisa sul piano di pace di Trump: tra aperture tattiche e resistenze armate
di Stefano Piazza
Hamas ha annunciato al mondo di aver accettato gran parte del piano di pace proposto da Donald Trump, ma dietro le dichiarazioni ufficiali l’organizzazione resta lacerata da profonde divisioni. Se all’esterno il gruppo islamista tenta di mostrarsi pronto al compromesso, internamente la spaccatura tra l’ala politica e quella militare continua a condizionare ogni mossa, rendendo l’ipotesi di un cessate il fuoco duraturo ancora lontana.
Venerdì scorso Hamas aveva diffuso un comunicato definito «storico», in cui si diceva disposta a rilasciare gli ostaggi israeliani e ad accettare una transizione di potere su Gaza. Parole che, per la Casa Bianca, rappresentavano una svolta capace di rafforzare la strategia di Trump per chiudere la guerra. Ma il linguaggio ambiguo scelto dal movimento, rilevano diversi osservatori, lascia margini interpretativi tali da minare il cuore stesso dell’accordo: disarmo dei miliziani e condizioni per la liberazione degli ostaggi.
Secondo mediatori arabi coinvolti nei colloqui, il principale negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, insieme ad altri esponenti politici della diaspora, avrebbe sostenuto l’accettazione della proposta, pur con riserve significative. Tuttavia, di al-Hayya non si hanno più notizie dal 9 settembre, giorno in cui un raid israeliano ha colpito Doha: c’è chi ipotizza che possa essere rimasto ucciso insieme a Khaled Meshal, storico leader politico del movimento. Il suo silenzio pesa sulla leadership esterna di Hamas e alimenta dubbi sulla reale capacità di incidere nelle trattative. In ogni caso, l’influenza dei dirigenti in esilio resta limitata sull’ala armata, radicata dentro la Striscia.
A Gaza la situazione è più complessa. Dopo l’uccisione dei fratelli Yahya e Mohammed Sinwar da parte di Israele, la guida militare è passata a Ezzedin al-Haddad. Quest’ultimo si è detto disponibile a compromessi, arrivando a ventilare l’ipotesi di consegnare razzi e armi pesanti all’Egitto e alle Nazioni Unite, mantenendo però i fucili d’assalto, considerati «armi difensive».
Il nodo centrale resta proprio questo: l’imposizione del disarmo rischia di far esplodere il fronte interno. Hamas ha arruolato migliaia di giovani dall’inizio della guerra, spesso reduci dalla perdita di familiari o dalla distruzione delle proprie case. Mediatori e funzionari arabi temono che questi combattenti non accetterebbero di deporre le armi, interpretando un eventuale accordo come una resa umiliante. Non a caso, tra i quadri militari c’è chi bolla la proposta come una semplice «tregua di 72 ore» e non come un vero percorso di pace.
Trump, nel frattempo, ha rilanciato la sua visione sui social, dichiarando che Hamas «è pronto per una pace duratura». Ha invitato Israele a sospendere i bombardamenti su Gaza per garantire le condizioni minime di sicurezza necessarie al rilascio degli ostaggi. La Casa Bianca ha fatto sapere di considerare la risposta del movimento come un’accettazione di principio, anche se vincolata a ulteriori negoziati.
I vertici armati del gruppo hanno però dettato le loro condizioni: ogni rilascio di ostaggi dovrà essere accompagnato da una chiara tempistica sul ritiro israeliano dalla Striscia. «Gli ostaggi saranno liberati con la fornitura delle necessarie posizioni sul campo» hanno fatto sapere i mediatori, riportando il messaggio recapitato da Gaza. Una formula che ha spinto Israele a mantenere una linea prudente. Benjamin Netanyahu ha risposto che il Paese «si prepara al rilascio» ma alle condizioni di Gerusalemme e del presidente americano. L’esercito, pur annunciando un atteggiamento più difensivo, non ha escluso nuove operazioni in caso di minacce dirette.
Alla luce di quanto accaduto nelle ultime ore, l’impressione è che Hamas abbia redatto un documento calibrato più per compiacere Trump che per aderire davvero alla sua proposta. In sostanza, un «no» mascherato da linguaggio diplomatico. Perché mai Hamas dovrebbe rinunciare all’unico strumento rimastogli per negoziare con Israele, ossia gli ostaggi? Quei prigionieri rappresentano la sola leva per mantenere un potere di ricatto e nessun osservatore serio crede che verranno liberati tutti senza contropartite di enorme valore.
Le fratture interne a Hamas emergono anche nelle reazioni politiche. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha liquidato la dichiarazione del movimento come «un prevedibile Sì, ma», sottolineando che l’assenza di un vero disarmo e la subordinazione del rilascio degli ostaggi a condizioni negoziali equivalgono, di fatto, a un rifiuto mascherato.
Sul terreno, Hamas appare indebolito ma non sconfitto. L’ala armata ha perso gran parte della leadership e migliaia di miliziani esperti, rimpiazzati da reclute poco addestrate. L’assedio israeliano ha reso difficili comunicazioni e coordinamento, costringendo il gruppo a delegare il comando a cellule più piccole, che spesso agiscono in autonomia con tattiche di guerriglia, tra esplosivi, cecchini e razzi improvvisati. Lo stesso Haddad esercita un controllo limitato su queste unità, aggravato dalla grave crisi finanziaria che ha ridotto la capacità di Hamas di pagare stipendi e mantenere la fedeltà dei combattenti.
Israele ha conquistato ampie zone di Gaza City, evacuata in gran parte dai civili e abbandonata da molti miliziani diretti a sud. Restano alcune migliaia di combattenti, in gran parte giovani e inesperti, ma determinati a proseguire la resistenza. Secondo un alto ufficiale israeliano, gli episodi di resa sono rarissimi e avvengono solo quando i miliziani si trovano completamente circondati.
Amir Avivi, ex generale israeliano, ha commentato: «Per la prima volta in questa guerra Hamas inizia a capire che la sua eliminazione è reale». Ma gli stessi mediatori arabi mettono in guardia: un’eventuale firma del piano di Trump potrebbe spaccare ulteriormente il movimento, con il rischio di defezioni verso altri gruppi palestinesi come la Jihad Islamica o il Fronte di Liberazione Palestinese, già attivi con cellule autonome.
Proprio per questo Qatar, Egitto e Turchia hanno intensificato le pressioni, avvertendo i leader islamisti che questa potrebbe essere «l’ultima occasione» per fermare la guerra. Se Hamas respingerà l’intesa, hanno fatto sapere fonti arabe, il sostegno politico e diplomatico finora garantito non potrà più essere assicurato.
In un messaggio pubblicato online, Trump ha concluso: «Non si tratta solo di Gaza, ma della pace a lungo cercata in Medio Oriente». Ma al di là della retorica, la realtà è che Hamas resta divisa, Israele diffida delle sue promesse e la tregua appare ancora appesa a un filo.
(L'informale, 4 ottobre 2025)
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Gaza: l'IDF ferma l'offensiva e passa allo "stato difensivo"
A seguito delle dichiarazioni di Hamas e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulla proposta americana di porre fine alla guerra a Gaza e liberare gli ostaggi, l’IDF annuncia che il capo di Stato Maggiore, il tenente generale Eyal Zamir, ha incontrato i generali di alto rango per “una valutazione speciale della situazione alla luce degli sviluppi”.
Una dichiarazione dell’esercito afferma che “su ordine dell’élite politica”, Zamir ha incaricato le Forze di Difesa Israeliane di prepararsi “all’attuazione della prima fase del piano di Trump per liberare gli ostaggi”, senza specificare i dettagli dell’ordine.
La dichiarazione sembra anche confermare le notizie secondo cui i leader politici hanno ordinato all’IDF di interrompere l’offensiva per conquistare Gaza City e di concentrarsi invece sulle operazioni difensive, sottolineando che “la sicurezza delle nostre forze è di fondamentale importanza e tutte le capacità dell’IDF saranno assegnate al Comando Sud per difendere le nostre forze”.
“Il capo di Stato Maggiore ha sottolineato che, alla luce della delicatezza dell’operazione, le forze devono dimostrare una maggiore prontezza e consapevolezza. Allo stesso modo, è stata chiarita la necessità di una risposta rapida per eliminare qualsiasi minaccia”, aggiunge la dichiarazione.
(Rights Reporter, 4 ottobre 2025)
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Il piano di pace di Trump è una riedizione di Oslo
Gli accordi degli anni '90 hanno dimostrato che i quadri di pace condizionati, che dipendono dalla buona volontà e dalla cooperazione dei palestinesi, sono illusori.
(JNS) Il nuovo piano di pace in 20 punti per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, basato in gran parte sul suo piano “Peace to Prosperity” del suo primo mandato, stabilisce condizioni che a prima vista sembrano dettate dal buon senso. I palestinesi devono porre fine all'incitamento all'odio. Non devono più educare i loro figli a odiare gli ebrei. Devono costituire una forza di polizia controllata per garantire l'ordine, accettare la supervisione internazionale, ricostruire la loro società e creare un'amministrazione autonoma moderata.
Sembrano criteri ragionevoli. Ma il problema è semplice: tutte queste misure sono già state tentate. Si chiamavano accordi di Oslo. E hanno fallito miseramente.
Oslo doveva essere il quadro di riferimento per la pace tra palestinesi ed ebrei, basato sulla reciprocità e sulla fiducia reciproca. Israele ha ceduto territori e autorità in cambio dell'impegno palestinese a rinunciare alla violenza, a porre fine all'incitamento all'odio e a gettare le basi per un'amministrazione autonoma responsabile.
Israele ha rispettato la sua parte dell'accordo. Si è ritirato dai territori, ha smantellato i posti di blocco e ha permesso l'uso di armi alle forze di sicurezza e alla polizia dell'Autorità Palestinese.
E i palestinesi hanno violato ogni singolo impegno.
Non hanno smesso con l'incitamento all'odio. Al contrario, l'Autorità Palestinese ha utilizzato le scuole, la televisione, le moschee e i discorsi ufficiali per rafforzare la cultura dell'odio. Ai bambini venivano insegnate canzoni che incitavano all'uccisione degli ebrei. Le mappe cancellavano Israele. Il martirio veniva glorificato.
Lungi dall'essere un'istituzione stabilizzante, la polizia palestinese è diventata un esercito terroristico in uniforme. Durante la seconda Intifada, dal 2000 al 2005, i membri di questa stessa forza hanno puntato le loro armi contro i civili israeliani. I supervisori internazionali erano impotenti o complici. Invece di insistere sul rispetto degli impegni palestinesi, hanno giustificato il terrorismo, condannato l'autodifesa di Israele e di fatto permesso ulteriori violenze.
E lo stesso governo palestinese era un regime corrotto e autoritario che sosteneva apertamente il terrorismo. Dal leader dell'OLP Yasser Arafat al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, la leadership palestinese ha costantemente negato il diritto all'esistenza di Israele.
Il risultato è stato quasi 1.100 vittime israeliane a causa del crescente terrorismo palestinese. Israele ha subito attentati agli autobus, attentati suicidi nei ristoranti, aggressioni con coltelli, attacchi con auto. E quando gli israeliani hanno fatto notare che i palestinesi violavano il 100% dei loro impegni, la risposta dell'industria del “processo di pace” è stata sempre la stessa: smettete di lamentarvi. Date ai palestinesi più tempo per imparare a governare. Fate altri “sacrifici per la pace”.
In pratica, ciò significava ulteriori concessioni unilaterali da parte israeliana, mentre la società palestinese diventava sempre più radicalizzata.
Ora arriva il piano di Trump che, nonostante la nuova confezione, chiede ancora una volta a Israele di credere alla favola della moderazione palestinese. Ma perché dovrebbe farlo? Dopo quasi 30 anni da Oslo, quali prove ci sono che la società palestinese sia pronta ad abbandonare la sua cultura della morte?
È vero piuttosto il contrario: i sondaggi mostrano costantemente un sostegno schiacciante al terrorismo, il rifiuto della legittimità di Israele e l'ammirazione per le atrocità compiute da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023. E non solo Hamas: migliaia di arabi palestinesi di Gaza hanno partecipato al massacro di quel giorno.
La dura verità è che il problema non è solo Hamas, o l'Autorità Palestinese, o la cattiva leadership. Il problema è una cultura radicata nell'antisemitismo e nel culto del rifiuto, rafforzata da un dogma religioso secondo cui ogni terra che è stata sotto il dominio musulmano deve rimanere tale per sempre.
Oslo dimostra che gli accordi di pace che dipendono dalla buona volontà e dalla cooperazione dei palestinesi sono un'illusione. Il piano di Trump è Oslo 2.0, confezionato in abiti più eleganti e presentazioni PowerPoint. Credere che avrà successo richiede un atto di deliberata cecità.
Israele non può permettersi di continuare a giocare a Charlie Brown mentre il mondo è Lucy. Il pallone non è lì. Non c'è mai stato.
(Israel Heute, 4 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La Flotilla ha compiuto una missione di grande valore etico: spero che la coscienza morale si risvegli per tutti
di Paolo Maddalena
Come è noto, tutti gli attivisti della Global Sumud Flotilla sono stati arrestati e sono in attesa dell’espulsione. Di questi, quattro parlamentari sono stati rilasciati e sono già in Italia. Gli altri subiranno un processo ai fini dell’espulsione. Al riguardo il Ministro degli esteri israeliano ha affermato: “la provocazione di Hamas/Flotilla Sumud è finita. Tutte le navi sono state fermate ed una soltanto è rimasta a distanza e, se si avvicinasse, anche il suo tentativo di entrare in una zona di combattimento e violare il blocco navale verrebbe impedito. Tutti i passeggeri, sani e salvi, stanno viaggiando verso Israele, da dove saranno espulsi in Europa”. Una dichiarazione spavalda che elogia la prepotenza e, illogicamente, pone sullo stesso piano Hamas e la Flottiglia. In sostanza una chiara volontà di perseverare nell’uso della forza.
In realtà non è possibile negare che la Global Sumud Flotilla ha portato positivamente a termine, con enormi rischi personali, una azione di grande valore etico, dimostrando che nell’uomo, come diceva Kant, è insopprimibile la “coscienza morale” , la quale, in certe circostanze, come quella del genocidio del Popolo Palestinese, impone come “imperativo categorico” di agire necessariamente a tutela del bene dell’intera “umanità” di cui ogni uomo è parte.
In concreto si è trattato di portare avanti il tentativo di aprire un corridoio umanitario che attraversi il blocco navale posto da Netanyahu. Un blocco del tutto illegittimo, sia perché si estende per 150 miglia dalla costa, invadendo le acque internazionali, sia perché la costa, la Striscia di Gaza, non è israeliana, ma palestinese, sia perché esso vìola le precise disposizioni di cui all’art. 42 dello Statuto delle Nazioni Unite. Si comprende dunque perché gli attivisti della Flottiglia non hanno ascoltato gli autorevoli consigli di tornare indietro, ed hanno messo da parte le loro “utilità personali”, comportandosi da veri “eroi”, ai quali va tributato onore e sincera gratitudine.
Ed è importante sottolineare che l’effetto della loro azione si è concretata nel risveglio della “coscienza morale” di gran parte dei cittadini, soprattutto giovani studenti, che hanno organizzato grandi manifestazioni pacifiche in tutta Europa, e soprattutto in Italia. Nel frattempo la Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che gli attivisti della Flottiglia sono degli “irresponsabili”, e pongono in crisi l’attuazione del piano di pace di Donald Trump.
La verità è che i governi italiani che si sono succeduti dal 1990 in poi hanno svolto una politica economica a tutto favore dei potentati economici (ai quali Israele è fortemente legata), ponendo come fine “l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi”, come metodo “la forte competitività” e come risultato “l’esclusione dello Stato (e cioè di tutto il Popolo) dall’economia”, nonché l’avvento dei regimi oligarchici. Fatto gravissimo, che ha ristretto l’economia “pubblica e privata” in una economia soltanto “privata”, provocando, la “dissoluzione del diritto”, come aveva da tempo previsto il grande civilista Salvatore Pugliatti.
E’ tuttavia lecito ritenere che la accennata riemersione della “coscienza morale” possa estendersi anche agli altri Italiani, inducendoli a chiedere, non solo all’attuale governo, il proseguimento nell’immediato degli sforzi necessari per realizzare un corridoio umanitario per Gaza, ma anche ad adoperarsi, in prospettiva, per un radicale mutamento dei rapporti fra gli Stati, in modo da ottenere il rifiuto della forza bruta e il ristabilimento della efficacia del “diritto internazionale”. In pratica, il ritorno a un sistema economico che garantisca l’eguaglianza economica e sociale e il pieno sviluppo della persona umana, un obiettivo che può raggiungersi attraverso la “redistribuzione” della ricchezza e “l’intervento” dello Stato (e cioè del Popolo) nell’economia, come sancito dagli articoli 2, 3, comma 2, 41, 42 e 43 della nostra Costituzione democratica e repubblicana. E’ la “coscienza morale” che è in ciascuno di noi che richiede questo inderogabile passo di civiltà.
(il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2025)
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"Risveglio della coscienza morale"? Il livello di sciocchezze che dice la sinistra "intellettuale" ormai è fuori misura, proprio come l'antisemitismo di oggi. Non vale la pena di prendere in considerazione i loro argomenti. Di seguito un articolo di commento di altro taglio. M.C.
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Italiani sciocca gente
L’italica superficialità di massa di cui non ci possiamo vantare.
Lo slogan “Italiani brava gente” è semplicistico, ma dice qualcosa di vero. Non è che noi italiani non siamo antisemiti, ma non si può negare che in fatto di sanguinose persecuzioni antiebraiche siamo decisamente indietro rispetto ad altre nazioni, sia orientali che occidentali. Nella storia di Roma, per esempio, dalla fine dell'impero romano non si registrano esempi di pogrom. Gli ebrei sono stati emarginati, sbeffeggiati, considerati feccia umana ma non massacrati in massa. Sul piano individuale, sia moralmente che tecnicamente, noi italiani abbiamo punti a nostro vantaggio, ma chi riesce a raccogliere grandi folle italiane, ci riesce soltanto perché sfrutta la nostra superficialità di massa. L’ironico Leo Longanesi ricorda la folla dei suoi tempi che si radunava sotto il balcone di piazza Venezia e sentiva Mussolini che chiedeva a gran voce: “Italiani, volete burro o cannoni?” e gli italiani che rispondevano in massa: “Cannoni!!”, e poi in privato andavano a comprare il burro al mercato nero.
Non è da stupidi andare a manifestare in piazza per quella flottiglia che sembra organizzata appositamente per stupidi? Sì, e forse molti italiani in privato lo ammetterebbero. Ma ci sono i bambini palestinesi ammazzati dagli ebrei; e c’è che andare a lavorare significa mettersi dalla parte degli ebrei che ammazzano i bambini; e poi c’è il venerdì che unito a sabato e domenica è un bel ponte; e infine c’è che in ogni caso tra l’andarci e il non andarci la cosa più comoda è andarci. E allora andiamo. Lì non abbiamo più bisogno di pensare da soli: è la massa che pensa per noi. Noi ci sentiamo sollevati e la seguiamo. Fino a che fa comodo, naturalmente. Poi no, è chiaro. Del resto, qual è il canto che cantiamo insieme e ci fa sentire uniti? E’ l’Inno d’Italia. “Siam pronti alla morte…” cantiamo in massa a piena voce, magari con la mano sul cuore. Ma mica significa che io, proprio io, dovrei andare a farmi uccidere per salvare la patria. Non scherziamo, ci mancherebbe. Parliamo di cose serie.
Vale la pena di riportare una poesia dell’indimenticabile poeta romanesco Trilussa. M.C.
LA PELLE
- Povero me! Me tireranno er collo! - disse un Faggiano ar Pollo - Ho letto sur giornale che domani c'è un pranzo a Corte, e er piatto prelibbato saranno, come sempre, li faggiani ... - E te lamenti? Fortunato te! - je rispose l'amico entusiasmato.- Nun sei contento de morì ammazzato pe' la Patria e p'er Re? E l'Ideale indove me lo metti? Fratello mio, bisogna che rifretti ... - Eh, capisco, tu sei nazzionalista, - disse er Faggiano - e basta la parola. Ma t'avviso, però, che su la lista c'è puro scritto: polli in cazzarola. A 'sta notizzia, er povero Pollastro rimase così male che se scordò d'avecce l'Ideale e incominciò a strilla: - Dio, che disastro! La Patria, er Re, so' cose belle assai, ma la pelle è la pelle ... capirai! Ne faccio una questione personale!
AUDIO
(Notizie su Israele, 4 ottobre 2025)
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L’arresto della flottiglia: ragioni e conseguenze
di Ugo Volli
• Un’operazione senza violenza
Fra mercoledì notte e giovedì in giornata la marina israeliana ha bloccato le 45 barche della “flottiglia” che cercavano di rompere il blocco navale di Gaza, le ha portate al porto di Ashdod e ha arrestato le circa 200 persone che erano a bordo, di cui ora è in corso l’espulsione. L’operazione, condotta dal corpo d’élite della Shayetet 13 e dalle donne del reparto Snapir, è stata tranquilla, incruenta, senza violenza né danni alle persone e alla cose. Gli unici oggetti distrutti sono stati i telefoni cellulari e i computer del gruppo dirigente, che i proprietari hanno gettato in mare subito prima dell’arrivo dei militari israeliani, presumibilmente per non lasciare le prove dei loro contatti. Il primo ministro Netanyahu ha elogiato i soldati per essersi sacrificati a compiere l’operazione durante il giorno di Kippur, la ricorrenza più sacra del calendario ebraico, in cui gli ebrei digiunano e chiedono perdono per le colpe commesse e tutta Israele si ferma. È ovvio che chi ha diretto il viaggio della flottiglia, durato un mese con molte soste nei porti del Mediterraneo, avesse calcolato di arrivare proprio quel giorno, magari sperando in un indebolimento delle misure di sicurezza, come del resto avevano fatto i paesi arabi che avevano attaccato in questo giorno Israele nel 1973, dando luogo alla guerra detta “di Kippur”.
Una cosa importante e perfino paradossale sta emergendo dalla perquisizione di alcune delle barche della flottiglia da parte della polizia israeliana, come si vede in questo filmato. Non sono stati trovati finora, almeno su alcune delle barche più grandi, i famosi aiuti alimentari che la flottiglia pretendeva di portare ai palestinesi. Se fosse così per tutte le barche, si capirebbe perché la flottiglia ha rifiutato di far portare a Gaza dal Vaticano o da Israele gli aiuti (inesistenti) lasciandoli in un porto. Insomma troverebbe conferma quel che molti hanno detto spesso: la flottiglia non è stata una missione umanitaria ma un’operazione di pura propaganda anti-israeliana.
• La legalità del blocco
Vale la pena di chiarire ancora che il blocco navale di Gaza è stato proclamato il 3 gennaio 2009 per impedire il contrabbando di armi verso Gaza che era già iniziato prima del colpo di stato di Hamas nel 2007 e poi è continuato. Per esempio vi è stato il caso della nave Karine A, diretta a Gaza e catturata nel Mar Rosso il 3 gennaio 2002 con 62 razzi Katyusha, 700 proiettili di mortaio da 120mm, missili anticarro e oltre 400.000 colpi di munizioni per armi automatiche, oltre a una tonnellata e mezza di esplosivo C-4, tutti provenienti dall’Iran. O quello della la nave Francop, fermata al largo di Cipro il 4 novembre 2009 con un carico di oltre 320 tonnellate di armi iraniane nascoste tra sacchi di polietilene. O ancora quello della nave Victoria, intercettata il 15 marzo 2011 nel Mediterraneo con 50 tonnellate di armamenti: 2.500 colpi di mortaio, 66.960 proiettili Kalashnikov, e sei missili antinave C-704. Nel 2011 il blocco fu sottoposto al giudizio delle Nazioni Unite. Un rapporto della commissione Onu, guidata da Sir Geoffrey Palmer, ex Primo Ministro della Nuova Zelanda, concluse che il blocco era legale secondo il diritto internazionale. Bisogna aggiungere che l’argomento secondo cui non si può arrestare la navigazione in acque internazionali non ha senso: tutti i blocchi navali della storia (che sono stati numerosi, almeno fin dai tempi del blocco continentale dichiarato dalla Gran Bretagna contro Napoleone) si esercitano non al largo del territorio dello stato bloccante ma di quello bloccato, anche in acque internazionali. Del resto il blocco di Gaza è stato attuato già contro numerosi tentativi come quello attuale, a partire dalla flottiglia turca guidata dalla nave Mavi Marnara, fermata il 31 maggio 2010 con un assalto reso sanguinoso dalla resistenza armata di terroristi organizzati di un gruppo turco. Israele non è mai stato condannato per queste operazioni. Ovviamente, dato che a Gaza adesso si svolge una guerra, il blocco è ancor più giustificato per ragioni di sicurezza. • La risonanza all’estero
Bisogna dire che questa volta l’operazione non ha presentato particolari difficoltà tecniche, salvo quella di raggiungere molte decine di barche che cercavano di arrivare sulla costa (dove però non vi sono porti funzionanti) prima di essere raggiunte dai militari israeliani. Per questa ragione l’arresto non ha avuto uno spazio rilevante sui media israeliani, che hanno ripreso a informare ieri sera,dopo la pausa di Kippur. Altre notizie hanno colpito di più: l’orribile attentato di Manchester in cui un terrorista di origine siriana ma con cittadinanza britannica ha ucciso a coltellate due ebrei all’ingresso di una sinagoga, e se non fosse stato eliminato dal fuoco della polizia avrebbe potuto fare danni ben più gravi, dato che portava una cintura esplosiva; gli scontri a Gaza dove Hamas è riuscita a sparare tre missili sul territorio israeliano, fermati da Iron Dome, e c’è stata l’infiltrazione di un terrorista in una postazione israeliana, che prima di essere eliminato ha ferito gravemente due soldati. Soprattutto ci si interroga sulla risposta che darà Hamas al piano Trump, perché da questo dipende l’intensificazione oppure la fine delle operazioni a Gaza. Del resto il blocco della flottiglia e prima il suo percorso e le sue dichiarazioni non hanno suscitato grande interesse internazionale. I giornali dei vari paesi, inclusa la Spagna che è l’origine della crociera nel Mediterraneo ed ha un governo violentemente anti-israeliano, non hanno quasi mai messo il tema in prima pagina, non si sono registrate quasi manifestazioni, occupazioni, scioperi. • Le reazioni in Italia
Che in Italia le cose siano invece andate così e che ci sia ancora un’intensa agitazione intorno alla flottiglia, è un tema su cui è necessario riflettere. In primo luogo tutti i dati dicono che le manifestazioni e gli scioperi sono violenti e provocano gravi disturbi, ma sono estremamente minoritari. Lo testimoniano i risultati elettorali delle organizzazioni studentesche più impegnate come “Cambiare rotta” (che in genere ottiene meno del 5% dei voti per le elezioni dei rappresentanti studenteschi) e anche l’adesione agli scioperi. Per fare un esempio solo, quello del 22 settembre, sempre sul tema di Gaza, ha riscosso adesioni fra il 15% (Atm Milano) e il 6% (funzione pubblica nazionale). Il punto critico è che non viene più mantenuta la distanza tradizionale fra le organizzazioni politiche nazionali di sinistra come il PD o di sindacati come la CGIL e i gruppi estremisti filoterroristi. Il fatto che il piano Trump abbia proposto per la prima volta una prospettiva concreta per la pace a Gaza e che ciò cambi il quadro e gli obiettivi di chi aspira alla pace, agli estremisti della flottiglia e di chi proclama di essere il suo “equipaggio di terra” chiaramente non interessa, anzi li preoccupa, anche perché ormai sono ben documentati i rapporti politici e finanziari fra la flottiglia e Hamas. Ma dovrebbe interessare a organizzazioni politiche e sindacali responsabili, almeno considerando la posizione favorevole di quasi tutti i principali paesi europei e anche di quelli musulmani (Egitto, Arabia, Giordania, Emirati, Pakistan, Indonesia) e perfino dell’Autorità Palestinese. Purtroppo le cose non stanno così e non si può non interrogarsi sulla ragione di questo atteggiamento.
(Shalom, 3 ottobre 2025)
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Trova le differenze
Hamas ci studia bene e ora parla lo stesso identico linguaggio dei nostri partiti. Hamas ha investito in occidente e con la flotilla passa all’incasso
di Giulio Meotti
“Il blocco della Global Sumud Flotilla da parte di Israele è un gravissimo atto di pirateria internazionale” denuncia il Movimento 5 stelle. “Un atto di pirateria” secondo Elly Schlein. “Azioni di pirateria internazionale che si configurano come violazioni esplicite del diritto internazionale” dice l’Alleanza verdi sinistra. “Un grave atto di pirateria” anche secondo Riccardo Magi di +Europa. “Grave atto di pirateria”, il commento della Cgil. Hamas, che sa leggerci molto bene, riprende alla lettera i comunicati occidentali. L’abbordaggio della flotilla è “un crimine di pirateria” secondo i terroristi al potere a Gaza.
 Hamas attacca Israele per l’operazione con cui ha intercettato e bloccato la flottiglia che voleva superare il blocco navale di Gaza e accusa Israele di “crimine di pirateria e di terrorismo marittimo contro civili”, esortando “tutti i difensori della libertà nel mondo” a criticarlo. L’intercettazione “in acque internazionali, come l’arresto di attivisti e giornalisti” che si trovavano a bordo delle imbarcazioni della flotilla “costituiscono un infido atto di aggressione”, continua la dichiarazione di Hamas, “che si aggiunge al triste record di crimini commessi” da Israele. Lo stesso comunicato dalla Turchia di Erdogan, grande sostenitore dei Fratelli musulmani e di Hamas (“da Israele atto di pirateria contro la flotilla”).
 Il giurista americano Eric Posner dell’Università di Chicago ha spiegato così sul Wall Street Journal la legalità del blocco israeliano di Gaza:
 “L’accusa più grave è che, prendendo il controllo della flotilla, Israele abbia violato la libertà delle navi di navigare in alto mare. Ma ci sono delle eccezioni. La coalizione guidata dagli Stati Uniti impose un blocco all’Iraq durante la prima guerra del Golfo. Se Gaza fosse uno stato sovrano, allora Israele sarebbe in guerra con Gaza e il blocco sarebbe legittimo. Se Gaza fosse una parte di Israele, Israele avrebbe il diritto di controllarne i confini, ma non intercettando navi straniere al di fuori del suo mare territoriale di dodici miglia. Gaza non è uno stato sovrano e non fa parte di Israele né di alcun altro stato. Il suo status è ambiguo, così come lo è la natura del conflitto armato tra Israele e Hamas”.
 Ma Hamas è riuscita a trasformarsi in resistenza e a fare del blocco israeliano un atto di pirateria. Come ci sia riuscita, è chiaro.
 A partire dal 2014, Hamas ha compiuto sforzi importanti per attirare a sé l’occidente usandone le parole d’ordine e le immagini. Nel 2017 ha pubblicato un documento supplementare al suo manifesto antisemita del 1988, che contiene un “linguaggio di liberazione” più politicamente corretto e meno nazista (convincendo anche un noto fisico italiano autore di libri di successo che Hamas non è antisemita).
 Hamas poi ha pubblicizzato la “Grande Marcia del Ritorno”, al confine con Israele, come una “marcia per i diritti umani”, con i leader di Hamas che hanno tenuto discorsi davanti ai poster di Martin Luther King, Gandhi e Mandela, come il leader dei terroristi houthi, Abdul Malik al Houthi, accusa l’Italia di avere una “nera storia coloniale alle spalle”. Fino a Yahya Sinwar, il defunto leader di Hamas a Gaza, che in una intervista pubblicata nel 2021 da Vice puntava al sostegno occidentale, sostenendo che “lo stesso tipo di razzismo che ha ucciso George Floyd è usato da Israele contro i palestinesi”.
 E così, in una strana convergenza delle lotte, si arriva allo stesso identico registro sulla flotilla da parte dei sindacati, dei partiti, delle associazioni della società civile, dei Giuristi democratici e di Hamas. Un po’ come i festeggiamenti della “vittoria” da parte dei terroristi dopo l’annuncio del riconoscimento di uno stato palestinese all’Onu la scorsa settimana, le accuse di “genocidio” a Israele e i silenzi occidentali sui palestinesi uccisi da Hamas. Tutto fa gioco.
 E la propaganda gioca su due registri: in arabo, esalta lo sterminio, mentre in inglese, in italiano e in francese Hamas parla la lingua di legno woke. Per adescare quelli che George Orwell definì i cani addestrati, “quelli che fanno il salto mortale anche senza la frusta”.
Il Foglio, 3 ottobre 2025)
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Per fermare la guerra, il mondo intero deve gridare ai terroristi di Hamas: “Arrendetevi, rilasciate gli ostaggi!”. Invece chiede solo a Israele di fermarsi. Perché?
di Paolo Salom
[ Voci dal lontano Occidente] Secondo anniversario della tragedia del 7 ottobre. Quanto è durata la solidarietà del lontano Occidente? Domanda retorica la mia. Lo so bene: nemmeno 24 ore. Ma ora siamo in una situazione molto differente. Perché alla posizione tentennante dei Paesi “amici” di Israele (“non superate la proporzionalità nella difesa!”, come se esistesse una “proporzione” al massacro bestiale di quel giorno), si sono aggiunte le sempre più numerose iniziative della “società civile”. Metto queste due parole tra virgolette perché di “civile” nei boicottaggi, negli insulti, nelle prese di posizione di Regioni, Province e Comuni – per non parlare di università e associazioni come l’Anpi – non c’è nulla. In questi 24 mesi, vivere da ebrei in Italia (oltre frontiera anche peggio) ha avuto il significato di sentirsi immersi in un’atmosfera da anni Trenta. Siamo stati avvolti da una nube oscena di menzogne che avrebbero fatto invidia alle veline dell’era fascista. Con rare eccezioni, i media italiani hanno continuato a pubblicare – come fossero dati ineccepibili – le notizie di fonte palestinese (Hamas). Se tutto quanto letto in Italia e nel mondo fosse stato vero, oggi la Striscia di Gaza dovrebbe assomigliare a un deserto nucleare, senza più abitanti né futuro.
È davvero così? No che non lo è: ma qual è la differenza? La realtà è quella che si percepisce, quella che si costruisce nella nostra mente. Quella che si vuole credere perché risponde al pregiudizio innato. Questo è lo stato della civile Europa nell’anno 2025-5786: gli ebrei (e Israele come “ebreo degli Stati”) sono come nel passato all’origine del caos e dei mali del mondo. Sono guerrafondai, uccidono bambini come sport e, cosa più grave, non accettano di stare al loro posto e farsi massacrare come è stato negli ultimi duemila anni. Intendiamoci, so bene che a Gaza il dramma è reale. Che gran parte della Striscia è stata livellata, che migliaia di abitanti vivono in tende di fortuna. Che i morti sono stati tanti (la maggior parte terroristi). Il punto è che tutto questo è il frutto di una scelta scellerata, di una volontà assassina che ha nutrito la popolazione araba palestinese negli ultimi vent’anni, ovvero da quando Sharon ordinò il ritiro completo (compreso i morti dei cimiteri) degli israeliani dagli insediamenti.
Dunque, la responsabilità di questa guerra non voluta da Israele è solo e soltanto di chi l’ha progettata e scatenata: Hamas (con i burattinai di Teheran). Oggi, con il senno di poi, potremmo dire che lasciare Gaza, per Israele, è stato un errore dalle conseguenze nefaste. Ma è evidente anche un’altra verità: di fatto, in questi due decenni, Gaza è stata indipendente. Un mini-Stato governato prima dall’Anp e, subito dopo, da Hamas eletta nelle urne (e poi protagonista di un sanguinoso golpe interno). Dunque, in questo lungo periodo, invece di porre le fondamenta per una futura indipendenza formale (magari con altri territori in Giudea e in Samaria), gli uomini al potere nella Striscia hanno costruito una fortezza sotterranea studiata per l’aggressione, non certo per proteggere la popolazione civile, armandosi fino ai denti. Più volte hanno scatenato attentati e veri e propri conflitti contro Israele.
Mai una volta hanno immaginato una convivenza pacifica. E come potrebbero? Nella loro carta fondamentale è scritto che bisogna cancellare Israele e uccidere tutti gli ebrei. Ecco perché tutto è precipitato. Ecco perché Israele, dopo il 7 ottobre, non ha avuto che una scelta di fronte a sé: distruggere chi voleva distruggerla. La guerra non è un evento piacevole, mai. Non è un film. Non ci sono eroi. Ci sono soltanto esseri umani che si battono per la sopravvivenza. Ma una guerra può essere combattuta per un fine morale.
Ed è questo che sta facendo Israele da due anni a questa parte, per di più, come sappiamo, avendo a che fare con sette nemici contemporaneamente. Ora mi spiegate voi, se riuscite, perché il mondo intero – con l’eccezione degli Stati Uniti (ora) e di pochi altri – invece che gridare ad alta voce ai terroristi di Hamas: “Arrendetevi, rilasciate gli ostaggi!”, continua a spingere in un angolo l’unico e morale Stato degli ebrei? Questo atteggiamento ha una definizione precisa. Si chiama antisemitismo, una macchia di infamia di cui il lontano Occidente non riesce a mondarsi.
(Bet Magazine Mosaico, 3 ottobre 2025)
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Flottilla e piazze italiane: la sinistra senza voti cerca rifugio nell’antisemitismo
di Stefano Piazza
Le piazze italiane, negli ultimi giorni, sono diventate il teatro di una mobilitazione che poco ha a che fare con la solidarietà e molto con la propaganda. La vicenda della Global Sumud Flottilla, partita come iniziativa internazionale contro il blocco di Gaza, ha offerto il pretesto perfetto a sindacati, movimenti e partiti di sinistra per riportare la protesta in strada. Il risultato? Una miscela di cortei pro-palestinesi, slogan antisemiti, tensioni con la polizia e la proclamazione di uno sciopero generale che rischia di trasformare un tema estero in un’arma di destabilizzazione interna.
Non è il diritto di manifestare a fare problema, ma la degenerazione del messaggio. I cortei non parlano di pace, ma di odio. Non invocano dialogo, ma sventolano cartelli che glorificano la violenza e slogan che ripropongono cliché antiebraici. È la solita Italia delle piazze: quando manca il consenso nelle urne, si cerca legittimità tra cori e bandiere. Che i sindacati siano ormai a corto di battaglie credibili lo si sapeva. Ma la proclamazione di uno sciopero generale “per Gaza” è la caricatura della loro crisi. Per Stellantis che chiude stabilimenti? Silenzio. Per l’Ilva di Taranto che muore pezzo dopo pezzo? Nulla. Ma per una Flottilla bloccata a centinaia di miglia da Israele e Gaza, ecco lo sciopero. Evidentemente il lavoro degli italiani vale meno del palcoscenico ideologico.
Peggio ancora fanno i partiti di sinistra – PD, AVS e Cinque Stelle – che hanno trasformato la Flottilla in un nuovo vessillo. Il loro copione è sempre lo stesso: forte presenza nelle piazze, irrilevanza nelle urne. È accaduto nelle Marche, dove i megafoni hanno coperto per qualche giorno il vuoto politico, salvo poi scomparire la sera dello spoglio. Eppure insistono, convinti che l’antisemitismo travestito da solidarietà sia il carburante per rilanciarsi. Il vero pericolo è che questo clima degeneri. Le manifestazioni pro-palestinesi stanno scivolando sempre più spesso verso la violenza, con scontri, vandalismi e aggressioni. L’antisemitismo, che si pensava sepolto, riemerge nelle piazze italiane con una naturalezza inquietante. Alcuni leader, anziché arginare, preferiscono soffiare sul fuoco, immaginando di capitalizzare un malcontento che in realtà sta minando la coesione sociale del Paese.
Come ha fatto notare il premier Giorgia Meloni, «nei prossimi giorni, temo, gli italiani affronteranno diversi disagi per una questione che mi pare c’entri poco con la vicenda palestinese e c’entri molto con le questioni italiane e del resto ce lo spiegano i sindacati, perché mi sarei aspettata che almeno su una questione che reputavano così importante non avessero indetto uno sciopero generale di venerdì, perché il weekend lungo e la rivoluzione non stanno insieme». Parole che colgono nel segno. Perché se lo sciopero “rivoluzionario” coincide strategicamente con il ponte, non è più lotta sociale ma weekend lungo mascherato da solidarietà internazionale.Alla fine resta un’Italia dove i sindacati fingono di difendere i lavoratori ma si accodano a bandiere ideologiche, e dove la sinistra non riesce a governare nemmeno un circolo culturale ma si illude di cambiare il mondo con i cortei. Il tutto condito da un antisemitismo che torna a infettare il dibattito pubblico. Una miscela tossica: più che una rivoluzione, un triste carnevale di piazza sperando che non ci scappi il morto.
(L'informale, 3 ottobre 2025)
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Manchester – Rav Ephraim Mirvis: «Attentato esito di una lunga campagna di odio»
«Questo è il giorno che speravamo di non vedere mai, ma che in fondo sapevamo sarebbe arrivato», ha dichiarato al termine del Kippur il rabbino capo del Regno Unito, Ephraim Mirvis, commentando l’attentato di matrice islamica a una sinagoga di Manchester costato la vita a due ebrei inglesi. «Per così tanto tempo abbiamo assistito a un’incessante ondata di odio contro gli ebrei nelle nostre strade, nei campus, sui social media e altrove: questo è il tragico risultato», ha accusato il rav, parlando di attacco non solo agli ebrei ma anche «ai fondamenti stessi dell’umanità e ai valori di compassione, dignità e rispetto che tutti condividiamo».
In una nota il Board of Deputies of British Jews, principale organo rappresentativo dell’ebraismo britannico, sottolinea: «In un momento di crescente antisemitismo nel Regno Unito, questo attacco era purtroppo qualcosa che temevamo. Invitiamo tutti coloro che ricoprono posizioni di potere e influenza ad adottare le misure necessarie per combattere l’odio contro il popolo ebraico, collaboreremo con le autorità per adottare una serie di misure aggiuntive per proteggere la nostra comunità nei prossimi giorni».
Il primo ministro britannico Keir Starmer ha lasciato in anticipo il Vertice della Comunità Politica Europea di Copenaghen per presiedere una riunione d’emergenza. «Stiamo dispiegando ulteriori mezzi di polizia nelle sinagoghe di tutto il paese, faremo di tutto per garantire la sicurezza della nostra comunità ebraica», ha annunciato l’inquilino di Downing Street, dichiarandosi «scioccato» per quanto accaduto a Manchester.
Per l’ong Campaign Against Antisemitism, «il sangue degli ebrei britannici è sulle mani di politici virtuosi che hanno gettato benzina sul fuoco dell’estremismo con i loro atteggiamenti e le loro concessioni» e tra gli altri anche «delle università e delle scuole che hanno tollerato l’incitamento, della parzialità e del crollo morale della Bbc» che l’ong accusa di essere diventata di fatto una «portavoce di Hamas».
Per l’Ucei, «quello che temevamo è accaduto e per il clima di tensione e di odio poteva accadere esattamente anche qui, in una delle nostre sinagoghe». L’Ucei denuncia un clima pericoloso anche in Italia dove «le libertà di culto, di uguaglianza e non discriminazione sono compresse» e si assiste in queste ore «all’abuso di libertà che legittimano ogni scatenamento di odio, manifestazioni, scioperi, editoria che in nome della critica e della pacificazione in Medio Oriente» trasformano le città italiane in luoghi dove si praticano «guerriglia e violenza».
(moked, 3 ottobre 2025)
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La pax americana, l’ultima speranza
di Ilaria Borletti Buitoni
Il presidente Trump ci ha abituato in più di un’occasione ai colpi di scena: affermazioni e smentite nel giro di poche ore, dichiarazioni roboanti o decisioni deflagranti per l’economia mondiale poi ridimensionate dai fatti.
Nel caso dei 20 punti della sua proposta per Gaza e per un nuovo equilibrio in Medio Oriente, ci sono alcuni motivi che potrebbero giustificare un cauto ottimismo.
Il primo riguarda l’adesione di molti paesi arabi e musulmani, in passato riluttanti a tagliare il proprio legame con Hamas forse anche per timore dell’integralismo islamico all’interno dei propri confini: Turchia e Qatar ne sono certamente gli esempi più eclatanti e proprio per questo sono eletti mediatori privilegiati nell’azione di convincimento alla resa dei terroristi.
Il secondo sono le implicazioni per Israele: non solo il ritorno degli ostaggi previsto dall’accordo, vivi o morti, ricucirebbe un paese lacerato, ma isolerebbe inevitabilmente la fazione più estremista del governo Netanyahu, infatti da subito contraria alla proposta americana. Il Primo Ministro israeliano si trova con le spalle al muro, isolato internazionalmente, con un paese stremato, spaccato, economicamente in affanno e senza una via d’uscita. Sa con certezza che quello che rimane di Hamas si è ormai mescolato con la popolazione in fuga e che non saranno certo ulteriori bombardamenti o invasioni a chiudere la partita a suo favore.
Il terzo è l’adesione di Putin a questo accordo, probabilmente non certo fatta senza uno scambio del quale non ci è dato sapere nulla. In uno scenario geopolitico mondiale, se Stati Uniti, Russia e anche Cina invocano la fine immediata della guerra in Medio Oriente significa che difficilmente i tempi potrebbero essere ulteriormente dilatati.
Il quarto punto è forse il più importante: il dramma di Gaza, sebbene la narrazione dei media occidentali in gran parte abbia voluto assecondare la propaganda di Hamas, ha scosso profondamente l’opinione pubblica e costretto tutta la politica occidentale a un confronto sempre più acceso. Porne fine significa non solo fermare una tragedia umanitaria le cui immagini rimarranno a lungo impresse, ma anche “sminare” la dialettica politica di buona parte dell’Occidente dal rischio di scontri non più gestibili e di piazze ormai lontane da quelle stesse forze che le hanno promosse.
Naturalmente rimangono molte perplessità: l’accordo prevede un percorso di indipendenza e autonomia per i palestinesi che Netanyahu ha sempre con forza negato, compiacendo in questo modo i suoi ministri più estremisti. L’accordo prevede una ricostruzione dettagliata di quel territorio devastato e non è chiaro cosa avverrà di questa popolazione disperata mentre verranno create le condizioni minime per poter rientrare in quelle che oggi sono solo macerie. Si prevede l’esclusione di qualunque movimento terrorista dal futuro Gaza e un rafforzato ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma nel 2006 i gazawi votarono il partito di Hamas e non Abu Mazen e, come sempre in quella parte del mondo, le previsioni e tantomeno le semplificazioni sono facilmente smentite dai fatti.
Per i palestinesi non è prevista nessuna deportazione forzata, concetto barbaro che giustamente aveva mosso vibrate proteste anche in Israele, bensì quelli tra di loro che hanno sostenuto Hamas potranno godere di un’amnistia e andare nei paesi che li accoglieranno. Un punto questo certamente combattuto dall’attuale governo dello Stato ebraico ma irrinunciabile per avere il sostegno dei paesi arabi.
In conclusione, dopo due anni, alla vigilia della commemorazione del massacro del 7 ottobre, dopo decine di migliaia di vittime, l’unica opzione è quella proposta dal presidente Trump, seppur piena di incognite e di ostacoli oggettivi: è meglio crederci e sperare che si possa realizzare, anche perché l’alternativa sarebbe un abisso ancora più profondo del quale non si vedrebbe la fine.
(Setteottobre, 2 ottobre 2025)
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Pace a Gaza, Hamas nicchia, Qatar e Turchia in pressing ma le mine vaganti sono Smotrich e Ben Gvir
di Lorenzo Vita
GERUSALEMME – La risposta di Hamas ancora non è arrivata. Ma dalla milizia palestinese arrivano segnali discordanti. Alcune fonti danno ormai quasi per certo l’ok del gruppo al piano del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e già accettato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Altre, invece, segnalano che all’interno della milizia si stia rafforzando il partito del rifiuto, perché l’accordo è visto come eccessivamente aderente alle posizioni di Israele e agli obiettivi che Netanyahu si è posto per dichiarare la vittoria nella Striscia di Gaza.
Ma al momento, tra le due posizioni, quella che appare maggioritaria è quella di una “pausa di riflessione”. E forse serviranno più delle 72 ore immaginate dal presidente Usa. Una fonte del gruppo che ha parlato con Al-Arabiya dicendo che “Hamas ha ribadito ai mediatori il proprio diritto di proporre modifiche al piano, sottolineando come lo stesso Netanyahu abbia già apportato cambiamenti analoghi”. La milizia palestinese non è convinta soprattutto della gestione futura della Striscia, soprattutto perché l’entità internazionale di transizione pensata da Trump non sarebbe coerente con un’amministrazione esclusivamente locale, anche se slegata da Hamas e altri partiti. Infine, Hamas vorrebbe una sorta di “cronoprogramma” del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e non una semplice promessa di un abbandono graduale della regione da parte delle Israel defense forces. Mentre altre fonti, questa volta all’Afp, hanno detto che il gruppo vorrebbe modificare le clausole sul disarmo e sull’esilio dei suoi membri.
La trattativa, quindi, sembra iniziata. E sono in molti a sospettare che The Donald rischia di non vedere affiorare un vero e proprio “si” al suo piano. Le pressioni su Hamas sono molte, anche da parte dei governi del Medio Oriente. Secondo Axios, Egitto, Qatar e Arabia Saudita stanno facendo di tutto per convincere Hamas ad accettare l’accordo. I leader del gruppo sono stati raggiunti da ben tre delegazioni in 24 ore per cercare di sbloccare la trattativa. Ci sono stati incontri con il premier del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, il capo dell’intelligence egiziana, Hassan Rashad, e anche il vertice dei servizi segreti turchi, Ebrahim Kalin. Ma dal Cairo, lo stesso ministro degli Esteri Bader Abdelatty ha confermato che potrebbero servire altri negoziati.
La questione è ovviamente centrale anche nel dibattito interno di Israele, entrato oggi nello Yom Kippur. Perché se Netanyahu ha accolto il piano, le opposizioni hanno concordato sulla bontà della bozza firmata da Trump, e le piazze e i familiari degli ostaggi hanno ammesso la loro gioia, la destra radicale è già sul piede di guerra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha già criticato il piano definendolo un “fallimento diplomatico”. Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, lo ha addirittura definito “pericoloso per la sicurezza di Israele”. “Ne parlerò ampiamente”, ha dichiarato Ben Gvir, “ma fin da ora bisogna dire che danneggia la sicurezza, è pieno di lacune e non raggiunge gli obiettivi di guerra che ci siamo prefissati”. “È vero, siamo tutti entusiasti del ritorno degli ostaggi” ha continuato il ministro e leader di Otzma Yehudit, “ma il prezzo da pagare è inconcepibile e avrò altro da dire su questo argomento”. E anche all’interno del Likud, il partito di Netanyahu, c’è chi ha già storto il naso. Si tratta, come raccontano i media locali, di membri non troppo importanti del movimento. Ma in ogni caso, è un segnale che “Bibi” non può sottovalutare.
L’impressione, in ogni caso, è che a questo punto Netanyahu può solo attendere. Se Hamas accetta, può dire di avere costretto la milizia a un accordo che aderisce ai suoi obiettivi di guerra. Se rifiuta, le forze armate sono pronte a stringere ancora di più l’assedio su Gaza. Ieri, l’Idf ha preso il pieno controllo del Corridoio Netzarim bloccando ogni spostamento da sud a nord. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha avvertito anche la popolazione. “Questa è l’ultima opportunità per i residenti di Gaza che desiderano farlo di spostarsi a sud e lasciare gli operativi di Hamas isolati a Gaza City”, ha detto il ministro, “Coloro che rimarranno, saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo”.
(Il Riformista, 2 ottobre 2025)
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L'accordo di Trump su Gaza: una mossa magistrale che elude verità scomode
I nemici di Israele – e persino coloro che attualmente sostengono il piano – rimangono in definitiva legati all'ideologia islamica, così come l'Occidente rimane legato a un antisemitismo profondamente radicato.
di Ryan Jones
Il piano per Gaza del presidente Donald Trump e il modo in cui ha ottenuto il sostegno e lo ha presentato sembrano a prima vista una mossa magistrale. I paesi che finora hanno tacitamente sostenuto Hamas nella sua guerra contro Israele sono ora allineati e insistono affinché il gruppo terroristico accetti i termini di una proposta che in sostanza significa la sua sconfitta.
Sembra che Trump abbia messo Hamas in scacco matto. O accetta l'accordo e perde la guerra, oppure esita – se non addirittura rifiuta categoricamente la proposta – e viene bollato come l'ostacolo evidente alla fine del conflitto.
Ma abbiamo già visto questo film. O qualcosa di simile.
Gli accordi precedenti, che avrebbero dovuto rappresentare una situazione vantaggiosa per Israele, si sono sempre rivelati in qualche modo errori catastrofici.
Due esempi eclatanti sono la firma degli “accordi di Oslo” – quando Israele accettò di riconoscere e negoziare con la PLO, la principale organizzazione terroristica al mondo – e il ritiro da Gaza del 2005 – quando Israele concesse unilateralmente ai palestinesi di Gaza tutto ciò che chiedevano.
In entrambi i casi, i leader israeliani e i loro partner internazionali hanno affermato che o i palestinesi avrebbero reagito in modo responsabile, aprendo la strada alla pace, oppure sarebbero rimasti irremovibili, rivelandosi una volta per tutte i veri cattivi della storia.
Ma questo modo di pensare ignorava due scomode verità: gli arabi sono motivati principalmente dall'ideologia islamica e l'Occidente rimane ancorato all'antisemitismo.
In entrambi i casi, i compromessi di Israele hanno portato a un aumento, non a una diminuzione, del conflitto, poiché gli islamisti palestinesi sono stati incoraggiati e rafforzati. E in entrambi i casi, il mondo non ha ritenuto responsabili i palestinesi, ma Israele e, di conseguenza, gli ebrei, perché si sono rifiutati di morire e scomparire.
Trump è un tipo diverso di leader, quindi forse resisterà come baluardo contro queste due forze dell'islamismo e dell'antisemitismo. Finora lo ha fatto. Ma non sarà lì per sempre. E l'accordo è già sul tavolo. Israele è già vincolato.
Nonostante tutte le sue qualità positive quando si tratta di Israele, Trump, come i suoi predecessori, ha comunque un certo punto cieco quando si tratta del ruolo dell'Islam in questo conflitto e della persistente diffusione dell'odio verso gli ebrei nell'Occidente “cristiano”. Non si tratta solo di inconvenienti. Sono forze potenti che non possono essere superate con generosi vantaggi economici. Richiedono una rieducazione intergenerazionale. Ciò significa, in realtà, che non scompariranno.
Non riconoscere questo fatto significa che il piano di Trump finirà, come tutti i precedenti, nel mucchio dei rifiuti della storia, come un'altra “soluzione” che è servita solo a generare ulteriori conflitti.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Kiryat Sefer compie 15 anni. Una porta sempre aperta verso la tradizione ebraica
La libreria della Comunità ebraica di Roma diffonde cultura. È un punto di incontro e dialogo tra religioni diverse fondamentale per combattere pregiudizi e antisemitismo
di Ruben Della Rocca
In uno degli angoli più suggestivi e ricchi di storia della Capitale, incastonata tra la Sinagoga e il Portico d’Ottavia, da 15 anni un luogo magico di Roma diffonde cultura, libri e sapere. È la libreria della Comunità ebraica di Roma, la Kiryat Sefer, unica libreria a tema esclusivamente ebraico in Italia che proprio nel corso di quest’anno raggiunge la cifra tonda dei tre lustri. Luogo di incontro e di divulgazione, dove sfogliando le pagine del Talmud o immergendosi negli scritti di rabbini e pensatori ebrei di ogni secolo, ci si immerge nel mondo ebraico con la curiosità e la voglia di conoscere e approfondire. Allo stesso tempo, la narrativa moderna proveniente da Israele o dagli Stati Uniti, oppure quella prodotta dai tanti scrittori ebrei italiani, permette di avere un quadro di insieme che altrimenti sarebbe impossibile ricostruire.
La Kiryat Sefer, letteralmente tradotto Città del Libro, rappresenta un unicum nel panorama culturale del nostro Paese e un luogo da visitare, dove poter scoprire libri e volumi che nelle librerie generaliste sarebbero impossibili da trovare, assieme all’oggettistica a tema ebraico. Tutto questo fa parte della proposta all’affezionata clientela o al turista italiano e straniero che si reca nel locale di Via Elio Toaff per trovare quanto di ebraico non si trova altrove. Dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni a monsignor Vincenzo Paglia, dall’ex presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello all’onorevole Andrea Riccardi, dall’attore Luca Barbareschi al giornalista Enrico Mentana, sono tanti i personaggi noti che si recano alla Kiryat Sefer per scoprire le ultime novità dell’editoria ebraica o per riscoprire vecchi testi utili anche allo studio e alla ricerca, oltre che allo svago di un buon libro.
La libreria rappresenta anche e soprattutto un luogo di incontro e di vicinanza tra culture e religioni. Uno spazio quindi dedicato al rispetto e a quella conoscenza reciproca tra popoli e persone indispensabile ad abbattere luoghi comuni e pregiudizi. Se le librerie rappresentano un faro di luce e di educazione nelle nostre città, troppo spesso immerse nel buio dell’ignoranza e dell’odio, la Kiryat Sefer, assieme al Museo Ebraico e al Centro di Cultura della Comunità ebraica di Roma, costituisce un punto di riferimento fondamentale nel contrastare le false credenze e la sottocultura che sono il motore dell’antisemitismo e dell’antisionismo.
(Il Riformista, 2 ottobre 2025)
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Manchester, accoltellamento fuori da una sinagoga nel giorno di Yom Kippur: due morti, ucciso l'aggressore
Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall.
Un accoltellamento si è verificato oggi fuori da una sinagoga di Manchester, nel nord dell'Inghilterra. Lo riferisce la polizia britannica, intervenuta sul posto. Il sindaco della città, Andy Burnham, in contatto con la polizia, ha definito l'episodio «grave». Il bilancio è di due morti e due feriti. L'accoltellatore, come riporta la Bbc, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla polizia. Secondo Burnham, dopo l'intervento della polizia non ci sono ulteriori «pericoli imminenti» per la collettività. «Stiamo valutando la situazione e collaborando con gli altri membri dei servizi di emergenza. La nostra priorità è garantire che le persone ricevano l'assistenza medica di cui hanno bisogno il più rapidamente possibile», ha reso noto il servizio di ambulanze.
• L’aggressione
Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall. Si tratta di un tempio frequentato da fedeli ortodossi askhenaziti completato nel 1967. I media britannici sottolineano come l'attacco - la cui potenziale matrice terroristica e il cui movente resta da chiarire - è avvenuto nel giorno di Yom Kippur, festività sacra per gli ebrei.
(Il Mattino, 2 ottobre 2025)
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Marcia per la Vita – Padova 28 Settembre 2025
NON RESTEREMO IN SILENZIO
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| Marina Soranzo e Heinz Reuss, Presidente del movimento internazionale March of Life |
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Domenica 28 Settembre 2025 si è svolta March of Life (Marcia della Vita) a Padova. E’stato un onore poter partecipare a questa marcia poiché nel 2018 e 2019 ho avuto modo di essere ospite alla March of Life House a Cesarea (Israele) e insieme a Petra e Lesly, le due volontarie che si occupavano della casa, pregavamo per un apertura in Italia dove poter organizzare la Marcia magari con la collaborazione di Edipi. Ringrazio Abba, che nel dicembre 2024 ha dato risposta a quelle preghiere, perché a Vò Euganeo PD c’è stata la prima March of Life in Italia. Quella successiva del 2025 invece si è svolta a Padova, dove ha la sede Edipi, e dove questa volta Edipi nella veste del Presidente Andie Hortai Basana, insieme ad altre associazioni ha collaborato per l’evento.
 La manifestazione ha avuto inizio davanti alla Sinagoga di Padova, l’organizzatrice Marina Soranzo ha salutato i partecipanti elencando il programma e specificando il tema della Marcia, ovvero NON RESTEREMO IN SILENZIO, l’importanza di ricordare e riconciliare, per dare tutti insieme un segnale contro l’antisemitismo e l’odio verso gli ebrei. Non restare in silenzio in quanto nei tempi della Shoa gli italiani, compresi i cristiani, sono stati in silenzio davanti alle deportazioni e abusi nei confronti degli ebrei. Ovviamente, il ricordo non deve essere solo rivolto al passato ma, deve anche gettare un ponte verso il presente e futuro. Ha poi illustrato il tragitto che partiva dalla Sinagoga in Via delle Piazze (Ghetto Ebraico) fino alla Piazza del Santo, sfilando con la bandiera israeliana e cartelloni con foto e nome degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Sottolineando che si tratta di una manifestazione pacifica, ha avvisato i partecipanti che in caso di contestatori sul tragitto, non rispondere ma affidarsi alla scorta, scorta molto numerosa tra altro per il numero di partecipanti. Qui viene fatta notare la prima differenza, differenza tra una manifestazione a favore dei palestinesi e una pro Israele, ovvero le manifestazioni pro Israele devono essere per forza scortate, perché siamo arrivati a un punto di antisemitismo dove manifestare per Israele può essere pericoloso per i manifestanti, e se la scorta non c’è la manifestazione o evento viene cancellato!
 Il saluto iniziale è stato dato dal Presidente della Comunità Ebraica di Padova Gianni Parenzo, seguito subito dopo dal saluto del Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss arrivato dalla Germania. La parola poi passa al Rabbino Adolfo Aharon Locci che parla del fatto che oggi si vuole delegittimare la Shoa, poiché la si vuole paragonare con i fatti del conflitto in corso tra Israele e Gaza per far dimenticare che cosa veramente è stata la Shoa, esortando le nuove generazioni di non confondere quello che accade oggi con ciò che accadde allora. Ha concluso ribadendo che anche se stiamo vivendo gli stessi tempi della Shoa, Israele pur se resta sola, a differenza di quei tempi oggi è in grado di difendersi. Infine ha concluso i saluti don Enrico Piccolo responsabile diocesano per il dialogo interreligioso continuando sul filo del discorso del Rabbino Locci, ricordando inoltre la figura di Padre Placido Cortese che ha aiutato ebrei a sfuggire dal regime nazista, cosa per cui è stato omaggiato nel 2021 da una Pietra d’ Inciampo proprio in Piazza del Santo. E’ intervenuta la Prof. Edda Fogarollo (CFI) docente di temi di Storia Moderna e Contemporanea che ha raccontato l’episodio del 1943 quando la Sinagoga è stata incendiata dai fascisti e altri episodi di quei tempi bui. Sono poi intervenute due ragazze dell’organizzazione tedesca e uno svizzero, che hanno raccontato la loro storia familiare, ovvero che i propri nonni servivano nelle SS e quindi si sono resi complici della morte di ebrei, hanno chiesto perdono per il loro operato agli ebrei presenti. Queste testimonianze sono state fatte con intensa emozione da toccare anche tutti i presenti. La parola poi è stata data a Benedetto Sacerdoti, padovano, portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, ringraziando per questa iniziativa, ringraziando i presenti per dimostrare la loro vicinanza alla Comunità Ebraica, a Israele e alle famiglie degli ostaggi, come padovano è stato importante per lui essere lì, nella Piazza del Santo, sfilare con le immagini dei volti degli ostaggi che da quasi due anni sono ancora prigionieri nel buio dei tunnel di Gaza. Ha fatto notare che nelle ultime settimane l’Italia è stata investita da manifestazioni, spesso violente per chiedere la fine di questo conflitto, che potrebbe finire immediatamente, qualora gli ostaggi venissero liberati. Ha sottolineato l’ambiguità presente nei nostri media, che non raccontano tutta la storia ovvero quello che è successo due anni fa, il 7 Ottobre 2025. Atti terribili sono successi in questa data, 1200 persone sono state trucidate, tra cui bambini e 250 persone rapite, di cui 48 ancora in ostaggio. Tutto ciò evidenzia che non si vuole la pace ma si cede ad una propaganda terroristica che vuole la distruzione d’Israele. Anche il Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss, ha evidenziato le incoerenze dei media e di tutta l’informazione che oggi giorno pone Israele come il cattivo della situazione, dimenticando che è stato attaccato quel 7 Ottobre, mentre nessuna condanna viene fatta ad Hamas, anzi, i media continuano a mandare avanti fake news come quella dei bambini morti, aumentando cosìl’antisemitismo nelle Nazioni.
 Ha concluso l’evento il Presidente di Edipi Andie Hortai Basana, che risponde alla domanda perché siamo dalla parte d’Israele. Risposta: come Cristiani Evangelici il nostro punto di riferimento è la Parola di Dio, che ci chiede di sostenere Israele. In Genesi 12, Dio fa una promessa ad Abramo, “benedirò quelli che ti benediranno”… ,e in Esodo 4, Dio dice a Mosè, “tu dirai al Faraone, Israele è il mio figlio, il mio primogenito”…. Questo ci fa comprendere il sentimento che Dio ha verso Israele e aspetta anche da parte nostra un atteggiamento conforme alla Sua volontà.
 Durante la marcia ci sono state alcune contestazioni verbali come criminali e free palestine, ma grazie al servizio d’ordine la cosa è sfumata in poco tempo e ringraziando Dio la marcia si è svolta senza incidenti. Concludo ricordando il versetto della Sua Parola che ha accompagnato questo evento:
 Isaia 62:1 Per amore di Sion io non tacerò, per amore di Gerusalemme io non mi darò posa, finché la sua giustizia non spunti come l’aurora, la sua salvezza come una fiaccola fiammeggiante.
(Edipi, 1 ottobre 2025)
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Al bivio decisivo nella guerra contro Hamas
Il capo dell'IDF Eyal Zamir esorta alla vigilanza e sottolinea l'importanza storica dei prossimi passi.
Durante una visita alle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza, il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha parlato di una “realtà unica” in cui si trova attualmente Israele. Ha definito la guerra contro l'organizzazione terroristica Hamas un “bivio decisivo”, in cui i prossimi passi avranno conseguenze di vasta portata.
Zamir ha elogiato il coraggio e la determinazione dei soldati che operano da mesi a Gaza. Allo stesso tempo, ha avvertito che il pericolo non deve essere sottovalutato. Hamas è ancora in grado di sferrare attacchi e quindi la concentrazione, la pazienza e la perseveranza sono di fondamentale importanza. Solo così sarà possibile raggiungere l'obiettivo: il ritorno degli ostaggi e lo smantellamento delle strutture militari dell'organizzazione terroristica.
Il capo di Stato Maggiore ha inoltre chiarito che l'esercito sta pianificando le sue operazioni in modo da garantire alla leadership politica il necessario margine di manovra. L'IDF deve essere in grado di reagire in modo flessibile alle diverse decisioni del governo. Ha così sottolineato che l'operazione militare non può essere considerata isolatamente, ma va vista nel più ampio contesto strategico e politico.
Lo stesso giorno, l'IDF ha anche annunciato che il 9 settembre Muhammad Rashid Muhammad Masri, comandante di compagnia dell'unità Nukhba nel battaglione di Hamas di Beit Hanoun, era stato ucciso in un attacco mirato. Masri si era infiltrato nel territorio israeliano il 7 ottobre 2023 durante il massacro e successivamente, il 19 aprile 2025, aveva partecipato a un attacco a Beit Hanoun in cui il sergente maggiore G'haleb Sliman Alnasasra era stato ucciso e altri tre soldati erano rimasti gravemente feriti. L'incidente dimostra che, parallelamente alle operazioni su larga scala nella Striscia di Gaza, Israele continua a eliminare in modo mirato i vertici di Hamas.
Zamir ha ricordato alle truppe che, sebbene la guerra abbia portato a progressi significativi, non è ancora stata decisa. Gli attacchi alle unità israeliane nelle ultime settimane hanno dimostrato quanto sia importante mantenere un'elevata vigilanza. “Non dobbiamo sottovalutare il nemico”, ha ammonito, esortando i soldati ad affrontare le prossime fasi con la massima attenzione e perseveranza.
Con queste parole, il capo di Stato Maggiore ha chiarito che Israele si trova in una fase che può decidere l'esito dell'intera guerra.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Meloni: “La Flotilla è un pretesto per far saltare la pace”
Pressing sul Parlamento per votare il piano Trump
di Luca Spizzichino
La premier Giorgia Meloni è intervenuta con toni decisi sul caso della Global Sumud Flotilla, il convoglio di circa 50 imbarcazioni con attivisti internazionali entrato questa notte nella “zona ad alto rischio”, a 150 miglia nautiche da Gaza. “La Flotilla – ha dichiarato – è un pretesto per far saltare la pace”.
Secondo la premier, non si tratta di un gesto umanitario isolato, ma di una provocazione con il rischio di innescare incidenti e compromettere un fragile equilibrio diplomatico. “Non possiamo permettere che iniziative strumentali compromettano un percorso che finalmente può portare alla fine delle ostilità”, ha ribadito, inserendo la vicenda in un quadro politico più ampio: la difesa del piano Trump, che secondo Meloni rappresenta “l’unica speranza concreta per fermare la guerra e porre fine alla sofferenza dei civili palestinesi”.
Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lanciato un appello all’unità: “Non dividiamoci sulla pace, il piano Trump è l’unica strada per avviare una soluzione”. Stessa linea dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che avverte sul rischio di escalation e sottolinea che gli aiuti umanitari devono essere consegnati attraverso canali sicuri, “come il Patriarcato latino, non con operazioni che possono degenerare in incidenti”.
La fregata italiana Alpino, impegnata nel Mediterraneo orientale, da stanotte non scorta più la flottiglia, ma resterà pronta a intervenire in caso di emergenze che coinvolgano cittadini italiani.
Sul fronte politico interno, Carlo Calenda propone un voto unitario in Parlamento sul piano Trump. Dal Partito Democratico arrivano segnali di apertura, pur con critiche legate al riconoscimento dello Stato palestinese; il Movimento 5 Stelle parla di “spiraglio”, mentre Alleanza Verdi e Sinistra boccia il piano definendolo “colonialista e suprematista”.
Le dichiarazioni della premier si intrecciano con la linea di Israele, che prepara l’intercettazione delle navi accusando gli organizzatori di legami con Hamas. Meloni non si è espressa direttamente su questo punto, ma la vicenda rafforza l’idea che la Flotilla non sia solo una missione umanitaria.
Nella giornata di ieri, l’IDF ha diffuso documenti che accusano la Flotilla di ricevere finanziamenti da Hamas tramite la PCPA (Palestinian Conference for Palestinians Abroad), un network internazionale con sedi in Libano e in Europa. Tra i promotori citati figurano attivisti storici delle flottiglie, come Zaher Birawi nel Regno Unito e Saif Abu Kashk in Spagna.
Sul piano operativo, la marina israeliana si prepara a intercettare le imbarcazioni con i commando Shayetet 13, con l’obiettivo di fermare le navi prima che entrino nelle acque di Gaza, trasferire gli attivisti al porto di Ashdod e procedere con l’espulsione. Alcune barche potrebbero essere affondate dopo il sequestro.
(Shalom, 1 ottobre 2025)
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Yom Kippur – In 100mila al Kotel assieme agli ex ostaggi
Al tramonto di mercoledì inizia il digiuno dello Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario ebraico. A Gerusalemme, informa la Western Wall Heritage Foundation, oltre 100mila persone hanno partecipato alla lettura delle preghiere penitenziali (Selichot) nell’area del Muro Occidentale (Kotel). Tra loro gli ex ostaggi Eliya Cohen, Omer Shem Tov e Romi Gonen, a lungo prigionieri di Hamas a Gaza, che hanno recitato assieme al rabbino Shmuel Rabinowitz una preghiera speciale per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi: i vivi affinché possano riunirsi alle loro famiglie, i morti affinché possano essere sepolti. Einav Zangauker, la madre dell’ostaggio Matan Zangauker, ha depositato nelle crepe del muro un biglietto con una preghiera per il ritorno a casa degli ostaggi e dei soldati dell’Idf che stanno combattendo nella Striscia. Alla cerimonia sono intervenuti i rabbini capo del paese David Yosef (sefardita) e Kalman Bar (ashkenazita), il rabbino Yaakov Shapira a capo della yeshiva Mercaz HaRav, il sindaco della città Moshe Lion, ministri e rappresentanti istituzionali.
La Western Wall Heritage Foundation ha informato che quasi un milione e mezzo di persone si sono recate nell’area del Kotel nei dieci giorni penitenziali compresi tra Rosh haShanah e Kippur, facendo registrare «un aumento significativo delle presenze» rispetto al passato. Nell’occasione della cerimonia delle Selichot sono stati allestiti alcuni maxischermi nelle vicinanze del Kotel, nei pressi della porta di Giaffa e in piazza Safra, la piazza del municipio.
(moked, 1 ottobre 2025)
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Giro dell’Emilia: esclusa la squadra Israel-Premier Tech
di Pietro Baragiola
Alla vigilia del Giro dell’Emilia, la gara ciclistica di fama internazionale in programma il 4 ottobre, è arrivata una decisione inattesa: la squadra Israel-Premier Tech è stata esclusa dall’edizione di quest’anno.
La decisione, comunicata ufficialmente dagli organizzatori della gara in un comunicato stampa, è stata motivata da “ragioni di sicurezza pubblica”.
Negli ultimi mesi sono state diverse le corse ciclistiche a livello internazionale ad essere interrotte per la stessa motivazione a causa delle manifestazioni propalestinesi.
In Spagna, a La Vuelta, ben quattro tappe, compresa quella conclusiva a Madrid, hanno dovuto subire modifiche e riduzioni causando problemi durante la competizione. Per questo motivo il team del Giro dell’Emilia ha deciso di agire preventivamente ed evitare possibili incidenti.
“Il pericolo è troppo grande” ha affermato Adriano Amici, presidente della GS Emilia. “Il circuito finale, ripetuto cinque volte attorno a Bologna, potrebbe facilmente diventare teatro di proteste violente. È una scelta che mi addolora dal punto di vista sportivo, ma necessaria per tutelare il pubblico e gli altri corridori.”
• Il Giro dell’Emilia
Il Giro dell’Emilia è una delle corse più importanti del calendario ciclistico italiano e internazionale. Con i suoi 199 chilometri che si estendono da Mirandola fino a Bologna, rappresenta un banco di prova importantissimo per Il Lombardia, l’ultimo grande appuntamento della stagione.
Nel 2024 la vittoria è andata al campione sloveno Tadej Pogačar, confermando la presenza di molti dei migliori talenti del panorama mondiale.
L’arrivo è sempre fissato al Santuario della Madonna di San Luca, un luogo iconico, la cui pendenza supera il 10%, e domina la città di Bologna. Un panorama stupendo ma anche logisticamente delicato: Bologna è storicamente un centro di forte partecipazione politica dei moti studenteschi, molti dei quali quest’anno sono stati propalestinesi.
“Considerando quanto sta accadendo a Gaza, sarebbe ipocrita considerare insignificante la presenza di una squadra legata a questo governo” ha dichiarato Roberta Li Calzi, assessora dello sport dell’amministrazione comunale di Bologna.
Il portavoce della Israel-Premier Tech ha risposto a queste affermazioni volendo ricordare che la squadra non è la nazionale ufficiale di Israele, bensì un team di proprietà del miliardario Israelo-canadese Sylvan Adams. La formazione è da anni presente nei principali eventi ciclistici, tra cui il Tour de France e il Giro d’Italia.
Quest’anno però la situazione è diventata così delicata che persino il co-sponsor, Premier Tech, ha chiesto di rimuovere la parola “Israel” dal nome ufficiale della squadra, nel tentativo di ridurre l’esposizione politica e mediatica.
• L’esclusione di Israele nel mondo dello sport
La decisione di escludere la Israel-Premier Tech si inserisce in una più ampia ondata di boicottaggi e proteste che sta colpendo il mondo dello sport e della cultura israeliana.
Diversi eventi internazionali hanno visto crescere le pressioni per limitare la partecipazione dei team israeliani in segno di protesta contro il conflitto a Gaza.
Israele, dal canto suo, respinge le accuse di genocidio e ribadisce di adottare tutte le misure possibili per limitare le vittime civili, accusando Hamas di usare la popolazione come scudo umano. Ma la percezione internazionale resta fortemente polarizzata e lo sport, che teoricamente dovrebbe rimanere neutrale, finisce spesso al centro di questo clima di tensioni.
(Bet Magazine Mosaico, 1 ottobre 2025)
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