“Guai ai figli ribelli”, dice l'Eterno, “
che formano dei disegni, ma senza di me,
che contraggono alleanze, ma senza il mio Spirito,
per accumulare peccato su peccato.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Dalla Sacra Scrittura
DEUTERONOMIO
Capitolo 12
Queste sono le leggi e le prescrizioni che avrete cura di osservare nel paese che l'Eterno, l'Iddio dei tuoi padri, ti dà perché tu lo possegga, tutto il tempo che vivrete sulla terra.
Distruggerete interamente tutti i luoghi dove le nazioni che state per scacciare servono i loro dèi: sugli alti monti, sui colli, e sotto qualunque albero verdeggiante. Demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, darete alle fiamme i loro idoli di Astarte, abbatterete le immagini scolpite dei loro dèi, e farete sparire il loro nome da quei luoghi.
Non farete così riguardo all'Eterno, al vostro Dio; ma lo cercherete nella sua dimora, nel luogo che l'Eterno, il vostro Dio, avrà scelto fra tutte le vostre tribù, per mettervi il suo nome; e là andrete; là porterete i vostri olocausti e i vostri sacrifici, le vostre decime, quello che le vostre mani avranno prelevato, le vostre offerte votive e le vostre offerte volontarie, e i primogeniti delle vostre mandrie e delle vostre greggi; e là mangerete davanti all'Eterno vostro Dio, e vi rallegrerete, voi e le vostre famiglie, godendo di tutto ciò a cui avrete messo mano, e in cui l'Eterno, il vostro Dio, vi avrà benedetti.
Non farete come facciamo oggi qui, dove ognuno fa tutto quello che gli pare bene, perché finora non siete giunti al riposo e all'eredità che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà. Ma passerete il Giordano e abiterete il paese che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà in eredità, e avrete riposo da tutti i vostri nemici che vi circondano e starete al sicuro; e allora, porterete al luogo che l'Eterno, il vostro Dio, avrà scelto come dimora del suo nome, tutto quello che vi comando: i vostri olocausti e i vostri sacrifici, le vostre decime, quello che le vostre mani avranno prelevato, e tutte le offerte scelte che avrete consacrato in voto all'Eterno.
E vi rallegrerete davanti all'Eterno, al vostro Dio, voi, i vostri figli, le vostre figlie, i vostri servi, le vostre serve e il Levita che abiterà nelle vostre città; poiché egli non ha né parte né possesso tra voi. Allora ti guarderai bene dall'offrire i tuoi olocausti in qualunque luogo vedrai; ma offrirai i tuoi olocausti nel luogo che l'Eterno avrà scelto in una delle tue tribù; e là farai tutto quello che ti comando.
Chi sono i clan di Gaza che si oppongono ad Hamas?
I clan sono “attori importanti e influenti che controllano centinaia, se non migliaia, di esecutori”.
di Shimon Sherman
Poche ore dopo che i soldati israeliani si erano ritirati dalle loro posizioni di fronte il 10 ottobre, in conformità con l'accordo di cessate il fuoco in 20 punti, Hamas ha iniziato a consolidare il proprio potere attraverso una serie di scontri e purghe in tutta la Striscia di Gaza. Hamas ha agito rapidamente, mobilitando circa 7.000 combattenti il primo giorno del cessate il fuoco. Parallelamente, ha rapidamente ripristinato le sue capacità di comando e controllo, nominando cinque nuovi governatori in diversi distretti della Striscia. È interessante notare che i governatori non provengono dall'ala politica di Hamas, ma sono piuttosto comandanti militari delle brigate Izz ad-Din al-Qassam. Poco dopo la mobilitazione, sono scoppiati scontri in tutta la Striscia di Gaza, quando Hamas ha cercato di smantellare i clan rivali. In diversi quartieri della Striscia si sono verificati violenti combattimenti. Nel quartiere Schejaiya della città di Gaza, sulla linea gialla, dove l'IDF mantiene attualmente una cintura di sicurezza, gli uomini armati di Hamas si sono scontrati con i membri del clan Hellis. A Beit Lahia ci sono stati scontri tra uomini armati vicini ad Ashraf al-Mansi e le forze di Hamas. Nel quartiere di Tel al-Hawa, nella città di Gaza, anche i clan locali hanno opposto resistenza quando gli uomini di Hamas hanno cercato di arrestare importanti capi famiglia ed esecutori. Domenica, gli scontri tra membri del clan Abu Werda e Hamas nei pressi del porto di Gaza hanno causato la morte di tre combattenti di Hamas e due membri del clan, oltre a decine di feriti. I combattimenti più violenti si sono verificati nel quartiere Sabra della città di Gaza, dove Hamas ha incontrato il potente clan Doghmush. I combattimenti si sono concentrati principalmente intorno al complesso al-Dhamsha, nel cuore del quartiere. Fino a domenica, secondo quanto riportato, almeno 52 membri del clan e 12 terroristi di Hamas sono stati uccisi. Secondo alcuni video provenienti dalla zona, Hamas ha fatto irruzione nel territorio delle famiglie utilizzando ambulanze come copertura. “È un massacro”, ha detto la figlia di un membro del clan. “Portano via le persone, i bambini urlano e muoiono, bruciano le nostre case”. Parallelamente agli scontri, Hamas sta effettuando una serie di esecuzioni pubbliche orchestrate. In un video diffuso di recente dalla Striscia di Gaza si vedono otto uomini bendati inginocchiati a terra, circondati da una folla enorme che grida e scandisce “Allahu Akbar”. Il video mostra poi diversi combattenti mascherati di Hamas che sparano ai prigionieri a distanza ravvicinata con i loro fucili. Secondo quanto riferito, queste esecuzioni pubbliche stanno avvenendo in tutta la Striscia, con centinaia di vittime finora.
• “Vincerà chi è più incline alla violenza” Il tenente colonnello in pensione Maurice Hirsch, direttore dell'Initiative for Palestinian Authority Accountability and Reform presso il Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs ed ex capo della procura militare per la Giudea e la Samaria, ha spiegato che la disponibilità di Hamas a ricorrere alla violenza estrema le conferisce un vantaggio nella guerra civile in corso. “Chiunque sia più incline alla violenza vincerà. Al momento, sembra che Hamas, con il suo apparato, sia pronto e in grado di essere il gruppo più violento, senza alcuna restrizione”, ha detto Hirsch a JNS. “Se gli altri gruppi non sono disposti a combattere e difendersi allo stesso modo, sarà molto difficile resistere a Hamas”. Le purghe condotte da Hamas in tutta la Striscia hanno suscitato ampie condanne. Anche il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha usato parole dure in riferimento alle esecuzioni, affermando: “Hamas è tornata ai suoi ben noti metodi di menzogne e abusi sulle famiglie”. Le ha definite un esempio di “terrorismo nazista”. Anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha condannato le uccisioni e giovedì ha scritto in un post su Truth Social: “Se Hamas continuerà a uccidere persone a Gaza, cosa che non faceva parte dell'accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderli”. Anche il comandante del CENTCOM, l'ammiraglio Brad Cooper, ha condannato le esecuzioni e mercoledì, in una dichiarazione scritta, ha esortato Hamas a «cessare immediatamente la violenza e gli attacchi contro civili palestinesi innocenti a Gaza». Cooper ha aggiunto di aver comunicato la sua preoccupazione ai mediatori. - I clan Mentre la guerra tra clan entra nella sua seconda settimana, si sta rivelando un fattore cruciale per il futuro della Striscia di Gaza. L'antica struttura clanica, un tempo dominante in gran parte del Medio Oriente, persiste ancora oggi a Gaza, così come in Giudea e Samaria. “Ciascuno di questi gruppi ha una propria organizzazione interna, le proprie armi e la propria capacità di lottare per qualsiasi parte delle strutture governative o economiche che riesce a ottenere”, ha spiegato Hirsch. Questa forma di struttura sociale tribale si è storicamente mal conciliata con l'ascesa di blocchi ideologici palestinesi come Hamas e Fatah, causando spesso conflitti di lealtà. Hirsch ha inoltre osservato che alcuni di questi clan si sono espansi e controllano gran parte della popolazione di Gaza. “Ogni clan è ovviamente diverso, ma su larga scala alcuni di essi raggiungono dai 10.000 ai 20.000 membri. Sono attori molto importanti e influenti che controllano centinaia, se non migliaia, di esecutori”, ha affermato.
• Ostacoli temporanei Il generale di brigata in pensione (riserva) Yosef Kuperwasser, direttore del Jerusalem Institute for Strategy and Security (JISS), ha spiegato che, nonostante la notevole influenza delle tribù nella società di Gaza, "nessuno di questi clan rappresenta una vera minaccia per Hamas. “Anche dopo questi due anni di combattimenti, Hamas è ancora molto più efficiente dal punto di vista organizzativo e molto meglio armato dei clan”, ha detto Kuperwasser a JNS. "Ma nelle loro aree o regioni controllate, le famiglie possono rappresentare un ostacolo temporaneo. “Inoltre, alcuni di questi gruppi operano in regioni controllate da Israele, quindi non c'è Hamas che possa opporsi a loro”, ha aggiunto. Kuperwasser ha sottolineato che, sebbene non siano in grado di distruggere Hamas, i clan sono comunque in grado di esaurire in modo significativo le sue risorse e la sua forza lavoro. “Anche se Hamas è più forte dei clan, subisce comunque perdite piuttosto pesanti a causa di tutti questi combattimenti. Hamas sarà sicuramente indebolito da tutte queste lotte interne”, ha spiegato Kuperwasser.
• Cinque centri di potere tribali come opposizione centrale a Hamas nella Striscia di Gaza
1- Clan Doghmush (Città di Gaza): La sfida centrale al potere di Hamas nella città di Gaza è rappresentata dal clan Doghmush. È ampiamente considerato il clan più potente della città e ha da tempo un rapporto teso con Hamas. I membri del clan sono stati storicamente legati sia a Hamas che a Fatah. Il clan è guidato da Mumtaz Doghmush, noto anche come Abu Muhammad, che un tempo era a capo dell'ala armata dei Comitati di resistenza popolare a Gaza City. Il clan è diventato famoso nel 2006, quando Abu Muhammad ha fondato l'Esercito dell'Islam, una milizia indipendente sotto il suo controllo. L'Esercito dell'Islam ha svolto un ruolo chiave nel rapimento del soldato dell'IDF Gilad Shalit nel giugno 2006. Successivamente, Mumtaz Doghmush e la sua milizia hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico. Da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia di Gaza nel giugno 2007, il clan Doghmush ha mantenuto una base di potere in gran parte indipendente da Hamas. All'inizio del 2024, Hamas ha iniziato ad accusare il clan di collaborare con Israele, il che ha portato all'esecuzione di Saleh Doghmush, il mukhtar del clan, nel mese di marzo.
2- Clan Hellis (Schejaiya, Gaza City): Un altro polo di potere è il clan Hellis. Ha sede nel quartiere di Schejaiya ed è politicamente legato a Fatah. La famiglia Hellis è da tempo nemica di Hamas. Negli ultimi decenni ha subito ripetute incursioni e rappresaglie armate da parte di Hamas, tra cui un'invasione nel 2008 che ha causato decine di morti e costretto molti membri del clan a fuggire verso i valichi israeliani. Dopo l'attuale cessate il fuoco, il leader del clan Rami Hellis si è alleato con Ahmed Jundeya, membro di un altro clan di Schejaiya, per formare un gruppo armato che combatte contro il controllo di Hamas nelle zone del quartiere sotto l'influenza dell'IDF. Alcuni media stimano la forza del gruppo vicino a Hellis a circa 400 uomini, anche se la catena di comando e il pieno sostegno del clan rimangono non confermati.
3- Ashraf al-Mansi (Beit Lahia, nord): All'estremo nord della Striscia, a Beit Lahia, anche Ashraf al-Mansi ha organizzato una milizia anti-Hamas. Martedì Al-Mansi ha pubblicato un video in cui respingeva le notizie secondo cui Hamas avrebbe attaccato o arrestato i suoi combattenti. Ha affermato che le notizie sulle recenti vittime sono “false” e ha sostenuto che il suo gruppo ha preso il controllo di diverse zone nel nord per metterle in sicurezza, in modo che i civili possano tornare. Ha lanciato un avvertimento diretto a Hamas: ogni suo combattente che entrerà nell'area controllata dalla milizia “sarà trattato esattamente come Hamas tratta i membri delle milizie”.
4- Clan Al-Majayda (Chan Yunis): A Chan Yunis, il clan al-Majayda è emerso come un importante sfidante di Hamas. Il clan, vicino a Fatah, è stato storicamente un importante mediatore in alcune parti della Gaza centrale. Tuttavia, all'inizio di ottobre sono scoppiati scontri armati tra il clan e gli esecutori dell'unità Arrow di Hamas, dopo che Hamas aveva sparato alle gambe di diversi membri della famiglia. I combattimenti si sono conclusi con la morte di cinque membri del clan e undici terroristi di Hamas. La milizia del clan è guidata da Hossam al-Astal, che sfida costantemente il dominio di Hamas nel quartiere Kizan al-Najjar di Khan Yunis. La milizia ha attirato l'attenzione quando l'IDF ha eliminato un combattente di Hamas che aveva tentato di attaccare le sue forze a Khan Yunis. Secondo quanto riportato da Gaza, sono stati uccisi oltre 22 terroristi di Hamas.
5- Forze popolari / Forze beduine (Rafah orientale): L'ultima grande forza contro Hamas nella Striscia di Gaza sono le Forze popolari (milizia popolare) di stampo beduino, guidate da Yasser Abu Shabab, attive nella parte orientale della città di Rafah. Israele ha ammesso di aver fornito direttamente armi e sostegno alla milizia di Abu Shabab durante la guerra. Grazie all'accesso alle armi e agli aiuti finanziari, Abu Shabab è riuscito a reclutare centinaia di combattenti nel sud della Striscia di Gaza. La sua truppa è stimata tra i 400 e i 1.000 combattenti. Un portavoce della milizia ha recentemente affermato che essa non si lascerà intimidire dalle purghe di Hamas. “Proprio come Hamas ha ceduto alle pressioni e ha accettato di rilasciare gli ostaggi, alla fine rinuncerà anche alle sue armi pesanti”, ha affermato.
• Il futuro di Gaza L'improvviso aumento della guerra tra clan non promette nulla di buono per il previsto disarmo di Hamas. Hamas ha apertamente segnalato il proprio rifiuto delle condizioni dell'accordo di cessate il fuoco mediato dal presidente Trump, che richiede il suo completo disarmo. Ha dichiarato che l'attuale mobilitazione non è una misura a breve termine, ma una politica generale. “Non possiamo lasciare Gaza ai ladri e alle milizie sostenute dall'occupazione israeliana. Le nostre armi sono legittime. Esistono per resistere all'occupazione e rimarranno finché esisterà l'occupazione”, ha dichiarato domenica alla BBC un funzionario di Hamas. Ahmad Sharawi, analista di ricerca presso la Foundation for Defense of Democracies (FDD), ha scritto in un recente comunicato stampa: "Hamas sta ora regolando i conti a Gaza. Dopo due anni di guerra, i suoi terroristi sono usciti dai loro tunnel per affrontare coloro che si sono opposti a loro. Abbiamo visto clan e milizie armate sfidare il dominio del gruppo e la sua decisione di devastare la striscia costiera. “Questo momento dimostra che Hamas intende mantenere le sue armi, una realtà che dovrà essere affrontata con criteri chiari e meccanismi di applicazione quando inizieranno i negoziati di fase due sul disarmo”, ha aggiunto. Finora Israele non ha definito una politica concreta in merito al conflitto clanico emergente. Secondo quanto riferito, Gerusalemme sta attualmente conducendo colloqui con gli Stati Uniti per istituire zone sicure dietro la linea gialla, dove i gazawi che vogliono sfuggire al regime di terrore di Hamas possano trovare rifugio. Tuttavia, alcuni analisti hanno esortato Israele ad assumere un ruolo più attivo nel conflitto tra clan. In un'intervista a Ynet, giovedì un alto funzionario della sicurezza israeliana ha affermato che è necessario “agire ora” per proteggere i clan di Gaza che hanno combattuto contro Hamas durante la guerra. “Non possiamo lasciarli nelle mani di Hamas”, ha affermato. Hirsch ha aggiunto che la politica di Israele riguardo alla guerra tra clan potrebbe avere un impatto diretto anche sulle prospettive di normalizzazione con vari clan in Giudea e Samaria. “Se sei uno dei capi tribù della Giudea e della Samaria, ciò che sta accadendo ora ti renderà molto riluttante a schierarti apertamente con Israele, se non sai se in cambio otterrai questo sostegno”, ha affermato.
(Israel Heute, 20 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Hamas rifiuta di disarmarsi e consolida nuovamente il proprio controllo su Gaza
Mentre l'Occidente festeggia un “piano di transizione”, Hamas emerge dai tunnel per giustiziare i rivali, rifiutare il disarmo e consolidare il proprio potere.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - Non c'è alcun dubbio su chi comanda a Gaza. A meno di due settimane dalla tregua mediata dagli Stati Uniti, i combattenti di Hamas sono riemersi dal loro sistema di tunnel, non per partecipare alla ricostruzione, ma per rintracciare i critici, uccidere i rivali e ristabilire il loro dominio basato sulla paura. Venerdì, da Doha, l'alto funzionario di Hamas Mohammed Nazzal ha dichiarato a Reuters che l'organizzazione non può impegnarsi a disarmarsi, una condizione fondamentale dell'iniziativa di pace in 20 punti del governo Trump. “Non posso rispondere sì o no”, ha ammesso Nazzal, mettendo in discussione l'intero piano. “A chi dovrebbero essere consegnate le armi?” Invece di sciogliersi, Hamas intende rimanere attivo militarmente e politicamente dominante durante la “fase di transizione” proposta. In teoria, potrebbe governare un'amministrazione tecnocratica, ma Nazzal ha chiarito: “Hamas sarà presente sul terreno”. Questa presenza è già tangibile. Secondo alcune segnalazioni, Hamas sta giustiziando gli abitanti di Gaza sospettati di collaborare con Israele o di criticarlo. Secondo Moumen al-Natour, un avvocato di Gaza fuggito nella clandestinità ed ex prigioniero politico, che ha parlato con Fox News: "I combattenti di Hamas sono usciti dai tunnel e hanno massacrato le famiglie che si erano opposte a loro... Stanno inviando il segnale che sono tornati, attraverso il terrore“. La scorsa settimana sono state filmate e trasmesse crudeli esecuzioni pubbliche in territorio controllato da Hamas. Nazzal ha difeso le scene, definendole ”misure eccezionali durante la guerra". Tutto per la pace transitoria. Nel frattempo, il governo israeliano afferma che Hamas ha già violato la prima fase del cessate il fuoco non restituendo tutti i corpi degli ostaggi israeliani assassinati. “Hamas sa dove si trovano i corpi”, ha dichiarato inequivocabilmente l'ufficio del primo ministro. “Devono essere disarmati nell'ambito di questo accordo. Senza se e senza ma. Non l'hanno fatto”. La proposta di pace presentata dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 29 settembre prevede il ritiro israeliano da gran parte della Striscia di Gaza, il rilascio degli ostaggi in cambio di migliaia di prigionieri palestinesi e l'amnistia per i membri di Hamas che depongono le armi. Quest'ultimo punto appare ormai quasi assurdo. “Sono gli unici che non hanno ancora accettato il piano”, ha ammesso Trump. “Ma ho la sensazione che otterremo una risposta positiva”. Hamas, tuttavia, ha già risposto con esecuzioni, scuse e un aperto rifiuto di deporre le armi. Quello a cui stiamo assistendo non è un processo di pace, ma la ri-legittimazione di Hamas sotto bandiera diplomatica. L'organizzazione terroristica al potere a Gaza viene normalizzata politicamente, mentre continua ad assassinare i suoi oppositori, a violare i termini del cessate il fuoco e a rifiutare i presupposti fondamentali per la pace. Il linguaggio dell'“amministrazione transitoria” ha poco significato se gli uomini armati non hanno alcuna intenzione di scomparire.
(Israel Heute, 19 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it) ____________________
Le chiacchiere di quelli che parlano di vittoria di Israele e lodano Trump come moderno "principe della pace" cominciano a diventare insopportabili. M.C.
Perché Dio ha creato il mondo? - 17Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il metodo di azione di Dio
Nel modo in cui Dio si mette in relazione con qualcuno che vuole coinvolgere nel suo progetto redentivo si possono riconoscere quattro passaggi:
Dio annuncia all’uomo quello che intende fare in un futuro più o meno prossimo;
dà precisi ordini e promesse (o minacce) in relazione al suo annuncio;
compie qualche atto potente che manifesti all’uomo la Sua credibilità;
osserva la libera reazione dell’uomo.
Dio valuta la reazione dell’uomo e in base ad essa compie una nuova mossa.
Dio segue questo “schema operativo” con Mosè:
Dio annuncia a Mosè la sua intenzione di liberare il suo popolo che è in Egitto (Esodo 3:7-9);
gli dà precisi ordini sul compito che deve svolgere (3:10);
gli fa vedere la sua potenza con atti prodigiosi (3:11, 4:1-5);
osserva Mosè che rifiuta di sottoporsi al suo ordine (4:13).
Dio si adirà e ripete l’ordine in modo netto, aggiungendo altre istruzioni (4:14-17).
Lo stesso schema usa anche con il Faraone:
Dio informa il Faraone che il suo popolo deve fargli una festa nel deserto (Esodo 5:1);
gli mostra la sua potenza con il bastone di Aaronne che ingoia i serpenti dei maghi (7:10-12);
osserva il Faraone che rifiuta di sottoporsi al suo ordine (7:13).
Dio ripete l’ordine aggiungendo una minaccia (7:16-18).
Dio seguirà questo schema altre nove volte nel suo rapporto col Faraone, iniziando dal punto 2.
Elencando distintamente questi passaggi, si vogliono sottolineare due cose:
Si conferma che il personaggio principale dei racconti biblici è Dio stesso, e dunque che da Lui si deve sempre cominciare per cercare di capire i racconti biblici. Non hanno senso valutazioni di atti e parole dei vari personaggi sulla base di valori morali universali che non siano riconducibili direttamente al Dio che si rivela nella Bibbia.
Si mette in evidenza, (punto 4), che la libertà dell’uomo è una possibilità donata da Dio in certi momenti ed entro certi limiti, con la riserva (punto 5) di farne una sovrana valutazione e di trarne le opportune conseguenze.
Nel gioco sempre riapparente tra libertà dell’uomo e sovranità di Dio, qui si vuole sottolineare che la libertà è parte della creazione, come l’uomo stesso. È ridicolo dunque fare della libertà astratta una bandiera con cui ergersi in concorrenza con Dio. Ma d’altra parte, con le zone di libertà concesse da Dio all’uomo nel suo piano di redenzione, questi acquista la massima dignità compatibile con la sua posizione di creatura, perché Dio decide, in certi momenti e in certe zone del Suo programma, di autolimitarsi per aspettare la decisione dell’uomo.
L’esistenza di questi spazi di libertà porta a concludere che la direzione in cui si è avviata la storia biblica in certe biforcazioni critiche è conseguenza di scelte che Dio aveva riservato all’uomo. Si può pensare allora che avrebbero potuto anche essere diverse, poiché non interamente determinate da quanto avvenuto nel passato.
Il primo esempio è stato discusso già all’inizio di questa trattazione, ed è Adamo, che avendo ricevuto da Dio la libertà di scegliere se mangiare il frutto proibito oppure no, ha liberamente scelto e la sua scelta ha determinato la forma assunta in seguito dal creato.
Uomini che invece hanno fatto scelte positive, come Noè e Abramo, avendole fatte nello spazio di libertà a loro riservato, hanno contribuito alla formazione e all’esecuzione del progetto redentivo di Dio, che dunque si costruisce in itinere, perché prevede fin dall’inizio la presenza della “variabile uomo”.
• Lo schema operativo in relazione a Israele
Nel discorso fatto fino ad ora abbiamo parlato di Dio nei rapporti con l’uomo, ma nella concretezza dei fatti storici l’interlocutore fondamentale di Dio è Israele. Con la precisazione che quando si usa questo termine senza altre specificazioni si deve intendere Israele come personalità corporativa, come un unicum di terra, popolo e nazione. Dunque nella lettura biblica, dopo aver posto l’attenzione sul modo di muoversi di Dio, il successivo sguardo deve posarsi su Israele come un tutto.
Nei capitoli dell’Esodo considerati fino ad ora ci sono varie figure che possono attirare l’attenzione, come Mosè, con le sue interessanti storie del cesto abbandonato sul fiume, del roveto ardente che non si consuma, della sua relazione tempestosa con Dio; poi il Faraone, Aaronne, e i maghi egiziani. Ma se di tutta questa storia si dovesse chiedere qual è il fatto centrale, quello a cui tutti gli altri fatti concorrono, la risposta giusta sarebbe una sola: la nascita di Israele come popolo di Dio. È questo il fatto fondamentale che costituisce un punto di arrivo di tutto ciò che è avvenuto prima e un punto di partenza di tutto ciò che avverrà dopo.
Il libro dell’Esodo occupa un posto di rilievo nella Bibbia, perché la nascita e i primi passi di Israele nella storia costituiscono uno snodo fondamentale nel tragitto che Dio seguirà nel Suo piano. Se nella rappresentazione dottrinale che si vorrebbe farne si pongono male i binari, la successiva prosecuzione del viaggio potrebbe far arrivare alle più strampalate “stazioni teologiche”.
Il modo in cui nasce Israele è già ricco di rivelazione. Continuando nel paragone con il parto, si può dire che la nascita non è avvenuta per parto cesareo, cioè con sanguinose rivoluzioni che hanno lacerato il corpo della partoriente. Si potrebbero sollevare obiezioni pensando alla violenza della strage dei primogeniti, ma questa si può considerare piuttosto come una spinta artificialmente provocata, che una volta avvenuta ha reso possibile un parto “naturale” con soddisfazione di tutti.
Collegandosi alla riflessione fatta sopra, si può dire che Dio ha aspettato fino a che entrambe le parti si pronunciassero, esprimendo il loro esplicito consenso a che il distacco avvenisse.
Per la parte del Faraone, si può precisare che le dieci piaghe non sono crudeli punizioni inflitte per episodi di disubbidienza, ma, al contrario, sono pressanti inviti di Dio al Faraone affinché si decida a partecipare, con vantaggi anche suoi, all’opera di formazione del popolo con cui Dio vuole benedire il mondo, e dunque anche l’Egitto.
Si può immaginare una scena di questo tipo. Dio ha deciso, per motivi che risiedono nel suo metodo di azione (nella sua “politica”, potremmo dire), di non usare la forza per strappare Israele dal grembo dell’Egitto, ma di fare in modo che sia il Faraone stesso a dare agli ebrei l’ordine di uscire. Definito questo, il Signore deve cercare i modi per convincere il Faraone a emettere, motu proprio, un “foglio di via” per la comunità ebraica. Non c’è dubbio che Dio avrebbe preferito far nascere il suo popolo in un modo più tranquillo, affidando anche al Faraone una parte onorevole nel suo programma, come aveva fatto col Faraone “che aveva conosciuto Giuseppe”. Ma se non vuole usare la forza, deve convincerlo. Dunque si muove con gradualità. Comincia piano: col bastone di Aaronne che trasformato in serpente ingoia tutti i serpenti dei maghi egiziani. È come dirgli: lascia stare Faraone, non t’impuntare; hai visto che sei più debole; fa’ come ti dico e tutto andrà per il meglio. E invece no: rifiuti su rifiuti. Il Faraone non vuole essere umiliato dal Dio di Mosè, e su istigazione di Satana vuol far vedere a Mosè che lui non ha paura del suo Dio, quindi non si piegherà. Anzi è lui che vuole mettere paura a Mosè, e minaccia di ucciderlo se si ripresenterà (Esodo 10:28).
A questo punto Dio deve rimettere le cose a posto. Farà una cosa che dovrà avere un effetto di deterrenza non solo per il Faraone, ma anche per tutti gli dèi egiziani suoi presunti protettori (Esodo 12:12). Il terrorizzante effetto ci fu, e il Faraone decise, “di sua iniziativa”, di dare l’ordine che Dio aveva previsto fin dall’inizio.
Con ciò è stata fatta giustizia: la giustizia di Dio creatore che si manifesta nell’esercizio della Sua sovranità sulla creatura.
• Pieno successo in politica interna
Ma Dio non vuole neppure che il suo popolo sia trascinato fuori dall’Egitto contro la sua volontà. L’uscita avverrà quando Israele, come un sol uomo, risponderà con convinzione alla Parola di Dio arrivatagli attraverso Mosè e si dichiarerà pronto ad uscire dall’Egitto e a mettersi in marcia verso la terra promessa. Anche lui dunque Dio dovrà cercare di convincere.
I personaggi che intervengono in modo significativo nella trattativa sono tre: Dio, Mosè e il popolo. Quest’ultimo compare tutte le volte che si parla di “anziani d’Israele” o “anziani dei figli d’Israele”.
È da sottolineare che in tutto questo tempo Dio rivolge la parola soltanto a Mosè, da solo o insieme ad Aaronne”. Mosè dunque sta in una posizione intermedia fra Dio e il popolo, perché per origine appartiene alla stirpe dei figli d’Israele, ma è cresciuto alla corte del Faraone, dunque non ha sofferto insieme alla comunità dei vilipesi ebrei. E oltre a questo, all’età di quarant’anni è scappato all’estero non si è più fatto vedere per altri quarant’anni. Ma non è il caso di fare commenti moralistici: se il Signore ha scelto Mosè per lo svolgimento del suo piano, avrà avuto certamente le sue buone ragioni, come nel caso di Abramo, e Dio non è obbligato a rispondere alle nostre eventuali obiezioni.
Anche con Israele Dio agisce secondo lo schema operativo indicato sopra. Annuncia il suo programma di liberazione, ordina al popolo di ubbidire agli ordini di Mosè, fa eseguire davanti a loro fatti prodigiosi e osserva la reazione del popolo alle parole che l’Eterno aveva detto a Mosè. La prima reazione fu indubbiamente buona, perché a queste parole “Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione,si inchinarono e adorarono” (Esodo 4:31).
L’Eterno allora inviò Mosè e Aaronne dal Faraone, ma qui purtroppo ci fu quella brutta caduta di Mosè di cui abbiamo trattato estesamente in precedenza. Mosè non osò riportare al Faraone le esatte parole ricevute da Dio e per gli ebrei le cose peggiorarono tremendamente. Così quando Mosè ricevette l’ordine di ripetere ai figli d’Israele la volontà di Dio per loro, “essi non diedero ascolto a Mosè, a causa dell'angoscia del loro spirito e della loro dura schiavitù” (Esodo 6:9).
La reazione del popolo alla volontà di Dio si era modificata e allora Dio ha dovuto compiere una nuova mossa.
Riguardando il nostro schema operativo, si vede che i punti 1) e 2) restano invariati. Cambia invece il punto 3) perché Dio deve fare altri atti potenti davanti al popolo. E questi sono, per l’appunto, le dieci piaghe, che oltre a far capire al Faraone che l’Eterno è il Dio sopra tutti gli dèi che mantiene la sua parola in fatto di minacce, servono anche a convincere il popolo, dalla quarta piaga in poi, che l’Eterno è il Dio degli Ebrei che mantiene la sua parola in fatto di promesse. Così con gli stessi colpi che piombano sull’Egitto, il Signore ottiene due risultati: il Faraone si indurisce e sarà punito, i figli d’Israele si ammorbidiscono e saranno liberati.
Dopo essere stato informato di quello che avrebbe fatto Dio in “quella notte”
“Mosè chiamò tutti gli anziani d'Israele, e disse loro: “Sceglietevi e prendetevi degli agnelli per le vostre famiglie, e immolate la Pasqua” (Esodo 12:21).
E dettò i particolari di quello che dovevano fare per immolare il sacrificio della Pasqua e non essere colpiti dal passaggio dell’angelo sterminatore. E concluse con queste parole:
“Questo è il sacrificio della Pasqua in onore dell'Eterno, il quale passò oltre le case dei figli d'Israele in Egitto, quando colpì gli Egiziani e salvò le nostre case” (12:22).
I figli d’Israele mostrarono con un atto significativo di aver compreso quelle parole e di averle accettate:
“E il popolo si inchinò e adorò. E i figli d'Israele andarono, e fecero così; fecero come l'Eterno aveva ordinato a Mosè e ad Aaronne” (12:28).
Il Signore dunque riuscì a convincere il popolo a diventare parte organica del suo progetto redentivo, anche se in quella notte i figli d’Israele capirono soltanto che avrebbero lasciato l’Egitto e si sarebbero incamminati verso una meravigliosa terra in cui “scorre il latte e il miele”.
Fu la fine di un’epoca:
I figli d'Israele dimorarono in Egitto quattrocentotrent'anni. E al termine di quattrocentotrent'anni, proprio il giorno che finivano, tutte le schiere dell'Eterno uscirono dal paese d'Egitto (Esodo 12:40-41),
e l’inizio di un’altra, perché il popolo uscì dalla terra di schiavitù con un preciso ordine che lo vincolerà a Dio per sempre:
“Questa è una notte da celebrare in onore dell'Eterno, perché egli li trasse fuori dal paese d'Egitto; questa è una notte consacrata all'Eterno, per essere osservata da tutti i figli d'Israele, d'età in età” (Esodo 12:42).
Come poi è avvenuto “d'età in età” fino al giorno d’oggi.
(Notizie su Israele, 19 ottobre 2025)
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, vi moltiplichiate, ed entriate in possesso del paese che l'Eterno giurò di dare ai vostri padri.
Ricordati di tutto il cammino che l'Eterno, il tuo Dio, ti ha fatto fare questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma vive di tutto quello che la bocca dell'Eterno avrà ordinato.
Il tuo vestito non ti si è logorato addosso, e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant'anni.
Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge suo figlio, così il tuo Dio, l'Eterno, corregge te.
E osserva i comandamenti dell'Eterno, del tuo Dio, camminando nelle sue vie e temendolo; perché il tuo Dio, l'Eterno, sta per farti entrare in un buon paese: paese di corsi d'acqua, di laghi e di sorgenti che nascono nelle valli e nei monti; paese di frumento, di orzo, di vigne, di fichi e di melograni; paese di ulivi da olio e di miele; paese dove mangerai del pane a volontà, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro, e dai cui monti scaverai il rame.
Mangerai dunque e ti sazierai, e benedirai l'Eterno, il tuo Dio, a motivo del buon paese che ti avrà dato.
Guardati bene dal dimenticare il tuo Dio, l'Eterno, al punto da non osservare i suoi comandamenti, le sue prescrizioni e le sue leggi che oggi ti do; affinché non avvenga, dopo che avrai mangiato a sazietà e avrai costruito e abitato delle belle case, dopo che avrai visto il tuo bestiame grosso e il tuo minuto moltiplicarsi, accrescersi il tuo argento e il tuo oro, e abbondare ogni cosa tua, che il tuo cuore si innalzi, e tu dimentichi il tuo Dio, l'Eterno, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù; che ti ha condotto attraverso questo grande e terribile deserto, pieno di serpenti velenosi e di scorpioni, terra arida, senza acqua; che ha fatto sgorgare per te dell'acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Guardati dunque dal dire in cuor tuo: 'La mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze'; ma ricordati dell'Eterno, il tuo Dio, poiché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, e per confermare, come fa oggi, il patto che giurò ai tuoi padri.
Ma se tu dimenticherai il tuo Dio, l'Eterno, e andrai dietro ad altri dèi e li servirai e ti prostrerai davanti a loro, io oggi vi dichiaro solennemente che per certo perirete.
Perirete come le nazioni che l'Eterno fa perire davanti a voi, perché non avrete dato ascolto alla voce dell'Eterno, del vostro Dio.
Lettura settimanale – בְּרֵאשִׁית– Bereschit – In principio ; Genesi 1,1 – 6,8 ; Isaia 42,5 – 43,10 Cosa accadde realmente in Paradiso? L'«albero della conoscenza» era solo un simbolo di obbedienza e peccato o nascondeva qualcosa di più profondo, forse anche fisico?
di Anat Schneider
Perché Adamo ed Eva aprirono improvvisamente gli occhi e perché provarono vergogna per la loro nudità? Queste domande antiche ci occupano ancora oggi. In questa riflessione vi invito a rileggere il testo con cuore aperto. Forse scopriremo che la “conoscenza” in paradiso non significava solo sapere, ma il risveglio di un'esperienza profondamente umana. Non è un segreto che il primo libro della Bibbia, Bereschit, sia il mio libro preferito in assoluto, non solo nella Bibbia, ma in generale. Amo i personaggi, i patriarchi e le matriarche, gli anziani delle tribù. Non appena mi immergo nelle storie, ho la sensazione che i personaggi prendano vita davanti a me, permettendomi di percepire i loro sentimenti e comprendendo così meglio ciò che hanno vissuto. Ogni volta che lo leggo, questo libro mi rivela qualcosa di nuovo su me stessa, sul mondo della fede e dello spirito e sul mio sviluppo al suo interno. A volte le intuizioni non sono facili e sono persino impegnative, quindi ho bisogno di tempo per elaborarle. E a volte mi sento persino a disagio nel condividere i miei pensieri con gli altri. Tuttavia, sono disposta a correre questo rischio, pienamente consapevole che non tutti saranno d'accordo o accetteranno ciò che scrivo. E va bene così. Per me è importante che ricordiate: le mie parole sono un'interpretazione soggettiva basata sui testi biblici e ispirata dal mondo ebraico e spirituale. Per questo lo ripeto, è solo un'interpretazione, non siete obbligati ad accettarla. Ma anche se suscita in voi resistenza, vale la pena chiedersi perché e considerare altri punti di vista, a volte molto arricchenti. Questa volta vorrei parlare della storia dell'albero della conoscenza, ben consapevole che ciò che sto per dire non è facile da digerire. Eppure, la domanda che pongo qui è: cos'è l'albero della conoscenza? Cos'è questo albero così importante nel giardino dell'Eden, dal quale Dio proibì all'uomo di mangiare? “Non mangiare dall'albero della conoscenza (sapienza) del bene e del male, perché nel giorno in cui ne mangerai, morirai sicuramente”. Era davvero un melo, come pensiamo spontaneamente? O forse un fico? Per capirlo, dobbiamo considerare la parola “Daat” (דעת) per “conoscenza” e vedere come viene usata in altri punti della Bibbia. La radice della parola דעת (Daat) è י.ד.ע (J.D.A.), che significa conoscenza, consapevolezza, comprensione. Cosa ci dice questa parola in altri contesti biblici? Subito dopo l'espulsione dal paradiso, si legge: “E l'uomo conobbe (ידע) sua moglie Eva, che rimase incinta e partorì Caino”. Questo avviene subito dopo l'espulsione, con gli stessi personaggi, Adamo ed Eva, e questo mi fa capire che c'è effettivamente un nesso tra “e l'uomo conobbe/riconobbe sua moglie” e l'albero della conoscenza/sapienza. Nella storia di Lot si legge: «Quella notte fecero bere del vino al padre. La maggiore andò a coricarsi con lui, ma egli non se ne accorse (לא ידע), né quando lei si coricò né quando si alzò». (Genesi 19,33) E ancora un esempio nella storia di Rebecca: “Era una figlia molto bella, vergine, e non conosceva (לא ידעה) nessun uomo; scese al pozzo, riempì la sua brocca e risalì” (Genesi 24,16). Ci sono altri esempi simili. Se li consideriamo, vediamo che il verbo “conoscere” (ידע) è associato alle relazioni intime, alla sessualità. Trovo che sia una scoperta notevole, non credete? Potremmo quindi chiederci se l'albero della conoscenza fosse forse il risveglio della sessualità. Notate cosa succede subito dopo, appena dopo aver mangiato dall'albero: «Allora si aprirono gli occhi di entrambi e si accorsero di essere nudi; cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture». Subito dopo aver «mangiato» dall'albero, la loro coscienza si apre e si rendono conto della loro nudità. La prima cosa che fanno è coprire le loro parti intime. Ciò indica che il risveglio della coscienza è accompagnato da tre cose: colpa, vergogna e occultamento. Coprono le parti del loro corpo e poi si nascondono anche da Dio, vergognandosi del loro atto, il sesso. Questa storia mi suggerisce che mangiare dall'albero della conoscenza ha portato la capacità di scoprire la sessualità e che questa scoperta li ha resi capaci di creare la vita. Perché cosa succede subito dopo, dopo la cacciata dal paradiso? «E l'uomo conobbe (יָדַע) sua moglie Eva, che rimase incinta e partorì Caino». Per questo mi rimane una domanda aperta, un invito alla riflessione: perché Dio disse che sarebbero morti il giorno in cui avessero mangiato dall'albero? Questa domanda rimane aperta davanti a voi, un vero invito a continuare a pregare su di essa e a dare così spazio alla parola di Dio affinché risuoni in voi. Shabbat Shalom, che sia pieno di nuova creazione e di un nuovo inizio benedetto.(Israel Heute, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it) ____________________
«… lo ripeto, è solo un'interpretazione, non siete obbligati ad accettarla. Ma anche se suscita in voi resistenza, vale la pena chiedersi perché e considerare altri punti di vista». Ringraziamo Anat Schneider per la sua “interpretazione soggettiva” della Torah e anche e per l’invito a proseguire nella riflessione. M.C.
Guardate, io metto oggi davanti a voi la benedizione e la maledizione:
la benedizione, se ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, del vostro Dio, i quali oggi vi do;
la maledizione, se non ubbidite ai comandamenti dell'Eterno, del vostro Dio, e se vi allontanate dalla via che oggi vi prescrivo, per andare dietro a dèi stranieri che voi non avete mai conosciuto.
E quando l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà introdotto nel paese nel quale vai per prenderne possesso, tu pronuncerai la benedizione sul monte Gherizim, e la maledizione sul monte Ebal.
Questi monti non sono di là dal Giordano, dietro la via di ponente, nel paese dei Cananei che abitano nella pianura di fronte a Ghilgal presso le querce di More?
Poiché voi state per passare il Giordano per andare a prendere possesso del paese, che l'Eterno, il vostro Dio, vi dà; voi lo possederete e vi abiterete.
Abbiate dunque cura di mettere in pratica tutte le leggi e le prescrizioni, che oggi io pongo davanti a voi.
Capitolo 12
Quando l'Eterno, il tuo Dio, avrà sterminato davanti a te le nazioni là dove tu stai per andare a spodestarle, e quando le avrai spodestate e ti sarai stabilito nel loro paese,
guardati bene dal cadere nel laccio, seguendo il loro esempio, dopo che saranno state distrutte davanti a te, e dall'informarti dei loro dèi, dicendo: 'Come servivano i loro dèi queste nazioni? Anch'io voglio fare lo stesso'.
Non farai così riguardo all'Eterno, al tuo Dio; poiché esse praticavano verso i loro dèi tutto ciò che è abominevole per l'Eterno e che egli detesta; davano perfino alle fiamme i loro figli e le loro figlie, in onore dei loro dèi.
Avrete cura di mettere in pratica tutte le cose che vi comando; non vi aggiungerai nulla, e nulla ne toglierai.
Il denaro e i centri di intelligenza artificiale sono una panacea per la pace?
Miliardi di dollari affluiscono nella Striscia di Gaza, ma il capitale può sanare vecchie inimicizie o crea solo nuove dipendenze?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Mentre miliardi di dollari vengono investiti nella ricostruzione della Striscia di Gaza e miliardari del settore tecnologico come Jared Kushner, Peter Thiel e Larry Ellison cercano di realizzare la loro visione di una zona high-tech esente da tasse, sorge una domanda fondamentale: il capitale è sufficiente per risolvere decenni di conflitti in Medio Oriente? Le tensioni storiche, bibliche e ideologiche tra Israele, i palestinesi e gli Stati arabi caratterizzano profondamente la regione e non possono essere semplicemente messe da parte con investimenti, centri di intelligenza artificiale o start-up di lusso. L'ambizione economica può colmare i vecchi divari o alla fine il denaro serve solo come nuovo strumento per assicurarsi potere, influenza e controllo geopolitico? A mio parere, il denaro può finanziare la pace, ma non crearla.
Dopo la guerra, la Striscia di Gaza potrebbe trasformarsi in una zona high-tech esente da tasse, aprendo così la strada alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita. Anche Jared Kushner e Peter Thiel sono coinvolti. Il progetto di ricostruzione da miliardi di dollari sta già attirando Stati, investitori ed ex capi di governo. Kushner vuole creare centri di intelligenza artificiale, mentre i finanziatori internazionali cercano un clima di investimento liberale. Gli esperti vedono in questo un possibile trampolino di lancio economico per un avvicinamento tra Arabia Saudita e Israele, anche grazie all'influenza di Kushner. Ma la strada per arrivarci è irta di ostacoli: Hamas è un ostacolo sia dal punto di vista politico che della sicurezza. Il massacro del 7 ottobre avrebbe dovuto impedire proprio questo sviluppo e ha congelato per il momento il progetto di normalizzazione tra Gerusalemme e Riad, mentre Riad e Parigi stanno ora spingendo per il riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese.
Allo stesso tempo, la casa reale saudita continua a intrattenere stretti rapporti economici con gli Stati Uniti e si sta affermando come una potenza emergente nel campo dell'intelligenza artificiale. Miliardi di investimenti da parte di Nvidia e Amazon confluiscono in nuove server farm nel regno, tra cui anche progetti con persone vicine al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L'esempio più recente mostra la portata di questo sviluppo: una gigantesca “acquisizione con finanziamento esterno” (LBO) da 55 miliardi di dollari per l'acquisizione del gigante statunitense dei videogiochi Electronic Arts (EA), produttore dei giochi FIFA. L'operazione è finanziata in gran parte dal fondo sovrano saudita PIF, insieme alla Affinity Partners di Jared Kushner, che gestisce quasi esclusivamente capitali sauditi, e alla Silver Lake, un fondo statunitense con stretti legami con gli Emirati. La partecipazione di Kushner a questa operazione attira critiche e attenzione a livello internazionale, in particolare per quanto riguarda i possibili conflitti di interesse tra vicinanza politica e investimenti privati.
L'obiettivo è quello di trasformare l'Arabia Saudita in una superpotenza nel settore dei giochi e dello sport. Ma mentre nella Striscia di Gaza si negozia ancora la fine della guerra, sullo sfondo si sta già formando un nuovo asse geopolitico: Washington, Riad e Gerusalemme, unite da interessi, tecnologia e potere, molto prima che si parli del “giorno dopo”. Mi chiedo davvero in che misura tutti questi investimenti nella Striscia di Gaza possano portare a una vera pace tra i popoli: palestinesi e israeliani, musulmani ed ebrei? È davvero possibile cancellare l'ideologia radicale dei Fratelli Musulmani dalla mente delle persone nella Striscia di Gaza? Inoltre, l'intera proposta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasferire tutti i due milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza per ricostruirla è stata spazzata via dal vento.
Dobbiamo ammettere che progetti economici come la zona high-tech di Kushner nella Striscia di Gaza possono creare le condizioni quadro per la cooperazione, ma non possono sostituire la riconciliazione. Finché Hamas, l'Autorità Palestinese, Israele, l'Arabia Saudita e l'Occidente saranno intrappolati in conflitti ideologici e religiosi per il potere, il denaro non sarà una panacea. Il denaro può finanziare la pace, ma non crearla. Può costruire muri, strade, fabbriche e server farm, ma non può cambiare i cuori, perdonare i peccati e sanare la storia. La vera pace in Medio Oriente, come ovunque, non inizia con gli investimenti, ma con la verità, la giustizia e la conoscenza di Dio. Hadas Lorber, responsabile del progetto Israele-USA presso l'INSS e direttrice dell'Istituto per l'IA responsabile presso l'HIT, vede nella crescente coinvolgimento di Jared Kushner e dell'ex primo ministro britannico Tony Blair nella pianificazione postbellica per la Striscia di Gaza un segnale strategico, anche in vista del riavvicinamento all'Arabia Saudita. “I sauditi e gli emiratini vogliono sedersi al tavolo delle trattative per la ricostruzione della Striscia di Gaza”, ha dichiarato Lorber al quotidiano finanziario israeliano Globes. Secondo i piani di Blair e Kushner, l'intera Striscia dovrebbe essere smilitarizzata, posta sotto l'amministrazione tecnocratica araba e trasformata in una zona start-up esente da tasse: una Singapore nel deserto per il cloud computing, l'IA e la mobilità elettrica. Sono previsti server farm, uno stabilimento Tesla e investimenti da parte di miliardari internazionali come Peter Thiel e Larry Ellison, alla ricerca di zone con una regolamentazione leggera ed esenti da tasse. Ellison sarebbe disposto a investire 350 milioni di dollari nel progetto.
“Trump punta alla stabilità regionale, ma la completa normalizzazione con l'Arabia Saudita continua a dipendere dalle condizioni politiche e dalle richieste palestinesi”, spiega Lorber. Si prevede un modello graduale che rimanda inizialmente decisioni fondamentali come la questione dei due Stati. In futuro Israele potrebbe riconoscere o meno l'autodeterminazione palestinese, a seconda dell'attuazione di determinate condizioni. Nell'era Trump vale una regola: la normalizzazione con Israele passa attraverso leve economiche controllate dagli Stati Uniti. Lorber vede in questo l'inizio di un movimento più ampio che potrebbe coinvolgere anche paesi come l'Indonesia, la Siria, il Libano e gli Stati musulmani africani. Ma queste sono ancora idee lontane all'orizzonte, e qui bisogna davvero chiedersi se il denaro possa davvero portare la pace in Medio Oriente.
I media arabi riportano con diffidenza il gigantesco progetto nella Striscia di Gaza. Al Jazeera scrive: “Il piano arabo per Gaza ha due problemi: Israele e l'Autorità Palestinese”. L'autore Omar H. Rahman spiega che il progetto deve affrontare due ostacoli fondamentali: l'intransigenza di Israele e la debolezza dell'Autorità Palestinese (PA). Non credo che la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza “cambierà idea” sulla sua ideologia radicale profondamente radicata a causa degli investimenti in IA a Rafah, Khan Yunis, Beit Hanun o Gaza City. La loro forte fede musulmana e le strutture sociali e religiose ad essa associate rendono difficile una trasformazione così rapida verso l'alta tecnologia e il liberalismo economico.
E sapete una cosa? La Bibbia afferma chiaramente che la pace (שָׁלוֹם – Schalom) non è il risultato di negoziati politici o di potere finanziario, ma una realtà spirituale che nasce dalla giustizia e dalla verità. «Il frutto della giustizia sarà la pace, e il risultato della giustizia sarà la tranquillità e la sicurezza per sempre», dice il profeta Isaia. La vera pace, secondo le Scritture, non nasce da investimenti, accordi o programmi economici, ma dall'ordine morale, dalla riconciliazione e dal riconoscimento di Dio come fonte di vita. Ogni tentativo di «comprare» shalom senza giustizia è fuorviante. Geremia: «Essi curano superficialmente le ferite del mio popolo, dicendo: “Pace, pace”, ma non c'è pace». Questo antico monito sembra oggi più attuale che mai. Anche ai nostri giorni si cerca di creare la pace attraverso progetti infrastrutturali miliardari, zone high-tech e investimenti internazionali, senza affrontare realmente le profonde ferite della storia, della religione e dell'identità. Ma il benessere materiale non può ricomporre le fratture spirituali e morali dell'umanità. Senza verità e giustizia, ogni «pace comprata» rimane solo una facciata ben intonacata su conflitti irrisolti.
(Israel Heute, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele nella lotta per la sopravvivenza contro Hamas, Hezbollah e Iran
L'ex portavoce delle forze armate israeliane, Arye Sharuz Shalicar, descrive in un nuovo libro le sue esperienze durante la guerra dal 7 ottobre 2023, in qualità di israeliano, portavoce dell'esercito e padre di famiglia.
di Nicolas Dreyer
DRESDA– Arye Sharuz Shalicar ha presentato a Dresda il suo nuovo libro, intitolato “Überlebenskampf: Kriegstagebuch aus Nahost” (Lotta per la sopravvivenza: diario di guerra dal Medio Oriente). La conferenza con lettura è stata organizzata, tra gli altri, dall'associazione Sächsische Israelfreunde (Amici sassoni di Israele).
Durante la lettura, due anni dopo gli attacchi di Hamas contro Israele, l'ex portavoce delle forze di difesa israeliane ha raccontato in dettaglio come è cambiata la vita delle persone in Israele il 7 ottobre 2023. Il Paese e la popolazione si sono immediatamente mobilitati per difendersi. Ha inoltre illustrato come da allora Israele debba difendersi dalle accuse fuorvianti di crimini di guerra e genocidio nei media internazionali e nell'opinione pubblica.
• Dalla lotta per la sopravvivenza personale a quella nazionale Figlio di genitori ebrei persiani, è nato a Gottinga ed è cresciuto a Berlino-Wedding. Già il padre di Shalicar lasciò l'Iran negli anni '70 a causa dell'antisemitismo prevalente. Da adolescente ebreo a Berlino, Arye Shalicar ha sperimentato l'antisemitismo musulmano, che lo ha segnato profondamente. Da giovane adulto, nel 2001 è emigrato in Israele. Dal 2009 al 2016 ha prestato servizio come addetto stampa nell'esercito israeliano e da allora è portavoce della riserva.
Nella conferenza, Shalicar ha spiegato quanto il 7 ottobre 2023 gli abbia riportato alla mente la lotta per la sopravvivenza contro l'antisemitismo della sua giovinezza a Berlino. Questa volta, però, non era più lui come singolo ebreo a dover combattere una lotta per la sopravvivenza imposta dai suoi nemici, ma Israele come Stato ebraico in Medio Oriente.
Nel primo capitolo, intitolato “Tregua”, una voce del 24 giugno 2025, Shalicar parla di una “guerra che Israele non ha iniziato. Una guerra che si è abbattuta su Israele da sette direzioni diverse. Una guerra di sopravvivenza che Israele non avrebbe dovuto perdere in nessun caso. Non può perdere! Perché si trattava e si tratta ancora di sopravvivenza”.
• Punto di svolta per Israele L'autore ha iniziato la sua conferenza con alcune considerazioni sulla situazione di Israele alla vigilia dell'attacco genocida dell'organizzazione terroristica Hamas. Nessuno nel Paese avrebbe potuto immaginare un attacco così violento e una tale vulnerabilità. Al contrario, la popolazione era convinta che le attività di Hamas fossero completamente monitorate da Israele. Alla domanda se Israele esisterà ancora tra cento anni, dopo il 7 ottobre non può più rispondere con la consueta sicurezza. Quel giorno gli ha insegnato che nulla è garantito.
Nel capitolo citato, l'autore usa parole drastiche per sottolineare l'importanza degli attacchi di Hamas per l'identità e la sicurezza di Israele: “Una svolta nella storia moderna del popolo ebraico e dello Stato di Israele. Una svolta anche per me. In Israele, dal 7 ottobre ogni giorno è il 7 ottobre. La caduta è stata troppo profonda, il fallimento troppo grande, la situazione di impotenza e di incapacità troppo traumatizzante”.
Egli continua le sue spiegazioni in un altro punto: «Il massacro del 7 ottobre è il più grave omicidio di massa commesso contro gli ebrei dopo il 1945. Non è il numero delle persone uccise a rappresentare il fattore principale della rottura della civiltà, ma la brutalità degli assassini palestinesi, che hanno smembrato le persone con gioia, le hanno bruciate vive, hanno maltrattato e ucciso bambini accanto ai genitori e genitori accanto ai bambini. »
• Israele sopravvive grazie alla sua forza Nella conferenza del 6 ottobre, Shalicar si è comunque mostrato convinto della forza e della resilienza di Israele. Ciò si è manifestato soprattutto nella rapida ed enorme prontezza al combattimento e nella solidarietà degli israeliani. Quando Israele è stato attaccato la mattina presto del 7 ottobre, gli israeliani si sono sentiti immediatamente chiamati a difendere il loro Paese. Israele se l'è quindi cavata con un “occhio nero”.
Le forze di sicurezza delle località attaccate, i soldati e le forze di polizia accorsi da tutto il Paese hanno combattuto eroicamente gli aggressori provenienti dalla Striscia di Gaza. Senza questo, Israele avrebbe potuto subire un esito ancora peggiore dell'invasione. Anche dal nord avrebbero potuto esserci attacchi da parte di Hezbollah.
La capacità di reazione di Israele nel difendere il Paese è stata eccezionale, ha sottolineato il relatore. Già il 7 ottobre, riservisti israeliani provenienti da tutto il mondo sono volati in Israele per arruolarsi. Nel giro di un giorno, decine di migliaia di riservisti sono stati chiamati alle armi o si sono arruolati volontariamente ai confini meridionali e settentrionali di Israele.
• Approfondimento sulla quotidianità della guerra e sul Medio Oriente Ciononostante, la guerra è stata molto dolorosa e costosa per Israele: il 7 ottobre 1.200 persone sono state uccise in modo orribile, 251 sono state prese in ostaggio, circa 1.000 soldati sono caduti in battaglia e quasi 10.000 sono rimasti gravemente feriti o mutilati. Il relatore ha chiarito quante persone in Israele siano direttamente colpite dalla guerra in termini percentuali, in quanto parenti o amici. Per questo motivo, questa nazione relativamente piccola è molto coinvolta nel loro destino.
Il diario di guerra di Shalicar offre una visione approfondita della sua vita e dell'umore della popolazione israeliana negli ultimi due anni. Nel farlo, alterna i diversi ruoli del narratore autobiografico. Come privato cittadino e padre di famiglia, ad esempio, deve spiegare la guerra a sua figlia.
Tuttavia, come cittadino israeliano che ha scelto Israele come proprio rifugio, vive la stessa crisi esistenziale e la stessa quotidianità di guerra dei suoi connazionali. In qualità di portavoce dell'esercito e importante interlocutore dei politici dell'allora governo federale tedesco, dell'opposizione e dei Länder, spiega loro in dettaglio la realtà in Israele, nella Striscia di Gaza e in Medio Oriente.
• Lotta per l'egemonia mediatica L'opera, pubblicata nel 2025, analizza anche l'attuale crisi mediorientale e le recenti guerre tra Hamas, Iran e Hezbollah da un lato e Israele dall'altro. Descrive la politica nella Striscia di Gaza e l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA). Affronta lo sviluppo dell'opinione pubblica globale e il rafforzamento dell'antisemitismo nel mondo, sia in Germania che altrove. Ciò include anche il ruolo dei media, delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale (CPI).
In un'intervista con Israelnetz, il portavoce dell'esercito della riserva ha approfondito il ruolo dei media, in particolare dell'emittenza pubblica. Questi ultimi avrebbero una grande responsabilità nell'aumento dell'antisemitismo, poiché la loro parzialità contro Israele alimenterebbe il risentimento antiebraico e quindi l'odio verso Israele.
La lotta per l'interpretazione della realtà nella guerra di Gaza si è svolta in modo molto sfavorevole per Israele. I giornalisti dovrebbero essere più accurati e obiettivi nel valutare ciò che sta realmente accadendo e chi è realmente responsabile. Spesso preferiscono concentrarsi sulla questione di dove ci siano più cadaveri.
Shalicar ritiene assolutamente necessario che sia gli israeliani che gli amici di Israele partecipino alla diffusione di una copertura mediatica accurata e non manipolatoria al di là dei media pubblici, anche con l'aiuto dei social media.
• La pace richiede un Israele forte Il libro si conclude con alcuni capitoli in cui vengono esaminati gli attacchi di Israele agli impianti nucleari iraniani, la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza e il ruolo della Fondazione umanitaria di Gaza (GHF). A ciò si aggiungono alcune riflessioni sulla possibilità di una pace.
Shalicar sottolinea in modo impressionante quanto la pace dipenda dall'attenuarsi dell'odio verso gli ebrei in tutto il mondo, in particolare in Medio Oriente, e dal mantenimento di una “posizione di forza” da parte di Israele. Tuttavia, poiché non è prevedibile che l'odio verso Israele diminuisca, “agli ebrei e allo Stato ebraico non resta che una cosa: vivere e amare la vita ed essere sempre pronti, quando sarà di nuovo necessario, a lottare per la sopravvivenza”.
Shalicar è stato chiamato al servizio di riserva il 7 ottobre 2023 e ha prestato servizio per quasi 350 giorni fino alla fine del 2024 come portavoce ufficiale delle forze armate israeliane. In qualità di portavoce dell'esercito di lingua tedesca, è stato “uno dei principali ‘costruttori di ponti’ tra la Germania e Israele nel periodo più difficile per Israele dalla fondazione dello Stato”, come descrive il suo ruolo nel presente libro.
(Israelnetz, 17 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il Portico d’Ottavia è stato anche quest’anno lo sfondo della commemorazione del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Comunità ebraica romana. Sul palco allestito in Largo 16 Ottobre, il ricordo di quanto avvenne allora è stato accompagnato da più di un monito sull’antisemitismo risorgente. Anche in Italia, anche a Roma. «Il 16 ottobre è diventato in qualche modo il simbolo della Shoah italiana», ha affermato per primo il rabbino capo della città Riccardo Di Segni. «E in questa nostra memoria si intersecano due dimensioni che sono parallele, si incrociano e hanno entrambe un senso molto importante. La prima dimensione è quella interna alla comunità ebraica: una memoria viva e incancellabile. La seconda è quella collettiva nazionale e internazionale, che è quella che ha consentito di costruire un’Europa giusta, senza (quasi) più guerra». In questa memoria, ha detto il rav, «c’è stata una progressione». E non è una progressione oggi positiva, ha proseguito Di Segni, parlando di «capovolgimento della memoria, di inversione del circuito virtuoso di collaborazione e condivisione tra comunità ebraica e comunità in generale: siamo allarmati». Per il rav, «la storia è fatta di cose rivelate e cose nascoste», la speranza è che crescano «fecondi semi di pace», ma non è possibile ignorare che «siamo in un momento drammatico di passaggio storico».
«La memoria è una responsabilità civile e collettiva», ha esordito il sindaco Roberto Gualtieri, sottolineando come il rastrellamento «non fu incidente della storia, ma fu generato dalla furia nazifascista e fu il risultato più tragico e sanguinoso dell’incontro tra la secolare storia dell’antisemitismo e regimi nati nel segno dell’odio e del razzismo che fecero dell’antisemitismo un riferimento della loro ideologia di morte». Il sindaco ha ancora ammonito: «Viviamo in un tempo fragile, di guerre e odio antisemita che torna ad affacciarsi, persino in questa città». Per poi aggiungere: «Non c’è spazio per l’odio travestito da militanza o da chi la usa per dividere, bisogna reagire all’antisemitismo anche quando travestito da antisionismo».
Il ricordo del 16 ottobre «non è una pagina di storia ma una ferita viva», ha spiegato il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun, anche perché «prima dei treni piombati ci furono le parole, prima della deportazione ad Auschwitz ci furono le leggi razziste, prima del rastrellamento ci fu la legittimazione dell’odio antiebraico». Ecco, ha proseguito Fadlun, «perché noi oggi ricordiamo: la violenza comincia dalla lingua e dalle parole sbagliate che escono da istinti malvagi e pregiudizi antichi e radicati». Anche il 7 ottobre di due anni fa «degli ebrei sono stati portati via» nel corso dei massacri compiuti da Hamas in Israele, ha ricordato Fadlun. E per questo «siamo qui per dire che la memoria è in pericolo, l’antisemitismo non è scomparso, si è trasformato, è tornato nelle strade, nelle piazze, nei comizi, nelle università, non si nasconde più, non ha più paura di mostrarsi».
È poi intervenuto Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. «Vivere è anche dimenticare certi dolori», ha affermato. «Ma per vivere degnamente noi non possiamo dimenticare questo dolore. Non lo possiamo fare se siamo coerenti con noi stessi e con la nostra storia». Le persecuzioni e la Shoah, ha aggiunto, «furono la conseguenza logica dell’antisemitismo che motivava l’odio e il pregiudizio verso l’ebreo, una storia vecchia che risorge quando si dimentica e si abbassano le difese». Per Riccardi, «siamo in una stagione che volta le spalle alla storia, dominata dall’attualità che passa e si fa prendere da passioni folli e immotivate; si sta perdendo il senso della storia e della memoria».
Questi sono i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che l'Eterno, il vostro Dio, ha ordinato di insegnarvi, perché li mettiate in pratica nel paese nel quale state per passare per prenderne possesso;
affinché tu tema il tuo Dio, l'Eterno, osservando, tutti i giorni della tua vita, tu, tuo figlio e il figlio di tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandamenti che io ti do, e affinché i tuoi giorni siano prolungati.
Ascolta dunque, Israele, e abbi cura di metterli in pratica, affinché tu sia felice e vi moltiplichiate grandemente nel paese dove scorre il latte e il miele, come l'Eterno, l'Iddio dei tuoi padri, ti ha detto.
Ascolta, Israele: l'Eterno, il nostro Dio, è l'unico Eterno.
Tu amerai dunque l'Eterno, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima tua e con tutte le tue forze.
E questi comandamenti che oggi ti do staranno nel tuo cuore;
li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando starai seduto in casa tua, quando sarai per strada, quando ti coricherai e quando ti alzerai.
Te li legherai alla mano come un segnale, ti saranno come frontali tra gli occhi,
e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte.
E quando l'Eterno, il tuo Dio, ti avrà fatto entrare nel paese che giurò ai tuoi padri, Abraamo, Isacco e Giacobbe, di darti; quando ti avrà condotto alle grandi e buone città che tu non hai costruito,
alle case piene di ogni bene che tu non hai riempito, alle cisterne scavate che tu non hai scavato, alle vigne e agli uliveti che tu non hai piantato, e quando mangerai e sarai sazio,
guardati dal dimenticare l'Eterno che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù.
Temerai l'Eterno, il tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome.
Non andrete dietro ad altri dèi, fra gli dèi dei popoli che staranno attorno a voi,
perché il tuo Dio, l'Eterno, che sta in mezzo a te, è un Dio geloso; l'ira dell'Eterno, del tuo Dio, si accenderebbe contro di te e ti sterminerebbe dalla terra.
Non tenterete l'Eterno vostro Dio, come lo tentaste a Massa.
Osserverete diligentemente i comandamenti dell'Eterno vostro Dio, le sue istruzioni e le sue leggi che vi ha dato.
E farai ciò che è giusto e buono agli occhi dell'Eterno, affinché tu sia felice ed entri in possesso del buon paese che l'Eterno giurò ai tuoi padri di darti,
dopo che egli avrà scacciato tutti i tuoi nemici davanti a te, come l'Eterno ha promesso.
Quando, in futuro, tuo figlio ti domanderà: 'Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste prescrizioni che l'Eterno, il nostro Dio, vi ha dato?'.
Tu risponderai a tuo figlio: 'Eravamo schiavi del Faraone in Egitto, e l'Eterno ci trasse fuori dall'Egitto con mano potente.
E l'Eterno operò sotto i nostri occhi miracoli e prodigi grandi e disastrosi contro l'Egitto, contro Faraone e contro tutta la sua casa.
E ci trasse fuori di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci.
E l'Eterno ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo l'Eterno, il nostro Dio, affinché fossimo sempre felici, ed egli ci conservasse in vita, come ha fatto finora.
E questa sarà la nostra giustizia: l'avere cura di mettere in pratica tutti questi comandamenti davanti all'Eterno, del nostro Dio, come egli ci ha ordinato'.
Capitolo 7
Quando il tuo Dio, l'Eterno, ti avrà fatto entrare nel paese dove vai per prenderne possesso, e avrà scacciato davanti a te molte nazioni: gli Ittiti, i Ghirgasei, gli Amorei, i Cananei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te,
e quando l'Eterno, il tuo Dio, le avrà date in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio: non farai con esse alleanza, né farai loro grazia.
Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli,
perché distoglierebbero i tuoi figli dal seguire me per farli servire a dèi stranieri, e l'ira dell'Eterno si accenderebbe contro di voi, ed egli ben presto vi distruggerebbe.
Ma farete loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro statue, abbatterete i loro idoli e darete alle fiamme le loro immagini scolpite.
Poiché tu sei un popolo consacrato all'Eterno, che è il tuo Dio; l'Eterno, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra.
L'Eterno ha riposto in voi il suo affetto e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, perché anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo;
ma perché l'Eterno vi ama, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l'Eterno vi ha tratti fuori con mano potente e vi ha redenti dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d'Egitto.
Riconosci dunque che l'Eterno, il tuo Dio, è Dio: l'Iddio fedele, che mantiene il suo patto e la sua benignità fino alla millesima generazione verso quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti
ma, a quelli che lo odiano, rende immediatamente ciò che si meritano, distruggendoli; non rimanda, ma rende immediatamente a chi lo odia ciò che si merita.
Osserva dunque i comandamenti, le leggi e le prescrizioni che oggi ti do, mettendoli in pratica.
E avverrà che, per avere dato ascolto a queste prescrizioni e per averle osservate e messe in pratica, il vostro Dio, l'Eterno, manterrà il patto e la benignità che promise con giuramento ai vostri padri.
Egli ti amerà, ti benedirà, ti moltiplicherà, benedirà il frutto del tuo seno e il frutto del tuo suolo: il tuo frumento, il tuo mosto e il tuo olio, i parti delle tue vacche e delle tue pecore, nel paese che giurò ai tuoi padri di darti.
Tu sarai benedetto più di tutti i popoli, e non ci sarà in mezzo a te né uomo né donna sterile, né animale sterile fra il tuo bestiame.
L'Eterno allontanerà da te ogni malattia e non manderà su di te nessuna di quelle malattie funeste d'Egitto che ben conoscesti, ma le manderà addosso a quelli che ti odiano.
Sterminerai dunque tutti i popoli che l'Eterno, il tuo Dio, sta per dare in tuo potere; il tuo occhio non ne abbia pietà; e non servire ai loro dèi, perché ciò sarebbe per te un laccio. Forse dirai in cuor tuo:
'Queste nazioni sono più numerose di me; come potrò io scacciarle?'.
Non le temere; ricordati di quello che l'Eterno, il tuo Dio, fece al Faraone e a tutti gli Egiziani;
ricordati delle grandi prove che vedesti con i tuoi occhi, dei miracoli e dei prodigi, della mano potente e del braccio steso con i quali l'Eterno, il tuo Dio, ti fece uscire dall'Egitto; così farà l'Eterno, il tuo Dio, a tutti i popoli, dei quali hai timore.
L'Eterno, il tuo Dio, manderà pure contro di loro i calabroni finché, quelli che saranno rimasti e quelli che si saranno nascosti per paura di te, siano periti.
Non ti sgomentare a causa loro, poiché il tuo Dio, l'Eterno, è in mezzo a te, Dio grande e terribile.
E l'Eterno, il tuo Dio, scaccerà a poco a poco queste nazioni davanti a te; tu non le potrai distruggere subito perché, altrimenti, le bestie della campagna si moltiplicherebbero a tuo danno;
ma il tuo Dio, l'Eterno, le darà in tuo potere, e le metterà interamente in fuga finché siano distrutte.
Ti darà nelle mani i loro re, e tu farai scomparire i loro nomi sotto il cielo; nessuno potrà resisterti, finché tu le abbia distrutte.
Darai alle fiamme le immagini scolpite dei loro dèi; non desidererai né prenderai per te l'argento che è su di esse, affinché tu non ne sia preso come da un laccio; perché sono un'abominazione per l'Eterno, che è il tuo Dio;
e non introdurrai cosa abominevole in casa tua, perché saresti maledetto come lo è quella cosa; dovrai detestarla e aborrirla assolutamente, perché è un interdetto.
In Israele si incontrano siti storici ovunque. Molti sarebbero rimasti nascosti senza la scienza dell'archeologia. Un'attrazione turistica relativamente nuova a Gerusalemme offre uno sguardo su questa professione.
Israele conta oltre 200 musei e quindi, in rapporto alla densità di popolazione, il numero più alto di musei per abitante. Sebbene il relativamente nuovo campus archeologico di Gerusalemme presenti reperti antichi unici, questa struttura non arricchisce il panorama dei musei classici di Israele.
Il campus archeologico è infatti un luogo di lavoro. Oltre ai depositi che ospitano diversi milioni di reperti archeologici, qui si trovano anche gli uffici amministrativi dell'Autorità israeliana per i beni culturali, fondata nel 1948 insieme allo Stato di Israele. Il cuore del campus è tuttavia costituito dai laboratori e dalle officine degli archeologi.
Sebbene si tratti di un luogo di lavoro di archeologi con le più svariate qualifiche professionali, che si estende su una superficie di 36.000 metri quadrati e brulica di vita, qui si è pensato anche ai visitatori. Agli interessati viene offerta la possibilità di conoscere da vicino questa professione. La visita deve essere prenotata in anticipo, perché non è così facile per gli estranei passeggiare in questo luogo di lavoro.
Il biglietto d'ingresso di 9 euro per i visitatori adulti è un prezzo più che ragionevole per una visita guidata in un gruppo per lo più ristretto. Il personale dell'Autorità per i Beni Culturali non è interessato a far passare masse di visitatori e a recitare un testo standard. Piuttosto, risponde volentieri a tutte le possibili domande curiose degli ospiti, perché desidera fornire agli interessati una visione più approfondita della propria professione.
La tettoia ricorda le vele parasole dei siti archeologici
Il sito e l'edificio a più piani sono stati progettati in modo tale da riflettere le caratteristiche essenziali dell'archeologia. L'accesso avviene allo stesso livello del vicino Museo d'Israele e del Museo Bibelland, situato proprio accanto. Da lì si scende piano dopo piano, proprio come gli archeologi scavano dalla superficie terrestre verso gli strati più profondi.
Il rinomato studio di architettura di Moshe Safdie di Gerusalemme, che ha progettato anche il memoriale nazionale della Shoah di Israele, Yad Vashem, descrive così la progettazione del campus: “Mentre gran parte dell'edificio scavato nel pendio rimane nascosto o appare discreto, l'imponente tettoia conferisce al campus un'identità unica”.
Questa tettoia sopra il livello d'ingresso del campus archeologico è ispirata a una vela parasole. Per quanto riguarda le dimensioni e la progettazione dettagliata – in inverno l'acqua piovana viene convogliata in modo visibile e udibile tre piani più in basso in una vasca nel cortile interno – questa tettoia ombreggiante è un elemento che attira l'attenzione. Si ispira ai teloni che gli archeologi tendono sui loro siti di scavo a cielo aperto.
• Immergersi nel mondo del lavoro degli archeologi
Il campus offre uno sguardo sul lavoro degli archeologi
Al livello dell'ingresso del campus archeologico, questa tettoia si estende a protezione dei mosaici che sono stati scoperti in sinagoghe, chiese e monasteri in tutto il paese, nonché in moschee, e qui trasferiti. Qui i visitatori non solo vengono familiarizzati con iscrizioni in ebraico, greco, arabo, latino e samaritano, ma apprendono anche ulteriori dettagli sulle particolarità e sulle questioni ancora aperte che i testi di diversi periodi sollevano.
Ma già qui si vede ciò che caratterizza l'intera visita guidata. Si risponde alle domande dei visitatori. In questo modo tutti gli ospiti scoprono come gli archeologi riescono a trasferire dal luogo del ritrovamento queste opere d'arte uniche dell'antichità, composte da decine di migliaia di minuscole pietre, senza danneggiarle.
Al livello successivo, una sorta di sala di ricevimento con posti a sedere, vengono presentati vasi di terracotta e sigilli. Un archeologo spiega ai visitatori quali caratteristiche consentono di attribuire i reperti a un determinato periodo in un batter d'occhio.
Il livello successivo è un po' più “arido”, poiché ospita una biblioteca. Tuttavia, essa colpisce per il fatto di essere la più grande collezione di contributi scientifici sull'archeologia della Terra Santa. Non meno di 60.000 libri contenenti studi archeologici e pubblicati in Israele o su Israele sono conservati qui in una biblioteca di consultazione.
Ma già al piano successivo, ancora più in basso, la teoria arida torna a prendere vita. I visitatori possono infatti dare un'occhiata ai luoghi di lavoro degli archeologi. Dalla galleria interna, le pareti di vetro consentono di vedere due livelli con laboratori e officine.
Non si vedono solo attrezzi e strumenti, ma anche reperti su cui si sta lavorando. Qui i manufatti vengono ulteriormente portati alla luce, puliti o assemblati. Ma qui i collaboratori svolgono anche attività di documentazione e conservazione. Probabilmente ci sarà voluto un po' di tempo per abituarsi a un posto di lavoro trasparente. Ma il lavoro con pennelli e soluzioni chimiche, al microscopio e con altre apparecchiature high-tech, così come con carta e matita, continua indisturbato durante le visite guidate, poiché i visitatori camminano sopra gli esperti.
Non tutti i reperti possono essere attribuiti in modo univoco
I visitatori non si limitano a guardare gli archeologi da dietro le spalle. Imparano di più sui metodi di lavoro e ricevono ulteriori
spiegazioni davanti a vetrine con oggetti esemplificativi. Sono esposti anche reperti che gli archeologi non sono ancora in grado di spiegare.
La cosa bella è che gli archeologi non solo ammettono di non avere idea di quale fosse l'uso, ad esempio, di un oggetto di vetro dalla forma strana. Chiedono ai visitatori di contribuire spontaneamente con le loro associazioni e idee. Proprio come un tempo il pubblico era stato invitato a partecipare al più grande puzzle dell'umanità: la composizione dei frammenti dei rotoli del Mar Morto, che ora sono conservati per la maggior parte nei magazzini di questo campus archeologico inaugurato nel 2024 dopo dodici anni di lavori.
Va notato che durante questa parte della visita guidata non è consentito fotografare, al fine di impedire la possibile pubblicazione di novità archeologiche da parte di terzi non coinvolti. Tuttavia, una volta raggiunto l'ultimo piano, i visitatori possono mettere mano. Qui è possibile toccare i reperti. I visitatori possono prendere in mano gli strumenti di lavoro degli archeologi e guardare attraverso i microscopi, in modo da vedere esattamente ciò che gli archeologi scoprono durante il loro lavoro.
Ogni mese il campus archeologico espone un reperto scoperto di recente. Alcuni mesi fa, ad esempio, si trattava di anfore rinvenute durante uno scavo marittimo sulla costa israeliana. Anche in questo caso non ci sono state solo spiegazioni generali, ma è stato risposto con pazienza alle domande dei visitatori. Senza dubbio un'esperienza unica, che offre una visione molto speciale del lavoro degli archeologi israeliani, ai quali dobbiamo l'accesso a molti siti storici notevoli in Israele.
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* Antje C. Naujoks ha studiato scienze politiche alla FU di Berlino e all'Università Ebraica di Gerusalemme. Tra le altre cose, lavora come traduttrice freelance e vive in Israele da quasi 40 anni, di cui più di un decennio a Be'er Sheva.(Israelnetz, 16 ottobre 2025)
L'architettura clanica di Gaza: l'unica alternativa alla rinascita di Hamas
L'attacco di Hamas contro Israele nell'ottobre 2023 ha messo in luce una verità fondamentale: il controllo di Hamas ha mascherato, ma non eliminato, le più profonde lealtà tribali.
di Gregg Roman
L'annuncio del 13 ottobre 2025 secondo cui Hamas ha ricevuto l'approvazione americana per condurre operazioni di sicurezza a Gaza rappresenta un errore strategico catastrofico che mina l'obiettivo a lungo termine di eliminare l'organizzazione terroristica dal governo di Gaza. La dichiarazione del presidente Trump secondo cui “abbiamo dato loro l'approvazione per un periodo di tempo” per affrontare l'illegalità contraddice fondamentalmente il principio fondamentale del suo piano di pace in 20 punti: Hamas non deve avere alcun ruolo, diretto, indiretto o in qualsiasi forma, nella futura governance di Gaza. Mentre i restanti 19 punti del quadro continuano a essere negoziati e attuati, questa prematura legittimazione del ruolo di Hamas in materia di sicurezza garantisce di fatto la sua completa ricostituzione.
L'imperativo strategico rimane invariato: potenziare le strutture claniche di Gaza, che rappresentano il 72% dei 2,3 milioni di residenti di Gaza attraverso 608 mukhtar registrati e sei grandi confederazioni beduine, per colmare il vuoto di governo man mano che Hamas viene sistematicamente rimosso.
• Errore fatale di valutazione del ruolo di Hamas nella sicurezza La parziale distruzione delle infrastrutture militari di Hamas ha creato quella che dovrebbe essere un'opportunità unica per una fondamentale ristrutturazione della governance. Tuttavia, come dimostra il cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti, Hamas è sopravvissuto come entità organizzativa nonostante il degrado militare, conservando circa il 10-15% del suo arsenale di razzi, mantenendo la sua leadership esterna a Doha e preservando la sua struttura di comando militare sotto Izz al-Din al-Haddad. Il reclutamento di 15.000 nuovi combattenti da parte dell'organizzazione durante la guerra, secondo le valutazioni dell'intelligence statunitense, significa che essa entra in questo periodo di transizione con risorse umane rinnovate e desiderose di dimostrare il proprio impegno alla causa.
L'offerta di amnistia del 13 ottobre da parte del Ministero dell'Interno di Hamas ai membri delle bande che si uniscono alle sue forze di sicurezza rivela la strategia dell'organizzazione per una rapida ricostituzione. Ogni individuo che accetta questa amnistia diventa un agente di Hamas, ampliando la rete di intelligence dell'organizzazione e il controllo territoriale sotto la copertura legittima del mantenimento dell'ordine pubblico. I continui scontri nei quartieri di Sabra e Shuja'iyya tra le forze di Hamas e attori indipendenti dimostrano che Hamas non sta impedendo l'illegalità, ma sta sistematicamente eliminando le alternative alla sua autorità.
La giustificazione del presidente Trump secondo cui “quasi 2 milioni di persone tornano in edifici che sono stati demoliti” richiede una sicurezza immediata diagnostica fondamentalmente in modo errato il problema. Il vuoto di sicurezza esiste proprio perché il controllo totalitario di Hamas ha impedito lo sviluppo di strutture di potere alternative in 18 anni di governo. Colmare questo vuoto con la stessa organizzazione che lo ha creato, anche temporaneamente mentre si negoziano altri elementi strutturali, garantisce il perpetuarsi della patologia sottostante che ha portato al 7 ottobre.
• Capacità comprovata delle forze dei clan L'attacco di Hamas contro Israele nell'ottobre 2023 ha messo in luce una verità fondamentale sull'architettura sociale di Gaza: il controllo di Hamas ha mascherato, ma non eliminato, le più profonde lealtà tribali. Quando all'inizio del 2024 le forze israeliane hanno offerto opportunità di collaborazione a 12 clan principali, 11 hanno rifiutato non per un impegno ideologico nei confronti di Hamas, ma per un calcolato istinto di autoconservazione di fronte a un futuro incerto. Ciò dimostra sia l'autonomia strategica dei clan sia il loro potenziale come attori razionali in grado di prendere decisioni pragmatiche basate su incentivi mutevoli.
L'emergere di efficaci forze di sicurezza basate sui clan durante il conflitto fornisce una prova concreta della loro capacità. Le Forze Popolari di Yasser Abu Shabab, con 400 combattenti, hanno garantito con successo i corridoi umanitari per sei mesi consecutivi. La forza d'attacco antiterrorismo di Hossam al-Astal ha dimostrato la capacità di ripulire i quartieri dalle cellule di Hamas, mantenendo al contempo la protezione dei civili. Quando l'unità Arrow di Hamas ha tentato di riaffermare il controllo nell'ottobre 2025, i combattenti del clan al-Mujaida, sostenuti dalle forze di al-Astal e dalla copertura aerea israeliana, hanno respinto con successo l'attacco. Questi risultati sono stati ottenuti nonostante le risorse minime e le continue intimidazioni di Hamas, dimostrando ciò che è possibile fare con un adeguato sostegno.
Il successo ottenuto nel marzo 2025 dalle forze dei clan nel garantire la sicurezza dei convogli del Programma alimentare mondiale verso i magazzini della città di Gaza, ponendo fine a mesi di saccheggi sistematici, dimostra la loro capacità di fornire la sicurezza pratica di cui la popolazione di Gaza ha disperatamente bisogno. A differenza di Hamas, la cui sicurezza è sempre stata al servizio di obiettivi militari, le forze dei clan si concentrano sulla protezione delle attività economiche e delle operazioni umanitarie che vanno a diretto beneficio delle popolazioni che li compongono.
• Fondamenti economici Il controllo dei clan sull'attività economica di Gaza attraverso reti commerciali consolidate, aziende agricole e relazioni commerciali li posiziona come attori indispensabili nella ricostruzione. I membri della confederazione Tarabin in Gaza, Egitto e Giordania forniscono reti commerciali transfrontaliere essenziali per la ripresa economica. I clan della confederazione Tayaha che controllano i territori orientali offrono competenze agricole fondamentali per la sicurezza alimentare. I membri del clan Barbakh impegnati nel commercio rappresentano una capacità imprenditoriale che nessun comitato tecnocratico potrebbe eguagliare.
Queste reti economiche si sono evolute nel corso di sette secoli di dominio esterno – ottomano, britannico, egiziano, israeliano, dell'Autorità Palestinese e di Hamas – adattandosi a ciascun regime e preservando al contempo le funzioni commerciali fondamentali. A differenza dei movimenti ideologici che subordinano la razionalità economica agli obiettivi politici, i clan operano sulla base di calcoli pragmatici in cui la prosperità prevale sull'ideologia. Quando affluiranno i fondi per la ricostruzione, i leader dei clan daranno la priorità ai progetti che danno lavoro ai loro membri e sviluppano i loro territori, piuttosto che prepararsi al prossimo scontro militare.
La realtà pre-2023, in cui i tunnel controllati dai Dughmush fornivano merci distribuite dalle reti Tarabin, dimostra che gli incentivi economici possono superare le rivalità tradizionali quando esiste un vantaggio reciproco. Questa cooperazione pragmatica, impossibile nel quadro ideologico di Hamas, diventa la base per uno sviluppo economico sostenibile che soddisfa le esigenze dei civili piuttosto che le narrazioni della resistenza.
• Capacità amministrativa Il periodo 2007-2011 ha dimostrato l'efficacia dell'integrazione delle strutture claniche nella governance formale. L'Amministrazione Generale per gli Affari Clanici di Hamas ha incorporato con successo 608 mukhtar e istituito 41 comitati di riconciliazione che hanno trattato oltre 19.000 controversie fino al 2010. Ciò dimostra che le strutture claniche possono funzionare all'interno di quadri amministrativi moderni se organizzate correttamente. La differenza fondamentale ora sta nell'orientare queste strutture verso una governance costruttiva piuttosto che sostenere le infrastrutture terroristiche.
I 320 mukhtar registrati nel 2011, organizzati attraverso giurisdizioni familiari, tribali e territoriali, mantenevano una conoscenza dettagliata delle affiliazioni politiche, delle attività economiche e delle dinamiche sociali delle loro comunità. Questa capacità di intelligence granulare, sviluppata nel corso di generazioni, supera qualsiasi cosa un comitato tecnocratico esterno potrebbe sviluppare in anni. Il ruolo tradizionale dei mukhtar nella gestione della risoluzione delle controversie ha permesso loro di gestire il 70-90% delle controversie al di fuori dell'infrastruttura dei tribunali formali durante il periodo di transizione.
I precedenti storici sostengono la capacità amministrativa dei clan. L'amministrazione di successo di Sa'id al-Shawwa del Comune di Gaza dal 1906 al 1916 ha combinato l'autorità tradizionale con la governance moderna, costruendo ospedali, scuole e infrastrutture, mantenendo al contempo l'ordine pubblico attraverso le reti dei clan. Le famiglie importanti di Gaza, come gli Abd al-Shafi e i Rayyes, nonostante le perdite subite durante la guerra, mantengono reti di professionisti – medici, avvocati, ingegneri, educatori – che possono ricoprire posizioni tecniche mantenendo la legittimità del clan che i tecnocrati stranieri non potrebbero mai raggiungere.
• Prevenire la frammentazione I critici avvertono giustamente che dare potere ai clan rischia di creare signori della guerra rivali e di frammentare Gaza in feudi ostili. Questa preoccupazione richiede un impegno serio, ma non dovrebbe paralizzare l'azione quando l'alternativa è la ricostituzione di Hamas. La chiave sta nella creazione di meccanismi istituzionali che incanalino la competizione tra clan in modo costruttivo, prevenendo al contempo una frammentazione distruttiva.
Il quadro dovrebbe imporre operazioni congiunte dei clan per tutte le principali iniziative di sicurezza e ricostruzione, impedendo a qualsiasi singolo clan di raggiungere il dominio. Le famiglie più importanti, tra cui Astal, Sikik e Abu Warda a Khan Yunis, devono collaborare all'amministrazione della provincia. I vari territori dei clan della città di Gaza richiedono una gestione coordinata. Questa cooperazione forzata, inizialmente mantenuta attraverso la supervisione militare israeliana, crea abitudini di collaborazione che persisteranno anche con la diminuzione della supervisione esterna.
L'integrazione economica fornisce il baluardo più forte contro la frammentazione. Ogni progetto di ricostruzione dovrebbe richiedere lavoratori provenienti da più territori dei clan. Le catene di approvvigionamento devono deliberatamente attraversare i confini tradizionali, mentre le licenze commerciali dovrebbero imporre partnership multi-clan. L'entità del budget per la ricostruzione, che probabilmente supererà i 50 miliardi di dollari, fornisce risorse sufficienti per rendere la cooperazione più redditizia del conflitto. La Palestine Scholars' League di Hamas ha dimostrato come i quadri istituzionali possano incanalare le energie competitive, passando da 20 membri che hanno trattato 1.000 casi nel 2004 a 500 membri che hanno trattato 13.408 casi nel 2010.
L'esercito israeliano, in qualità di attuale garante della sicurezza, deve mantenere un chiaro controllo gerarchico durante il periodo di transizione. Le milizie dei clan operano sotto la supervisione israeliana, impedendo azioni autonome e sviluppando al contempo capacità di coordinamento. Questo accordo temporaneo, sebbene imperfetto, fornisce la stabilità necessaria per lo sviluppo istituzionale, impedendo al contempo sia la ricostituzione di Hamas che la guerra tra clan.
• Il fallimento dei modelli alternativi L'inadeguatezza complessiva dell'Autorità Palestinese la rende irrilevante per le esigenze immediate di Gaza. Le sue forze di sicurezza non sono riuscite a impedire il colpo di Stato di Hamas del 2007, nonostante l'addestramento e le attrezzature internazionali. Il suo apparato amministrativo rimane profondamente corrotto, con gli aiuti internazionali regolarmente dirottati verso l'arricchimento personale piuttosto che verso il servizio pubblico. Il presidente Abbas, 89 anni e al 20° anno del suo mandato quadriennale, non gode di alcuna legittimità a Gaza.
Un'amministrazione internazionale senza partner locali richiederebbe un massiccio dispiegamento militare che nessun paese è disposto a fornire. Il comitato tecnocratico previsto dal piano Trump, sebbene teoricamente allettante, manca della capacità di applicazione senza forze armate fedeli alla sua autorità. I tecnocrati possono fornire consulenza e pianificare, ma non possono imporre il rispetto delle regole a una popolazione che li considera imposizioni straniere prive di autorità legittima.
L'esperienza israeliana con le Leghe dei Villaggi negli anni '80 fallì perché tentò di creare strutture di leadership artificiali invece di lavorare con le organizzazioni sociali esistenti. L'opportunità attuale è fondamentalmente diversa: ai clan non viene chiesto di collaborare contro un movimento di resistenza popolare, ma di sostituire un'organizzazione terroristica che ha portato una distruzione senza precedenti su Gaza. Questa distinzione cambia sia i calcoli morali che quelli pratici che i leader dei clan devono fare.
• Il periodo di transizione L'attuale periodo, mentre i restanti 19 punti del quadro sono in fase di negoziazione, rappresenta la massima vulnerabilità per la ricostituzione di Hamas. L'organizzazione sfrutterà il suo ruolo temporaneo di sicurezza per ricostruire le capacità che hanno richiesto due anni di guerra per essere degradate. Il successo richiede il riconoscimento che l'eliminazione di Hamas è un processo graduale che richiede una pressione costante piuttosto che un accomodamento prematuro che ne consenta la ricostituzione.
Le operazioni militari israeliane devono continuare a prendere di mira le infrastrutture e la leadership di Hamas, nonostante le restrizioni del cessate il fuoco. Anche se le operazioni su larga scala sono cessate, devono continuare gli attacchi mirati contro i comandanti di Hamas che organizzano le forze di sicurezza, gli specialisti delle armi che ricostruiscono le capacità e gli operatori politici che ristabiliscono le reti di governance. Il messaggio deve essere inequivocabile: i membri di Hamas che conducono operazioni di “sicurezza” rimangono obiettivi militari legittimi, indipendentemente dalle dichiarazioni americane di approvazione temporanea.
Le forze dei clan richiedono un immediato rafforzamento delle capacità, anche se Hamas conduce operazioni di sicurezza parallele. I consiglieri militari israeliani dovrebbero integrarsi con le milizie dei clan, fornendo addestramento, intelligence e supporto alla pianificazione operativa. È necessario fornire immediatamente attrezzature di comunicazione, veicoli e armi difensive. È fondamentale che i pagamenti regolari degli stipendi ai combattenti dei clan superino qualsiasi offerta di Hamas, creando incentivi economici per la lealtà dei clan che persistano indipendentemente dagli sviluppi politici.
L'84% dei gazawi che si fida del diritto consuetudinario piuttosto che dei tribunali formali dimostra una profonda preferenza per le strutture autoritarie familiari rispetto alle imposizioni straniere. Questa realtà sociale significa che il governo dei clan gode di una legittimità intrinseca che né l'estremismo di Hamas né la tecnocrazia internazionale possono eguagliare. Il processo di riconciliazione sulha, con le sue procedure consolidate per i negoziati di tregua, gli accordi di risarcimento e la responsabilità pubblica, fornisce meccanismi di risoluzione dei conflitti che mantengono la coesione sociale affrontando al contempo le rivendicazioni.
• La via da seguire L'obiettivo a lungo termine di eliminare completamente Hamas da Gaza rimane realizzabile nonostante le attuali battute d'arresto, ma richiede disciplina strategica e un'attuazione metodica nel corso di anni piuttosto che di mesi. Il ruolo temporaneo di Hamas in materia di sicurezza, sebbene profondamente problematico, non deve necessariamente diventare permanente se durante il periodo di attuazione del quadro vengono sviluppate con attenzione alternative claniche. La chiave sta nel riconoscere che la rimozione di Hamas è un processo che richiede una pressione costante su tutti i fronti: militare, economico, politico e sociale.
La priorità immediata deve essere quella di impedire a Hamas di tradurre il suo ruolo di sicurezza in un'autorità permanente. Ogni giorno che Hamas gestisce posti di blocco e pattuglia le strade, ricostruisce la legittimità che due anni di guerra avrebbero dovuto distruggere. I negoziati quadro devono stabilire scadenze chiare e applicabili per il trasferimento delle responsabilità di sicurezza da Hamas alle strutture dei clan, con parametri di riferimento specifici e conseguenze in caso di mancato rispetto. Il linguaggio vago sui “periodi di transizione” fornisce ad Hamas l'ambiguità di cui ha bisogno per trasformare un accomodamento tattico in una vittoria strategica.
L'architettura clanica di Gaza rappresenta l'unica alternativa palestinese praticabile in grado di fornire sicurezza immediata, capacità amministrativa e gestione economica senza estremismo ideologico. Le loro profonde radici nel tessuto sociale di Gaza, la comprovata capacità operativa durante il conflitto e l'orientamento pragmatico verso la prosperità piuttosto che verso la resistenza perpetua li rendono partner indispensabili per impedire la rinascita di Hamas. La comunità internazionale deve superare il suo disagio nei confronti delle strutture di autorità tradizionali e riconoscere che, nella realtà attuale di Gaza, la scelta non è tra soluzioni ideali e compromessi, ma tra sfide gestibili con il governo dei clan e una catastrofe garantita con la ricostituzione di Hamas.
Il costo del fallimento va oltre i confini di Gaza. Se Hamas riuscirà a trasformare il suo ruolo di sicurezza temporaneo in autorità permanente, il precedente convaliderà il terrorismo come strategia di successo a lungo termine per qualsiasi organizzazione in grado di sopravvivere alla pressione militare. Il successo del quadro richiede il riconoscimento che la pace a Gaza non sarà costruita con i partner che vorremmo esistessero, ma con le strutture tradizionali che comandano lealtà, controllano il territorio e possiedono l'orientamento pragmatico necessario per scegliere la prosperità piuttosto che il conflitto perpetuo. I clan offrono questa strada, se la comunità internazionale dimostrerà la pazienza strategica e la chiarezza morale necessarie per dare loro potere, eliminando sistematicamente l'organizzazione terroristica che non ha portato altro che distruzione alla popolazione di Gaza, da tempo martoriata.
Il sionismo è il movimento storico che Dio ha usato per riportare al centro dell'attenzione mondiale il fatto che, per sua esplicita volontà, il popolo ebraico costituisce una nazione che ha ricevuto da Lui un compito unico. L'attuale Stato d'Israele, fondato sulla terra che biblicamente e storicamente appartiene alla nazione ebraica, non è il regno messianico promesso a Davide ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo. Dichiararsi sionisti significa dunque, come cristiani, riconoscere questa volontà e proclamarla pubblicamente prendendo posizione a favore di Israele. Non si tratta di approvare e sottoscrivere tutte le decisioni che il governo israeliano prende, ma di ribadire che su quella terra lo Stato d'Israele non ha soltanto una presenza di fatto come "entità aliena", ma ha un'esistenza di diritto che non ha bisogno di essere continuamente confermata dalla benevolenza delle altre nazioni. Opporsi a questo significa essere antisionisti, e essere antisionisti in questo senso significa prepararsi a diventare, nel migliore dei casi, antisemiti passivi.
Molti dicono di "non avere niente contro gli ebrei", però sono capaci di fare lunghi elenchi delle cose brutte che fanno. Non si tratterebbe, a sentir loro, di malevola ostilità preconcetta, ma di pura e semplice realtà di fatto. Sono i fatti compiuti dagli ebrei quelli che renderebbero difficile la loro la vita in seno ai popoli; e sono i fatti compiuti dal governo israeliano quelli che renderebbero precaria la posizione dello Stato d'Israele in seno alla comunità internazionale, mettendo in forse la sua esistenza come nazione.
Ma nessun fatto che possa accadere nel mondo, e neppure nessuna azione che possano compiere gli ebrei, potrà provocare la scomparsa dalla terra della nazione ebraica. I cristiani non dovrebbero aver bisogno di acute analisi politiche per esserne certi, perché sta scritto:
"Così parla il Signore, che ha dato il sole come luce del giorno e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare in modo che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: il Signore degli eserciti. «Se quelle leggi verranno a mancare davanti a me», dice il Signore, «allora anche la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza». Così parla il Signore: «Se i cieli di sopra possono essere misurati e le fondamenta della terra di sotto, scandagliate, allora anch'io rigetterò tutta la discendenza d'Israele per tutto quello che essi hanno fatto», dice il Signore" (Geremia 31:35-37).
In questo passo è contenuta una frase che suonerebbe come musica alle orecchie di molti antisemiti. Sta scritto infatti che "... la discendenza d'Israele cesserà di essere per sempre una nazione in mia presenza". Ma sono specificate anche le condizioni: questo avverrà quando il sole non sarà più la "luce del giorno" e verranno a mancare "le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte". Si tratta quindi soltanto di aspettare un po'.
E se gli uomini, stanchi di tutto quello che gli ebrei hanno fatto e continuano a fare in mezzo alle nazioni, vorrebbero farla finita una volta per tutte con questa storia del "popolo eletto", il Signore si dichiara disposto ad accontentarli invitandoli a misurare "i cieli di sopra" e a scandagliare "le fondamenta della terra di sotto". Quando questa ricerca scientifica sarà portata pienamente a compimento, in modo che null'altro si possa aggiungere, allora anche il Signore si dichiarerà stanco di tutto quello che gli ebrei hanno fatto e li rigetterà.
Fino a quel momento, si può essere certi che la discendenza d'Israele continuerà ad essere una nazione alla presenza del Signore.
E Israele non sparirà.
“Noi palestinesi dobbiamo liberarci dell’islam radicale”. Parla Husseini, esule in Francia
di Giulio Meotti
ROMA - . “Una parte significativa della popolazione palestinese anela alla sicurezza, alla dignità e alla possibilità di vivere normalmente, richieste che non possono essere soddisfatte attraverso la mera retorica o il mantenimento delle attuali strutture politiche”. Parla così al Foglio Waleed al Husseini, che ha trascorso dieci mesi in una prigione palestinese per “blasfemia”. “Bruciatelo vivo!”, urlavano i commentatori di Ramallah e Gaza. Un palestinese perseguitato per le proprie idee non sotto Hamas, ma sotto il potere statale in Cisgiordania. Quello “moderato” di Abu Mazen. Questo blogger viveva a Qalqilya, in Cisgiordania. E’ stato arrestato mentre si trovava in un internet café della sua città. L’“apostata” che si prende gioco dell’islam. Da allora, al Husseini è andato a vivere in Francia dopo una mobilitazione che gli ha salvato la vita. Questa è la prima volta che parla dopo il massacro terroristico del 7 ottobre. “Sono rimasto in silenzio perché la mia famiglia è ancora in Cisgiordania e, in questo clima di totale insicurezza, ogni mia parola avrebbe potuto mettere in pericolo la loro vita. Il pericolo per loro non proviene solo da Hamas: anche l’Autorità palestinese costituisce una vera e propria fonte di minaccia, con il suo autoritarismo e la sua logica di tutela degli interessi privati”.
• “Nonostante guerra e distruzione, Hamas è ancora popolare”
Husseini non crede che Hamas lascerà il potere a Gaza. “Non di sua spontanea volontà. Nonostante l’indebolimento militare e l’assassinio di molti suoi leader, la base popolare del movimento non è del tutto scomparsa. A Gaza, Hamas ha formato un’intera generazione e costruito una rete di istituzioni che credono ancora nel suo progetto e nella sua legittimità. Lo scenario di una partenza immediata e ordinata di Hamas è irrealistico. Anche dopo considerevoli perdite umane e materiali, il movimento mantiene una solida struttura istituzionale e di sicurezza, ancorata a un complesso contesto locale e regionale. I sondaggi indicano che il suo sostegno rimane più forte a Gaza che in Cisgiordania, sebbene abbia recentemente subìto oscillazioni, in particolare a causa del deterioramento della situazione umanitaria e delle pressioni politiche”.
• "Il 7 ottobre va inserito nella prospettiva del jihad"
“La scelta di Hamas di chiamare la sua operazione ‘diluvio di al Aqsa’ dimostra chiaramente la dimensione religiosa del 7 ottobre. Usando il nome al Aqsa, il movimento cerca di attivare la carica emotiva del sacro nella coscienza musulmana. Per loro, si tratta di jihad, nel senso religioso del termine: un dovere individuale, un fard ‘ayn, che i militanti compiono in nome della comunità musulmana per ‘liberare’ Gerusalemme. Ma deve essere chiaro: questa idea di jihad non è un concetto spirituale o simbolico, è una nozione guerriera, radicata nella tradizione islamica e utilizzata per secoli per giustificare la violenza in nome della fede. Hamas sta semplicemente ripetendo questa narrazione letterale, aggiungendo una dimensione politica moderna. Il risultato è una giustificazione religiosa per un atto di guerra, dove la religione non eleva l’uomo, ma serve a santificare la morte e lo scontro”.
• "Noi occidentali pensiamo ai palestinesi come un monolite“
Ciò che molti occidentali continuano a ignorare è la complessità interna del mondo palestinese: non può essere ridotto a un’unica autorità o a un’unica narrazione politica. Una parte significativa della popolazione anela soprattutto alla sicurezza, alla dignità e alla possibilità di vivere normalmente, richieste che non possono essere soddisfatte attraverso la mera retorica o il mantenimento delle attuali strutture politiche. Dobbiamo anche riconoscere un’altra realtà, spesso trascurata: l’incapacità delle élite, compresi settori dell’Autorità nazionale palestinese, di soddisfare le aspettative quotidiane della popolazione. Per alcuni osservatori – e per me – questo legittima la ricerca di soluzioni transitorie alternative, a condizione che rispettino i diritti fondamentali e vietino qualsiasi forma di sfollamento forzato. Finché l’analisi occidentale si limiterà a schemi geopolitici senza tenere conto delle dinamiche sociali e morali, rimarrà parziale”.
• "Non aiutano le flotille"
“Credo che persino gli organizzatori sapessero che non avrebbero mai raggiunto Gaza. Non voglio accusarli, ma è chiaro che cercavano principalmente di riconquistare la ribalta. Dire che volevano ‘attirare l’attenzione su Gaza’ è inutile, visto che tutto il mondo ne stava già parlando. In altre parole, sono salpati principalmente per cavalcare l’onda dell’interesse”.
L’Europa e l’appeasement Islam radicale e islamizzazione costituiscono un ostacolo immenso. “L’islam radicale è un ostacolo importante per i palestinesi che aspirano a vivere con dignità. Troppo spesso si trovano costretti a sottomettersi a slogan religiosi e discorsi ideologici, invece di poter esercitare liberamente i propri pensieri e le proprie scelte. La mobilitazione costante, che si tratti di moschee, media o televisione, trasforma la vita quotidiana in un’arena di propaganda, limitando l’autonomia personale. Questi meccanismi non liberano la popolazione; al contrario, mantengono una dipendenza ideologica che impedisce loro di costruire un’esistenza veramente dignitosa e autonoma”.
• "Husseini non è molto ottimista“ Se la situazione rimane così com’è, una nuova guerra è probabile. Il futuro di Israele e dei palestinesi rimane estremamente incerto finché le politiche regionali e internazionali favoriranno soluzioni parziali o simboliche. Il problema non è solo esterno; deriva da dinamiche interne. L’Autorità nazionale palestinese sfrutta la nozione di nazionalità e si presenta come rappresentante del popolo, mentre essenzialmente difende gli interessi di una piccola élite beneficiaria; da parte sua, Hamas strumentalizza la religione per fini politici. Da parte mia, sono convinto che dobbiamo rompere con il dominio di queste rare élite politiche e religiose – una minoranza con una ‘voce forte’ che monopolizza il discorso pubblico – e sostituirle con meccanismi di responsabilità, trasparenza e reale rappresentanza, attraverso mezzi pacifici, legali e democratici. Senza una profonda riforma che ponga la dignità, la libertà e la responsabilità della popolazione al centro del progetto politico, il ciclo di violenza continuerà a ripetersi”.
• "Husseini critica anche l’Europa" “Non deve accontentarsi dell’appeasement: deve avere una visione d’insieme e proporre una chiara alternativa politica; altrimenti, continuerà a essere percepita come incoerente e politicamente impotente”. E l’occidente è condannato a lungo termine. “Se parliamo della corrente islamica che si sta sviluppando in Europa, è chiaro che continua a crescere e a influenzare profondamente la società. A ciò si aggiungono crescenti tensioni interne: culturali, sociali e demografiche. L’Europa rischia quindi di essere logorata dall’interno e, a lungo termine, la sua sopravvivenza come civiltà strutturata potrebbe essere minacciata”.
“Guai ai figli ribelli”, dice l'Eterno, “che formano dei disegni, ma senza di me, che contraggono alleanze, ma senza il mio Spirito, per accumulare peccato su peccato;
che vanno giù in Egitto senza aver consultato la mia bocca, per rifugiarsi sotto la protezione del Faraone e cercare riparo all'ombra dell'Egitto!
Ma la protezione del Faraone vi tornerà a confusione, e il riparo all'ombra dell'Egitto a vergogna.
I prìncipi di Giuda sono già a Soan, e i suoi ambasciatori sono già arrivati ad Anes;
ma tutti saranno delusi di un popolo che non giova loro nulla, che non porta né aiuto né vantaggio, ma è la loro infamia e la loro vergogna.
È pronto il carico delle bestie per il mezzogiorno; attraverso un paese di avversità e di angoscia, da cui vengono la leonessa e il leone, la vipera e il drago volante, essi portano le loro ricchezze sul dorso degli asinelli e i loro tesori sulla gobba dei cammelli, a un popolo che non gioverà loro nulla.
Poiché il soccorso dell'Egitto è un soffio, una vanità; per questo io chiamo quel paese: 'Gran rumore per nulla'.
Il sionismo durante e dopo la prima guerra mondiale
In un momento storico in cui sembrano prevalere euforie e immaginazioni disancorate dalla realtà, accenniamo ai due fondamentali riferimenti su cui si ancora la presenza passata presente e futura di Israele: Bibbia e storia. Dopo l'accenno biblico riportato sopra, proponiamo la rilettura di un articolo già presente da tempo sul nostro sito, estratto dall'Enciclopedia Italiana Treccani alla voce "Sionismo”. Risale a un periodo che va tra il 1936 e il 1938, ed è interessante leggere come l’argomento sia stato trattato in un tempo e sotto un regime in cui il filosionismo non era certamente molto diffuso. Tra l’altro, il testo conferma, ancora una volta, che la nascita dello Stato ebraico non è stata una conseguenza della Shoah.
Il risalto in colore è stato aggiunto.
Carta della Palestina degli anni '30. E'
evidente che con questo nome s'intendeva
anche la zona
a est del Giordano
Nel periodo della guerra mondiale l'attività sionistica pratica dovette naturalmente subire un arresto; d'altro canto si iniziarono quelle trattative col governo inglese che condussero prima (agosto 1917) alla formazione della Legione ebraica, che poi partecipò accanto alle milizie degli alleati a varie battaglie in Palestina, e quindi alla dichiarazione Balfour (2 novembre 1917), preparata da un'intensa attività esercitata specialmente da Hayyim Weizmann che aveva, durante la guerra, reso segnalati servigi all'Inghilterra, e dai suoi collaboratori. In tale dichiarazione Arthur James Balfour, ministro inglese degli Esteri, affermava che il governo inglese intendeva favorire la creazione e lo sviluppo in Palestina di una sede nazionale (national home, «focolare nazionale») per il popolo ebraico, salvi restando i diritti dei non Ebrei in Palestina e quelli degli Ebrei nei vari paesi. Dichiarazioni analoghe fecero in seguito gli altri governi alleati (l'Italia il 9 maggio 1918). Prima ancora che la guerra finisse, una commissione sionistica, accompagnata da un rappresentante del governo inglese, si recava in Palestina per gli studi preliminari. Il 24 luglio dello stesso anno veniva posta la prima pietra dell' università ebraica sul Monte Scopo presso Gerusalemme. Terminata la guerra, il sionismo agì attivamente per ottenere l'effettiva costituzione della sede nazionale ebraica. Il 24 aprile. 1920 il consiglio delle Potenze decideva, a Sanremo, che la dichiarazione Balfour fosse inclusa nel trattato di pace con la Turchia e che il mandato sulla Palestina venisse affidato all'Inghilterra. Il 1o luglio dello stesso anno veniva insediato, quale alto commissario della Palestina, sir Herbert Samuel, ebreo. Il trattato di Sèvres, stipulato con la Turchia il 10 agosto, comprendeva la clausola della sede nazionale ebraica. L'elaborazione del testo del mandato fu lunga e difficile. Un movimento, condotto da capi arabi, tendeva a impedire che la sede nazionale venisse costituita: l'opposizione araba ebbe anche episodi di violenza.
II testo del mandato, approvato a Londra il 24 luglio 1922 dal Consiglio della Società delle nazioni, ripete il contenuto della dichiarazione Balfour; stabilisce, fra l'altro, per la potenza mandataria l'obbligo di mettere il paese in condizioni tali da assicurare l'adempimento delle clausole della dichiarazione stessa; costituisce una rappresentanza ebraica (Jewish Agency) riconosciuta come ente pubblico, per cooperare con l'amministrazione inglese della Palestina in tutto quanto riguarda la creazione della sede nazionale ebraica, con l'obbligo all'amministrazione del paese di facilitare l'immigrazione ebraica, vigilando a che non sia recata offesa o danno alle altre parti della popolazione. La potenza mandataria deve assumere la responsabilità dei Luoghi Santi; come lingue ufficiali della Palestina vengono stabilite l'inglese, l'arabo e l'ebraico; come giorni di riposo per i membri delle varie comunità i giorni festivi di ciascuna di esse.
Il lavoro ebraico intanto proseguiva non senza gravi difficoltà nel campo politico e in quello pratico. Gl'immigrati, provenienti parte non piccola dalla borghesia e dalla classe intellettuale dell'Europa orientale, si adattarono mirabilmente alle esigenze della vita agricola e del lavoro materiale: le vecchie colonie erano in incremento e nuove se ne fondarono. Tra le regioni bonificate e colonizzate nei primi anni dopo la guerra è particolarmente notevole la vallata di Esdrelon. Il 1o aprile 1925 veniva inaugurata l'università ebraica sul Monte Scopo. Da segnalarsi è l'attività del Qeren ha-yesod (fondo di costruzione) istituito nel 1920 con lo scopo di raccogliere 25 milioni di sterline per mezzo di un'imposta straordinaria a cui veniva invitato ad assoggettarsi ogni singolo ebreo mediante prelevamento di un decimo del suo capitale o del suo reddito annuo. Nei primi quindici anni di vita, e cioè fino al giugno 1935, questa istituzione ha raccolto ed erogato oltre 5 milioni di sterline. In politica prevalsero le tendenze moderate e concilianti del Weizmann, il quale, mentre sosteneva il principio della necessità della collaborazione con l'elemento arabo, favoriva l'allargamento della Jewish Agency, nella quale entrarono anche elementi non sionisti in senso stretto, rappresentanti delle varie istituzioni della diaspora, sì da fare di quella come una rappresentanza generale del popolo ebraico; tendenze contrarie avevano, e hanno tuttora, i «revisionisti», capitanati da Vladimiro Jabotinski, i quali ritengono che solo con la prossima creazione di uno stato ebraico in Palestina si possa risolvere il problema ebraico, mentre i seguaci del Weizmann, detti «sionisti generali», pensano piuttosto a una collettività palestinese binazionale, ebraica e araba.
Allo sviluppo agricolo, segnato dalla fondazione di nuove colonie (alcune delle quali a sistema cooperativo) nelle varie parti della regione, e a quello urbano, rappresentato, oltreché dalla città di Téll Abib (Tel Aviv), popolata ora da oltre 100 mila abitanti (2000 nel 1914), dalla costruzione di nuovi quartieri ebraici a Gerusalemme e a Haifa (la quale ultima città è fornita di un ottimo porto, inaugurato nel 1933) si è aggiunto recentemente quello industriale, segnato particolarmente dall'attività della società elettrica Ruthenberg e di imprese per l'estrazione del potassio dal Mar Morto. La questione araba, sempre aperta, ebbe alcuni episodi sanguinosi, specialmente nel 1929, in cui parecchi centri ebraici furono improvvisamente assaliti dagli Arabi, contemporaneamente quasi alla prima riunione del consiglio della Jewish Agency. In seguito a tali avvenimenti, vennero inviate dal governo inglese delle commissioni per l'accertamento dei fatti. Alcune affermazioni contenute nelle relazioni, che sembravano dare interpretazioni assai restrittive alle clausole del mandato relative all'immigrazione ebraica, suscitarono malcontento e proteste da parte dei sionisti: il Weizmann, alla fine del XVI congresso, che in quell'anno ebbe luogo a Zurigo, si ritirò dalla presidenza dell'organizzazione sionistica e della Jewish Agency; in seguito al XVII congresso (Basilea 1931) la presidenza fu assunta da Nahum Sokolow che la tenne fino a che, nel XIX congresso (Lucerna, agosto-settembre 1935), essa fu ripresa dal Weizmann.
Negli ultimi anni l'immigrazione ebraica, per quanto contenuta entro angusti limiti dalla potenza mandataria, raggiunse cifre assai elevate: un forte contingente le fu dato dall'emigrazione dalla Germania, in conseguenza delle leggi ostili ai «non ariani», ossia agli ebrei.
L'istruzione e l'educazione sono impartite in circa 300 scuole di vario grado, con una popolazione scolastica complessiva di circa 30.000 alunni, poste sotto la sorveglianza dell'organizzazione sionistica. L'università ebraica, con annessi vari istituti scientifici, è in continuo incremento; con l'inizio dell'anno scolastico 1935-36 sono state costituite le facoltà di matematica e scienze naturali. Essa ha presso di sé la Biblioteca Nazionale che possiede attualmente oltre 300 mila volumi. Anche le arti (musica, pittura) e le lettere sono in piena efficienza: nell'anno ebraico 5696 (settembre 1934-settembre 1935) sono stati pubblicati in Palestina circa 500 libri ebraici. La popolazione ebraica della Palestina è di oltre 300 mila anime, che costituiscono il 25% della popolazione totale.
(Enciclopedia Italiana Treccani, Vol. XXXI, pag. 865)
«Trumpeldor e altri eroi»
Riportiamo il primo capitolo del libro “Leone di Pietra - Leone di Giuda” di Giacobbe Damkani, ebreo nato in Israele da una famiglia sefardita proveniente dalla Persia.
Qiryat Shemona, una cittadina ai piedi delle alture del Golan, non lontano dal confine con il Libano. In quel Giorno della Memoria del 1964 la bandiera israeliana era issata a mezz’asta. Noi scolari stavamo tutti in fila, in lunghe file diritte, e i nostri occhi erano puntati sul vessillo dello Stato ebraico. Oggi non ricordo più i tanti, solenni discorsi che ci venivano rivolti dal Direttore e dagli alunni delle classi superiori nelle feste di commemorazione. Parlavano in modo austero e commovente delle terribili atrocità commesse dai criminali nazisti contro gli ebrei in un lontano paese chiamato Germania.
Quand’è che di preciso è scoppiata la seconda guerra mondiale? Dieci anni fa? Duemila anni fa? Chi lo sapeva! In fin dei conti, nella storia del popolo ebraico ci sono infiniti racconti di simili delitti. Ogni festa nazionale e religiosa rinnova il ricordo di nemici che in ogni generazione si sono avventati contro di noi per annientarci. Ma il Dio Santo, che sia lodato, ci ha sempre liberati dalle loro mani. Nella coscienza di un dodicenne tutte queste storie si mescolavano insieme in un groviglio di persecuzioni, inimicizie, malvagi decreti, odio verso gli ebrei. Alla Chanukkà avevamo i Greci, al Purim i Persiani, alla Pésach gli Egiziani, al Lag Ba-Omer i Romani e al Giorno dell’Indipendenza gli arabi. Come faceva un bambino a distinguere fra tutti i nemici che c’erano stati nelle varie generazioni, nei secoli e nei millenni della nostra storia?
Ma una frase che veniva detta in quelle occasioni mi è rimasta impressa fino ad oggi: «Non dimenticheremo mai e non perdoneremo mai!» Ricordo anche le pesanti atmosfere di lutto e l’urlo delle sirene, che a me sembrava come il grido di dolore di una madre sul suo bambino morto. Con il canto dell’inno nazionale Hatikvà terminava la commemorazione.
Tentavo seriamente di immaginare quello che effettivamente era successo nella Germania nazista e speravo di riuscire a cogliere almeno una piccola goccia dal mare di morte dei campi di sterminio e delle camere a gas. Ma non ci riuscivo. Non riuscivo a far vivere nella memoria quello che era morto e sepolto in terra straniera. Restavo lì, immobile, in fila con gli altri scolari nell’enorme cortile della scuola. I miei occhi osservavano la bandiera israeliana che sventolava a mezz’asta nella brezza mattutina della Galilea. La familiare melodia dell’inno nazionale mi riempiva il cuore della fierezza di essere un cittadino d'Israele. L’amore per la patria e la prontezza ad impegnarmi in ogni momento per la sua difesa m’inondavano il cuore.
Un giorno comparve davanti alla nostra casa un gigantesco bulldozer. A quel tempo abitavamo in una strada all’estremo nord di Qiryat Shemona, molto vicino al confine con il Libano. Le capre, le oche e i polli che scorrazzavano liberamente nel cortile scapparono davanti al rumoroso veicolo. Io osservavo il bulldozer mentre scavava un profondo fosso nel terreno. I miei pensieri andarono alle fosse maledette dell’Europa, riempite di corpi di uomini e donne, di vecchi e giovani del nostro popolo. «Nessuno scaverà mai più fosse come queste nel nostro paese!» giurai a me stesso.
Ma quel fosso, come tutti gli altri che venivano scavati allora in città, serviva a tutt’altro scopo. Lo rivestirono di tavole di legno e misero al suo interno un reticolato di ferro su cui versarono del cemento. Alla fine venne fuori un rifugio antiaereo. Sulla terra nera che lo ricopriva piantarono degli anemoni rossi e blu. Ai miei occhi rappresentavano il sangue degli ebrei che erano stati colpiti - e ancora adesso sono colpiti - dai razzi katjusha provenienti dal Libano.
Stavo lì, osservavo il rifugio antiaereo appena costruito e pensavo: «I nostri nemici non hanno mai fatto mistero del loro odio verso di noi. Se e quando scoppierà un’altra guerra, noi di Qiryat Shemona saremo i primi ad essere colpiti dai loro attacchi. L’urlo delle sirene ci farà scappare nei bunker come conigli spaventati. Correrò anch’io e andrò a nascondermi? Scapperò anch’io?»
«No, mai!» giurai solennemente a me stesso, «io restituirò i colpi! Non permetterò mai che questi gentili ci procurino ancora sofferenze! Buon Dio, perché mai hai creato i gentili? Non potevi farli tutti ebrei? Non sarebbe stato interessante vedere come veniva il mondo se tutti gli abitanti fossero stati ebrei?»
Gli Shabbat familiari e le altre feste erano qualcosa di speciale per la mia famiglia. Dopo la funzione del mattino nella sinagoga ci raccoglievamo tutti intorno alla lunga tavola imbandita a festa che mia madre e le mie sorelle avevano apparecchiato. Dopo aver recitato il kiddush su yayin e challà, in questa atmosfera benedetta mangiavamo il pranzo tradizionale: patate al forno, barbabietole rosse e uova sode che avevano bollito tutta la notte fino a prendere un colore scuro. E sopra ci bevevamo un indimenticabile tè dolce e forte. C’erano inoltre pezzi di melanzane al forno, zucche e qualche volta pesce in salsa rossa. Dopo pranzo, mentre mio padre andava a farsi il consueto sonnellino dello Shabbat e mia madre si inquietava per tutto e con tutti, io mi facevo la mia passeggiata pomeridiana sulle colline circostanti. Coglievo fiori, osservavo le farfalle, mangiavo lamponi, fichi e melagrane selvatiche che crescevano spontaneamente nella zona. Mi rinfrescavo nell’acqua fresca del fiume e gustavo l’aria saporita della Galilea settentrionale.
Sopra Qiryat Shemona si trova Tel Hai con le tombe degli eroi caduti. Lì andavo a visitare il mio amico Trumpeldor. Le sensazioni e gli odori che avvertivo in quei primi giorni di primavera sulla strada per Tel Hai mi tornano alla memoria come se fosse ieri. Giganteschi eucalipti adombravano la strada d’asfalto che saliva ripida e piena di curve. I bambini del vicino kibbuz scendevano lungo la strada sui loro carri tirati da un mulo dalle lunghe orecchie nere. Sento ancora il peso della cesta con le olive da conservare che portavo a casa per la mamma.
Una quantità di pensieri e di sentimenti m’assaliva mentre m’inerpicavo su questa collina “gravida di sangue”. Entravo nell’area del cimitero militare di Tel Hai a capo chino e con profondo rispetto. I morti, le cui grida sembravano essere inghiottite dalla terra, erano per me un modello di patriottismo e un esempio di amore per la patria. Mi venivano in mente le leggendarie ultime parole di Yosef Trumpeldor: «E’ bello morire per la patria!» Aveva pronunciato quelle parole non come il “leone ruggente” scolpito nella statua di pietra che troneggia sulla sua tomba; le aveva sussurate in un ultimo sospiro sul letto di morte. Quel sussurro era già nel suo cuore quando con le sue proprie mani portò l’aratro sui campi di Tel Hai. E risuona ed echeggia ancora oggi nel profondo dell’anima di ogni ebreo...
Otto eroi erano caduti lì, e per questo la città venne chiamata in loro onore Qiryat Shemona. «Vivo io oggi perché il loro sangue è stato versato? Se questi otto eroi di Tel Hai non fossero stati offerti sull’altare della rinascita nazionale, non sarei forse nato e cresciuto in territorio straniero?»
Ogni visita a Tel Hai risvegliava in me profondi pensieri e molte domande senza risposta: «Come si starà a vivere da ebreo in mezzo a gentili antisemiti? Perché il popolo ebraico della diaspora è stato così tanto perseguitato? Per quale motivo i miei antenati hanno dovuto lasciare la loro patria? Perché per tanti anni sono stati esiliati dalla loro terra e poi hanno potuto di nuovo ritornare nel loro paese?»
I nostri Rabbi insegnavano che nel suo primo esilio il nostro popolo dovette restare lontano dalla patria 70 anni per i peccati di idolatria, lussuria e spargimento di sangue. Negli ultimi 2000 anni invece siamo stati scacciati dalla nostra terra per un “odio immotivato” . «E’ vero questo? Quanti giorni, settimane e mesi ci sono in 2000 anni? Contro chi si è scagliato questo odio immotivato? Perché non siamo tornati prima per conquistare il deserto, far fiorire i luoghi selvatici, far rivivere i terreni improduttivi? Perché non siamo venuti prima a bonificare le paludi malariche della valle di Hula?
Siamo stati dispersi fra tutti i popoli pagani e la terra che Dio ci ha dato è diventata una dimora di sciacalli. Perché Dio ha deciso di farci tornare proprio adesso?
Comincia a realizzarsi qui ed ora, sotto i nostri occhi, la redenzione d'Israele? Siamo davvero “l’ultima generazione della schiavitù e la prima generazione della salvezza?” Siamo forse più buoni e più santi dei nostri predecessori? In che modo abbiamo meritato il privilegio di essere “l’inizio della salvezza”? Perché appartengo a questa generazione?
Perché proprio io? Di tutte le persone, perché proprio io? Perché possiamo finalmente vivere in un paese che fino ad oggi è stato considerato “un paese che divora i suoi abitanti” ? E’ Dio o è il paese che ci ha detestato e vomitato? Esiste sulla terra qualche altro popolo che per due volte è stato esiliato dalla sua patria e poi è ritornato per far rivivere lo spirito e la lingua del popolo? A chi spetta l’onore e il ringraziamento per questo ritorno? A Theodor Herzl? A Lord Balfour? A Chaim Weizmann o a David Ben Gurion? O dobbiamo invece ringraziare molto di più l’onnipotente Dio d’Israele che ci ha scacciati dal nostro paese per i nostri peccati e ci ha fatti ritornare a casa per le Sue promesse eternamente valide?»
Tutte queste domande esistenziali mi giravano continuamente per la testa. «Per quale motivo e per chi emette il suo muto ruggito il leone di pietra di Tel Hai? Vuole sfidare l’odio e la ferocia dei nostri nemici che dalle alture di Golan osservano i nuovi insediamenti del nostro giovane Stato? O alza il suo capo in atto di sfida - Dio ci guardi - contro il Signore che ha permesso ai gentili di condurci al patibolo come pecore al macello? Quali orrendi peccati abbiamo commesso perché tutto il mondo ci debba odiare così tanto? Chi è che perseguiterà i nostri successori?»
Guardavo all’orizzonte il monte Hermon innevato e il paesaggio verde intorno a me. Il contrasto tra la bellezza della natura e la bruttezza della storia mi sconcertava. Nel Giorno della Memoria, quando la bandiera israeliana è issata a mezz’asta, pensavo alle crudeltà dei cristiani e mi chiedevo dov’era Dio quando i nazisti ci massacravano spietatamente. A Tel Hai pensavo all’odio accanito degli arabi musulmani contro di noi. Nella sinagoga pregavo e mi chiedevo che cosa significa essere un ebreo, e perché Dio, tra tutti i popoli della terra, ha scelto proprio noi.
Dell’esistenza di Dio non ho mai dubitato; ma non riuscivo a capire per quale ragione e a quale scopo Egli aveva permesso ai gentili di perseguitarci con tanta ferocia. «Perché ha permesso loro di ucciderci? E’ per questo che siamo stati eletti? Che cosa vuole Dio di preciso da noi? E perché è così difficile piacergli?»
In mezzo al cimitero degli eroi di Tel Hai , su una parete di pietra scolpita sono incise a carattere cubitali queste parole:
Nel sangue e nel fuoco Giuda è caduta:
col sangue e col fuoco Giuda risorgerà dalle ceneri!
Una volta, mentre guardavo questa scritta pensai: «Abbiamo sempre dovuto passare per fiumi di sangue e di fuoco. Anche oggi dobbiamo combattere e pagare il nostro tributo di sangue per proteggere il nostro prezioso paese, altrimenti la nostra terra cadrebbe di nuovo in mano ai nostri nemici!» E d’improvviso mi salì alla mente un pensiero ribelle, eretico: «Se è per questo che siamo stati eletti, non sarebbe meglio essere incirconcisi come le nazioni intorno a noi? Il Goy non sta forse meglio del circonciso ebreo che è sempre inseguito dalla spada annientatrice?»
«Dio ci guardi! Via da me questi pensieri empi!» mi rimproverai. «Non sono forse un ebreo? Sono nato ebreo per non contaminarmi mai con cose abominevoli! Preferirei farmi bruciare vivo piuttosto che condurre la vita di questi pagani incirconcisi che si rotolano in ogni sorta di immoralità e sudiciume!»
Fin dalla più tenera infanzia i nostri insegnanti ci avevano inculcato un profondo senso di disgusto per gli spregevoli “ellenizzanti” e “convertiti”: questi traditori che preferivano il comodo e spensierato modo di vivere dei gentili invece di essere contenti della semplice spiritualità della vita ebraica. Avevamo imparato a disprezzare quelli che pavidamente cercavano di evitare le persecuzioni dei Goyim. Volevano sfuggire al crudele destino che attendeva tutti noi, odiati ebrei.
«Noi ebrei siamo la prova vivente dell’effettiva esistenza di Dio» pensavo. Se ci comportiamo come i gentili, non ci sarà più nessuno al mondo che renderà testimonianza dell’unico vero Dio! I pagani che vogliono liberarsi degli ebrei, in realtà vogliono sbarazzarsi di Dio per essere padroni e signori di sé stessi. Non è forse questo che i pagani tramano: buttare giù Dio dal trono della Sua signorìa e impossessarsi della Sua autorità?
Ma non è forse quello che anche noi ebrei cerchiamo di fare?
Che cosa, veramente, distingue l’uomo dalle bestie? Che cosa distingue me, ebreo, dal resto della creazione, dagli alberi, dalle rocce e dai mari? Può il gentile vedere in me qualcosa di speciale e di attraente? Il segno della circoncisione inciso nella mia carne lo invoglia a conoscere il mio Dio e ad amarlo più di ogni altra cosa? Ma come fa il gentile a capire che io sono circonciso? In fondo, questa non è una cosa che si può mettere in mostra! E se anche fosse fatto, che differenza farebbe?
Forse sono le kippot, i tzitziyot e i peyot - che comunque la maggior parte degli ebrei oggi non porta più - quelli che ci distinguono dal resto dell’umanità e mostrano che siamo il popolo eletto di Dio? E se anche fosse così, provocherebbe questo la gelosia dei gentili e farebbe nascere in loro il desiderio di essere come noi?
Nonostante il mio orgoglio nazionale, non riuscivo a immaginarmi di essere invidiato da qualcuno che cercava il Dio d’Israele. Dovetti ammettere di non essere un esempio di uomo di Dio, da Lui scelto per essere luce delle genti.
«Ma se forse cercassimo di essere moralmente migliori degli altri popoli, non riconoscerebbero i gentili l’esistenza di Dio in noi? Ma noi siamo migliori? E anche se riuscissimo a diventare il popolo più amabile e gentile della terra, non abuserebbero i gentili della nostra bontà e non sfrutterebbero la nostra gentilezza? Che cosa è meglio, sfruttare o essere sfruttati? Chi può rispondere a tutte queste domande difficili e sconcertanti?»
Il profondo silenzio del cimitero mi ricordava il silenzio solenne che regnava sul terreno della scuola durante le cerimonie di commemorazione della Shoà e dei Caduti. Le lunghe file di tombe mi sembravano come le lunge, diritte file degli scolari nel cortile della scuola. Inevitabilmente ero portato a pensare che molti giovani, quasi bambini, giacevano sotto la nera terra di Tel Hai, così vicino a Qiryat Shemona. E tuttavia i ragazzi di Qiryat Shemona non sono come queste tombe di marmo! Sprizzano vita, i loro cuori desiderano un futuro migliore, sperano in una vita da poter vivere in un mondo senza paura: senza la paura del rumore improvviso di un aereo a reazione a bassa quota o del fischio di un razzo proveniente dal Libano.
«Fino a quando dovremo camminare per questa oscura valle di morte che richiede da noi un così alto tributo di sangue? Certo, questo prezioso pezzo di terra apparteneva ai nostri padri, Dio ce l’ha dato in eredità. Ma sono giustificate per questo tutte le vittime che abbiamo dovuto offrire? Io, in ogni caso, difenderò la mia terra fino all’ultimo respiro. La proteggerò con il mio corpo e non permetterò a nessun nemico di rubarmela! Al tempo dovuto entrerò nell’esercito: diventerò pilota, o quanto meno paracadutista! Combatterò per il mio amato paese, costi quello che costi!»
Per il mio cuore impaurito il muto ruggito del leone di pietra sopra la tomba di Trumpeldor era diventato un grido. Il monumento di pietra aveva lasciato un’impressione indelebile nel mio animo di bambino. Mi avviai allora sulla strada del ritorno e lasciai dietro di me i morti che riposavano in pace nella terra.
Gli alti abeti toccavano il cielo senza nuvole, gli uccelli cantavano allegri sui rami degli alberi. Non spirava neanche un filo d’aria e mi sembrava che perfino il vento trattenesse il respiro per onorare il santo Shabbat. Fiori selvatici ornavano il bordo della strada con macchie di colore. Anemoni rossi e papaveri selvatici, gialli crisantemi e tappeti di senape selvatico giallo emanavano il loro gradevole profumo. La catena dei monti Neftali troneggiava alla mia destra. Ad ovest si elevavano le lontante alture del Golan con le loro ombre celesti sugli scintillanti vivai della fertile valle di Hula. Riempii i polmoni di aria pura, cercando di conservare per sempre queste sensazioni nel mio cuore: il miracolo della creazione e il miracolo della sopravvivenza del popolo ebraico - il mio popolo - lungo i secoli della nostra esistenza.
D’un tratto venni ripreso dalla realtà, con i suoi doveri quotidiani e le sue preoccupazioni. Tuttavia sapevo, senza alcun dubbio, che era bello - anche se non facile - essere un ebreo.
Certamente conosci quelle belle lavatrici che fanno in modo che i nostri vestiti tornino puliti e non puzzino più. C'è il lavaggio delicato, il prelavaggio, il lavaggio principale e, se ho sbagliato qualcosa, anche un lavaggio aggiuntivo, ecc. Anche in Ezechiele 36 si parla di purificazione, ovvero della purificazione del popolo d'Israele.
Innanzitutto va detto che il Dio di Israele – il Signore dei signori e unico vero Dio creatore – ha creato il popolo degli Israeliti per sé. E ha promesso di restaurare il suo popolo, che è caduto ripetutamente nel peccato. Ciò richiede una purificazione assoluta e completa (cfr. Isaia 43,1-3.5-7).
Questa purificazione non avviene in modo indolore, ma attraversa tutte le fasi di un processo di purificazione fino al ripristino definitivo, compreso il ciclo di centrifugazione, come ci illustra la storia di Israele.
1. Il ritorno di israele
«Vi farò uscire dai popoli pagani, vi radunerò da tutte le nazioni e vi ricondurrò nel vostro paese... Abiterete nel paese che ho dato ai vostri padri, sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ezechiele 36,24.28).
Presumo che non sia necessario raccontarvi molto della storia di Israele. Per contestualizzare, vorrei soffermarmi brevemente sulla dispersione. Quando si parla qui di Israele che viene tolto dalle nazioni pagane, si presuppone che questo popolo eletto da Dio fosse stato precedentemente disperso tra le nazioni (Ezechiele 36,19).
Tre eventi salienti hanno determinato questa dispersione:
la dispersione del regno settentrionale di Israele tra gli Assiri nel 722 a.C., prima che Ezechiele vivesse;
la cattività babilonese di Giuda (regno meridionale), iniziata intorno al 600 a.C., durante la vita di Ezechiele;
la schiavitù degli ebrei da parte dei romani a partire dal 70 d.C., molto tempo dopo la morte di Ezechiele.
Al più tardi dal II secolo d.C., con l'ultima rivolta ebraica contro i romani, gli ebrei erano dispersi in tutto il mondo. Quando Ezechiele scrisse le sue profezie, l'esilio del regno settentrionale era già avvenuto (passato); la cattività babilonese del regno meridionale era presente; la dispersione romana era ancora futura dal suo punto di vista (circa 600 anni dopo).
Se consideriamo il nostro testo, sorge la domanda a quale di questi tre eventi si riferisca Ezechiele 36,24. In definitiva, si tratta del ritorno dei figli d'Israele alla fine dei tempi. Il ritorno dall'esilio babilonese ha certamente un ruolo importante: era l'aspettativa imminente degli ebrei e la situazione da cui Ezechiele scriveva. Ma le sue visioni vanno oltre: non solo su Giuda, ma su tutto Israele, e guardano fino alla fine dei tempi, cioè al Regno Millenario.
Ciò chiarisce che la storia di Israele non è finita e che il popolo ebraico non sarà mai – sottolineo: mai – sterminato. Quando si tratta della «soluzione finale» degli ebrei, Dio ha l'ultima parola, proprio come in Isaia 54,7-8.
«Per un breve istante ti ho abbandonato... ma con grande misericordia ti raccoglierò. Con ira improvvisa ti ho nascosto per un momento il mio volto, ma con grazia eterna avrò pietà di te, dice il Signore, tuo redentore».
Nonostante tutte le minacce di giudizio e le punizioni, Dio ha sempre promesso che Israele sarebbe stato restaurato. Ogni giudizio non ha mai significato la fine di Israele, ma purificazione, purificazione e un nuovo inizio. Il ciclo di centrifugazione era ed è necessario per poter stare davanti a Dio completamente purificati. Dio ha sempre conservato un residuo per raggiungere la meta con il suo popolo. La disobbedienza e il peccato non rimangono mai senza conseguenze; a volte provocano tutta la durezza dell'ira di Dio. Tuttavia, Dio non può rinnegare se stesso; porterà comunque a termine il suo piano di salvezza e di redenzione, in cui Israele gioca un ruolo decisivo. In Deuteronomio 30,4 si legge: «Se i tuoi esuli fossero all'estremità del cielo, anche da lì il Signore, tuo Dio, ti radunerebbe e da lì ti prenderebbe». Non è forse straordinario? Per dirla in modo esagerato: anche se gli ebrei colonizzassero Marte, Dio farebbe in modo che fossero cacciati dagli «uomini di Marte» antisemiti e riportati in Israele, che lo volessero o no.
In definitiva, questo ritorno a casa non riguarda solo il ritorno alla terra promessa, ma anche il ritorno al Dio dei loro padri, indissolubilmente legato alla terra e alla città di Gerusalemme (cfr. Ezechiele 36,28).
Israele viene riportato nella terra dei suoi padri per essere riconciliato con il Dio dei suoi padri. Questo processo è in pieno svolgimento. Noi che viviamo in questi tempi emozionanti possiamo vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie questa profezia che si sta attualmente realizzando. Che privilegio! Siamo anche testimoni diretti di ciò che è scritto in Amos 9:
«Io cambierò la sorte del mio popolo Israele, ed essi ricostruiranno le città devastate e le abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, pianteranno giardini e ne mangeranno i frutti. Li pianterò nella loro terra e non saranno più strappati dalla terra che io ho dato loro, dice il Signore, tuo Dio» (Amos 9,14-15) .
Canaan, la terra promessa, era descritta come una terra dove scorrevano latte e miele. Tuttavia, a causa dell'idolatria e della disobbedienza, si verificarono ripetute carestie. Più tardi, dopo la schiavitù romana, solo pochi ebrei rimasero nel paese, che degenerò in un deserto e in una palude infestata dalla malaria. Mark Twain scrisse nel 1867 nel suo diario di viaggio: «Di tutti i paesi con un paesaggio desolato, questo deve essere il peggiore». Non era certo una buona pubblicità per un viaggio in Israele. L'allora Palestina era una terra inospitale, dove vivevano più capre che persone e alla quale quasi nessuno era interessato. Ora però, dopo che gli ebrei sono stati riportati per grazia di Dio nella terra dei loro padri, vediamo già qualcosa di ciò che ancora deve completarsi: la terra un tempo arida fiorisce, prospera e cresce - e diventerà ancora più meravigliosa.
2. La purificazione di israele
«E spruzzerò su di voi acqua pura e sarete purificati; vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli. Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne; sì, metterò il mio spirito dentro di voi e vi farò camminare secondo le mie leggi, osservare e mettere in pratica le mie prescrizioni. ... Vi libererò da tutte le vostre impurità, chiamerò il grano e lo moltiplicherò, e non vi sarà più carestia. Moltiplicherò anche i frutti degli alberi e il raccolto dei campi, affinché non dobbiate più sopportare l'onta della fame tra le nazioni pagane. Allora ricorderete le vostre vie malvagie e le vostre azioni che non erano buone, e proverete disgusto per voi stessi a causa dei vostri peccati e delle vostre abominazioni» (Ezechiele 36,25-27.29-31).
Il ritorno nella terra donata da Dio non è la fine dell'opera salvifica di Dio nei confronti del suo popolo, ma un passo verso la meta, una sorta di prelavaggio. Alla fine si tratta del ciclo di lavaggio principale: la purificazione e il ripristino spirituale.
Ciò che colpisce qui è l'«Io» sovrastante di Dio: «Spruzzerò su di voi acqua pura ... e vi purificherò da tutti i vostri idoli». Nella Legge, chiunque si fosse contaminato doveva sottoporsi alle prescrizioni di purificazione (cfr. Numeri 19). Questo è il principio della legge, il percorso dal basso verso l'alto: l'uomo offre qualcosa a Dio (sacrificio, dono, abluzione). Nel nostro testo, invece, si dice: Dio spruzza acqua pura sul popolo, Dio lo purifica da tutte le sue impurità. Questo è il principio della grazia, il percorso dall'alto verso il basso. La Lettera agli Ebrei fa riferimento alla purificazione dell'Antico Testamento e allo stesso tempo spiega che il Signore Gesù ha compiuto questa purificazione (Ebrei 10,19.22).
Tutti i tentativi dell'uomo dal basso verso l'alto sono destinati al fallimento: possono al massimo alleviare temporaneamente, ma non guarire veramente. Per rimanere nell'immagine:
il lavaggio umano rimuove lo sporco superficiale, ma l'impurità interiore rimane. È solo questione di tempo prima che lo sporco esterno riemerga e il fresco profumo della purificazione lasci il posto al fetore del peccato. Qui però si parla di «acqua pura», che non riguarda solo i sintomi e l'aspetto esteriore, ma la causa, l'interno e la radice di tutti i mali. Solo Dio può compiere una purificazione così completa e profonda. È assolutamente necessaria affinché Israele possa incontrare nuovamente il suo Dio e si realizzino le promesse già fatte ad Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè e Davide. Proprio come in Isaia 44,21-22:
«Israeliti, discendenti di Giacobbe, ricordate sempre: io vi ho creati, voi mi appartenete e siete miei servi! Non vi dimenticherò mai. Vi ho perdonato le vostre colpe e tutti i vostri peccati. Sono scomparsi come nuvole, come nebbia al sole. Tornate a me, perché vi ho redenti!»
Notiamo che Dio non dice: «Tornate a me e allora vi redimerò», ma: «Vi ho redenti; perciò potete tornare a me». Questa è la fedeltà di Dio, questa è la grazia, la via dall'alto verso il basso!
Il prelavaggio – il ritorno a casa – è praticamente completato, anche se non ancora concluso. Sarà completato alla fine dei giorni, contemporaneamente alla restaurazione spirituale di Israele, quando avverrà, per così dire, un «rapimento verticale» degli ultimi ebrei nella terra promessa (cfr. Ezechiele 39,28). Il ciclo di lavaggio principale è già programmato e in parte in corso. Lo vediamo ovunque sempre più ebrei credono nel Signore Gesù. Il culmine deve ancora arrivare e sarà un percorso difficile: la centrifuga, che Israele non potrà evitare. «L'angoscia di Giacobbe» di Geremia 30 – la «grande tribolazione» – costituisce il cupo culmine del processo di purificazione di Dio nei confronti del suo popolo; ciò che Israele dovrà ancora sopportare supererà persino gli orrori dell'Olocausto. Solo un residuo del residuo sopravviverà e sarà condotto al pentimento. Così si legge in Zaccaria 13,8: «E avverrà, dice il Signore, che in tutto il paese due terzi saranno sterminati e periranno, ma un terzo rimarrà».
In Ezechiele 36,26 si legge inoltre: «Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo».
Anche questo è un atto che può avvenire solo dall'alto verso il basso, per grazia di Dio. Ricorda molto la nuova alleanza promessa in Geremia (Geremia 31,31-33): Dio mette la sua legge nel loro intimo e la scrive nei loro cuori. Il vecchio cuore, il «cuore di pietra», è duro, irragionevole, ribelle e concentrato sul proprio io. Il cuore nuovo, «di carne», è obbediente, comprensivo e misericordioso, concentrato su Dio e sul Salvatore. Tutti noi dovremmo avere un cuore così! Ciò implica una vita nello Spirito, lontana da me stesso e dal mio io (in cui non c'è nulla di buono) e vicina a Dio, a cui spetta tutta la gloria. «... e vi farò camminare secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie prescrizioni» (Ezechiele 36,27). Ciò significa che senza lo Spirito di Dio, senza il cuore nuovo e senza la sua grazia, il popolo d'Israele non sarà mai in grado di vivere in modo gradito a Dio. Per noi non è diverso: senza lo Spirito di Dio non potremo mai soddisfare il suo volere e la sua giustizia.
Anche il ritorno in patria non sarebbe stato possibile senza Dio; esso è stato frutto solo della sua grazia e della sua guida (Salmo 124,1-3).
Gli ebrei non sarebbero mai tornati nella terra promessa da Dio se Dio non lo avesse voluto e guidato. Anche se fossero tornati con le loro sole forze, senza la protezione di Dio sarebbero stati da tempo nuovamente espulsi o addirittura sterminati. Senza Dio questa terra e questo popolo non esisterebbero più! Quanto più questo vale per il ritorno spirituale e la restaurazione di Israele. Se Dio stesso non intervenisse, se non dicesse ripetutamente «Io voglio...» (o «Io farò»), Israele non accetterebbe mai il Messia, ma rimarrebbe con il cuore indurito. Ma Dio dice: «Vi porterò via dalle nazioni. Vi radunerò da tutti i paesi. Vi porterò nella vostra terra. Spruzzerò su di voi acqua pura. Vi darò un cuore nuovo e toglierò il cuore di pietra dalla vostra carne. Cambierò la sorte del mio popolo Israele. Farò in modo che...» - tutto per la salvezza e la redenzione di Israele e di tutti coloro che vogliono essere salvati.
3. La glorificazione di Dio
«Allora ricorderete le vostre vie malvagie e le vostre azioni che non erano buone, e proverete disgusto per voi stessi a causa dei vostri peccati e delle vostre abominazioni. Non per voi farò questo, dice il Signore Dio, sappiatelo bene! Vergognatevi e arrossite per le vostre vie, voi della casa d'Israele!» (Ezechiele 36,31-32).
«Allora mi dispiacque per il mio santo nome, che la casa d'Israele aveva profanato tra le nazioni dove era giunta. Perciò di' alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Non per voi faccio questo, casa d'Israele, ma per il mio santo nome, che voi avete profanato tra le nazioni dove siete giunti. Perciò renderò santo il mio grande nome, che è stato profanato tra le nazioni, che voi avete profanato in mezzo a loro. E le nazioni sapranno che io sono il Signore, dice il Signore Dio, quando mi mostrerò santo davanti ai loro occhi» (Ezechiele 36,21-23).
Che trionfo, che finale! Il ritorno a casa, la purificazione e la restaurazione spirituale sfociano nella glorificazione di Dio. Questa è una prova dell'onnipotenza,grazia, sovranità, maestà, potenza e unicità del santo Dio creatore. Si può solo dire con il profeta Michea: «Dov'è un Dio come te?», e rispondere: «Non c'è nessun altro Dio».
Si potrebbe pensare che Israele gioirà e si rallegrerà per la restaurazione spirituale e la salvezza. E di questo parla anche Geremia 31,4-7. Che gioia e che esultanza sarà! Tuttavia, il popolo sarà sconvolto quando penserà ai peccati commessi in passato, come descrive Zaccaria 12,10:
« ... e si lamenteranno quando guarderanno colui che hanno trafitto, e piangeranno amaramente su di lui ... ».
Nonostante tutta la gioia, si proverà allo stesso tempo un profondo disgusto, perché si è respinta per così tanto tempo la mano misericordiosa e salvifica di Dio e si è praticata la prostituzione spirituale. La prostituzione non è uno scivolone, ma un allontanamento consapevole e volontario; per questo in Geremia 30,12 si parla di «apostasia incurabile»: «Poiché così dice il Signore: La tua frattura è incurabile, la tua ferita è grave!» Se ci occupassimo solo dell'idolatria di Israele, non capiremmo che Israele ha comunque un futuro e che Dio ricondurrà comunque il suo popolo. Così si legge in Esdra 9,13.15:
«E dopo tutto ciò che ci è accaduto a causa delle nostre cattive azioni e della nostra grande colpa, tu, perché sei il nostro Dio, ci hai risparmiato più di quanto meritassero le nostre trasgressioni e ci hai concesso tanti scampati! ... O Signore, Dio d'Israele, tu sei giusto, perché noi siamo rimasti e siamo scampati, come è oggi il caso. Ecco, siamo colpevoli davanti a te, perché non possiamo resistere davanti a te!»
Non vale lo stesso anche per noi? Quale grazia è stata concessa anche a noi! Ognuno può giudicare da sé. Io, in ogni caso, posso solo dire: «Grazie, Signore! Non ho meritato nulla di ciò che mi hai donato».
Torniamo al «lavaggio della testa» di Dio sul suo popolo: quando Israele si pentirà e il residuo accetterà la grazia di Dio, proverà dolore e disgusto per se stesso, come chi si confronta con la propria colpa e si pente sinceramente. Ciò non avviene senza lacrime. Ma questo disgusto è un segno di vero pentimento, di vera conversione. All'orrore della consapevolezza del peccato segue la sincera confessione del peccato e la sensazione di non meritare il perdono. La grazia è immeritata. Nessuno ha diritto al perdono. Quando viene concesso il perdono, è un atto di bontà e misericordia. Lo stesso vale anche qui: Israele, e questo vale per tutti gli esseri umani, nessuno ha diritto al perdono.
Dio sottolinea la grande colpa, in realtà imperdonabile, del suo popolo e ribadisce che, per amore della sua santità, del suo nome, della sua parola e della sua glorificazione, purifica, rinnova e ravviva il popolo ribelle (Ezechiele 36,21-23.32).
Notiamo che con Dio non si scherza: ogni persona e ogni popolo dovrà un giorno giustificarsi davanti a Dio. Beato colui la cui giustificazione è Gesù Cristo; questa è l'unica cosa che Dio accetterà! Dio mantiene la sua parola e adempie le promesse che ha fatto ai patriarchi di Israele. «Io, il Signore, ho parlato, e lo farò» (Ezechiele 36,36). Il residuo riconoscerà veramente il suo Dio, odierà i peccati commessi e glorificherà il suo Salvatore. Quando ciò accadrà, risuonerà il grido di cui al Salmo 115,1, con cui concludo:
«Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria, per la tua misericordia, per la tua fedeltà!»
Ringraziamo il Signore di cuore. Dovremmo aspirare a che anche la nostra vita contribuisca alla glorificazione di Dio.
(Nachrichten aus Israel, ottobre 2025/5786 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele: arrivati i primi soldati americani che garantiranno la tregua a Gaza
I soldati americani non metteranno piede a Gaza, ma coordineranno le truppe estere incaricate di mantenere l'ordine e faciliteranno la transizione
Il dispiegamento delle truppe americane in Israele questo fine settimana segna l’inizio di uno sforzo straordinariamente complesso per garantire una fragile pace a Gaza e stabilire un quadro di riferimento per governare l’enclave.
Circa 200 soldati sotto il comando dell’ammiraglio Brad Cooper del Comando Centrale degli Stati Uniti sono già arrivati in Israele per istituire un centro di coordinamento che monitorerà il cessate il fuoco e organizzerà il flusso di aiuti umanitari, logistica e assistenza alla sicurezza a Gaza.
I funzionari statunitensi hanno ribadito venerdì che non è previsto che queste truppe, composte principalmente da pianificatori, specialisti dei trasporti e dell’ingegneria ed esperti di sicurezza, mettano piede a Gaza.
Ciononostante, i funzionari stanno già discutendo la creazione di una “Forza internazionale di stabilizzazione” composta da migliaia di soldati, la cui missione sarebbe quella di garantire la sicurezza dell’enclave. La sua composizione deve ancora essere determinata, ma potrebbe attingere a truppe provenienti dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Egitto, dalla Turchia, dal Marocco, dall’Indonesia e forse da diverse nazioni dell’Asia centrale.
Il ruolo degli Stati Uniti è degno di nota per un’amministrazione che ha a lungo evitato missioni di nation-building all’estero e ha posto l’accento sulla difesa dell’emisfero occidentale. Tuttavia, funzionari attuali ed ex funzionari affermano che un ruolo politico e militare americano è essenziale per consolidare il cessate il fuoco e trasformare la prima fase del piano della Casa Bianca per Gaza in una pace duratura.
Lo sforzo di reclutare e sostenere la forza di stabilizzazione andrà di pari passo con i piani per formare un organo di governo per Gaza che fornirà servizi essenziali dopo il conflitto iniziato quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023, uccidendo 1.200 persone e prendendo 251 ostaggi.
Secondo il piano di Trump, Gaza sarebbe amministrata da un comitato tecnocratico palestinese supervisionato da un “Consiglio di pace”. Trump presiederebbe il consiglio e anche l’ex primo ministro britannico Tony Blair avrebbe un ruolo.
Mettere insieme quel comitato tecnocratico potrebbe rivelarsi difficile. Circa 30.000 membri del personale tecnico, amministrativo e di sicurezza a Gaza sono sul libro paga dell’Autorità palestinese e potrebbero potenzialmente aiutare a mantenere i servizi essenziali e avviare una transizione verso l’amministrazione palestinese dell’enclave, come previsto nel piano di Trump, ha detto un ex funzionario statunitense. Il precedente progetto di Trump di trasferire i palestinesi fuori da Gaza, che aveva suscitato critiche diffuse nella regione, è stato accantonato.
Ma le divisioni politiche potrebbero complicare i piani di governance. Gli Emirati Arabi Uniti, a differenza dell’Arabia Saudita, hanno insistito affinché l’Autorità Palestinese venga riformata radicalmente prima di assumere un ruolo sostanziale nell’eventuale amministrazione di Gaza.
La creazione di una forza internazionale di stabilizzazione deve affrontare numerose sfide, a cominciare dagli sforzi per disarmare Hamas. I diplomatici hanno discusso un processo di “smantellamento” delle armi, un termine che riecheggia l’accordo che ha posto fine alla violenza nell’Irlanda del Nord sotto la guida di Blair.
Tali accordi di “smantellamento” dovrebbero essere elaborati nella prossima fase dei negoziati, che probabilmente inizierà dopo il rilascio degli ostaggi.
La pianificazione preliminare di una forza di stabilizzazione durante l’amministrazione Biden prevedeva un ruolo degli Stati Uniti che comprendeva logistica, trasporti, intelligence e supporto. Tali sforzi dovevano essere supervisionati da un generale americano con base in Egitto, il presunto punto di ingresso per le forze arabe e internazionali schierate a Gaza.
Tale approccio rifletteva il riconoscimento che l’esercito statunitense ha capacità uniche nell’organizzazione di operazioni di spedizione e rispondeva alle richieste arabe di coinvolgimento americano. Ma l’amministrazione Biden ha escluso l’invio di truppe a Gaza e ha invece preso in considerazione la possibilità di affidare il comando della forza a un comandante egiziano o degli Emirati Arabi Uniti.
L’amministrazione Trump non ha ancora specificato quali potrebbero essere le dimensioni della Forza Internazionale di Stabilizzazione, per quanto tempo rimarrebbe schierata o in che modo gli Stati Uniti la assisterebbero dall’esterno di Gaza.
“Stiamo già discutendo con diversi governi la creazione di questa ISF”, ha detto giovedì ai giornalisti un alto funzionario statunitense. “Con l’ammiraglio Cooper, sarà molto più facile”.
La Casa Bianca ha sottolineato ai suoi sostenitori MAGA che nessuna truppa statunitense entrerà nell’enclave. “Non è prevista l’entrata di truppe statunitensi a Gaza”, ha detto un secondo alto funzionario. “Si tratta solo di aiutare a creare il centro di controllo congiunto e integrare le altre forze di sicurezza che entreranno”.
Gli Stati Uniti hanno ancora un piccolo contingente nella penisola del Sinai in Egitto come parte della forza che monitora gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele.
Una questione centrale tra diplomatici ed ex funzionari è se Trump e il suo team manterranno la pressione diplomatica che ha portato all’imminente rilascio degli ostaggi. “Questo sarà mantenuto oltre la dichiarazione di vittoria di Trump?”, ha detto un ex funzionario. “Tutto questo richiederà una leva straordinaria per realizzarsi”.
Sondaggio: 6 israeliani su 10 non credono che Hamas sarà disarmato
Un sondaggio condotto da i24NEWS dall'istituto Direct Polls, diretto da Tzuriel Sharon, rivela un profondo scetticismo dell'opinione pubblica israeliana sulle prospettive di disarmo di Hamas e sulla stabilità dell'attuale tregua.
Alla domanda se l'accordo raggiunto nell'ambito del piano Trump porterà allo smantellamento militare del movimento terroristico islamista, il 60% degli intervistati risponde di non crederci, contro il 26% che pensa di sì e il 14% che non si pronuncia.
Per quanto riguarda la situazione della sicurezza, il 63% degli israeliani ritiene che un nuovo ciclo di combattimenti a Gaza sia inevitabile, mentre solo il 18% ritiene che la minaccia proveniente dal territorio sia stata scongiurata. Gli altri (19%) dichiarano di non sapere.
Il sondaggio ha anche esaminato il ruolo del ministro Ron Dermer nella formulazione del piano Trump: il 33% degli intervistati ritiene che la sua influenza sia stata “decisiva”, il 37% la giudica “parziale” e il 17% ritiene che non abbia avuto alcun impatto.
Condotto su 538 intervistati, il sondaggio presenta un margine di errore del 4,2%. Esso riflette un clima di persistente sfiducia nell'opinione pubblica israeliana, nonostante l'annuncio del cessate il fuoco e la graduale attuazione del piano americano per Gaza.
La recente firma per un cessate il fuoco tra Israele e i terroristi di Hamas non si può annoverare come una “pace”, ma piuttosto come l’ennesimo cessate il fuoco con annessa estorsione. Perché non è una pace? Perché è un’estorsione? Ora proviamo a spiegarne le ragioni.
Per prima cosa è doveroso sottolineare che l’unica cosa positiva di questo accordo è il rilascio (se ciò accadrà nei prossimi giorni) di tutti gli ostaggi vivi e morti. Per gli ostaggi ancora vivi e per le famiglie dei vivi e dei morti, è senza dubbio la fine di un interminabile incubo.
Non si può parlare di pace per molteplici ragioni. Per prima cosa un trattato di pace lo firmano due Stati nemici, qui siamo in presenza di uno Stato, Israele, che è stato aggredito con ferocia; e di un’organizzazione terroristica, che si è impossessata di un territorio, che è stato trasformato in un enorme centro logistico del terrore sia in superficie che sotto terra, dal quale è partita l’aggressione. Secondo, la pace la firmano due Stati che si riconoscono come legittime espressione dei propri popoli. Infatti, gli arabi nel 1949 firmarono con Israele dei meri accordi per il cessate il fuoco e non dei trattati di pace, perché questo avrebbe implicato il riconoscimento della legittimità di Israele, cosa inaccettabile per gli arabi. Anche quando furono firmati i trattati di pace tra Israele e Egitto (1979) e Giordania (1994) ad un riconoscimento formale di Israele non è mai seguita una vera pace: nessun scambio culturale, nessuna presenza di turisti da questi paesi arabi in Israele, scambi commerciali a senso unico: Israele esporta acqua e gas in Giordania e gas in Egitto ma solo perché questi paesi ne hanno un disperato bisogno. Dal punto di vista culturale, politico e diplomatico, erano, e sono estremamente ostili a Israele, questo perché, per loro, Israele è, e rimane, uno Stato illegittimo. Pensare a qualcosa di diverso con Hamas, soprattutto dopo il 7 ottobre, è una pericolosa illusione.
Poter pensare di firmare una “pace” con Hamas o con l’Autorità Palestinese, richiede un cambiamento di paradigma che richiederà generazioni non anni. Perché non basta che Hamas cambi il proprio statuto genocida o che l’Autorità Palestinese riconosca la legittimità dell’esistenza di Israele. Bisogna che queste due organizzazioni criminali cessino l’incitamento all’odio antiebraico che inizia all’asilo, prosegue nelle scuole primarie e secondarie fino alle università. Odio e delegittimazione che vengono diffuse nei giornali, nelle televisioni, nello sport, con il culto dei martiri e soprattutto con il pagamento degli stipendi degli assassini di ebrei visti come eroi e martiri.
Per capire quanto durerà questo cessate il fuoco, lo vedremo nei prossimi mesi quando si capirà se qualcuno (che non sia Israele) sarà in grado di disarmare i terroristi di Hamas perché, di propria iniziativa, loro non lo faranno. Per ora bisogna accontentarsi del rilascio degli ostaggi a caro prezzo.
Perché si può parlare di estorsione. Perché Hamas a fronte di una aggressione genocidiaria compiuta il 7 ottobre 2023, anziché essere messa all’angolo dal mondo “civile” e costretta di conseguenza alla capitolazione incondizionata, ha trovato l’appoggio politico necessario per sopravvivere e dettare le condizioni per il cessate il fuoco. A fronte dell’eccidio di 1.200 persone, ha ottenuto, con l’appoggio internazionale, la liberazione di migliaia di assassini condannati per omicidio (anche i più efferati), il riconoscimento del fantomatico “Stato di Palestina” da parte di un gran numero di paesi occidentali che in teoria sono amici di Israele. Infine la propria sopravvivenza che è vista come un premio e un merito della “resistenza” palestinese.
A tutto quanto detto bisogna aggiungere il fatto che, sempre, in passato la liberazione di terroristi omicidi non ha mai portato avanti la “pace” ma è vero l’opposto: ad ogni rilascio di terroristi in cambio di ostaggi, è seguita un’ondata di sangue sempre maggiore. Basti pensare che quasi tutti gli organizzatori del 7 ottobre erano nelle carceri israeliane e furono scarcerati nello scambio per il soldato Gilad Shalit nel 2011.
In attesa di vedere entro pochi giorni la liberazione di tutti gli ostaggi, a mio avviso cosa tutt’altro che scontata, per Israele c’è solo da sperare che la gioia per la loro liberazione (se questo avverrà nei prossimi giorni), nel prossimo futuro, non si trasformi in un lutto ancora più grande di quello vissuto il 7 ottobre.
Come un cessate il fuoco ha strappato la sconfitta dalle fauci della vittoria, garantendo al gruppo terroristico di sopravvivere per combattere un altro giorno
di Gregg Roman
Il gabinetto israeliano, di fronte a una pressione senza precedenti da parte del presidente Donald Trump e a una crisi politica interna, ha approvato un quadro che rappresenta tutto ciò contro cui si era messo in guardia nelle precedenti analisi strategiche: negoziare con i terroristi da una posizione di vittoria incompleta.
Il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato la sospensione dell'offensiva in seguito alla richiesta pubblica di Trump a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”. ... Questa decisione, presa nel momento di massima influenza israeliana, rappresenta il punto di svolta critico della guerra.
Il piano di Trump sfrutta il genuino esaurimento arabo nei confronti della causa palestinese per costruire un'architettura di sicurezza regionale a sostegno del cessate il fuoco. L'Egitto, che ha allagato i tunnel di Hamas e li ha designati come terroristi, ospita negoziati cruciali a Sharm el-Sheikh.
Se i negoziati falliranno completamente e Israele riprenderà le operazioni militari, torneranno le critiche internazionali, amplificate dalle accuse di malafede nei negoziati da parte di Israele.
La deterrenza basata sulla comprensione reciproca fallisce contro avversari la cui ideologia richiede la distruzione di Israele.
Il 10 ottobre 2025, alle 1:20 del mattino, è entrato in vigore un cessate il fuoco a Gaza, ponendo fine a due anni di conflitto iniziati con il massacro del 7 ottobre perpetrato da Hamas. Il gabinetto israeliano, sottoposto a pressioni senza precedenti da parte del presidente Donald Trump e a una crisi politica interna, ha approvato un accordo che rappresenta tutto ciò contro cui avevano messo in guardia le precedenti analisi strategiche: negoziare con i terroristi da una posizione di vittoria incompleta, rilasciare militanti incalliti in cambio di ostaggi e accettare vaghe promesse di futura smilitarizzazione al posto dell'attuale sconfitta militare.
Cosa succederà ora? La prima fase dell'accordo prevede il ritiro tattico di Israele dalla città di Gaza, il rilascio dei 48 ostaggi rimasti entro 72 ore e lo scambio di 250 prigionieri palestinesi condannati all'ergastolo più 1.700 detenuti. La seconda fase, i cui negoziati dovrebbero iniziare durante l'attuazione della prima fase, dovrebbe affrontare il disarmo di Hamas, il ritiro completo di Israele e il futuro politico di Gaza. Tutti i precedenti storici suggeriscono che la fase due crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni, lasciando Israele in una posizione peggiore rispetto a prima del cessate il fuoco, mentre Hamas ricostituirà le sue capacità e dichiarerà la vittoria strategica.
L'errore fondamentale alla base di questo accordo è quello di trattare la Fase Uno e la Fase Due come componenti sequenziali di un piano unificato, quando in realtà si tratta di quadri incompatibili costretti in una sequenza artificiale. La Fase Uno presuppone che Hamas possa essere un partner affidabile nel rilascio degli ostaggi e nella transizione di governo. La Fase Due presuppone che Hamas possa essere costretto al disarmo e alla marginalizzazione politica permanente. Queste ipotesi non possono essere vere contemporaneamente. O Hamas mantiene un potere e una legittimità sufficienti per funzionare come autorità di governo in grado di liberare gli ostaggi – nel qual caso non accetterà mai il disarmo completo – oppure è stato sufficientemente sconfitto da non avere più la capacità di governare, nel qual caso i meccanismi della Fase Uno diventano inattuabili. Israele ha scelto il peggiore dei due approcci: concedere a Hamas la legittimità attraverso i negoziati, pur non avendo il potere di costringerlo a rispettare gli obiettivi dichiarati dell'accordo.
• Le contraddizioni dell'accordo quadro Il piano in 20 punti annunciato dal presidente Trump il 29 settembre rappresenta una diplomazia ambiziosa che affronta contemporaneamente molteplici dimensioni: rilascio degli ostaggi, aiuti umanitari, transizione di governo, cooperazione regionale in materia di sicurezza e sviluppo economico a lungo termine. La sofisticatezza del documento è evidente, ma non la sua attuabilità. Il piano impone che Hamas non possa avere alcun ruolo, diretto, indiretto o di qualsiasi altra forma, nella futura governance di Gaza, richiedendo al contempo che Hamas rilasci gli ostaggi, coordini i ritiri e accetti la sostituzione tecnocratica. Questa logica circolare presuppone che Hamas faciliterà il proprio scioglimento.
Si considerino le disposizioni sul disarmo. Il quadro di Trump richiede la completa smilitarizzazione, con la distruzione di tutte le infrastrutture militari sotto la supervisione internazionale e la messa fuori uso permanente delle armi. La risposta di Hamas del 3 ottobre ha accettato il rilascio degli ostaggi e la transizione di governo, ma non ha fatto alcun riferimento al disarmo. L'alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha dichiarato esplicitamente: “Consegneremo le [nostre] armi al futuro Stato palestinese, e chiunque governerà Gaza avrà le armi in mano”. Quando gli è stato fatto notare che Israele aveva già distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, Abu Marzouk ha risposto: “Se hanno distrutto il 90% delle capacità militari di Hamas e ucciso la maggior parte dei combattenti di Qassam, come dice il presidente Trump, di chi sono le armi che intendete disarmare?”.
Questa domanda retorica mette in luce la contraddizione centrale dell'accordo. Se Hamas è stato sconfitto militarmente nella misura dichiarata, allora il disarmo diventa superfluo o impossibile: superfluo se le capacità non esistono più, impossibile se le armi sono sepolte sotto le macerie o distribuite tra cellule decentralizzate. Se Hamas mantiene una significativa capacità militare, allora possiede un mezzo di pressione per resistere al disarmo e utilizzerà il periodo di cessate il fuoco per ricostituirsi. In entrambi i casi, la clausola sul disarmo esiste solo sulla carta, senza meccanismi di applicazione al di là della ripresa delle operazioni militari, che riporterebbe semplicemente entrambe le parti allo status quo precedente al cessate il fuoco.
La transizione di governance presenta problemi simili. A Hamas è stato chiesto di farsi da parte per lasciare spazio a un “comitato tecnocratico palestinese composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali” supervisionato da un “Consiglio di pace” presieduto da Trump e che include l'ex primo ministro britannico Tony Blair. Hamas ha immediatamente respinto questa struttura. Abu Marzouk ha dichiarato: “Non accetteremo mai che qualcuno che non sia palestinese controlli i palestinesi”, opponendosi in particolare a Blair dato il suo ruolo nella guerra in Iraq del 2003. L'Autorità Palestinese, che dovrebbe assumere il controllo in attesa delle riforme, rimane debole, corrotta e profondamente impopolare. Il presidente Abbas, 89 anni e al ventesimo anno del suo mandato quadriennale, ha definito i membri di Hamas “figli di cani”, pur non avendo la capacità di governare il territorio che controllano.
La sequenza del ritiro israeliano amplifica queste contraddizioni. Netanyahu ha sottolineato ripetutamente nella sua intervista del 5 ottobre che “Israele effettua un ritiro tattico, rimane a Gaza”. Tuttavia, il leader di Hamas Khalil al-Hayya chiede il completo ritiro dalla Striscia di Gaza con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Il piano di Trump afferma che il ritiro sarà “basato su standard, tappe fondamentali e tempistiche concordati legati alla smilitarizzazione”, un linguaggio che non risolve nulla poiché la smilitarizzazione stessa rimane controversa. Israele non si ritirerà completamente finché Hamas non deporrà le armi; Hamas non deporrà le armi finché Israele non si ritirerà completamente. Non si tratta di una differenza negoziabile, ma di una contraddizione esistenziale che nessuna formula diplomatica potrà risolvere.
• Dimensione militare: la missione incompleta L'operazione israeliana Gideon's Chariots II, lanciata il 15 settembre con 60.000 riservisti e tre divisioni complete, ha rappresentato la campagna più ambiziosa della guerra: la conquista sistematica della città di Gaza per costringere Hamas alla resa incondizionata. Il 1° ottobre, l'IDF aveva completato la conquista del corridoio di Netzarim, tagliando fuori la città di Gaza dal centro di Gaza e dividendo il nord dal sud. Il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che Israele stava “stringendo l'assedio” intorno alla città di Gaza con avvertimenti di “ultima possibilità” per i residenti di evacuare verso sud. Coloro che fossero rimasti sarebbero stati trattati come “terroristi e sostenitori del terrorismo”.
La logica militare dell'offensiva era valida: concentrare una forza schiacciante, isolare la leadership di Hamas, distruggere le infrastrutture rimanenti e costringere alla resa da una posizione di dominio. Tra il 27 settembre e il 3 ottobre, Israele ha colpito oltre 300 obiettivi in tutta Gaza City, con Netanyahu che ha affermato: “50 torri del terrore abbattute in due giorni”. Al 30 settembre, circa 1.250 edifici erano stati distrutti nella città di Gaza. La pressione militare stava dando i suoi frutti: l'accettazione da parte di Hamas, il 3 ottobre, del quadro proposto da Trump derivava direttamente da questa realtà sul campo di battaglia.
Poi, il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato la sospensione dell'offensiva in seguito alla richiesta pubblica di Trump a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”. L'IDF è passata a “operazioni esclusivamente difensive”: le truppe hanno mantenuto le posizioni senza avanzare né ritirarsi. Questa decisione, presa nel momento di massimo vantaggio israeliano, rappresenta il punto di svolta critico della guerra. Anziché completare l'operazione e negoziare da una posizione di dominio assoluto, con la leadership di Hamas isolata e le infrastrutture distrutte, Israele ha accettato un cessate il fuoco che preserva la struttura organizzativa di Hamas e fornisce un margine di manovra per la ricostituzione.
Le implicazioni militari si estendono su più dimensioni. Israele sostiene di aver ucciso tra i 17.000 e i 23.000 militanti di Hamas, anche se il database dei servizi segreti israeliani a maggio 2025 confermava solo 8.900 combattenti di Hamas e della Jihad Islamica uccisi. I servizi segreti statunitensi hanno stimato che Hamas abbia reclutato circa 15.000 nuovi combattenti durante la guerra, suggerendo che l'organizzazione abbia continuato a reclutare nonostante le perdite. L'IDF ha annunciato di aver smantellato 20 dei 24 battaglioni di Hamas, con le forze israeliane che controllano circa il 75% del territorio della Striscia di Gaza, lasciando ad Hamas il controllo effettivo solo del 20-25% del territorio.
Queste statistiche possono essere interpretate in modo diverso a seconda della prospettiva. Da un punto di vista, Hamas ha subito un degrado catastrofico con l'eliminazione della leadership senior, la distruzione della struttura di comando e la riduzione del controllo territoriale a un quarto della striscia. Da un altro, Hamas ha dimostrato una notevole resilienza, reclutando tanti combattenti quanti ne ha persi, mantenendo la coesione organizzativa nonostante la decapitazione della leadership e costringendo Israele ad accettare i negoziati nonostante detenga solo il 20-25% del territorio che possedeva prima della guerra. La questione non è quale interpretazione sia accurata, ma quale sia più importante dal punto di vista strategico. Un Hamas indebolito ma intatto che sopravvive per combattere un altro giorno rappresenta un successo strategico per l'organizzazione, indipendentemente dalle perdite tattiche.
Si consideri la rete di tunnel, la risorsa strategica più preziosa di Hamas e l'infrastruttura che ha reso possibile l'attacco del 7 ottobre. Sebbene Israele abbia distrutto molti ingressi e pozzi dei tunnel, la mappatura completa e la distruzione dell'intera rete rimanevano incomplete al momento dell'interruzione delle operazioni. L'accordo di cessate il fuoco impone la distruzione dei tunnel sotto la supervisione internazionale, ma i meccanismi di applicazione rimangono indefiniti. Gli osservatori internazionali avranno accesso a tutte le posizioni sospette dei tunnel? Possederanno le competenze tecniche per verificare la completa distruzione? Hamas collaborerà nell'identificazione dei tunnel che ha impiegato decenni a costruire? Più fondamentalmente, una volta che le forze israeliane si saranno ritirate e il monitoraggio sarà diminuito, cosa impedirà a Hamas di riaprire i tunnel sigillati o di costruirne di nuovi utilizzando le stesse competenze che ha utilizzato per costruire la rete originale?
Il cessate il fuoco lascia intatto circa il 10-15% dell'arsenale di razzi prebellico di Hamas, composto da 20.000 proiettili, con capacità di lancio sporadica. Sebbene ridotta rispetto ai bombardamenti continui dell'ottobre 2023, questa capacità residua diventa strategicamente significativa durante la ricostituzione.
Hamas ha conservato le conoscenze tecniche, le competenze ingegneristiche e le infrastrutture industriali necessarie per fabbricare razzi durante tutta la guerra, nonostante i bombardamenti israeliani.
Il cessate il fuoco fornisce il tempo e lo spazio necessari per ricostruire gli impianti di produzione, addestrare nuovo personale e ripristinare la capacità. A meno che i “programmi di smantellamento” menzionati nel piano di Trump non comportino la distruzione fisica di ogni tornio, fresatrice e officina a Gaza – cosa impossibile – Hamas finirà per ripristinare la produzione di razzi.
Cosa ancora più importante, Izz al-Din al-Haddad, noto come “Il fantasma di Al-Qassam”, è emerso come nuovo leader militare e amministrativo di Hamas dopo la morte di Mohammed Sinwar nel maggio 2025. Il comandante cinquantacinquenne, che parla correntemente l'ebraico, è sopravvissuto a sei tentativi di assassinio da parte di Israele e ha perso due figli durante la guerra, pur mantenendo il comando. Israele ha offerto 750.000 dollari per informazioni che portassero alla sua cattura o alla sua morte. Al-Haddad detiene il potere di veto su qualsiasi accordo di cessate il fuoco o di rilascio degli ostaggi ed è descritto come più pragmatico dei suoi predecessori per quanto riguarda i negoziati, pur rimanendo impegnato nella resistenza armata. Il cessate il fuoco lo lascia vivo, al comando e in posizione di orchestrare la ricostituzione di Hamas.
• Dimensione psicologica: vittoria negata Le guerre non finiscono quando una delle parti non è più in grado di combattere, ma quando accetta di non poter vincere. Questa dimensione psicologica, ovvero la convinzione dell'avversario che continuare a resistere sia inutile, è più importante dei dati relativi al campo di battaglia. L'esercito della Germania nazista fu distrutto alla fine del 1944, ma la guerra continuò per un altro anno fino a quando l'occupazione fisica del Reich e il suicidio di Hitler non distrussero ogni speranza di vittoria. Il Giappone aveva la capacità di continuare a combattere dopo Hiroshima e Nagasaki, ma il discorso radiofonico senza precedenti dell'imperatore che annunciava la resa spezzò la volontà della popolazione. Le Tigri Tamil controllavano il territorio e comandavano i combattenti fino a quando la morte di Prabhakaran e l'accerchiamento militare dimostrarono in modo definitivo che la loro causa era persa.
L'accettazione da parte di Hamas del quadro proposto da Trump rappresenta un adeguamento pragmatico alla realtà del campo di battaglia, non una sconfitta psicologica. L'organizzazione è sopravvissuta, la sua leadership continua a operare da Doha, il suo comandante militare è ancora vivo a Gaza e ha costretto con successo Israele a negoziare, nonostante controlli solo un quarto del territorio. Dal punto di vista di Hamas, il cessate il fuoco rappresenta un successo strategico: hanno attaccato Israele, uccidendo 1.195 israeliani, tra cui 815 civili, preso 251 ostaggi, scatenato una guerra che ha distrutto gran parte delle infrastrutture di Gaza, eppure ne sono usciti con la capacità di negoziare i termini e la sopravvivenza dell'organizzazione intatta.
La narrativa che Hamas promuoverà in tutto il mondo arabo e islamico è semplice: il 7 ottobre hanno inflitto una dura sconfitta a Israele, hanno resistito a due anni di bombardamenti, hanno costretto l'IDF a ritirarsi dalla città di Gaza attraverso la resistenza e hanno negoziato il rilascio di 2.000 prigionieri palestinesi, tra cui 250 terroristi condannati all'ergastolo. La distruzione di Gaza sarà presentata come un eroico sacrificio nella resistenza all'occupazione. Le vittime civili, risultato diretto dell'uso di scudi umani da parte di Hamas e dell'inserimento di infrastrutture militari in aree civili, saranno attribuite interamente a Israele dalla sua macchina propagandistica.
Consideriamo il destino dei vertici di Hamas. Sì, Israele ha eliminato Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Mohammed Sinwar, Marwan Issa e Ismail Haniyeh, l'intera leadership che ha pianificato il 7 ottobre. Ma dal punto di vista ideologico di Hamas, questi uomini hanno raggiunto il martirio portando avanti la causa. Yahya Sinwar è morto combattendo contro le forze israeliane, senza arrendersi. Mohammed Deif è stato eliminato mentre era ancora al comando delle operazioni militari. Queste morti saranno commemorate, le strade intitolate a loro nome e le nuove reclute ispirate dal loro esempio. L'assenza di processi pubblici significa che non ci sarà alcun confronto con i loro crimini, nessun riconoscimento forzato delle atrocità, nessuna rottura della narrativa del martirio. Sono morti come terroristi piuttosto che affrontare la giustizia per i loro crimini.
Il comitato direttivo temporaneo di cinque membri con sede a Doha continua a governare Hamas con Khaled Mashal, Khalil al-Hayya e altri che operano apertamente in Qatar. Le elezioni della leadership, rinviate a causa della guerra, alla fine si terranno, garantendo continuità. A differenza delle Tigri Tamil, la cui intera leadership è stata uccisa o catturata, o di Sendero Luminoso, la cui aura mistica è svanita quando Abimael Guzmán è stato esposto in una gabbia, la leadership esterna di Hamas rimane intatta, ben finanziata e trattata come partner negoziale legittimo da vari attori internazionali. Il precedente dell'incontro tra i funzionari dell'amministrazione Trump e i rappresentanti di Hamas e i mediatori arabi che hanno facilitato le discussioni conferisce all'organizzazione la legittimità che ha cercato per decenni.
L'effetto psicologico sulla società palestinese richiede una valutazione onesta. Mentre alcuni abitanti di Gaza hanno manifestato contro il governo di Hamas con slogan come “fuori, fuori, Hamas fuori” e un sondaggio del maggio 2025 ha mostrato il 48% di approvazione per le manifestazioni anti-Hamas, l'organizzazione mantiene un significativo sostegno ideologico. La macchina propagandistica di Hamas attribuirà le disposizioni umanitarie del cessate il fuoco – aumento degli aiuti, fondi per la ricostruzione, ripristino dei servizi – al proprio successo negoziale piuttosto che alla moderazione di Israele o alla pressione internazionale.
L'obiettivo dichiarato di Israele all'inizio di questa guerra era eliminare Hamas come forza militare e di governo. Due anni dopo, Hamas non governa nulla, ma esiste come organizzazione politico-militare in grado di schierare combattenti, negoziare accordi e comandare lealtà. Ciò rappresenta la sconfitta degli obiettivi di guerra di Israele, indipendentemente dai successi militari tattici. Quando il Vietnam del Nord accettò gli Accordi di pace di Parigi nel 1973, non aveva sconfitto militarmente gli Stati Uniti, ma era sopravvissuto abbastanza a lungo da superare la volontà politica americana. Due anni dopo, Saigon cadde. Il parallelo con la pazienza strategica di Hamas è ovvio e minaccioso.
• Dimensione istituzionale: il vuoto di governance Hamas è molto più che militanti armati nei tunnel. In oltre 18 anni di governo di Gaza dal 2007, ha costruito un'infrastruttura istituzionale completa che tocca ogni aspetto della vita palestinese: istruzione, sanità, servizi sociali, istituzioni religiose, media, amministrazione civile e attività economica. Questa profondità istituzionale spiega la resilienza di Hamas nonostante la decapitazione della leadership e il degrado militare. Distruggere l'organizzazione richiede lo smantellamento di queste istituzioni e la loro sostituzione con alternative che servano la popolazione di Gaza senza dare potere ai terroristi. L'accordo di cessate il fuoco presuppone che questa transizione possa avvenire attraverso una sostituzione tecnocratica supervisionata da osservatori internazionali. L'evidenza storica suggerisce il contrario.
Si consideri l'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione che ha assunto i partecipanti del 7 ottobre e le cui strutture ospitavano le armi di Hamas. Il piano di Trump richiede la chiusura definitiva dell'UNRWA a Gaza, con indagini sui dipendenti e procedimenti giudiziari contro gli affiliati di Hamas. Si tratta di una politica corretta, ma che solleva immediatamente alcune domande: chi fornirà istruzione, assistenza sanitaria e servizi sociali a due milioni di palestinesi se l'UNRWA cesserà le sue attività? Il piano di Trump menziona nuove “strutture di aiuto non politicizzate”, ma crearle da zero mentre l'UNRWA chiude comporterà enormi lacune nei servizi. Hamas ha prosperato colmando le lacune nei servizi quando l'Autorità Palestinese si è dimostrata inefficace. Le bande criminali e le milizie rivali hanno già colmato il vuoto di potere nelle aree in cui Hamas ha perso il controllo. A meno che non vengano istituite istituzioni sostitutive contemporaneamente alla rimozione di Hamas, prevarrà il caos piuttosto che un governo tecnocratico.
Il sistema educativo rappresenta il campo di battaglia più critico per il futuro di Gaza. I libri di testo di Hamas hanno insegnato il martirio e l'antisemitismo a un'intera generazione. Gli insegnanti hanno indottrinato i bambini. Le strutture scolastiche sono state utilizzate come depositi di armi e ingressi di tunnel. Il riferimento del piano Trump ai tecnocrati che sviluppano nuovi programmi di studio che enfatizzano la matematica, la scienza e la formazione professionale sembra sensato, ma ignora gli ostacoli pratici. Il corpo docente di Gaza è stato istruito sotto il governo di Hamas, impiegato dai ministeri di Hamas e in molti casi ha collaborato attivamente con le operazioni di Hamas. È impossibile controllare ogni insegnante; sostituirli in massa significa che nessuna scuola funzionerà. L'alternativa – accettare che gli insegnanti formati da Hamas impartiscano programmi “riformati” sotto il controllo internazionale – non fa altro che dare una nuova immagine all'infrastruttura educativa di Hamas.
La rete di moschee utilizzata per il reclutamento e l'incitamento presenta sfide simili. Arrestare gli imam che predicavano la violenza e demolire le moschee utilizzate come depositi di armi sembra appropriato, ma crea problemi immediati. La leadership religiosa a Gaza si è evoluta nel corso di decenni all'interno di strutture controllate da Hamas. Trovare “una nuova leadership religiosa, controllata per il suo rifiuto della violenza e dell'estremismo” richiede l'identificazione di musulmani palestinesi che godano di rispetto, possiedano credenziali religiose e si oppongano a Hamas, una popolazione esigua data la realtà politica di Gaza. Monitorare i sermoni del venerdì per individuare incitamenti presuppone una capacità di monitoraggio che non esiste e non può essere sostenuta. Più fondamentalmente, la teologia radicale predicata da Hamas non è unica a Gaza, ma riflette interpretazioni estremiste più ampie prevalenti in tutta la regione. Cambiare la cultura religiosa di Gaza richiede una trasformazione generazionale, non un rimescolamento istituzionale.
Il sistema sanitario che Hamas ha utilizzato per scopi militari, con ospedali che ospitano centri di comando e personale medico che partecipa alle attività di Hamas, deve essere ricostruito in base alle disposizioni umanitarie del cessate il fuoco. Il piano Trump sottolinea giustamente che solo 14 dei 36 ospedali erano parzialmente funzionanti a ottobre e nessuno era completamente operativo. Gli aiuti internazionali ricostruiranno le strutture, formeranno il personale e ripristineranno i servizi. Ma a meno che gli amministratori affiliati a Hamas non vengano epurati e il personale medico che ha partecipato al terrorismo non perda la licenza, il sistema sanitario ricostruito si limiterà a ripristinare le infrastrutture di Hamas. L'alternativa, importare personale medico straniero per sostituire i medici e gli infermieri di Gaza, non è né fattibile né sostenibile. Gaza ha bisogno dei propri professionisti medici, che operano all'interno delle reti politico-sociali che Hamas ha coltivato per anni.
Il vuoto di governance creato dall'uscita concordata di Hamas dall'amministrazione formale crea opportunità per l'emergere di centri di potere alternativi. Le bande criminali hanno già riempito i vuoti nelle aree perse da Hamas con l'“erosione della barriera della paura” tra i civili di Gaza. Gruppi estremisti rivali più radicali di Hamas competono per ottenere influenza. I clan familiari e le strutture tribali riaffermano l'autorità tradizionale. L'Autorità Palestinese, debole e corrotta, non gode di alcun rispetto. In questo caos, il piano Trump introduce un “comitato tecnocratico palestinese” supervisionato da un “Consiglio di pace” internazionale che Hamas ha già respinto. Anche se istituito, cosa governa esattamente questo comitato? Non controlla forze armate, non gode della fedeltà popolare, non possiede profondità istituzionale e dipende interamente dalla protezione e dai finanziamenti esterni. Si tratta di autorità la cui legittimità deriva dal sostegno straniero piuttosto che dal consenso interno.
• Dimensione regionale: esaurimento arabo senza allineamento Il piano Trump sfrutta il genuino esaurimento arabo nei confronti della causa palestinese per costruire un'architettura di sicurezza regionale a sostegno del cessate il fuoco. L'Egitto, che ha allagato i tunnel di Hamas e li ha designati come terroristi, ospita negoziati cruciali a Sharm el-Sheikh. Il Qatar media nonostante ospiti la leadership di Hamas a Doha. La Giordania accoglie con favore il quadro. L'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Marocco e il Bahrein - i firmatari degli Accordi di Abramo più i sauditi - sostengono tutti pubblicamente il piano. Questo consenso regionale rappresenta un reale progresso diplomatico e risponde alle legittime preoccupazioni israeliane riguardo alla minaccia che Gaza potrebbe rappresentare in futuro per la stabilità regionale.
Tuttavia, il sostegno arabo rimane condizionato, limitato e, in ultima analisi, allineato agli interessi arabi piuttosto che a quelli israeliani.
Si consideri il ruolo dell'Egitto. Il presidente al-Sissi ha definito il cessate il fuoco un “momento storico che incarna il trionfo della volontà di pace” e l'Egitto stabilirà una presenza di sicurezza nel sud di Gaza nell'ambito del piano. Ma l'interesse primario dell'Egitto è quello di impedire che il caos di Gaza si estenda oltre il confine del Sinai, mantenendo al contempo buoni rapporti con la nuova amministrazione Trump. L'Egitto non ha alcun interesse a governare Gaza, a confrontarsi militarmente con Hamas per conto di Israele o ad accogliere i rifugiati di Gaza. Quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, l'Egitto ha chiuso il confine e ha lasciato morire di fame i palestinesi piuttosto che aprire i valichi. La “cooperazione in materia di sicurezza” egiziana significa impedire il contrabbando di armi e mantenere la sicurezza delle frontiere, cosa importante ma insufficiente per garantire la sconfitta definitiva di Hamas.
La posizione della Giordania è simile. Avendo represso la propria rivolta palestinese durante il Settembre Nero, la Giordania comprende la minaccia dell'estremismo palestinese. La cooperazione dei servizi segreti giordani nel controllare gli amministratori e il personale di sicurezza aiuta a identificare gli infiltrati di Hamas. Ma la Giordania non schiererà forze a Gaza, non governerà i territori palestinesi né si assumerà la responsabilità dei risultati politici palestinesi. La popolazione a maggioranza palestinese della Giordania fa sì che la stabilità del regno dipenda dal non essere visto come un soppressore delle aspirazioni palestinesi. La Giordania coopera a distanza, assicurandosi che i problemi di Gaza rimangano responsabilità di qualcun altro.
Gli Stati del Golfo offrono fondi per la ricostruzione con aspettative di ritorni commerciali. Gli Emirati Arabi Uniti potrebbero ricostruire il porto di Gaza; l'Arabia Saudita potrebbe finanziare gli alloggi. Questi progetti fornirebbero occupazione, ripristinerebbero le infrastrutture e dimostrerebbero tangibili dividendi di pace. Tuttavia, i finanziamenti del Golfo sono soggetti a condizioni, principalmente che si verifichino riforme della governance palestinese e che la sicurezza si stabilizzi. Se la Fase Due fallisce e la violenza riprende, gli investimenti del Golfo svaniscono. Inoltre, gli Stati del Golfo danno sempre più priorità allo sviluppo economico e al contenimento dell'Iran rispetto alle questioni palestinesi. Il loro sostegno al piano di Trump riflette l'allineamento con la politica americana e l'interesse personale nella stabilità regionale, non l'impegno a garantire la sicurezza di Israele contro una rinascita di Hamas.
La posizione dell'Arabia Saudita merita particolare attenzione. Il regno era tra gli “Stati arabi e musulmani chiave” da cui Trump ha ottenuto il sostegno, aderendo a una dichiarazione congiunta del 29 settembre che accoglieva con favore i suoi sforzi. Tuttavia, l'Arabia Saudita sostiene che la normalizzazione con Israele rimane subordinata ai progressi verso la creazione di uno Stato palestinese basato sull'Iniziativa di pace araba, alla fine dell'occupazione e al ritiro israeliano dai territori occupati. Queste condizioni non sono soddisfatte dal linguaggio vago di Trump su un “percorso credibile verso l'autodeterminazione palestinese” una volta completate le riforme dell'Autorità Palestinese. L'Arabia Saudita cerca garanzie di sicurezza americane, tecnologia nucleare e leadership regionale, obiettivi perseguiti sostenendo il piano di Trump indipendentemente dai risultati per Israele.
Il ruolo della Turchia rivela in modo più evidente i limiti del consenso regionale. Il presidente Erdoğan, che descrive Hamas come un “gruppo di liberazione” piuttosto che come un'organizzazione terroristica, ha dichiarato il 4 ottobre che “si è aperta una finestra di opportunità per una pace duratura”. Il sostegno della Turchia al piano riflette il miglioramento delle relazioni di Erdoğan con Trump e il desiderio di cooperazione economica, non un autentico allineamento con gli interessi di sicurezza israeliani. La Turchia non eserciterà pressioni su Hamas oltre quanto necessario per mantenere la buona volontà di Trump. I servizi segreti turchi non condividono alcuna informazione con Israele. Le organizzazioni della società civile turca che parteciperanno alla ricostruzione di Gaza sostengono ideologicamente Hamas e forniscono una copertura per il mantenimento dell'influenza di Hamas.
I paesi firmatari degli Accordi di Abramo – Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco – rappresentano i partner regionali più promettenti, date le loro relazioni formali con Israele. Tuttavia, queste relazioni rimangono subordinate all'allineamento della politica israeliana con gli interessi arabi. Il pacchetto di sanzioni dell'UE di settembre che prende di mira alcuni individui israeliani, sebbene richieda l'approvazione unanime dell'UE per essere attuato, segnala una crescente pressione internazionale. Se i negoziati della Fase Due falliscono e Israele riprende le operazioni militari, le nazioni degli Accordi di Abramo dovranno affrontare pressioni interne per prendere le distanze da Israele. Il loro sostegno al cessate il fuoco riflette l'attuale allineamento politico; il loro sostegno a Israele in caso di fallimento del cessate il fuoco è incerto.
• Dimensione internazionale: pressione senza strategia Il cessate il fuoco ha ottenuto un notevole sostegno internazionale, con il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres che ha accolto con favore l'accordo, il sostegno dell'UE ai principi di smilitarizzazione, il presidente francese Macron che ha ringraziato Trump per il suo “impegno per la pace”, il cancelliere tedesco Merz che lo ha definito “la migliore opportunità per la pace” e il primo ministro britannico Starmer che lo ha descritto come “un significativo passo avanti”. Questa unanimità diplomatica rappresenta un risultato autentico che distingue l'ottobre 2025 dai precedenti tentativi falliti. La pressione internazionale sostenuta da parte dei funzionari dell'amministrazione Trump, tra cui l'inviato speciale Steve Witkoff e Jared Kushner che hanno partecipato direttamente ai negoziati, si è rivelata decisiva. L'ultimatum di Trump del 3 ottobre, che avvertiva di “un vero e proprio INFERNO” se Hamas avesse rifiutato il piano, combinato con la sua richiesta a Israele di “interrompere immediatamente i bombardamenti su Gaza”, ha dimostrato la volontà di esercitare pressioni su entrambe le parti.
Il dispiegamento da parte del Comando Centrale degli Stati Uniti di 200 militari in Israele per istituire un centro di coordinamento a sostegno del monitoraggio del cessate il fuoco e del flusso di aiuti umanitari segnala l'impegno americano per il successo dell'accordo. È fondamentale sottolineare che non si tratta di truppe da combattimento e che non saranno dispiegate a Gaza stessa. Il coinvolgimento americano rimane strettamente diplomatico e logistico, senza fornire garanzie di sicurezza al di là della pressione politica per il rispetto dell'accordo. Se Hamas violerà l'accordo, la risposta degli Stati Uniti sarà una condanna diplomatica, non un'azione militare. Ciò limita l'influenza americana alla persuasione piuttosto che alla coercizione, sufficiente forse per mantenere il cessate il fuoco, ma insufficiente per costringere Hamas al disarmo contro la sua volontà.
L'interesse personale dell'amministrazione Trump nel successo di questo accordo crea sia opportunità che vincoli. Trump presiede il “Consiglio di pace” e ha puntato la sua reputazione diplomatica sul raggiungimento di ciò che le amministrazioni precedenti non sono riuscite a ottenere. L'attenzione presidenziale garantisce un impegno costante ad alto livello che potrebbe impedire l'incuria che ha condannato gli accordi precedenti. Tuttavia, ciò significa anche che la flessibilità della politica americana è limitata dall'impegno personale di Trump. Se i negoziati della Fase Due si arenano, Trump dovrà affrontare dei costi politici nell'ammettere che il quadro non può produrre i risultati promessi. La tentazione di fare pressione su Israele affinché accetti un disarmo parziale di Hamas o impegni vaghi piuttosto che riconoscere i limiti del piano diventa significativa.
Le organizzazioni umanitarie internazionali inonderanno Gaza di fondi per la ricostruzione, creando incentivi economici per mantenere il cessate il fuoco. La Banca Mondiale ha stimato 53 miliardi di dollari di danni materiali diretti a febbraio 2025, con il 92% degli edifici residenziali danneggiati o distrutti. I costi effettivi di ricostruzione potrebbero superare i 100 miliardi di dollari in 3-5 anni. Ciò rappresenta un'opportunità per trasformare l'economia di Gaza e migliorare le condizioni di vita. Tuttavia, i fondi per la ricostruzione che passano attraverso i tecnocrati palestinesi senza robusti meccanismi anticorruzione e senza il monitoraggio di Hamas saranno dirottati per la ricostituzione di Hamas.
La capacità di monitoraggio internazionale è limitata e organizzazioni come l'UNRWA si sono dimostrate vulnerabili all'infiltrazione di Hamas. Il denaro destinato alle scuole e agli ospedali può finanziare la ricostruzione dei tunnel e l'acquisto di armi.
L'influenza della comunità internazionale su Israele rimane principalmente economica e diplomatica piuttosto che militare. Vari organismi internazionali e nazioni possono esercitare pressioni, ma gli aiuti militari americani continuano indipendentemente dalle scelte politiche israeliane. L'effetto combinato crea una pressione sufficiente a costringere l'accettazione di un cessate il fuoco quando le circostanze lo favoriscono, ma insufficiente a forzare l'allineamento della politica israeliana alle preferenze internazionali se il governo israeliano ritiene che la sua sicurezza richieda approcci diversi. Ciò crea una dinamica problematica: la pressione internazionale impedisce a Israele di ottenere una vittoria militare decisiva, ma non può imporre risultati che pongano realmente fine al conflitto.
• Lo scambio di ostaggi: il rischio morale si è concretizzato I 48 ostaggi rimasti – 20 ritenuti vivi, 28 deceduti – rappresentano l'ultima risorsa strategica di Hamas e il tallone d'Achille emotivo di Israele. Il loro rilascio entro 72 ore dal ritiro israeliano rappresenta il risultato umanitario più immediato del cessate il fuoco e il suo costo strategico più profondo. Israele rilascerà 250 palestinesi che stanno scontando l'ergastolo per reati legati al terrorismo, oltre a circa 1.700 palestinesi detenuti a Gaza dal 7 ottobre, comprese tutte le donne e i bambini. Si tratta del più grande rilascio di prigionieri nella storia di Israele, superiore persino all'accordo Shalit del 2011 che ha liberato 1.027 prigionieri, tra cui Yahya Sinwar, che ha orchestrato il 7 ottobre.
Il calcolo morale che deve affrontare la leadership israeliana si rivela incredibilmente crudele: accettare le condizioni di Hamas e riportare a casa gli ostaggi, oppure mantenere la pressione militare che potrebbe uccidere gli ostaggi ma evita di rafforzare il terrorismo futuro. Le famiglie degli ostaggi, riunite a Hostages Square a Tel Aviv, sono esplose di gioia all'annuncio, con Einav Zangauker, madre dell'ostaggio Matan, che ha dichiarato: “Ho pregato per queste lacrime... Matan sta tornando a casa!”. La carica emotiva di questo momento è innegabile e l'imperativo umanitario di salvare vite umane è profondo. Nessun leader israeliano può facilmente dire a queste famiglie che i loro cari devono rimanere prigionieri per ragioni strategiche.
Tuttavia, il precedente stabilito da questo scambio garantisce virtualmente futuri sequestri di ostaggi. L'attacco di Hamas del 7 ottobre ha ucciso 1.195 israeliani e preso 251 ostaggi. Nonostante due anni di devastanti risposte militari che hanno ucciso i leader, distrutto le infrastrutture e ridotto Hamas al controllo del 20-25% del suo territorio prebellico, Hamas è riuscita a negoziare il rilascio di 2.000 prigionieri, tra cui 250 condannati all'ergastolo. Dal punto di vista di Hamas e di altre organizzazioni terroristiche che osservano, questo rapporto di scambio conferma che il sequestro di ostaggi è strategicamente efficace. I futuri attacchi daranno la priorità alla cattura di israeliani, sapendo che un numero sufficiente di ostaggi costringe a negoziare indipendentemente dai risultati militari.
Le foto degli ostaggi scattate da Hamas il 7 ottobre 2023 sono esposte a Tel Aviv. Tra le persone ancora detenute ci sono sette americani.
I prigionieri specifici che saranno rilasciati amplificano queste preoccupazioni. Mentre il governo ha confermato che Marwan Barghouti, leader di Fatah che sta scontando cinque ergastoli e potenziale futuro leader palestinese, non sarà rilasciato, altri 250 prigionieri condannati all'ergastolo saranno liberati. Si tratta di individui condannati per aver pianificato o eseguito attacchi che hanno causato la morte di israeliani. Molti possiedono competenze tecniche, esperienza operativa e impegno ideologico che li rendono risorse preziose per Hamas. Alcuni torneranno direttamente al terrorismo; altri addestreranno nuove reclute, ricostruiranno reti e trasferiranno conoscenze. La lezione dell'accordo Shalit del 2011 è istruttiva: Yahya Sinwar, rilasciato in quello scambio, è diventato il leader di Hamas a Gaza e l'artefice del 7 ottobre. Quanti futuri Sinwar sono inclusi negli attuali 250?
I 1.700 palestinesi detenuti dal 7 ottobre presentano preoccupazioni diverse. Questi detenuti includono partecipanti al 7 ottobre, membri di Hamas arrestati durante la guerra e civili detenuti in operazioni militari. Il piano di Trump offre l'amnistia ai membri di Hamas che si impegnano a convivere pacificamente e a smantellare le armi, con un passaggio sicuro verso i paesi di accoglienza per coloro che desiderano lasciare Gaza. Ciò presuppone che gli agenti di Hamas abbandonino sinceramente la loro causa, un'ipotesi contraddetta dall'impegno ideologico e dalle reti familiari/sociali che li legano alla resistenza continua. La maggior parte dei prigionieri rilasciati rimarrà a Gaza o in Cisgiordania, dove si riunirà alle reti di Hamas o ne creerà di nuove.
Il termine di 72 ore per il rilascio crea ulteriori complicazioni. Le valutazioni dei servizi segreti israeliani suggeriscono che Hamas potrebbe non conoscere l'ubicazione di 7-15 ostaggi deceduti, i cui resti potrebbero essere sepolti sotto le macerie nelle zone devastate dai bombardamenti israeliani. Alcuni ostaggi sono detenuti da gruppi che Hamas non controlla completamente, tra cui la Jihad islamica e altre fazioni. Se Hamas non riuscisse a consegnare tutti gli ostaggi entro 72 ore, Israele considererebbe l'accordo violato e riprenderebbe le operazioni? Il piano non prevede alcun meccanismo per affrontare questo scenario. In alternativa, se Israele accetta il ritorno parziale degli ostaggi, quale incentivo ha Hamas per localizzare gli ostaggi rimanenti in un secondo momento?
La manipolazione emotiva utilizzata da Hamas durante la prigionia, attraverso la diffusione di video degli ostaggi in condizioni deplorevoli, che mostravano grave malnutrizione e torture psicologiche, ha esercitato con successo pressioni su Israele affinché avviasse i negoziati. Questa tecnica verrà replicata. Le future organizzazioni terroristiche che osservano il successo di Hamas capiranno che tenere gli ostaggi in condizioni sufficientemente crudeli, diffondere video che documentano le loro sofferenze e attendere che la pressione dell'opinione pubblica costringa il governo a concedere concessioni rappresenta una strategia collaudata.
Questo precedente allontana il terrorismo dalla violenza immediata per orientarlo verso il sequestro prolungato di ostaggi come tattica primaria.
L'approccio alternativo, che consiste nel mantenere la pressione militare senza negoziare per gli ostaggi, sembra impossibilmente duro, ma rappresenta una logica di deterrenza a lungo termine. Se la presa di ostaggi si dimostrasse costantemente controproducente perché Israele risponde con operazioni militari intensificate che uccidono i rapitori senza concedere concessioni, i gruppi futuri eviterebbero questa tattica. Le operazioni militari dello Sri Lanka contro le Tigri Tamil sono continuate nonostante le vittime civili e la pressione internazionale fino alla completa distruzione dell'organizzazione. L'approccio della Russia nei confronti dei terroristi ceceni che hanno preso ostaggi nel teatro Dubrovka di Mosca e nella scuola di Beslan ha comportato assalti militari che hanno ucciso terroristi e ostaggi piuttosto che negoziati. Questi approcci hanno impedito futuri sequestri di ostaggi dimostrando che sarebbero falliti.
La società israeliana, tuttavia, non può sostenere una tale spietatezza, data la responsabilità democratica e i legami emotivi tra cittadini e soldati. La dichiarazione del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi secondo cui “la nostra lotta non è finita, e non finirà, fino al ritorno dell'ultimo ostaggio” coglie il sentimento pubblico che nessun governo israeliano può ignorare all'infinito. Questo impulso umanitario rappresenta la forza morale della società israeliana, ma crea vulnerabilità strategiche che le organizzazioni terroristiche sfruttano. Il rischio morale insito nello scambio – salvare questi ostaggi incoraggia futuri sequestri – non può essere risolto attraverso la politica, ma riflette la tensione fondamentale tra i valori democratici e le esigenze della lotta al terrorismo.
• Fase due: la crisi imminente L'attuazione della fase uno nelle prossime 72 ore procederà senza intoppi – tutti gli ostaggi saranno liberati, i prigionieri scambiati, le forze israeliane si ritireranno sulle linee concordate, gli aiuti umanitari arriveranno – oppure fallirà immediatamente a causa dell'incapacità o della riluttanza di Hamas a consegnare gli ostaggi. Se la fase uno avrà successo, l'attenzione si sposterà immediatamente sui negoziati della fase due, che dovrebbero iniziare durante l'attuazione della fase uno. È qui che il cessate il fuoco si consoliderà in un accordo sostenibile o fallirà in un nuovo conflitto.
Le questioni fondamentali che richiedono una risoluzione nella Fase Due sono:
Il completo disarmo di Hamas, compresa la distruzione delle armi rimanenti, lo smantellamento degli impianti di produzione e la dismissione permanente delle infrastrutture militari. Hamas non ha assunto alcun impegno in materia di disarmo nella sua risposta del 3 ottobre e ha dichiarato esplicitamente che non deporrà le armi fino alla creazione di uno Stato palestinese. Israele considera il disarmo assolutamente non negoziabile. Ciò pone i negoziati della Fase Due come un confronto a somma zero: o Hamas disarma e cessa di esistere come forza militare, oppure mantiene le armi e rimane una potenziale minaccia. Non esiste una via di mezzo; il disarmo parziale significa che Hamas mantiene la sua capacità di operare in futuro.
Ritiro completo di Israele da Gaza, compreso l'evacuazione del Corridoio di Philadelphi e delle zone cuscinetto di sicurezza. Hamas chiede il “ritiro completo dalla Striscia di Gaza” con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Israele insiste che il ritiro è subordinato ai progressi nella smilitarizzazione con accordi di sicurezza permanenti che garantiscano che Gaza non rappresenti una minaccia. Netanyahu ha ripetutamente affermato che “Israele effettua un ritiro tattico, rimane a Gaza” con le forze israeliane che mantengono una presenza di sicurezza perimetrale fino a quando Gaza non sarà al sicuro dalle minacce terroristiche. Il linguaggio del piano Trump che collega il ritiro a “standard, traguardi e tempistiche concordati legati alla smilitarizzazione” non risolve nulla, poiché la sequenza rimane controversa.
Transizione di governance da Hamas ai tecnocrati palestinesi sotto la supervisione internazionale. Sebbene Hamas abbia accettato di rinunciare all'autorità di governo, ha rifiutato la struttura del “Consiglio di pace” con Trump e Blair, insistendo sul fatto che solo i palestinesi possono controllare i palestinesi. L'Autorità palestinese non ha la capacità e la credibilità per assumere il controllo. Chi governa effettivamente l'amministrazione quotidiana di Gaza, fornisce servizi, mantiene l'ordine, impiega funzionari pubblici e gode di legittimità popolare rimane irrisolto. Senza un governo efficace, gli elementi criminali, le fazioni militanti rivali e Hamas che opera segretamente riempiranno il vuoto.
La statualità palestinese rappresenta l'orizzonte politico finale che potrebbe fornire una soluzione duratura, ma rimane volutamente vaga nel piano di Trump. Il quadro menziona solo che “quando il programma di riforma dell'Autorità Palestinese sarà fedelmente attuato, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese”. Netanyahu ha categoricamente e ripetutamente respinto la creazione di uno Stato palestinese, definendola “il premio finale per il terrorismo” e dichiarando alle Nazioni Unite il 26 settembre: “Israele non vi permetterà di imporci uno Stato terrorista”. Ha sottolineato che questa è “la politica dello Stato e del popolo dello Stato di Israele”. Hamas insiste sulla creazione di uno Stato che comprenda tutta la “Palestina” storica con Gerusalemme come capitale. Questo divario tra le due posizioni non può essere colmato attraverso i negoziati.
La crisi politica interna di Netanyahu complica notevolmente i negoziati della Fase Due. La sua coalizione detiene solo 60 seggi nella Knesset, che ne conta 120, e non ha la maggioranza parlamentare. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno entrambi votato contro l'accordo della Fase Uno, con Ben Gvir che ha dichiarato che il suo partito lascerà il governo se Hamas non verrà smantellato nella Fase Due. L'accordo è stato approvato solo perché il leader dell'opposizione Yair Lapid ha offerto una “rete di sicurezza” politica, fornendo voti per impedire il crollo del governo. Questa cooperazione senza precedenti tra rivali quando gli interessi nazionali coincidono dimostra la resilienza della democrazia israeliana, ma crea dinamiche insostenibili. Netanyahu deve negoziare contemporaneamente con Hamas e gestire i partner della coalizione che considerano intollerabile qualsiasi accordo con Hamas.
Se i negoziati della Fase Due produrranno un accordo che richiede ulteriori concessioni da parte di Israele – accettare il disarmo parziale di Hamas, concordare il ritiro completo senza garanzie di sicurezza ferree o riconoscere percorsi verso la creazione di uno Stato palestinese – Ben Gvir e Smotrich probabilmente faranno cadere il governo. Se Netanyahu resisterà alle richieste di Hamas e i negoziati si bloccheranno, aumenterà la pressione internazionale affinché Israele dia prova di flessibilità, mentre Hamas consoliderà il controllo sulle aree da cui Israele si è ritirato. Se i negoziati falliranno completamente e Israele riprenderà le operazioni militari, torneranno le critiche internazionali, amplificate dalle accuse di malafede nei negoziati da parte di Israele.
Lo scenario più probabile prevede negoziati prolungati nella fase due che porteranno ad accordi parziali su questioni secondarie, mentre le questioni fondamentali – disarmo, ritiro, governance, statualità – rimarranno irrisolte. Hamas attuerà riforme sufficienti a mantenere il sostegno internazionale, preservando al contempo la sua capacità di condurre operazioni future. Israele manterrà la sua presenza di sicurezza in alcune aree, ritirandosi da altre, creando accordi ambigui che non soddisfano nessuno. Verranno istituite strutture di governance tecnocratiche sulla carta, mentre Hamas influenzerà qualsiasi amministrazione attraverso reti di clientelismo e intimidazioni. Entrambe le parti rivendicheranno progressi, preparandosi al contempo a un eventuale scontro.
I precedenti storici suggeriscono che gli accordi di cessate il fuoco che non risolvono realmente le questioni fondamentali finiscono per fallire. Il cessate il fuoco del novembre 2023 è durato una settimana. Il cessate il fuoco del gennaio 2025 è fallito a marzo. Entrambi i fallimenti sono stati caratterizzati da reciproche accuse di malafede, con Israele che sosteneva che Hamas si fosse rifiutato di rispettare gli accordi e Hamas che accusava Israele di sabotare deliberatamente gli accordi. Questo schema non suggerisce che una delle due parti sia particolarmente inaffidabile, ma che le questioni di fondo che le dividono non possono essere risolte attraverso un compromesso negoziato. O Hamas viene sconfitto militarmente e cessa di esistere come minaccia, oppure sopravvive e alla fine riprende il conflitto quando le circostanze lo favoriscono.
• Conclusione: la via da seguire Il cessate il fuoco del 10 ottobre 2025 rappresenta un punto di svolta nella guerra più lunga di Israele. L'accordo porta benefici immediati tangibili: il ritorno a casa degli ostaggi, l'aiuto umanitario, la riduzione della pressione internazionale e la sospensione delle operazioni militari, consentendo così alle forze di difesa israeliane di riorganizzarsi e prepararsi per future contingenze. Questi risultati sono importanti e non devono essere sottovalutati. Il ritorno a casa di un solo ostaggio vivo giustifica costi significativi. Fornire aiuti umanitari alla popolazione di Gaza risponde sia a imperativi morali che a interessi strategici, dimostrando l'impegno di Israele a ridurre al minimo le sofferenze dei civili mentre prende di mira i terroristi di Hamas.
Tuttavia, la traiettoria strategica del cessate il fuoco punta verso un rinnovato conflitto piuttosto che verso una pace sostenibile. Le contraddizioni fondamentali dell'accordo – il disarmo di Hamas, la transizione di governance senza alternative funzionali, il ritiro subordinato a una sicurezza che non esisterà, le aspirazioni di statualità incompatibili con la politica israeliana – non possono essere risolte attraverso i negoziati perché riflettono posizioni realmente inconciliabili. Hamas sopravvive militarmente indebolito ma organizzativamente intatto. La sua ideologia – secondo cui la distruzione di Israele è possibile e obbligatoria – rimane immutata. La sua leadership esterna continua a operare da Doha. Il suo comandante militare a Gaza è sopravvissuto. La sua infrastruttura istituzionale, sebbene danneggiata, conserva la capacità di ricostituirsi.
La scelta strategica di Israele si cristallizza nei negoziati della Fase Due. Una strada prevede l'accettazione di risultati parziali: Hamas cede la maggior parte delle armi, ma non tutte, Israele si ritira dalla maggior parte del territorio, ma non da tutto, la transizione di governo è parziale mentre Hamas mantiene un'influenza informale, la statualità rimane una vaga possibilità. Questa strada mantiene il cessate il fuoco, soddisfa l'opinione pubblica internazionale e offre un momento di respiro. Assicura anche la sopravvivenza di Hamas e il suo eventuale ritorno al conflitto quando le sue capacità saranno ripristinate. L'altra strada consiste nell'insistere sulla completa attuazione di tutte le disposizioni della Fase Due: disarmo totale, ritiro completo solo dopo la verifica, esclusione assoluta di Hamas dal governo e rifiuto esplicito della statualità per le entità terroristiche. Questa strada rischia di far fallire i negoziati, di innescare la ripresa delle operazioni militari e di ripristinare le critiche internazionali. Ma potenzialmente completa la missione della sconfitta permanente di Hamas.
La scelta non è tra la vittoria e il compromesso, ma tra un'azione decisiva e una deriva strategica. Il governo dello Sri Lanka ha affrontato una scelta simile nel 2009: accettare accordi di condivisione del potere con le Tigri Tamil, preservando così la loro capacità, o completare le operazioni militari distruggendole completamente nonostante la pressione internazionale. Lo Sri Lanka ha scelto il completamento. Oggi le Tigri Tamil non esistono più. Il Perù ha affrontato una scelta simile con Sendero Luminoso: negoziare la condivisione del potere o catturare la sua leadership e spezzare il movimento. Il Perù ha scelto di catturare i leader. Oggi Sendero Luminoso è un ricordo storico. La Germania nazista e il Giappone imperiale non sono stati negoziati fino alla moderazione, ma distrutti completamente con società riformate ricostruite da zero. Questi esempi storici hanno avuto successo non grazie alla sofisticatezza diplomatica, ma grazie all'impegno costante nel raggiungere una vittoria autentica a prescindere dai costi.
L'attuale cessate il fuoco offre a Israele l'opportunità di prepararsi al collasso della Fase Due rafforzando il suo governo di coalizione, assicurandosi il sostegno internazionale per una potenziale ripresa delle operazioni, mantenendo la prontezza militare e sviluppando strutture di governance alternative per Gaza che non dipendano dalle capacità dell'Autorità Palestinese. Se i negoziati della Fase Due riuscissero sorprendentemente a costringere Hamas al completo disarmo e all'esclusione permanente dal governo, Israele dovrebbe accogliere con favore tale risultato, mantenendo al contempo meccanismi di verifica per impedire la ricostituzione segreta di Hamas. Se la Fase Due fallisse come previsto, Israele dovrebbe essere pronto a completare le operazioni in modo deciso, piuttosto che accettare un altro cessate il fuoco che preservi Hamas in forma indebolita.
I due anni trascorsi dal 7 ottobre hanno dimostrato la vulnerabilità di Hamas a una pressione militare prolungata. La sua leadership è stata eliminata, le capacità militari sono state ridotte, il controllo territoriale è stato ridotto, le risorse finanziarie sono state esaurite e la rete di sostegno internazionale è stata interrotta. L'organizzazione è sopravvissuta, ma a malapena. Per completarne la sconfitta occorre forse un altro anno di operazioni: distruzione completa dei tunnel, eliminazione della leadership rimanente, smantellamento istituzionale e sostituzione dell'establishment governativo. Questo percorso comporta dei costi: ulteriori vittime dell'IDF, continue critiche internazionali, impegno militare prolungato e tensioni politiche interne. Ma l'alternativa – accettare la sopravvivenza di Hamas e scommettere che gli accordi politico-diplomatici ne impediranno la rinascita – garantisce futuri conflitti in circostanze potenzialmente meno favorevoli di quelle attuali.
L'attacco di Hamas era militarmente irrazionale: garantiva una risposta devastante da parte di Israele senza alcuna possibilità realistica di vittoria strategica. Hamas lo ha lanciato comunque perché l'ideologia ha prevalso sul calcolo razionale. La convinzione che Hamas, dopo aver sperimentato la potenza militare israeliana, accetterà ora una coesistenza pacifica attraverso accordi di governance tecnocratica confonde il pragmatismo tattico con la sconfitta strategica. I nemici veramente sconfitti non negoziano i termini; si arrendono incondizionatamente o cessano di esistere.
Israele deve decidere: accettare i benefici immediati del cessate il fuoco, pur riconoscendo che probabilmente preserva piuttosto che risolvere il conflitto sottostante, oppure utilizzare i negoziati della Fase Due per insistere sulla completa sconfitta di Hamas, comprendendo che ciò potrebbe richiedere la ripresa delle operazioni. Entrambe le strade comportano rischi profondi. La scelta sbagliata, tuttavia, è credere che un compromesso negoziato possa colmare il divario tra l'esistenza di Israele e l'ideologia di Hamas che chiede la distruzione di Israele. Alcuni conflitti finiscono con un compromesso, altri con una vittoria. Il 7 ottobre ha dimostrato in quale categoria rientra questo conflitto. La domanda è se Israele possiede la chiarezza strategica e la volontà politica per agire di conseguenza.
Gli ostaggi torneranno a casa. Gaza sarà ricostruita. Il cessate il fuoco sarà temporaneo. I negoziati della fase due inizieranno con la dovuta serietà diplomatica. E a un certo punto – settimane, mesi, forse un anno da oggi – le contraddizioni fondamentali insite in questo accordo verranno a galla, poiché Hamas resisterà al disarmo, Israele rifiuterà il ritiro completo, le strutture di governo si dimostreranno inadeguate ed entrambe le parti si prepareranno a un nuovo conflitto. Quando arriverà quel momento, Israele dovrà scegliere tra accettare un accordo inadeguato che preserva la minaccia terroristica o completare la missione che il 7 ottobre ha reso necessaria. La scelta di oggi è prepararsi per quella decisione inevitabile di domani.
L’accordo raggiunto ieri a Sharm El Sheikh e trionfalisticamente salutato come una svolta epocale, lascia grandi incognite. Hamas ha acconsentito a rilasciare i 48 ostaggi detenuti ancora nella Striscia ma chiede in cambio che Israele non riprenda la guerra e che il suo esercito lasci l’enclave, e sembra che abbia ottenuto questa garanzia.
Ieri, Trump ha spiegato che quello che conta adesso è la liberazione degli ostaggi e che dopo si vedrà. Non ha saputo o voluto rispondere sul meccanismo che imporrebbe a Hamas il disarmo completo e che è contento nel suo ambizioso piano di pace e di rinnovo. Questa è la grande incognita. Se a Israele, dopo la consegna degli ostaggi, che deve ancora avvenire, non verrà permesso di riprendere la guerra e verrà imposto di ritirare le truppe da Gaza, chi potrà garantire l’uscita di scena di Hamas, che ha già dichiarato che non si disarmerà e che non ha intenzione di lasciare il governo di Gaza nelle mani di un organismo internazionale percepito come colonizzatore?
È ovviamente di grande rilevanza che gli ostaggi possano tornare a casa, ma gli ostaggi sono anche l’unico scudo che Hamas ha avuto fino ad oggi per garantirsi la sopravvivenza. Lasciarli andare significa esporsi completamente e dunque appare difficile immaginare che attraverso Turchia, Qatar e fondamentalmente Stati Uniti, esso non abbia ottenuto una solida assicurazione di non essere spazzato via. Se è così, Israele è stato costretto a rinunciare alla vittoria militare in cambio del rilascio degli ostaggi e a dovere accettare la permanenza di Hamas a Gaza anche per il futuro. Su questo punto il governo Netanyahu è appeso a un filo poiché i suoi alleati più coriacei sulla liquidazione di Hamas, Ben Gvir e Smotrich hanno dichiarato che la mancata demilitarizzazione di Hamas e la sua permanenza a Gaza, significa automaticamente la fine del governo Netanyahu.
Dietro la facciata rutilante dell’accordo raggiunto, con festeggiamenti e coccarde, danze e una Knesset addobbata di blu e rosso per il discorso che Trump dovrà tenervi, restano intricati e irrisolti problemi vasti.
Decine di migliaia di persone pregano per gli ostaggi
La festa dei pellegrini, la festa delle capanne Sukkot, prevede la tradizionale benedizione sacerdotale. Giovedì mattina si è percepita chiaramente la gioia per l'annunciato rilascio degli ostaggi.
Ebrei di Israele e di tutto il mondo approfittano dell'opportunità di ricevere la benedizione di centinaia di sacerdoti
GERUSALEMME – Giovedì mattina decine di migliaia di persone si sono radunate al Muro del Pianto di Gerusalemme per la tradizionale benedizione sacerdotale (Birkat HaKohanim). Inoltre, è stata recitata una preghiera di ringraziamento per la notizia, giunta poche ore prima, che gli ostaggi sarebbero stati liberati nei prossimi giorni.
Dopo la benedizione sacerdotale, il Gran Rabbino ashkenazita Kalman Ber ha recitato una preghiera pubblica. In essa ha fatto riferimento ai “quattro tipi” e al loro significato simbolico per gli ebrei: "Guarda come il tuo popolo Israele è unito davanti a te! Tu ci hai comandato di riunire l'etrog, il ramo di palma, il mirto e il salice: uno che ha la Torah e compie buone azioni; uno che ha solo la Torah; uno che compie solo buone azioni; e persino uno che non ha né l'una né l'altra. Ma quest'anno, o Sovrano dell'universo, è difficile trovare un ‘salice’ - perché è difficile trovare un ebreo senza buone azioni“.
Il Gran Rabbino ha poi continuato la preghiera: ”Siamo tutti qui insieme, provenienti da ogni angolo del paese, di ogni tipo e genere. Benedici noi, nostro Padre, che siamo qui riuniti in unità e alla luce del tuo volto. Da due anni preghiamo gli uni per gli altri, ci prendiamo cura gli uni degli altri, condividiamo il nostro dolore, la nostra speranza e la nostra fede. Possano gli ostaggi tornare – tutti, senza che nessuno rimanga indietro!"
La folla si è unita alle preghiere dei rabbini. Ha pregato per il ritorno degli ostaggi, per il successo dell'esercito e dei soldati e per la guarigione di tutti i feriti in guerra.
• Ripetizione della benedizione domenica
Oltre al sindaco di Gerusalemme Moshe Lion e a centinaia di sacerdoti, anche alcuni ministri hanno partecipato alle preghiere pubbliche. Erano presenti anche gli ostaggi liberati Lena e Sascha Trufanov e i familiari di altri ostaggi.
La benedizione pubblica dei sacerdoti al Muro del Pianto si tiene durante le festività di Pesach e Sukkot. In essa, centinaia di Kohanim, membri della stirpe sacerdotale, benedicono la comunità e il popolo d'Israele con la benedizione aaronitica, come è scritto in Numeri 6: “Il Signore ti benedica e ti protegga; il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio; il Signore rivolga il suo volto verso di te e ti dia pace”.
La tradizione è iniziata 55 anni fa sotto il rabbino Menachem Mendel Gafner. Ora è organizzata dalla Fondazione per il patrimonio del Muro del Pianto. La fondazione ha comunicato che dall'inizio della Festa delle Capanne, martedì sera, più di 250.000 persone hanno visitato il sito.
Per consentire ad altre persone di ricevere la benedizione, questa verrà pronunciata nuovamente domenica mattina. L'evento potrà essere visto e ascoltato in diretta sul sito web della Fondazione del Muro del Pianto.
Accordo firmato, Trump ha ovviamente avuto l’onore di annunciarlo per primo, e tutti vissero felici e contenti, ma.
Premesso che sono contento per il rilascio dei 20 rapiti ancora in vita e per i loro familiari (ma per tutti loro adesso inizierà un altro momento molto duro da superare: chissà in quali condizioni fisiche e psicologiche si trovano i pochi sopravvissuti a due anni di vita durissima),
Ancora una volta Israele ha dovuto arrendersi al divieto di vincere imposto dal mondo intero. Israele si era imposta entrando a Rafah contro la volontà di tutti, si era imposta entrando a Gaza contro la volontà di tutti, ma adesso deve abbandonare tutti, o quasi, i posti conquistati con il sangue e l’eroismo dei nostri militari.
Non a caso molti dicono che il Piano Trump in realtà è il piano suggeritogli dagli stati arabi (Qatar e Turchia in testa) incontrati prima della pubblicazione del piano che porta il suo nome e imposto a un Netanyahu recalcitrante nonostante le ovvie smentite.
Non a caso oggi, nelle vie di Gaza, i “civili” urlano: “abbiamo vinto”.
L’IDF riceve l’ordine di una immediata e rapidissima ritirata da quasi tutta la striscia (ma chi poteva credere a quel “non si fermerà” tanto sbandierato?).
L’Occidente tutto (tranne pochi) non vuol capire che i musulmani non si pongono limiti di tempo, sanno di poter aspettare un giorno, un mese, un anno, un secolo, glielo assicura la fede in Allah.
E non parlatemi di pace: mi fa venire in mente la pace che avrebbe dovuto durare per sempre dopo la I guerra mondiale, dopo quella terribile carneficina che tutti abbiamo studiato sui libri di storia, e sappiamo come è poi andata a finire.
Qui sarà anche peggio. Trump e Bibi NON HANNO FERMATO LA MARCIA DELL’ISLAM VERSO L’OCCIDENTE.
Mi auguro soltanto che l’ingegno degli israeliani li metta al sicuro con le nuove tecnologie difensive, in primis il raggio laser e la capacità di individuare tunnel sotto terra.
Per il resto, cari amici, è una pagina nera per l’Occidente che, non pago di non aver capito nulla dopo Oslo, adesso ha dimostrato ai fedeli di Maometto che anche solo con la minaccia della forza potranno eseguire quanto il Corano ha ordinato.
Il mondo proseguirà con la ricostruzione, congratulandosi con se stesso per i progressi compiuti, ignorando il fatto che in realtà non ce ne sono stati.
L'accettazione questa settimana da parte di Israele e Hamas del piano di pace in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla guerra a Gaza ha dato il via a una serie di eventi che potrebbero significare un ritiro parziale di Israele dalla Striscia e il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani ancora detenuti dai terroristi.
Ma mentre si festeggia la conclusione degli attuali combattimenti, è importante ricordare che nessuna delle modifiche promesse dal nuovo piano – smilitarizzazione, raccolta delle armi, governo da parte di un “comitato palestinese tecnocratico e apolitico” – porterà alla pace fino a quando non sarà soddisfatto il punto n. 1 del piano Trump: “Gaza sarà una zona deradicalizzata e libera dal terrorismo che non rappresenta una minaccia per i suoi vicini”. E questo è altamente improbabile che accada.
Per più di un secolo, alla società palestinese di Gaza è stato insegnato che il suo obiettivo nazionale non è quello di costruire una patria per sé stessa, ma di distruggere quella ebraica: Israele. Non si tratta di una convinzione marginale. È il consenso culturale. L'idea non è oggetto di dibattito a Gaza; è il principio unificante di tutta la politica, la cultura e la religione. Ogni aula scolastica, moschea, mezzo di comunicazione e istituzione pubblica palestinese rafforza lo stesso messaggio: Israele deve scomparire e uccidere gli ebrei è il mezzo per raggiungere questo fine.
Questa ideologia non è iniziata con Hamas. Il gruppo terroristico ha semplicemente trasformato in arma ciò che la cultura palestinese predicava già da generazioni. Dall'Autorità Palestinese alle scuole gestite dall'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA), i bambini sono stati educati a vedere la “liberazione” come sinonimo di annientamento. L'identità stessa dei palestinesi, l'essenza della loro “aspirazione nazionale”, è costruita attorno a questo obiettivo genocida.
Affermare che Gaza possa diventare “deradicalizzata” senza una completa rivoluzione culturale significa confondere uno slogan con una strategia.
La deradicalizzazione non è un progetto di costruzione. Non può essere realizzata con consulenti occidentali, finanziamenti stranieri o un nuovo programma scolastico progettato a Bruxelles. Non si possono cancellare cinque generazioni di odio con un piano di ricostruzione decennale. Non si può invertire l'ideologia genocida generazionale in pochi mesi di ricostruzione o in pochi anni di “supervisione internazionale”.
Una deradicalizzazione su questa scala richiederebbe decenni – forse 50 anni o più – di riforme educative complete, un controllo rigoroso dei media e delle istituzioni religiose e l'applicazione di una vera educazione alla pace. Significherebbe sostituire ogni insegnante, imam, libro di testo e canale mediatico palestinese e applicare una quarantena morale contro l'incitamento. Per diverse generazioni.
Nessuno – né gli Stati Uniti, né Israele e certamente non la comunità internazionale – è disposto ad aspettare così a lungo. Il mondo porterà avanti la ricostruzione della Striscia di Gaza nel prossimo decennio, congratulandosi con se stesso per la “deradicalizzazione” e ignorando il fatto che in realtà non c'è stata alcuna deradicalizzazione.
Ecco perché Israele non può permettersi di restituire Gaza fino a quando la deradicalizzazione non sarà dimostrata, non promessa. Qualsiasi cosa di meno significherebbe ripetere lo stesso ciclo che ha portato agli eventi del 7 ottobre: ritiro, radicalizzazione e guerra.
Se Gaza dovrà mai essere ricostruita, dovrà prima essere rieducata. Fino a quando ciò non accadrà, restituire il controllo a una società palestinese ancora ostile non è costruzione della pace. È suicidio nazionale.
I terroristi con le mani sporche di sangue che saranno liberati nell'ambito dell'accordo
Nell'ambito dell'accordo negoziato sotto l'egida del presidente americano Donald Trump per il rilascio degli ostaggi israeliani, Israele si appresta a liberare 2.000 prigionieri palestinesi, molti dei quali responsabili di attentati sanguinosi. Il ministero della Difesa ha annunciato venerdì che, in conformità con le direttive politiche e previa approvazione del governo, nelle prossime ore le famiglie delle vittime saranno informate dell'imminente liberazione degli autori degli attentati che hanno causato la morte dei loro cari. Tra i detenuti che figurano nella lista ci sono diverse figure di spicco condannate per atti terroristici di grande rilevanza. Maher Abu Srour, che ha assassinato l'agente dello Shin Bet Haim Nahmani nel gennaio 1993, sarà liberato. Lo stesso vale per Jihad Karim Aziz-Rom, condannato all'ergastolo per l'omicidio dell'adolescente Youri Gouchtsine a Ramallah nel luglio 2001 e per la sua partecipazione al linciaggio di due riservisti dell'esercito israeliano, Vadim Norjitz e Yossef Avraham, nell'ottobre 2000. Mohammed Amran, coinvolto nell'attentato all'asse dei fedeli a Hebron che ha causato la morte di 12 ebrei e autore di altri attentati, sarà anch'egli rilasciato senza essere espulso. Mohamed Haroub, condannato nel 2024 a 19 anni di carcere per aver ferito gravemente un arabo che aveva scambiato per un ebreo alla vigilia dello Yom Kippur, tornerà a casa sua in Giudea e Samaria. Ali Hamed, responsabile di un attacco con un'auto lanciata contro la folla a Tel Aviv nel 2022, sarà rilasciato dopo tre anni di detenzione. Tra gli altri nomi figura Houssam Matar, un arabo di Gerusalemme Est arrestato nel 2007 per il rapimento e l'omicidio di un collaboratore, che aveva anche progettato di assassinare un ministro. Mohammed Abou Tabikh, responsabile dell'attentato mortale all'incrocio di Megiddo che ha causato 17 morti e decine di feriti, sarà anch'egli rilasciato, così come Ashraf Hajajra, condannato per aver trasportato l'autore dell'attentato nel quartiere di Beit Israel a Gerusalemme, che ha causato 11 morti e decine di feriti.
• Tra i rilasciati figurano anche alcuni condannati all'ergastolo L'elenco comprende anche Baher Badr, responsabile di un attentato suicida a Tzrifin nel 2004 e di un attentato dinamitardo a Tel Aviv, condannato a 11 ergastoli. Ibrahim Alqam, assassino della famiglia Tsour nel 1996, e Ahmed Saada, responsabile dell'omicidio di 11 israeliani nell'attentato alla linea di autobus 20 a Gerusalemme nel 2002, figurano anch'essi nell'elenco. Sono interessati anche Iham Kamamji, arrestato nel 2006 e che sta scontando due ergastoli per il suo coinvolgimento nel rapimento e nell'omicidio di Eliahou Ashri a Ramallah, e Riyad Al-Amour, membro di alto rango del Tanzim condannato per la morte di nove cittadini israeliani, tra cui il colonnello Yehuda Edri, e per l'omicidio di tre palestinesi sospettati di collaborazionismo. Altri detenuti di rilievo includono Nabil Abu Hadid, condannato per l'omicidio di sua sorella accusata di collaborazione con lo Shin Bet, e Iyad Abu Al-Roub, capo del braccio militare della Jihad islamica nella regione di Jenin, in Giudea e Samaria. Tra i prigionieri liberati figurano anche un terrorista già rilasciato durante lo scambio Shalit e ricatturato durante un'operazione all'ospedale Shifa di Gaza, uno dei leader del Fronte Popolare che ha continuato le sue attività terroristiche in prigione e uno degli evasi dalla prigione di Gilboa.
• I termini dell'accordo Il gabinetto politico e di sicurezza si è riunito giovedì per una discussione speciale sull'approvazione dell'accordo per il rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, come firmato in Egitto. Durante la notte, i ministri hanno approvato l'accordo, nonostante l'opposizione dei ministri del Sionismo religioso. Nell'ambito di questo accordo, 250 detenuti condannati all'ergastolo saranno liberati sui 270 detenuti dall'amministrazione penitenziaria, insieme a 1.700 abitanti di Gaza non coinvolti negli eventi del 7 ottobre. I condannati all'ergastolo saranno espulsi “verso Gaza o all'estero”, mentre i gazawi saranno rimandati nella Striscia di Gaza. Inoltre, saranno restituiti anche 360 cadaveri di terroristi.
Accordo storico: verso la liberazione degli ostaggi e la fine della guerra
Netanyahu: “Con l’aiuto di D-o, riportiamo tutti a casa”. Trump: “Un grande giorno”
di Samuel Capelluto
Ore decisive in Medio Oriente. Nella notte tra mercoledì e giovedì, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato ufficialmente che Israele e Hamas hanno firmato la prima fase del piano di pace americano, aprendo così la strada a una fine della guerra nella Striscia di Gaza e al rilascio imminente di tutti gli ostaggi israeliani.
In un post pubblicato sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha dichiarato:
“Sono molto orgoglioso di annunciare che Israele e Hamas hanno firmato la prima fase del nostro piano di pace. Tutti gli ostaggi saranno liberati molto presto, e Israele ritirerà le sue forze fino a una linea concordata, come primo passo verso una pace forte, stabile e duratura. Tutte le parti riceveranno un trattamento equo. Questo è un grande giorno per il mondo arabo e musulmano, per Israele, per i Paesi della regione e per gli Stati Uniti. Ringraziamo i mediatori di Qatar, Egitto e Turchia che hanno lavorato con noi per rendere realtà questo evento storico e senza precedenti. Beati i costruttori di pace”.
Quasi in contemporanea, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scritto:
“Con l’aiuto di D-o, riportiamo tutti a casa”.
“Un grande giorno per Israele. Domani convocherò il governo per approvare l’accordo e riportare a casa tutti i nostri cari ostaggi.
Ringrazio i coraggiosi soldati dell’IDF e tutte le forze di sicurezza: grazie al loro coraggio e al loro sacrificio siamo arrivati a questo giorno.
Ringrazio dal profondo del cuore il presidente Trump e il suo team per il loro impegno in questa sacra missione di liberazione dei nostri ostaggi.
Con l’aiuto di D-o, insieme continueremo a raggiungere tutti i nostri obiettivi e ad ampliare la pace con i nostri vicini”.
Secondo fonti saudite e libanesi, la firma ufficiale dell’accordo di cessate il fuoco è prevista per oggi alle ore 12:00 al Cairo, con la partecipazione delle delegazioni israeliana e di Hamas. Le ultime ore sono state caratterizzate da un clima di ottimismo crescente: i negoziati si sono conclusi con la definizione dei dettagli tecnici e linguistici dell’intesa, dopo settimane di trattative complesse.
Il primo passo concreto sarà il rilascio simultaneo di 20 ostaggi israeliani vivi, previsto tra sabato e domenica, accompagnato dalla restituzione di alcuni corpi di ostaggi caduti. Gli altri verranno riconsegnati in fasi successive, secondo tempi stabiliti nell’accordo.
L’annuncio è stato accolto con emozione in Israele. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso sollievo e speranza: “Il governo deve approvare immediatamente l’accordo. Ogni ritardo può costare caro agli ostaggi e ai soldati” ha dichiarato il Quartier Generale di alcune delle famiglie. “La nostra responsabilità morale e nazionale è riportare tutti a casa, vivi e caduti”.
Le immagini provenienti dall’Egitto mostrano scene senza precedenti: membri delle delegazioni israeliana, palestinese e dei Paesi mediatori che si stringono la mano e si abbracciano. In una foto simbolica si vede il generale israeliano in riserva Nitzan Alon, oggi incaricato dei negoziati sugli ostaggi, stringere la mano al Primo Ministro del Qatar, a dimostrazione della portata storica dell’intesa.
Israele entra in questa fase con una posizione chiara: difendere i propri principi e riportare ogni cittadino a casa, senza rinunciare alla sicurezza nazionale. L’accordo — frutto della determinazione israeliana — segna un passaggio potenzialmente decisivo verso la fine della guerra iniziata due anni fa, alla vigilia di Simchat Torah, il 7 ottobre 2023, giorno che ha cambiato per sempre la storia del Paese e del popolo ebraico.
Per milioni di israeliani e per la diaspora ebraica nel mondo, questo è un momento carico di speranza, di fede e di unità. La strada verso una pace duratura è ancora lunga, ma il ritorno degli ostaggi rappresenta una svolta storica, un raggio di luce che squarcia mesi di oscurità e dolore, e che riaccende la fiducia nella forza di un popolo che non smette mai di lottare per la vita e per la libertà.
(Shalom, 9 ottobre 2025) ____________________
«Con l’aiuto di D-o, insieme continueremo a raggiungere tutti i nostri obiettivi e ad ampliare la pace con i nostri vicini”». Netanyahu avrebbe fatto meglio a risparmiarsi il riferimento a Dio e alla pace. La guerra è finita perché Israele ha perso. Aveva già perso quando ha cominciato a trattare con Hamas. Ma se è vero che Israele ha perso, guai a chi pensa di aver vinto. "Guai all'Assiria, verga della mia ira! Il bastone che ha in mano, è lo strumento della mia indignazione" (Isaia 10:5)..M.C.
Si sigla a Sharm El Sheik l’accordo tra Israele e Hamas dopo due anni di guerra. Si sigla la cosiddetta “prima fase”, con la mediazione-benedizione del Qatar e della Turchia, che di Hamas sono sostenitori e, con quella decisiva americana, in virtù della quale Israele non riprenderà più la guerra.
Gli ostaggi ancora detenuti a Gaza e le salme dei defunti saranno riconsegnati a Israele in cambio del rilascio di circa duemila assassini, tra i quali molti ergastolani. Felicità per le famiglie di coloro che in questo due anni sono stato tenuti in cattività. Tornano finalmente a casa, ma a che prezzo?
L’accordo prevede altre fasi, ma è impensabile che Hamas abbia deciso di rinunciare alla sua unica assicurazione sulla vita, gli ostaggi, unicamente in cambio del rilascio di detenuti.
Gli obiettivi della guerra erano due per Israele: la vittoria sul gruppo terrorista, la sua eliminazione da Gaza e il ritorno degli ostaggi. Il secondo è stato raggiunto al netto di tutti quelli che sono morti nel frattempo, il secondo è fallito. Hamas non è stato distrutto e nonostante i proclami di Trump, che dovrà disarmarsi e rinunciare ad avere un ruolo politico a Gaza nel futuro, appare fantasioso immaginare che ciò avverrà, soprattutto con la garanzia ottenuta già nella prima fase dell’accordo, che Israele progressivamente ritirerà l’esercito e lascerà la Striscia. Questi sono gli obiettivi dell’organizzazione jihadista fin dal principio, ben sapendo che non avrebbe mai potuto vincere l’esercito israeliano militarmente ma a intestarsi la vittoria nell’unico modo possibile, dimostrando di avere “resistito” fino alla fine.
Guardare in faccia la realtà significa vedere che Israele aveva le spalle al muro, che dopo due anni non era più in grado di vincere la guerra a causa di molteplici fattori. Il primo, la presenza degli ostaggi, la carta fondamentale che Hamas ha saputo giocare spregiudicatamente e che ha costretto l’IDF a operazioni militari che dovevano tenere conto come obiettivo essenziale la salvaguardia della loro salvezza. Il secondo, a causa della contrarietà di una parte dell’esercito e dei Servizi alla sconfitta totale di Hamas, che si è espressa costantemente, fin dall’inizio della guerra, contrastando i continui proclami di vittoria di Netanyahu. Anche recentemente, Eyal Zamir, capo di stato maggiore, alla vigilia dell’attacco a Gaza City aveva espresso la sua contrarietà, affermando che l’attacco avrebbe messo in mora la vita degli ostaggi e quella dei soldati e aggiungendo che l’idea di occupare Gaza da parte di Israele esigeva un costo troppo alto. Il terzo, a causa di una pressione internazionale insostenibile, che ha progressivamente trasformato, soprattutto in virtù di una impressionante rete di sostegno mediatico nei confronti di Hamas, Israele in uno Stato criminale.
L’attacco fallito a Doha a settembre, che il Mossad non ha appoggiato (altro segno tangibile delle fratture tra governo e Servizi) è stato l’episodio che ha segnato lo spartiacque in questa guerra e si è rivelato per Israele un boomerang.
Il Qatar, la cui leva lobbistica a Washington è massiccia, è riuscito trasformare questo insuccesso di Israele in una grande vittoria personale, ottenendo dagli Stati Uniti una cosa mai concessa a uno Stato arabo, la garanzia che se dovesse essere ancora attaccato gli Stati Uniti interverrebbero in sua difesa. A corredo di ciò, Netanyahu è stato costretto pubblicamente a scusarsi telefonicamente con l’emiro del Qatar.
Il Qatar e la Turchia, che in Egitto hanno avuto un ruolo decisivo nella mediazione che si è conclusa ieri sera, sono insieme all’Iran, i padrini di Hamas e, per il loro protetto, hanno ottenuto la salvaguardia che Israele non riprenderà la guerra.
Israele incassa il ritorno degli ostaggi, Trump il podio su cui può presentarsi al mondo come il facitore della risoluzione del conflitto “millenario”(è previsto un suo discorso alla Knesset) in attesa che qualcuno a Stoccolma prenda sul serio la sua aspirazione al Nobel per la Pace, e Israele una vittoria mutilata, l’unica che poteva sperare di ottenere in un Medioriente che al netto dei trionfalismi non ha subito una palingenesi e dove, lo Stato ebraico, da Hezbollah, all’Iran a Hamas, ha ottenuto importanti successi tattici ma nessuna vittoria conclamata.
Premesso che sono felicissimo per la liberazione degli ostaggi (quando avverrà), premesso ancora che sono felice che gli israeliani possano tornare a fare una vita la più vicina possibile alla normalità. Detto questo, il piano della Fratellanza Musulmana denominato impropriamente “piano Trump” non solo è una Caporetto per Israele, ma vanifica 24 mesi di guerra su sette fronti.
Prima di tutto, il piano è stato scritto da Qatar e Turchia, leader della Fratellanza Musulmana, non da Trump che ha fatto solo da “mezzo di pressione” su Netanyahu, anche se è convinto di averlo suggerito lui, il piano.
L’accordo sembra essere fatto apposta per permettere la sopravvivenza di Hamas. Israele ha dovuto cedere su tutta la linea. Ripeto: ha dovuto cedere su tutta la linea sotto l’impressionante spinta (ricattatoria?) di Donald Trump. Oltre duemila terroristi saranno liberati in cambio dei 20 ostaggi ancora vivi. Israele dovrà anche ritirarsi in posizioni molto vicine a quelle precedenti il 7 ottobre 2023. Hamas non dovrà disarmarsi, così come la Jihad Islamica e gli altri gruppi. Almeno per quello che si conosce.
L’IDF dovrà ritirarsi anche dal valico di Rafah, lasciando libero quello che è il canale più importante per Hamas.
Sintetizzando: Hamas, Jihad Islamica e gruppi vari rimarranno a Gaza e sicuramente volgeranno la propria attenzione alla Cisgiordania. Nel frattempo Hezbollah rimane una minaccia seria mentre l’Iran ha ripreso i suoi “giochetti” con i terroristi palestinesi.
Non un solo fronte è stato chiuso in modo permanente. Due anni di guerra per ritrovarsi quasi alla casella di partenza. Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e l’Iran (quasi) con la bomba atomica.
Secondo me, ma potrei essere di parte, la chiave di tutto sta nelle probabilissime immense pressioni fatte da Trump su Netanyahu. Del tipo «non ti do più nemmeno una cartuccia». Accidenti a lui e alla sua mania del Nobel per la pace.
Gli arabi e i turchi, che sono furbissimi, si sono preparati un super piano di pace che salva Hamas facendo credere che lo abbia scritto Trump. Lo hanno fatto credere pure a lui. Così adesso Netanyahu non può più nemmeno dire di no altrimenti sarebbe quello che ha fatto saltare il piano di pace “scritto da Trump”.
Dobbiamo ammetterlo, su questo fronte questa volta ha vinto la Fratellanza Musulmana, e non è una buona notizia nemmeno per l’occidente.
Hamas saluta “la vittoria del popolo palestinese” e chiede l'unità nazionale attorno al piano Trump
L'alto funzionario di Hamas, Houssam Badran, ha definito il 7 ottobre 2023 il "giorno fondante" del conflitto con Israele, affermando che questa data ha confermato al mondo il "diritto del popolo palestinese alla libertà e all'autodeterminazione". Secondo lui, l'accordo concluso oggi è il "frutto della resistenza" e dei "sacrifici del popolo di Gaza", "uomini, donne, bambini e anziani". Badran ha salutato i "martiri e i combattenti della resistenza" e ha affermato che Hamas ha gestito il piano Trump con una visione nazionale palestinese globale, cercando di creare una posizione unificata di fronte alle sfide. Ha rivelato di aver tenuto negli ultimi giorni intense consultazioni con le fazioni, i leader e le élite palestinesi per raggiungere una risposta comune.
Hamas si impegna ora in un dialogo nazionale al Cairo per garantire un consenso sui prossimi passi e sull'attuazione dell'accordo.
"Ciò che abbiamo ottenuto oggi, e ciò che otterremo domani, è il risultato della fermezza del nostro popolo e della nostra resistenza", ha concluso.
“In un mondo come quello dell’editoria, dove i toni del sensazionalismo sono abitualmente usati, è fin troppo frequente trovarsi di fronte a recensioni che parlano di “libri necessari”.
Per La cultura dell’odio, scritto da Nathan Greppi, tale giudizio è invece certamente adeguato. Nel testo edito per Lindau, Greppi tratta ciò che è oramai diventato indicibile, mettendo in fila — documenti alla mano — ciò che troppi scelgono di ignorare. La cultura dell’odio racconta come la guerra ideologica contro Israele, e contro gli ebrei, sia ormai diventata il centro gravitazionale della cultura occidentale mainstream, portata avanti nei talk show, nei cortei e soprattutto là dove si forma il pensiero: nelle università, nei giornali, nelle serie tv, nelle fondazioni.
Greppi parte da un dato verificabile da chiunque: il 7 ottobre 2023 un’organizzazione terroristica, Hamas, ha pianificato un massacro di civili israeliani, usando stupro, mutilazioni e rapimenti come armi. Eppure, fin dai primissimi momenti, gran parte dei media e del sistema delle ONG ha dato il via a un fuoco di sbarramento volto alla costruzione di una narrazione opposta, dove Israele diventa il carnefice e Gaza — roccaforte e base operativa di Hamas — la vittima.
Tra i tanti episodi emblematici richiamati dall’autore nel libro, vi è certamente il bombardamento dell’ospedale di Al-Ahli, che i maggiori media occidentali attribuirono subito, e senza alcuna prova, a Israele, salvo poi ritrattare tardi e debolmente. Ed è questo uno dei meriti del libro: mettere in luce i mille modi mediante cui l’internazionale pro-Pal costruisce l’accusa affinché si sedimenti nell’opinione pubblica, soprattutto quando è totalmente falsa e smentita dalla realtà.
Una campagna comunicativa che da decenni dipinge Israele come uno Stato oppressore, coloniale, paragonabile alla Germania nazista. Un racconto dove la tragica origine del conflitto viene cancellata e la storia riscritta in modo selettivo, omettendone volontariamente interi capitoli, a partire dai secoli di occupazione arabo-islamica prima ed ottomana poi.
Greppi ricostruisce anche come, grazie a centinaia di milioni di dollari provenienti da Paesi islamici, sia stato possibile alimentare l’odio verso Israele, coltivandolo nei campus, nei partiti, nella sinistra terzomondista e nelle ONG. Un processo che ha portato all’accettazione pressoché totale di una forma di pensiero dogmatico, con simboli e parole d’ordine ben riconoscibili: prime fra tutte, «Free Palestine, from the river to the sea» o «Non vogliamo due Stati, vogliamo tutto», inserite in una narrazione che ricorda in tutto e per tutto le tecniche usate nel marketing per la creazione e diffusione di un nuovo brand.
Con precisione e metodo, La cultura dell’odio mostra al lettore come le università siano da anni diventate centri di propaganda, evidenziando il legame tra fiumi di denaro e incremento di posizioni apertamente pro-Hamas all’interno delle accademie e dei grandi quotidiani. Un sistema che sfrutta e valorizza l’esibizione di quegli attivisti ebrei, israeliani e non, che si proclamano pro-Pal, che strizza l’occhio al sempreverde topos del complotto giudaico, che vede questa volta l’IDF a conoscenza dell’attacco imminente, o quello altrettanto efficace dell’ebreo vampiro assetato di sangue di bambini, e molto altro ancora.
Il libro è foriero di dettagli che, messi insieme, tracciano un quadro agghiacciante fatto di uso deliberato della menzogna e dell’occultamento della realtà, raccontato descrivendo i numerosi episodi simbolo di una colpevole e malcelata doppiezza. Uno su tutti: la volontà di non nominare l’attore israeliano David Cunio, rapito da Hamas il 7 ottobre (assieme alla moglie, alle figlie di tre anni, alla cognata e alla nipote) nel corso del Festival del cinema di Berlino 2024, festival che lo aveva visto partecipe nel 2013.
Un’edizione, quella del 2024, dove — neanche a dirlo — sono stati invece numerosi gli episodi e le dichiarazioni di sostegno pro-Pal. E nulla, da allora, pare essere cambiato, se si guarda a quanto accaduto da poco agli Emmy Awards o al Festival di Venezia.
Greppi dedica spazio anche alle narrazioni storiche, come all’uso della Nakba contrapposto alla rimozione dell’esodo forzato degli ebrei dai Paesi arabi dove vivevano da secoli, o alla costruzione del mito della cosiddetta età dell’oro sotto i califfati islamici, durante la quale ebrei e cristiani sopravvissero sì, ma come dhimmi, cioè soggetti di “serie B” sottomessi ai musulmani in condizioni di segregazione. Una narrazione che oggi viene ribaltata ovviamente su Israele, accusato di praticare l’apartheid ai danni della propria popolazione araba, nonostante sia l’unico Stato del Medio Oriente dove arabi ed ebrei vivono alla pari, siedono nello stesso Parlamento, crescono e proliferano, decuplicando il loro numero dal 1948 a oggi.
La cultura dell’odio è un libro scomodo ma necessario, principalmente per coloro che hanno fatto della battaglia pro-Pal un elemento identitario, un cardine della costruzione del proprio sé politico come individuo parte di una comunità. Una comunità che, per la massima parte, è spinta a credere di stare dalla parte dei deboli, degli oppressi e degli indifesi, grazie anche alla tempesta di falsi video e falsi contenuti social artatamente creati per far leva su sentimentalismo e senso di colpa.
La cultura dell’odio è un testo che non piacerà a chi si rifugia nel relativismo, ma che offre a chi vuole capire fatti, fonti e strumenti per smontare una delle più limpide mistificazioni del nostro tempo, edificata sulla sempre efficace riproposizione della dinamica oppressi vs oppressori.
La cultura dell’odio pone diversi interrogativi e mina alla base le convinzioni di tanti, offrendo però un solido piano — forse l’unico — da cui ripartire: se si vuole porre fine alle sofferenze di due popoli, si può e si deve ricominciare dalla verità.
(JNS) Il 7 ottobre 2023 è stato il giorno più terribile nella storia dello Stato di Israele e sarà ricordato per sempre come tale. Ma come ha scritto il giornalista del New York Times Bret Stephens in un articolo in cui analizzava gli insegnamenti tratti da quel giorno e dalla guerra che ne è seguita: “Nonostante tutti i suoi innegabili orrori, questa guerra potrebbe alla fine essere ricordata come liberatoria”. Israele ha risposto al giorno del genocidio perpetrato da Hamas con una guerra volta a distruggere l'asse iraniano, di cui Hamas faceva parte. Stephens ha spiegato come la guerra di Israele abbia liberato i popoli della regione. In Libano, grazie alla distruzione di Hezbollah da parte di Israele, la popolazione è libera dai rappresentanti dell'Iran per la prima volta in vent'anni. Lo smantellamento di Hezbollah ha portato alla caduta del dittatore siriano e rappresentante dell'Iran Bashar Assad, offrendo al popolo siriano la prima possibilità di libertà a memoria d'uomo. Sotto la protezione dell'IDF, i drusi nel sud della Siria hanno l'opportunità di plasmare il loro futuro in modo sicuro. Dopo il successo dell'operazione militare di Israele – alla quale hanno partecipato anche gli Stati Uniti – per impedire all'Iran di acquisire armi nucleari e accumulare un arsenale di decine di migliaia di missili balistici, il popolo iraniano ha la migliore opportunità da 46 anni a questa parte di rovesciare il suo regime terroristico e costruirsi un futuro in libertà. E con l'indebolimento di Hamas, gli abitanti della Striscia di Gaza hanno per la prima volta in vent'anni la possibilità di vivere liberi dal regime jihadista, se vogliono cogliere questa opportunità. Sebbene il suo elenco fosse completo, Stephens ha evitato di menzionare come Israele abbia ottenuto questa serie di vittorie impressionanti dopo la più grande catastrofe della sua storia. L'8 ottobre, mentre le truppe dell'IDF stavano ancora combattendo nei kibbutz che erano stati invasi da Hamas il giorno prima, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato al suo gabinetto ancora sotto shock che Israele si sarebbe ripreso dal brutale massacro del giorno prima e avrebbe cambiato il Medio Oriente. Nella stessa riunione, il comandante militare supremo disse a Netanyahu e ai suoi ministri che avrebbero dovuto dimenticare per sempre i 251 uomini, donne e bambini che erano stati presi in ostaggio il giorno prima. Netanyahu respinse questa affermazione e insistette che Israele avrebbe sconfitto Hamas e riportato a casa tutti gli ostaggi con un adeguato mix di forza massiccia e negoziati. Finora Israele ha riportato a casa 205 ostaggi, di cui 148 vivi, e Hamas è sul punto di essere completamente distrutta. Grazie al presidente degli Stati Uniti Donald Trump, Israele potrebbe assistere al ritorno degli ultimi 48 ostaggi entro pochi giorni. Nei primi 15 mesi di guerra, Netanyahu ha guidato Israele in questo conflitto, trovandosi di fronte a un governo ostile a Washington. L'amministrazione Biden ha perseguito una politica passivo-aggressiva, ritardando e poi interrompendo completamente le forniture di armi, mentre chiedeva a Israele di non intraprendere azioni militari, come ad esempio assumere il controllo del confine internazionale di Gaza con l'Egitto, che erano decisive per la vittoria. Nel bel mezzo della guerra di Israele per la sua sopravvivenza nazionale, l'amministrazione Biden si è presentata come un fedele difensore di Israele, ma ha collaborato con gruppi e politici anti-Netanyahu per minare il governo. Netanyahu non ha ceduto. È rimasto fedele alla sua linea. Se Netanyahu avesse ascoltato l'amministrazione Biden o i suoi rivali e nemici politici, che lo esortavano a porre fine alla guerra senza ottenere la vittoria, i capi terroristi di Hamas sarebbero ancora vivi. Hezbollah continuerebbe a controllare il Libano. Assad controllerebbe ancora la Siria. L'Iran sarebbe sul punto di dichiararsi una potenza nucleare e di accumulare un arsenale di decine di migliaia di missili balistici che minaccerebbero non solo l'esistenza di Israele, ma la sicurezza del mondo intero. La decisione di Stephens di ignorare il ruolo cruciale del primo ministro come leader di Israele in questa guerra non è sorprendente. Prima di elencare i modi in cui Israele ha liberato la regione, Stephens accusa erroneamente Netanyahu di essere responsabile per il 7 ottobre. Stephens ha scritto che Netanyahu è disposto a “tollerare Hamas” per “comodità ideologica”. Ma è vero il contrario. Netanyahu si è dimesso dal governo dell'allora primo ministro Ariel Sharon nel 2005 perché contrario al piano di Sharon di ritirarsi dalla Striscia di Gaza. Netanyahu avvertì allora che questa mossa avrebbe portato Hamas al potere. Da quando è primo ministro, dal 2009, Netanyahu ha combattuto senza sosta il regime di Hamas. Stephens ha anche affermato che la percezione di debolezza di Israele nei mesi precedenti il 7 ottobre era dovuta alla “frettolosa spinta del governo Netanyahu verso una riforma giudiziaria che a milioni di israeliani è apparsa come un salto verso l'autoritarismo”. I modesti controlli che il governo Netanyahu voleva esercitare sui poteri attualmente incontrollati della magistratura israeliana non avevano nulla di “autoritario”. Se nei mesi precedenti al 7 ottobre Israele è stato percepito come debole, tale percezione era dovuta alla campagna senza precedenti condotta da attori politici finanziariamente potenti e ben collegati per sciogliere le unità di riserva d'élite dell'IDF. Nel tentativo di ricattare Netanyahu e i suoi ministri affinché rinunciassero ai loro sforzi di riforma del sistema giudiziario israeliano, nei mesi precedenti il 7 ottobre i leader della campagna antigovernativa di sinistra hanno annunciato che migliaia di riservisti delle unità d'élite dell'IDF avrebbero rifiutato di prestare servizio. Dal 7 ottobre sappiamo che Hamas ha ripetutamente fatto riferimento alla campagna anti-IDF nei suoi media, nei rapporti dei servizi segreti e nelle riunioni di pianificazione per dimostrare che Israele è vulnerabile alle invasioni e alla distruzione. Stephens ha intitolato il suo articolo “Lezioni da una lunga guerra”. Due lezioni gli sono sfuggite. Primo: il popolo israeliano, e in particolare i soldati del suo esercito di cittadini, sono una nazione di eroi. Contrariamente alle aspettative dei suoi nemici, la resistenza di Israele è più forte e più duratura di quella dei suoi avversari. Inoltre, la leadership nazionale è di fondamentale importanza. Senza una leadership competente e coraggiosa, anche i soldati e le nazioni più coraggiosi vacillano. Netanyahu, il capo di Stato più longevo di Israele, ha raccolto la sfida. La sua saggezza strategica, il suo coraggio morale e la sua forza di volontà nella guerra più lunga di Israele hanno dimostrato che è degno di guidare questa nazione in questo momento critico della sua storia.
(Israel Heute, 8 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
È mutato il generale atteggiamento pubblico verso Hamas. Al di là di stracche e routinarie dichiarazioni di condanna delle gesta dei macellai del 7 ottobre – puntualmente accompagnate da grappoli di “ma” e “però” appuntati su ciò che Israele ha fatto dopo – già dal pomeriggio del Sabato Nero montava il borbottio minimizzante e assolutorio che magari non parteggiava per la forza terrorista, ma insomma ne ridimensionava le responsabilità.
Quel mugugno si è fatto voce più limpida e si è disinibito, nel tempo, sino a manifestare una franca preferenza per Hamas rispetto a Israele. Una larga, larghissima parte dei manifestanti “per Gaza” che nei giorni scorsi hanno riempito le strade d’Italia non è neppure, come si dice, equidistante: parteggia francamente per il terrorismo palestinese e per le forze che ne rivendicano la legittimità, lo organizzano, lo esercitano. Perché amano il terrorismo? No, ma detestano Israele e ciò che esso rappresenta, vale a dire il fatto che gli ebrei abbiano uno Stato e un esercito che lo difende. Ritengono, cioè, che le forze del terrorismo palestinese – a prescindere dalle atrocità che esse commettono e indipendente dalle ambizioni sterminazioniste che le animano – possano vantare un titolo morale, civile e politico che Israele non ha. Quei manifestanti, dunque, e il vasto apparato editorial-culturale che ne vellica il ventre, sono letteralmente “Pro Hamas” in questo senso: riconoscono all’organizzazione terroristica palestinese un diritto prioritario. Un diritto da premiare anche quando si esercita in barbarie perché non si oppone a un altro diritto, ma soverchia un sopruso.
Per questo preferiscono Hamas, perlopiù inconfessatamente ma non di rado esplicitamente. Perché il “male” di Hamas, semmai ammesso e riconosciuto, per i più timidi è una risposta necessaria al male più grande e risalente costituito dalla protervia sionista e per i più disinvolti non è neppure un male ma il giusto strumento riscatto di un popolo oppresso. Sono “Pro Hamas” non perché amano i terroristi, ma perché detestano le vittime dei terroristi. Per questo strappano i manifesti con le immagini degli ostaggi e per questo un vilipendio simile passa inosservato. Per questo un’intera platea insorge se qualcuno osa evocare gli ostaggi. Perché, secondo questa concezione, l’ingiustizia di cui i sequestrati sono destinatari – abbiano otto mesi o ottant’anni – è meno grave della colpa che grava sulla loro stirpe.
Da circa sessant’anni s’è diffusa la convinzione che lo Stato di Israele sorga sulle terre che i sionisti avrebbero rubato ai palestinesi. Una bieca prevaricazione dell’Occidente sul Medioriente. Tale convinzione, profusa a piene mani dall’URSS [1]e poi da tutta la sinistra militante, costituisce il principio per il quale lo Stato di Israele deve sparire e la Palestina tornare libera dal fiume al mare. Il falso ha attecchito come un’edera bugiarda che scala i muri delle ideologie antioccidentali fino al punto in cui anche il Segretario Generale dell’ONU, Il portoghese António Guterres, ebbe a dire che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 non vengono dal nulla, tradotto: se non giustificabili sono almeno comprensibili. Secondo questo cliché anche l’annientamento nucleare di Israele da parte dell’Iran diverrebbe, almeno, comprensibile. Il fondamento storico è l’unico dato su cui far fede per distinguere il vero dal falso. Il principio ordinatore di ogni ragionamento a tale riguardo dovrebbe partire dalle seguenti premesse:
Gerusalemme fu fondata nel 3000 avanti Cristo, circa, ma fu Re David della stirpe di Giuda, ebreo fino all’osso, a renderla capitale del Regno di Israele un millennio prima di Cristo. Il figlio Salomone vi costruì il Primo Tempio.
Quella che oggi è conosciuta come la Spianata delle moschee, con la Moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia risalenti al 705 e al 691, è, in realtà, il sito del primo e del secondo tempio ebraico: il Beit ha-Miqdash, l’importantissimo luogo della memoria degli ebrei, dove sorge il Muro del pianto. I due templi risalgono all’833 a.C. e al 515 a.C. Ci troviamo vicini alla collina di Sion, conquistata da Re David nel 1010 a.C. Stiamo parlando di quasi 2000 anni prima della nascita dell’Islam.
Sempre nella zona abbiamo la valle di Kidron, che nell’Antico e nel Nuovo Testamento è chiamata la valle dei Re e/o valle di Giosafat. Proprio qui Gesù dodicenne giunse con Maria e Giuseppe nel Suo pellegrinaggio della Pasqua ebraica e qui predicò nel tempio.
Nel 1947 vennero scoperti i rotoli del Mar Morto, quelli di Qumràn, una desolata terra desertica della Giudea dove la setta giudaica degli Esseni aveva il suo centro vitale fra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Proprio lì, sempre lì.
Nel primo secolo D.C. i romani annientarono lo stato indipendente della Giudea. Dopo la rivolta fallita di Bar Kokhba nel secondo secolo d.C. l’Imperatore romano Adriano determinò di spazzare via l’identità di Israele-Giuda-Giudea. Perciò Egli impose il nome “Palestina” alla terra di Israele.
La maggior parte della terra in possesso degli ebrei, accusati di furto, fu in realtà comprata ai latifondisti arabi. E gli arabi furono, secondo le definizioni degli avvocati, «ben disposti venditori». Nella relazione finale della Commissione Peel[2], reperibile su Internet in inglese, si fa questa importante osservazione: «…la popolazione araba mostra un notevole aumento dal 1920, ed ha beneficiato della prosperità della Palestina. Molti proprietari terrieri arabi hanno beneficiato della vendita di terreni, ottenendo un investimento redditizio dal prezzo d’acquisto. La condizione dei fellah (i contadini arabi, ndr) è nel complesso migliorata rispetto al 1920. Questo progresso arabo è stato in parte dovuto all’importazione di capitale ebraico in Palestina e da altri fattori associati con la crescita della Nazione ebraica. In particolare, gli arabi hanno beneficiato dei servizi sociali che non avrebbero potuto essere erogati su larga scala senza le entrate ottenute dagli ebrei […] Gran parte del territorio (coltivato dagli ebrei, ndr), ora piantato a aranceti, era costituito da dune di sabbia o da paludi, incolto al momento dell’acquisto[3].
Se esiste veramente un antico popolo palestinese in qualche modo distinto da tutti i suoi parenti arabi musulmani cos’è che lo rende tale? Dov’è la sua antica storia precedente agli anni ’60 del ventesimo secolo? Anche un rapido esame della storia recente dimostra che si tratta di un’etichetta politicamente conveniente (Daniel Greenfield[4])
Tuttavia, l’UNESCO ha deciso di ritenere la zona una pura eredità islamica e così la storica denominazione di “Monte del Tempio” è divenuta “Spianata delle moschee”. Tale inesattezza o falsificazione da parte dell’UNESCO dovrebbe essere evidenziata anche a fronte di un importante documento storico di cui sotto.
• Lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon a Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Il Regno Unito, Nazione mandataria per la Palestina, secondo la vulgata corrente, avrebbe conferito agli ebrei un ingiusto privilegio: la realizzazione di un focolare in Palestina dopo aver promesso la stessa terra agli arabi. Tale spregio sarebbe, dunque, avvenuto dopo che gli inglesi avevano illuso il mondo arabo, sotto l’egida dell’impero Turco-Ottomano che, una volta finita la guerra (I° guerra mondiale), avrebbe concesso loro la disponibilità di ampie estensioni territoriali sì da formare la grande Nazione Araba. Normalmente si fa riferimento alla lettera del 24 ottobre 1915 di Sir Henry McMahon (Alto Commissario britannico) al governatore della regione di Hijaz Al-Husayn ibn Ali Himmat. Tale documento viene nominato anche su tiktok come prova della disonestà inglese ma senza mai dire che nel testo della missiva non si dice affatto che la Palestina sarebbe stata concessa agli arabi secondo gli accordi presi. Essa non viene nominata ma si dice che le zone non ritenute puramente arabe (si citavano le zone ad ovest di Damasco) non avrebbero fatto parte degli accordi. La Palestina rientrava fra queste. Nella lettera si parlava dei distretti di Mersin e di Alessandretta, e zone della Siria che si espandono a ovest del distretto di Damasco, Homs, Hama e Aleppo…, ma non si nominava mai il sangiaccato[5] di Gerusalemme, che era la divisione amministrativa ottomana che copriva la maggior parte della Palestina. Tale sangiaccato comprendeva cinque cazà: Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba. Nel Libro bianco del 1939 (Churchill White Paper) stabilì che la frase in cui si parlava dei “distretti a ovest di Damasco” doveva intendersi come inclusiva del Sangiaccato di Gerusalemme e del vilayet di Beirut (cioè la Palestina). A proposito del Monte del Tempio si ribadisce il concetto di zone non puramente arabe. Nonostante le due diaspore, l’ultima nel 70 d.C. gli ebrei non hanno mai abbandonato completamente le loro terre ma, in quantità più o meno cospicue sono sempre rimasti là dove avevano le loro radici. Gli ebrei non sono giunti nell’inesistente stato palestinese perché lo ha voluto il Regno Unito, essi non sono i colonizzatori di terre altrui ma sono coloro che, in parte, ritornano nell’antica casa della terra di Israele. Gli ebrei in quei luoghi non sono immigrati ma rimpatriati. Il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito (attraverso la lettera Balfour, la conferenza di Parigi e la Conferenza di Sanremo) non fu quello di inventarsi lo Stato di Israele ma quello di far sì che la comunità ebraica, già esistente in Palestina e già con caratteristiche proprie di uno stato, potesse svilupparsi compiutamente in tal senso. Di seguito quanto scritto in un brano del Libro Bianco inglese del 1922:
Durante le ultime due o tre generazioni gli Ebrei hanno ricreato in Palestina una comunità, ora di 80.000 persone, di cui circa un quarto sono agricoltori e lavoratori della terra. La comunità ha i suoi organi politici […] I suoi affari sono effettuati usando la lingua ebraica e la stampa ebraica soddisfa le sue necessità. La comunità ha la sua vita intellettuale e mostra una considerevole attività economica. La comunità quindi, con la sua popolazione urbana e rurale, con la sua organizzazione politica, religiosa, sociale, la sua lingua e i suoi costumi, e la sua vita, ha di fatto caratteristiche “nazionali”. Quando viene chiesto cosa significa lo sviluppo di un focolare nazionale ebraico in Palestina, la risposta è che non si tratta dell’imposizione della nazionalità ebraica sugli abitanti palestinesi in toto, ma l’ulteriore sviluppo della comunità ebraica esistente, con l’assistenza degli Ebrei del resto del mondo, in modo che questa possa diventare un centro di cui il popolo ebraico intero possa avere, per motivi di religione e razza, un interesse e un vanto. Ma, per poter far sì che questa comunità abbia le migliori prospettive di libero sviluppo e possa offrire la piena possibilità al popolo ebraico di mostrare le proprie capacità, è essenziale che sia riconosciuto che questo è in Palestina di diritto e non perché tollerato. Questa è la ragione per cui è necessario che sia garantita internazionalmente l’esistenza di un focolare nazionale ebraico in Palestina e riconosciuta formalmente la sua esistenza in base agli antichi legami storici.»
Nel 1922 la Società delle Nazioni emette il mandato britannico per la Palestina e nel preambolo del mandato si afferma: «Considerato che in tal modo è stato riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e le ragioni per ricostituire la propria patria nazionale in quel paese.» Tutti gli atti prodotti dalla Società delle Nazioni e dal Regno Unito per giungere alla costituzione dello Stato di Israele partono dal presupposto fondamentale del riconoscimento del legame storico del popolo ebraico con quell’area chiamata Palestina dall’Imperatore Adriano nel 135 d.C, in realtà Terra di Israele ed è questo ciò che è stato riconosciuto a partire dalla dichiarazione di Arthur James Balfour, segretario al ministero degli affari esteri britannico, a Lord Rothschild,capo dell’agenzia sionista per lo Stato di Israele.
• La risoluzione ONU 181 del 29 novembre del 1947 Sappiamo che la risoluzione ONU non rappresenta il comando che determina un obbligo ma “solo” un suggerimento da parte di un organismo sovranazionale legalmente riconosciuto. Come è noto in quella occasione venne raccomandata caldamente la soluzione dei due popoli e due stati. I sionisti accettarono senza riserve e dettero vita allo Stato di Israele. Tuttavia, è opportuno evidenziare il fatto che in tutti i passaggi burocratici internazionali precedenti, quelli di cui sopra, quindi il mandato della Società delle Nazioni al Regno Unito, si è sempre parlato di un focolare ebraico in Palestina e non in una parte di questa. A tale proposito la risoluzione 181 fu penalizzante proprio per gli ebrei. La reazione degli arabi a tale suggerimento e alla proclamazione dello Stato di Israele fu la guerra del 1948 scatenata da Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq contro il nuovo Stato.
• Conclusioni L’illegalità dello Stato di Israele in Palestina è una menzogna di dimensioni colossali sotto tutti i punti di vista. Del resto, chiunque abbia un minimo di cognizione dei Vangeli e/o dell’Antico Testamento comprende benissimo che gli ebrei e quei luoghi costituiscono quasi la carta d’identità gli uni degli altri. Non si tratta di simpatizzare o avversare nessuno ma solo di riconoscere la verità storica che in molti, troppi, si ostinano a ignorare o a falsificare. Vorrei concludere con alcune considerazioni personali a proposito della risoluzione 181 dell’ONU. Questa non concede niente agli ebrei in quanto il diritto alla costituzione del loro Stato in Palestina è sancito dalla verità storica e da quanto stabilito dalla Società delle Nazioni nelle varie vicende istituzionali. Tuttavia, c’è chi sostiene che gli ebrei avrebbero dovuto accordarsi con gli arabi prima di passare alla costituzione del loro Stato ma questo è assai falso. In primo luogo si deve tener conto di quanto viene messo in risalto da David Elber nel suo “Il Mandato per la Palestina. Le radici legali dello Stato d’Israele”, «la Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele”, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario.» In secondo luogo si tenga presente che gli arabi, anche nelle consultazioni internazionali con l’UNSCOP (Comitato speciale delle Nazioni Unite per la Palestina), che precedettero l’emissione della risoluzione 181, avevano reclamato a gran voce e con la violenza il diritto all’istituzione di uno stato arabo su tutta la Palestina e fecero capire in ogni modo la loro indisponibilità ad accettare altre soluzioni. Diritto che non avevano per tutte le ragioni suddette. La risoluzione 181, nel suo preambolo, pone tutta una serie di condizioni inderogabili ai fini della formazione dei due stati e una su tutte è quella che si creino stati democratici. A questa dicitura fa seguito un elenco di richieste che caratterizzano le società democratiche. La risoluzione 181 propone una concezione dello stato di stampo illuminista, burocratico e lontano da ogni tendenza teocratica, qualcosa che non poteva rientrare nell’orizzonte esistenziale dell’arabo musulmano. A mio parere vi è una questione culturale-religiosa che sovrasta tutto il resto. Detto in parole povere: gli ebrei avevano la capacità di ragionare in termini politici aconfessionali, i musulmani no. Per gli arabi musulmani costituirsi in uno stato democratico, secondo i criteri richiesti dall’ONU, era difficile assai. Stiamo parlando di etnie avvezze ad assetti “politici” che comprendevano emirati e sultanati sia prima della dominazione Turca-ottomana che, in alcuni casi, durante. Lo stato palestinese non è mai esistito perché il concetto stesso di “Stato” nell’arabo musulmano è assai incompatibile con quello occidentale ma qui potremmo aprire un lungo capitolo non adatto a questa sede.
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[1] L’URSS fu la prima a riconoscere de Jure lo Stato di Israele tre giorni dopo la sua costituzione.
[2] La soluzione proposta dalla Commissione Peel (Lord William Peel) era radicale: dividere la Palestina in due Stati indipendenti l’uno dall’altro, uno ebraico (più piccolo) ed uno arabo, con la città di Gerusalemme e l’area circostante che sarebbe rimasta sotto il controllo del Mandato britannico. L’Agenzia Ebraica, con a capo David Ben-Gurion, pur dispiacendosi per Gerusalemme che sarebbe rimasta al di fuori dello Stato ebraico, accettò il piano di spartizione; gli arabi lo rifiutarono in toto perché contrari a qualsiasi diritto di Stato per gli ebrei, anche in aree della regione a maggioranza ebraica.
[3] Dimitri Buffa, l’Opinione delle libertà, 19/4/2012.
[4] Daniel Greenfield è un giornalista di origine israeliana che scrive per pubblicazioni conservatrici.
[5] Il sangiaccato di Gerusalemme (Suddivisione amministrativa dell’Impero Ottomano; sopravvive ancora in alcuni paesi arabi)è stato una provincia dell’Impero ottomano fino al 1918. Parte della Palestina, la quale faceva parte del vilayet di Sham (Siria), il sangiaccato di Gerusalemme era formato da cinque cazà (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba)[1]. Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
PACCO: A fine agosto decine di volontari e volenterosi hanno ammassato nel porto di Genova una quantità smisurata di cibo e medicinali destinati alla popolazione di Gaza. A dire il vero ne sarebbero bastate solo 40 tonnellate, tale era la stima approssimativa degli organizzatori e la capacità effettiva delle stive delle imbarcazioni, impegnate a forzare il blocco navale imposto da Israele. Tuttavia, i beni consegnati in modo del tutto spontaneo dalla generosità di gente comune, superavano di 10 volte il limite preventivato.
DOPPIO PACCO: La flotta di circa 50 imbarcazioni si avvicinava lentamente all’obiettivo di raggiungere la Palestina e quindi il blocco navale, così nella preoccupazione generale, molti esponenti della politica italiana hanno iniziato a scongiurare la possibilità dello scontro con i militari di Israele, proponendo in alternativa la consegna dei beni umanitari, precedentemente raccolti e stivati sulle imbarcazioni, a Cipro, dove è stato istituito da tempo un corridoio marittimo verso Gaza. In questo modo gli aiuti sarebbero arrivati per certo e avrebbero effettivamente dato un sostegno concreto alla popolazione sfollata. Proposta rispedita al mittente, il comitato direttivo della Flotilla determinava di rimanere fedele al proposito di fare “rotta verso una Palestina libera”.
CONTROPACCOTTO: 1 Ottobre, le forze israeliane prima sparano cannonate di avvertimento ad acqua, poi salgono a bordo delle imbarcazioni dove trovano gli attivisti impegnati a perseguire il proprio impegno di protesta. Come ultimo, disperato gesto, forse per proteggere i reali propositi, gettano in mare cellulari e dispositivi elettronici. Quindi vengono trasportati a terra per essere rimpatriati. Le prime immagini delle stive delle imbarcazioni sono scioccanti. Vuote, salvo alcuni pacchi di cibo e poco altro, forse più necessario ai naviganti che ai gazawi, sembra non ci sia nulla di tutto quello che era stato precedentemente raccolto e promesso alla popolazione bisognosa.
Nel film di Nanni Loy del ’93, in una Napoli che vive di espedienti, si innesca tutta una serie di truffe a catena, truffati e truffatori, che a loro volta sono truffati da qualcuno che è, apparentemente, più furbo di loro. Ma se effettivamente le cose stessero così, questa truffa, mediatica, social-mediatica, propagandistica, non si dovrebbe accettare, come se nulla fosse. Se penso a tutti quelli che hanno portato cibo e medicinali, ma che ne hanno fatto, li hanno buttati in mare? Se penso a tutti quelli che si sono mobilitati per far arrivare, per davvero, gli aiuti a Gaza, sfido che non potevano lasciarli a Cipro, non ce li avevano proprio… Se penso a tutti quelli che hanno manifestato il 3 Ottobre, compresi alcuni miei alunni (altri che non sono venuti a scuola saranno andati solo a farsi un giro per la verità), ma quelli che ci credevano veramente, come si saranno sentiti al pensiero che hanno sfasciato tutto per un cargo vuoto? Per la verità a qualcuno era stata fatta qualche proposta, del tipo, ma se i palestinesi venissero qui in Italia, li accogliereste nelle vostre case, li vestireste, li sfamereste? Troppo facile parlare di quale fosse in fondo il vero scopo della Flotilla, invece mi va di parlare dei palestinesi, i gazawi, ma a chi interessano veramente?
C’è qualcuno tra quelli che fanno proclami che ha veramente a cuore dell’esistenza dignitosa e della salute di un popolo che un popolo non lo è mai stato a partire dalla sua presunta nascita, non voluta nemmeno da quelli che dovrebbero essere fratelli? C’è qualcuno che pensa veramente di fare del bene ai palestinesi, tenendoli legati visceralmente ai propositi di violenza, impartiti dalla più tenera età, molto prima che un bambino possa imbracciare il fucile, e che hanno come unico scopo la cancellazione di Israele? Al liceo ho conosciuto uno studente palestinese che viveva a Nazareth, mi diceva che per un palestinese il posto migliore dove vivere è Israele. In Israele nonostante tutto c’è la democrazia, un parlamento eletto con una componente musulmana, la vita che si vive in Israele è simile a quella che si vive in qualsiasi città in Occidente. Cosa che non si può dire di tutte le altre città del vicino oriente. In ultimo, ma non ultimo, forse la cosa più importante e la più incredibile, proprio il Dio degli ebrei, che si è fatto conoscere al mondo come il Dio di Israele, probabilmente è l’unico a cui la gente di Gaza sta veramente a cuore. G.M.
Il lascito morale e politico dello sciopero generale di venerdì scorso e del “pacifico” corteo pro-Gaza o pro-Pal è ben visibile a Roma sui muri delle vie attraversate dai manifestanti. Davanti al Colosseo leggiamo “Israele assassino”; in via Labicana “odio Israele” e “Israele stato terrorista”; in via Merulana un grande “morte a Israele” e “intifada fino alla vittoria” sul muro della Pontificia Università francescana (parlando di pacifismo) chiamata Antonianum, che a tre giorni da quel corteo non ha ancora ripulito le sue mura da queste oscenità (con quale coerenza teologica, mi chiedo, se nelle loro cappelle pregano con i salmi di David ha-melek “il Custode di Israele”…?). Ma come stupirsi: questo linguaggio è stato sdoganato da partiti politici, intellettuali, preti con la kefiah, testate giornalistiche e poco ci manca da alcuni servizi della Rai. L’Italia è stata palestinizzata, l’islam radicale ha prevalso, la narrativa di Hamas ha vinto quando si può mettere in testa a un corteo pro-Gaza uno striscione che equipara il 7 ottobre a un atto di resistenza. Sono gli effetti di un “sonno della ragione” che ricorda le folle acclamanti degli anni Trenta. Da oltre nove anni è in corso una guerra dei sauditi contro lo Yemen, che ha fatto più di 370 mila morti, dove ci sono fame ed epidemie… ma sui muri di Roma l’assassino da odiare è solo e soltanto Israele.La flottiglia ha mostrato il vero scopo, il vero collante di tutta questa “solidarietà umana”: non aiutare chi soffre ma distruggere chi ha saputo ricostruirsi una vita e costruire uno stato dopo un vero genocidio. Loro vogliono demolire e riscrivere la storia (l’ho sentito con le mie orecchie la sera di Kippur, quando sono stato costretto ad attraversare l’ennesima manifestazione propal per tornare a casa), Israele e la diaspora ebraica la stanno costruendo. E sarà a beneficio anche dei palestinesi che, abbandonando l’odio, vorranno davvero convivere nelle terre di Abramo.
Io sto con Israele! Con i giovani soldati che ogni giorno combattono mettendo a rischio i loro splendidi venti anni! Ora e sempre io sto con Israele! Contro questo mare d’odioe di antisemitismo! Il sangue di Gesù Cristo alla croce mi ha purificata da tutti i miei peccati! Il sangue degli ebrei mi è molto caro. Io sto con Israele! Il mio cuore batte per questa terra meravigliosa e per il popolo ebraico! La mia preghiera quotidiana è per la pace di Gerusalemme (Salmo122). Io sto con Israele! Con gli ostaggi e i loro familiari, per la liberazione ed un tempo di consolazione! Io sto con Israele! Questa terra benedetta, martoriata dal nemico che vuole possederla a tutti i costi! Io sto con Israele! Le tue lacrime le comprendo tutte! Certo, ci sarà restaurazione… Io sto con Israele!
Carmela Palma
(Notizie su Israele, 7 ottobre 2025)
Sono passati due anni ed è ancora il 7 ottobre. Gli ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas, Israele è esausto e immerso nel dolore, i palestinesi sono ostaggi di Hamas e del loro odio secolare verso gli ebrei. Ma l’orrore del 7 ottobre sta continuando a devastare anche la nostra comunità democratica, è penetrato nell’ideologia suicida antioccidentale e nel sottofondo di antisemitismo finalmente libero di esprimersi con tutta la sua violenza e il suo odio. Il 7 ottobre è stato un punto di non ritorno, un evento che ha devastato Israele, che ha colpito nel profondo il mondo libero, che ha reso evidente un asse del male che unisce la Russia di Putin, il regime degli ayatollah in Iran, e la Cina che li supporta. Un attacco senza precedenti a Israele, forte e pronto a reagire, e all’Occidente, debole e tremebondo.
È ancora il 7 ottobre in Israele, fino a che non saranno liberati gli ostaggi. 732 giorni nel lager di Gaza, le storie di 251 persone innocenti, strappate alla loro vita. 251 storie drammatiche che si uniscono a quelle dei tanti israeliani uccisi il 7 ottobre e dei tanti giovani militari morti in guerra per difendere il loro Paese e la vita delle loro famiglie. Israele è diviso sulla sorte degli ostaggi. Centinaia di migliaia di persone manifestano tutte le settimane per richiedere il loro rilascio mentre la guerra per liberare Israele dalla minaccia di Hamas mette a rischio la loro vita. Fino a che gli ostaggi non saranno tornati a casa, Israele non sarà libero di costruire il suo futuro. Israele è più isolato che mai! Il 7 ottobre ha costretto Israele a reagire, per distruggere la capacità offensiva dei suoi nemici, che perseguono l’obiettivo di cancellare Israele “dal fiume al mare”. I terroristi islamici hanno aggredito Israele su tutti i fronti; Israele li ha colpiti, indeboliti, ha annientato la loro capacità militare, ha umiliato l’Iran che li ha armati, ma il mondo libero gli ha voltato le spalle.
È ancora il 7 ottobre in Europa. Abbiamo lasciato solo Israele nella sua guerra contro il nostro nemico. L’Islam radicale ha penetrato le nostre città, si sta impossessando della nostra libertà per annullarla, per sostituire lo Stato di Diritto con la Sharia. Con la sua propaganda ha fatto presa tra le nostre élite pigre, ha ridato un senso alla loro vita alimentata dal rancore e dall’invidia, ha dato il via libera all’odio per gli ebrei vivi che si alimentava soffocato dalla retorica della memoria per gli ebrei morti. All’inizio piccole frange negavano il 7 ottobre, frutto della propaganda sionista; oggi fiumi di persone nelle nostre piazze celebrano l’orrore del 7 ottobre come festa della resistenza palestinese, vestiti come quei terroristi che hanno stuprato, mutilato, bruciato, ucciso ebrei, musulmani, beduini, drusi. Chiedono la morte degli ebrei, si augurano che vengano appesi all’albero di Natale per risparmiare sugli addobbi, i loro bambini vengono portati nelle piazze a urlare slogan che richiedono il genocidio degli ebrei “dal fiume al mare”. Hanno il consenso della stampa, i partiti di sinistra sperano di raccogliere i loro voti, l’accademia si inchina a loro, la magistratura ne condivide le battaglie, ai loro profeti viene concessa la cittadinanza onoraria.
Finirà la guerra, gli ostaggi torneranno a casa, Israele si è difeso da solo, senza di noi e da solo saprà riprendersi dallo sfinimento. Si troverà un nuovo assetto in Medio Oriente, purtroppo un assetto precario. Non sarà sradicato l’odio degli arabi verso gli ebrei, ma inizierà un lungo e lento percorso di sicurezza e cooperazione economica. Gli israeliani dovranno ancora vivere nella paura, nella difesa dalla guerra, nella straordinaria energia di un Paese consapevole che convive con tutto questo da sempre. Il 7 ottobre in Israele finirà, rimarrà nella memoria di un popolo che sa ricordare, senza retorica, ma con la forza della sua storia. Ma dopo la guerra, in Europa il 7 ottobre non finirà. Siamo in un tunnel di orrore. Gli ebrei sono perseguitati, il valore della libertà è annullato nelle scuole e nelle università, dove i ragazzi non sono più liberi neanche di avere dubbi, neanche liberi di stare in silenzio. Devono odiare Israele, gli ebrei, i sionisti, l’Occidente, la libertà. Avremo molto da lottare, a testa alta per gli ebrei, per noi, per salvare le nostre vite e la nostra libertà.
Quella viscida forma di astio antiebraicoQuesto sito si rivolge in particolar modo a cristiani evangelici. È inevitabile allora che il riferimento esplicito a Israele possa provocare dibattiti, differenze di vedute e anche possibili divisioni. In questa funesta ricorrenza riteniamo utile allora riproporre un articolo di qualche mese fa, pensato particolarmente per un ambito evangelico. L’articolo è lungo perché per prendere posizione su un avvenimento così complesso come quello richiamato oggi, con una valenza biblica e politica enorme, occorre necessariamente partire da lontano. La superficialità su certi argomenti è una colpa.
All’articolo abbiamo cambiato soltanto il titolo, per segnalare il più forte pericolo che si corre oggi in certi ambienti.
di Marcello Cicchese
La guerra di Gaza è forse l’ultima forma in cui si presenta oggi al mondo la “questione ebraica”. Se per secoli sono stati gli ebrei come gruppo sociale a costituire un problema all’interno delle singole nazioni in cui vivevano, da circa un secolo è l’esistenza di una nazione che vuol dirsi “ebraica” a costituire un problema. Ha diritto di esistere una “nazione ebraica?” è questa la forma in cui il problema oggi si pone. E inoltre, ha diritto di vivere ed esercitare la sovranità sulla terra che ora occupa? Israele dice “sì”, Hamas dice “no”.
Immaginiamo allora che in un paese ci sia la famiglia A in lotta da generazioni con la famiglia B sulla rivendicazione di proprietà di un certo possedimento. Col tempo avvengono fatti di violenza tra le due parti e i paesani finiscono per parteggiare per una o per l’altra parte. Quasi sempre lo fanno per simpatia, o per interessi, oppure, nel migliore dei casi, per valutazioni di ordine morale. “Quelli sono altezzosi e offendono”, dicono gli uni; “e loro sono violenti e rubano”, dicono gli altri; e cose simili. Quale sarà il modo giusto per porre fine alla contesa? Risposta: accertare presso il Demanio a chi appartiene per diritto la proprietà del possedimento. Tutto il resto viene di conseguenza.
La contesa sulla terra "dal Giordano al mare" proviene allora da una questione giuridica tuttora in corso e non ancora risolta. Trattandosi di diritto, la contesa non può che svolgersi all'interno di una struttura giurisdizionale entro cui sono stabilite le norme e si può verificare se sono rispettate o no. In questo caso, in cui sono presenti concetti come “ebrei” e “nazione”, la questione richiede per sua natura una giurisdizione che si colloca su un piano superiore al solito: si deve decidere qual è il sistema ideologico entro cui si vogliono collocare le nozioni di bene e male, di giusto e ingiusto, di vero e falso.
Trascurando visioni ideologiche come quella islamica o cattolica tradizionale, per i cristiani evangelici entrano in gioco, e in tensione fra loro, due visioni del problema: quella biblica e quella secolare. Più precisamente: la tensione tra diritto biblico e diritto internazionale. E’ lo stesso tipo di tensione che il singolo credente sperimenta quando deve scegliere tra sottomissione a Dio e sottomissione alle autorità.
Essendo una questione di diritto, occorre avere conoscenza del sistema di norme giuridiche entro cui ci si colloca. Per muoversi nella visione biblica, ovviamente è indispensabile conoscere la Bibbia; e per quella secolare è indispensabile conoscere la storia. Essere privi di adeguata conoscenza nei due ambiti non è una colpa, ma è comunque un pericolo, perché ci si ritrova a galleggiare in un mare di ignoranza su cui naviga la menzogna.
Sono molti i battelli della menzogna che percorrono il mare dell’ignoranza con la scritta “Palestina-Israele”. I nuotatori in difficoltà li incontrano in quei video in rete che si propongono di spiegare, una volta per tutte, le radici “storiche” del contrasto tra israeliani e palestinesi. Il naufrago viene issato a bordo e gli viene proposto di vedere un film che è un assemblaggio di spezzoni di video accuratamente scelti, con una voce suadente che racconta come sono andate le cose e spiega tutto. Dopo una mezz’ora il nuotatore issato a bordo è convinto di sapere ormai abbastanza sull’argomento e di non avere bisogno di altro. La conseguenza è che il naufrago non soltanto è stato imbarcato su un battello della menzogna, ma gli è stato infilato addosso anche un mantello impermeabile che lo proteggerà in futuro da ogni successivo accostamento della verità.
Fuor di metafora, quando vent’anni fa un oratore andava a spiegare a un pubblico evangelico la questione di Israele con dati ricavati da studio della Bibbia ed esame di documenti storici, poteva trovare un pubblico poco addentro nell’argomento ma anche attento e desideroso di apprendere. Oggi invece sarebbe molto diverso, perché oggi tutti sanno tutto. Qualunque cosa si dicesse in merito, potrebbe sempre alzarsi qualcuno a dire che non è vero. Perché lui l’ha visto coi suoi occhi. In un video. E c’erano pure scene di fatti avvenuti cento anni fa… Vuoi mettere?
• Le nazioni nella Bibbia Per uscire dal mare dell'ignoranza, e se del caso scendere dal battello della menzogna, bisogna anzitutto prendere atto che il problema ruota intorno al concetto di nazione, presente sia nella Bibbia, sia nel diritto secolare.
Nella Bibbia le nazioni non fanno parte del progetto originario di Dio: esse sono conseguenza di peccato; sono frutto della superbia dell’uomo, che nel suo desiderio di diventare come Dio si impegnò nella costruzione della torre di Babele. Fu un peccato “globalista”, frutto del desiderio di unire tutti gli uomini in un'armonica rivendicazione di universale autonomia rispetto a Dio.
In risposta a questo “nobile” progetto, Dio agì signorilmente: non fulminò i ribelli, ma senza farsi accorgere ne vanificò il progetto obbligandoli a dividersi in nazioni.
Ma a questo punto sorge un problema: il piano salvifico di Dio prevede la Sua personale discesa sulla terra nella persona del Messia; in quale nazione allora sarebbe dovuto scendere il Signore? Forse noi avremmo stabilito una graduatoria a punti e scelto la nazione col maggior punteggio; Dio invece ha agito diversamente: ha deciso di formarsi la sua propria nazione.
Quando Dio dice ad Abramo: “… farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:2), questo è un impegno solenne che Dio prende con Se stesso. Quando il popolo di questa nazione, a cui nella storia di Giacobbe Dio ha dato il nome di “Israele”, arrivò a formarsi nel seno dell’Egitto, Dio diede a Mosè l’incarico di comunicare al faraone una notizia importante:
"Tu dirai al faraone: Così dice l’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:23).
A questa notizia seguì l’ordine perentorio di far uscire suo figlio da quella terra, cosa che come sappiamo il monarca egiziano fece molta fatica ad accettare.
Questo dovrebbe essere sufficiente a far capire che qualunque cosa avvenga nel mondo, il popolo di Israele, in quanto figlio primogenito di Dio, non è, e non sarà mai, una nazione come tutte le altre. Secondo la Scrittura, anzi, essa costituisce fin dall’origine il metro di confronto usato da Dio per la costituzione delle altre nazioni:
“Quando l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d'Israele” (Deuteronomio 32:8).
Dunque Israele ha da sempre e per sempre una posizione di primato rispetto alle altre nazioni, le quali sono addirittura invitate dal Signore a gioire e a pregare per lui:
“Così parla l’Eterno: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, prorompete in grida, per il capo delle nazioni; fate udire le vostre lodi, e dite: o Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele!" (Geremia 31:7).
• Il posto di Israele Se Israele è il capo delle nazioni, resta da decidere quale posto si deve riconoscere nel piano biblico alla nazione che oggi porta il nome Israele; e quale valutazione si vuole dare di ciò che sta accadendo intorno alla terra su cui esercita la sovranità.
Come persona che su questo tema riflette ormai da decenni, ritengo sia utile riportare qualcosa che nel passato è stato pubblicato sul mensile evangelico “Il Cristiano”, dove nel 2002 è comparsa una serie di miei cinque articoli, raccolti in seguito in un inserto dal titolo “Dio ha scelto Israele - Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa”, trasformato poi in un libro di cui è uscita l'anno scorso la quarta edizione.
Il primo articolo, dal titolo “La nascita del sionismo politico”, si apre con questa introduzione:
"Il ristabilimento della nazione di Israele e il miracoloso ritorno dei suoi cittadini sparsi in tutto il mondo fa capire che Dio non ha cambiato opinione riguardo al "Suo popolo, che ha preconosciuto". L'interesse per Israele non può limitarsi al passato prima di Cristo e al futuro dopo il rapimento della Chiesa, perché quello che sta avvenendo oggi nella terra promessa ad Abramo non merita soltanto riflessione, ma richiede anche decisione."
Nell’ultima pagina di copertina dell’inserto sta scritto:
"L’autore ripercorre le tappe che nella Storia dimostrano in modo inequivocabile l'unicità di Israele fra tutti i popoli della terra.
Da dove viene questa unicità? Israele è l'anomalia che sconvolge le "leggi" della politica, della religione, dell'antropologia ... della storia.
Da dove viene questa anomalia? La Rivelazione biblica, che legge ed interpreta la Storia, ci dà una risposta precisa: l'unicità e l'anomalia provengono da Dio che ha scelto Israele per testimoniare il suo Nome fra le nazioni e, soprattutto, per realizzare il suo progetto universale di salvezza. Il fatto che Israele non abbia spesso assecondato i piani di Dio, non svilisce il valore e gli obiettivi della scelta."
• Israele oggi Ribadendo allora la validità di queste valutazioni, resta da stabilire se lo Stato che oggi porta il nome “Israele” ha qualche collegamento con l’Israele biblico o è soltanto un incidente della storia profana.
Una risposta adeguata richiede un esame in parallelo di quello che dice la Bibbia sul futuro di Israele dopo Gesù e di quello che dicono i documenti storici sui fatti che hanno portato alla formazione dell'attuale Stato di Israele. Tutto questo non si può fare certamente nei limiti di un singolo articolo, ma è bene prendere atto che si può arrivare ad averne conoscenza, se davvero lo si desidera.
Per quanto riguarda l’aspetto biblico della questione, si può indicare un saggio di Arnold Fruchtenbaum: Il moderno Stato di Israele, in cui si dimostra, con abbondanza di citazioni bibliche, che l’attuale Stato di Israele corrisponde a quello che le profezie bibliche prevedono, cioè il ritorno degli ebrei nella loro terra in una posizione di incredulità rispetto al Messia. Questo significa che Dio stesso ha voluto la fondazione dell’attuale Stato di Israele, ed esso rimane dunque sotto la sua personale amministrazione. Si può non essere d’accordo, ma allora si deve mostrarne le ragioni con la Bibbia alla mano.
Per quanto riguarda l’aspetto storico, la questione è ancora più impegnativa, perché si tratta di smontare la convinzione più diffusa, cioè che gli ebrei avrebbero invaso una terra che non appartiene a loro e avrebbero soggiogato i suoi abitanti. Secondo questa tesi, ad avere il diritto di proprietà sulla terra d’Israele non sarebbero dunque gli ebrei, ma i cosiddetti “palestinesi”. E questo è falso.
E' vero il contrario: secondo il diritto internazionale, Israele è l'unica nazione ad avere pieno diritto di sovranità sulla terra che ora occupa.
Un’affermazione così categorica può lasciare perplessi, ma proprio per questo deve essere ripetuta con forza, insieme alla disponibilità a dare risposte a chi sinceramente le chiede, se davvero desidera uscire dal "mare dell'ignoranza".
Per essere concreti, si può indicare un recente libro di David Elber, Il diritto di sovranità in terra d’Israele, Salomone Belforte, 2024. E’ un libro chiaro, conciso, che contiene in modo documentato tutto ciò che è necessario per arrivare alla conclusione più ovvia, cioè che secondo il diritto internazionale, basato su fatti storici e formulazioni giuridiche di patti fra nazioni, il diritto di proprietà della terra che va “dal Giordano al mare”, appartiene al popolo ebraico, dunque a Israele.
Certo, un libro simile richiede una lettura attenta, essendo frutto di una ricerca analitica fatta su documenti storici, come si farebbe con documenti dell'archivio del Demanio per appurare a chi appartiene la proprietà di un immobile conteso.
Altri studi e indicazioni sull'argomento si possono trovare naturalmente su questo sito, e precisamente alla rubrica "Approfondimenti", dove ci sono saggi di tutte le misure e di tutti i tagli (ma non di tutti i gusti).
• Israele in rapporto alle nazioni Per arrivare all’attualità, chi ha ragione oggi nella contesa tra Israele e Hamas? Se proprio si richiede una posizione netta, per chi scrive la risposta è una sola: ha ragione Israele, senza se e senza ma.
Se è vero che in questo momento Israele occupa la terra che Dio gli ha assegnata, e contemporaneamente è vero che Hamas dichiara di volerlo distruggere come nazione e cacciare gli ebrei da quella terra, la conseguenza biblica è che Hamas si è costituito apertamente come nemico di Dio e servo di Satana. Hamas si agita fra quei nemici di Dio di cui si parla nel Salmo 83:
"Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!" (Salmo 83:2-4).
La distruzione di Israele come nazione è uno dei principali obiettivi di Satana, perché questo significherebbe la vanificazione del progetto universale di salvezza di Dio. Il Signore avverte minacciosamente chi ha queste intenzioni distruttive:
"...così parla l'Eterno degli eserciti: ... chi tocca voi tocca la pupilla dell'occhio suo" (Zaccaria 2:8).
Davanti al tentativo di Hamas di distruggere lo Stato d'Israele (sprezzantemente denominato "entità sionista"), e soprattutto davanti alla dichiarata, reiterata volontà di ripetere indefinitamente questo tentativo fino a ottenimento del risultato, Israele ha reagito: ha espresso a sua volta la volontà di distruggere Hamas. E ora sta provando concretamente a farlo. Nel piano di Dio, questo è conforme a giustizia. Dio disciplina il suo popolo, anche duramente, ma guai a quella nazione che si propone di distruggerlo. E' stato sempre così nel passato e sempre così sarà. E' un'espressione della volontà ultima di Dio: i nemici dichiarati del suo popolo saranno distrutti, prima o poi, perché sono nemici di Dio.
La discussione sui modi in cui la contesa si svolge, la previsione di come andrà a finire, il conteggio dei morti, la commozione per le sofferenze di donne e bambini palestinesi, il palleggiamento delle responsabilità morali da una parte all'altra, sono cose del tutto fuori luogo in questa ottica. E' possibile che Israele non riesca in tempi politici a distruggere Hamas; è possibile anche che i suoi modi di agire avrebbero potuto essere diversi; ma questo non altera la valutazione secondo giustizia del fatto in sé. Con l'assalto del 7 ottobre Hamas ha manifestato, in parole e opere, il suo odio contro il popolo che Dio si è scelto, la volontà di cacciarlo fuori dalla terra che gli appartiene e distruggerlo come nazione. Si è messo contro Dio e ne subirà le conseguenze. Come già è accaduto più volte nel passato.
Quanto alle sofferenze che ne subisce ora la popolazione di Gaza, da un punto di vista biblico e non genericamente umanitario, esse possono essere considerate come un avvertimento e un'anticipazione di ciò che capiterà un giorno alle nazioni che si muoveranno in guerra contro Gerusalemme:
"In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:6).
"In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme" (Zaccaria 12:9).
E inoltre:
"Questo sarà il flagello con cui l’Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, i loro occhi si scioglieranno nelle orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca" (Zaccaria 14:12).
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). E va sottolineato che l’indignazione di Dio è causata proprio dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna.
• Israele in rapporto a Dio Come abbiamo già detto, non è per quello che Israele ha fatto e sta facendo ai palestinesi che Dio lo rimprovera; ma pur dicendo che Israele ha pienamente ragione rispetto ad Hamas, non è detto che Israele abbia ragione anche nei suoi rapporti con Dio. Ci si può chiedere infatti se oggi Israele stia vivendo in modo degno della sua particolare elezione. A nessun altro popolo Dio ha rivolto parole così tenere, come quelle di un innamorato:
"... tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te" (Isaia 43:4-5).
Ma il Signore è un Dio geloso, e non sopporta che Israele lo abbandoni per onorare e servire altri dei. L'idolatria del suo popolo è un tradimento che lo provoca ad ira:
"I figli d'Israele continuarono a fare ciò che è male agli occhi dell'Eterno e servirono gli idoli di Baal e di Astarte, gli dèi della Siria, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi dei figli di Ammon e gli dèi dei Filistei; abbandonarono l'Eterno e non lo servirono più. L'ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei e nelle mani dei figli di Ammon" (Giudici 10:6-7).
La gravità della situazione in cui si trova oggi Israele dovrebbe indurre i suoi cittadini a porsi serie domande: stiamo forse servendo dei stranieri, come popolo e nazione? stiamo coltivando forme di idolatria pagana?
La riflessione potrebbe cominciare proprio dall'esame di ciò che è avvenuto quel 7 ottobre.
Quella mattina i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma la provocazione organizzata di una collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, il risultato che poi si è ottenuto proprio non se lo potevano immaginare.
Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina. «L’ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei» (Giudici 10:7).
• L'odio antiebraico cresce e si diffonde Quale che sia la valutazione che il Signore vorrà dare della condotta odierna di Israele, gli uomini dovranno un giorno rispondere a Dio dell'atteggiamento che avranno assunto nel confronti del suo popolo.
Colpisce allora la rapidità, l'intensità e l'estensione con cui pochi giorni dopo la mattanza del 7 ottobre è cresciuto nel mondo l'odio contro gli ebrei. "Genocidio" è la sintetica parola che si è ben presto diffusa; e naturalmente chi commette genocidio è Israele. Il semplice fatto di usare questo termine in questo contesto fa emergere in chi lo usa la sua antipatia, per non dire l’odio, verso gli ebrei. Naturalmente chi ne fa uso lo negherà, ma non sarà convincente. Genocidio? Quale sarebbe il genere umano ucciso? Quello dei palestinesi? perché, i palestinesi di Gaza costituiscono un genere? come gli ebrei? come i curdi? qual è il gruppo etnico caratteristico dei palestinesi? Ma è inutile porre queste domande, perché chi nomina disinvoltamente il genocidio in questo contesto non è interessato alle risposte: l’importante è che il termine sia entrato nell’uso e sia riferito ripetutamente a Israele. Il bollo infamante gli è stato appiccicato addosso, e bravo chi riuscirà a staccarlo. Forse ci vorranno secoli, come nel caso del deicidio.
Come cristiani evangelici, dobbiamo renderci conto che anche noi corriamo il rischio di essere contagiati dall'atmosfera antiebraica che si respira oggi nella nostra società. Per avvertirne il rischio possiamo riportarci indietro, al tempo della Germania hitleriana. E' in un clima per certi aspetti simile al nostro che si arrivò fino all'invio degli ebrei nelle camere a gas. Possiamo chiederci allora quale fu il comportamento dei credenti in Cristo di quella nazione davanti ai fatti che li coinvolgevano. Ma ancora prima di questo, c'è da chiedersi se riuscirono a capire quello che stava accadendo.
Nella sopra citata serie di cinque articoli del 2002 pubblicati su "Il Cristiano", l'ultimo articolo ha come titolo: "Il tentativo sempre rinnovato di distruggere Israele". Nella parte finale si dice:
"Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione hanno saputo riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare."
Poco più avanti si fa un avvertimento che se valeva allora vale tanto più ancora oggi, dopo oltre vent'anni:
"I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele."
Quello che sta avvenendo oggi, 2025, nella terra promessa ad Abramo richiede dunque riflessione, affinché si sappia capire di che natura sono i fatti che avvengono; e decisione, affinché si sappia prendere posizione, o quanto meno si decida di non mettersi a "ululare coi lupi", cioè di non associarsi a quella viscida forma di astio antiebraico che si sta diffondendo oggi, forse purtroppo anche tra evangelici.
A questo punto non posso che rinnovare l'avvertimento personale che diedi vent'anni fa, sempre sul mensile evangelico "Il Cristiano", dove nei numeri di gennaio e febbraio del 2005 comparve un mio lungo articolo in due puntate dal titolo: "Antisemitismo 'evangelico', moderato ed equilibrato".
L'articolo è introdotto da queste parole:
«Esaminare i fatti accaduti nella Germania del periodo nazista e considerare l’atteggiamento tenuto dai credenti evangelici tedeschi nei confronti degli ebrei può aiutare a riflettere su quello che oggi si pensa e si dice sugli ebrei di oggi, e ad assumersene la dovuta responsabilità.»
E si conclude poi con queste parole, che mi sento di ripetere oggi nella stessa identica formulazione:
«E’ di fondamentale importanza verificare quello che pensiamo, biblicamente, storicamente, politicamente e psicologicamente, degli ebrei di oggi. Pensieri anche biblicamente corretti sugli ebrei di ieri (prima di Gesù) e di domani (dopo il rapimento della chiesa) non sono sufficienti a garantire la fedeltà alla Parola di Dio. Dovrebbe essere chiaro che il tema “ebrei”, inevitabilmente collegato oggi allo “Stato d’Israele”, è non solo di scottante attualità politica, ma è anche e soprattutto di cruciale importanza spirituale. Quello che si pensa, quello che si dice (spesso con preoccupante leggerezza) sul popolo ebraico e sullo Stato d’Israele può avere conseguenze gravi sulla vita della persona, della chiesa e della società. Il campanello d’allarme dell’antisemitismo ha ripreso a suonare. Sapremo riconoscere e tacitare quelli che con le loro politiche e teologiche chiacchiere stanno cercando di coprirne il suono? Mai forse come in questo caso sono appropriate le parole del Signore Gesù:
"Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato" (Matteo 12:36).»
Ricordando il 7 ottobre 2023. Il racconto di un testimone dell’attacco al Kibbutz Nir Yitzhak
«Abbiamo sentito i nostri vicini mentre li rapivano»
di Ilaria Myr
Daniel Lanternari è un ebreo romano che dal 1995 vive nel Kibbutz Nir Yitzhak, uno dei villaggi agricoli situati nella zona intorno a Gaza, la cosiddetta ‘envelope’ nei 7 km intorno alla striscia governata da Hamas. E anche il suo kibbutz, come tutti i villaggi della zona, è stato travolto dalla furia omicida dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Nell’attacco sono morti tre residenti, e 9 persone sono tutt’oggi disperse. Lo abbiamo contattato a Eilat, dove si trova con la sua famiglia, la moglie, i tre figli (9,12 e 15 anni) e due cani. «Ci siamo svegliati sabato mattina alle 6.30 al suono delle sirene, ma c’era anche una quantità enorme di missili e siamo corsi nella stanza di sicurezza. Abbiamo aspettato che finisse il lancio dei razzi per uscire, ma intanto abbiamo ricevuto messaggi che c’erano state delle infiltrazioni a Sderot nella zona al nord della striscia. Dopo qualche minuto, portando mio figlio al bagno dalla finestra abbiamo visto una quindicina di terroristi che sono entrati dall’entrata del kibbutz si sono nascosti dietro la mia macchina e hanno iniziato a sparare. Siamo subito rientrati nella stanza di sicurezza e ci siamo chiusi bene dentro, in modo che non potessero entrare dall’esterno. Ma hanno cercato di entrare dalla finestra della camera, e quando ho visto un filo di luce mi sono detto ‘è finita’. Continuavano a girare intorno, sentivamo spari e urla in arabo, ma abbiamo anche sentito urlare nella casa dei nostri vicini, da dove – abbiamo poi saputo – hanno portato via cinque persone. Sono entrati anche da noi, hanno distrutto quello che c’era e hanno cercato di entrare nella stanza, dove eravamo, per fortuna senza riuscirci. In tutto questo, abbiamo cercato di mantenere il sangue freddo anche per trasmettere sicurezza ai bambini. E ancora non mi spiego per quale motivo anche i cani non hanno abbaiato, loro che di solito appena sentono un rumore lo fanno: sono stati in silenzio come se sentissero le nostre preghiere. In totale abbiamo passato lì dentro più di 12 ore, senz’acqua, cibo e per fare i nostri bisogni usavamo un secchiello. Non potevamo uscire perché non sapevamo se c’erano miliziani in casa o bombe. Solo verso le 19 sono arrivati i soldati: appena usciti ci siamo rifocillati e abbiamo visto che oltre ai bossoli, che erano ovunque, sul terrazzo c’erano tre razzi rpg pronti per l’uso, una veste, cartucce per kanalshnikov. Se li avessero usati in casa la situazione sarebbe stata certamente differente …. L’esercito ci ha divisi in diversi asili, che sono antimissile, in modo da potere controllare solo un luogo, mentre altri perlustravano il kibbutz alla ricerca di terroristi. Non ci hanno però evacuato subito perché si temeva che sulla strada ci fossero terroristi nascosti dietro agli alberi. Solo domenica sera verso le 23 siamo stati caricati su vari autobus e ci hanno portato qui a Eilat. Il bilancio del nostro kibbutz al momento è di tre morti sicuri e nove scomparsi. Purtroppo, sapere che hanno preso le nostre macchine per portare gli ostaggi fa ancora più male. Così come fa male avere scoperto che il motivo per cui erano scomparse tutte le biciclette era che i terroristi avevano portato con loro bambini piccoli per metterli a girare nel kibbutz e fare da scudo, per distrarre l’esercito e i sorveglianti. Vogliamo sapere perché per tante ore nessuno è venuto a bussare alla nostra porta. Il nostro più grande rispetto per i soldati che stanno ancora facendo il loro lavoro, ma qualcosa non è andato bene. Nel nostro kibbutz c’erano fino a oggi persone dalla striscia che lavoravano da noi, amici che aiutavamo, ma si deve capire che i miliziani entrati non hanno fatto nessuna distinzione davanti anche a beduini, drusi, donne, bambini, anziani. Hanno sgozzato bambini, bruciato famiglie vive, ragazzi che ballavano a un rave, persone innocenti che sono state ammazzate solo perché si trovavano nella terra di Israele, non importa di che etnia o età fossero. Sono sicuro che non è finita. Ora i bambini qui sono in vacanza ma il giorno che potremo tornare a casa nessuno si sentirà al sicuro, adulti e i bambini. Soprattutto, quando torneranno a scuola vedranno insegnanti e compagni che non ci sono più, si racconteranno le storie drammatiche che hanno vissuto e lì inizierà una nuova battaglia non fisica ma mentale. Se torneremo a vivere nel kibbutz? È presto per prendere una decisione: non nego che ci sono molti che dicono che vogliono tornare lì, alcuni dicono di spostare il kibbutz altrove, ma sicuramente in molti andranno via. Di certo, anche se torniamo, non sarà più la stessa cosa. Fino ad adesso dicevamo “per colpa dei razzi viviamo per il 95% in paradiso, ma per viverlo abbiamo questo 5% di inferno da subire ogni tanto”. Questa volta ci sono delle barriere che sono state oltrepassate che difficilmente le persone sapranno come superare».
(Bet Magazine Mosaico, 6 ottobre 2025)
Piangeremo adesso ricordando il sette di ottobre, ma non ci limiteremo a piangere. Saremo anche forti e orgogliosi, saremo ancora e per sempre il popolo che ha dato al mondo la legge morale e la democrazia, nessuno pensi di vedere gli ebrei piegati e umiliati. E sarà perché lo Stato d’Israele insieme alla nostra storia millenaria ce ne dà la forza, qualsiasi cosa si faccia e si sia fatto per piegarci.
Siamo stati capaci di esaminare l’accaduto e di capire con coraggio che era il momento di svoltare rispetto al tema della nostra sicurezza. Israele combatte, la diaspora al suo fianco è consapevole delle nuove difficoltà e le affronta con coraggio. L’atmosfera d’odio che ci ha aggredito anche dopo il 7 di ottobre non ci piegherà, ovunque siamo, ci stringeremo insieme con forza, non ci metteremo in ginocchio: la sorpresa dell’ondata di antisemitismo ci renderà, anzi, sempre più consapevoli delle nostre ragioni e del fatto che sempre, come dicono i testi, hanno cercato di distruggerci, e non ci sono mai riusciti perché la nostra bandiera è quella della vita, tantopiù quando è una setta di morte come quella della jihad a sfidarci. Il peggiore di tutti gli attacchi subiti dal tempo dei pogrom e della Shoah ci ha aggredito mentre gli ebrei, non solo in Israele ma anche nella diaspora, credevano da decenni che offrire, spiegare, farsi paladini di una visione di eguaglianza e di condivisione, di comprensione pacifista fosse la chiave per il tikkun olam, il perfezionamento della Creazione con l’aiuto dell’uomo. Per questo, dal 1948, l’offerta di terra ci sembrava la più convincente anche se “i no” si sono moltiplicati negli anni.
In realtà, mentre Israele cresceva in giustizia e democrazia, in contributo alla scienza e alla cultura, una parte del mondo che avremmo voluto coinvolto nella nostra crescita coltivava con molti mezzi, molta determinazione, un piano di aggressione per distruggere lo Stato d’Israele e tutti gli ebrei del mondo.
Così ricordare il Sette di Ottobre per noi ebrei significa non soltanto ricordare la mostruosa macelleria di Hamas, fiancheggiata da una parte del mondo islamico capeggiato dall’Iran, ma anche il sorgere di un’ondata di odio verso gli ebrei che si nutre di menzogne senza fine, che sono sfociate nella parola “genocidio”. È l’inversione della realtà di cui ha parlato a suo tempo nel definire il nuovo antisemitismo Robert Wistrich, il maggiore storico dell’argomento: prima c’è stata la persecuzione religiosa, gli ebrei erano gli assassini di Cristo; poi quella razziale, gli ebrei erano immondi esseri inferiori; adesso c’è quella dell’inversione: gli ebrei sono nazisti, e lo si vede nella loro trasformazione in sionisti.
Israele, Netanyahu, bambini cui si spara volontariamente in testa… è un festival di bestemmie e di false notizie che arrivano alla parola “genocidio” e causano episodi di violenza e espulsione continua nei confronti degli ebrei in tutto il mondo, quando cantano, quando fanno sport, quando scrivono, quando vanno a scuola e all’università, quando mangiano la pizza a Napoli…
È stata dura vedere la muraglia sorgere intorno a noi proprio mentre dovevamo affrontare lutti che, nonostante la battaglia sia sempre stata viva, non avevamo mai dovuto affrontare in questi termini dalla fine della seconda guerra mondiale. E, secondo la nota teoria della propaganda nazista, è entrata nella narrativa comune la ripetizione all’infinito di formule senza senso, irrelate ai fatti per cui Israele combatte la sua guerra di sopravvivenza con il minor danno possibile contro i civili, introducendo cibo e aiuti, avvisando sempre la gente dentro gli edifici della indispensabile distruzione di postazioni militari, cercando di dividere i civili dai terroristi di Hamas.. e intanto gli si contrapponeva la determinazione, peraltro dichiarata, di Hamas di usare la propria gente come scudo umano e usarne il sacrificio per suscitare un’ondata di consenso.
Sì, abbiamo sofferto e soffriamo per i rapiti, per i soldati che muoiono, per l’ondata di antisemitismo, ma dal Sette di Ottobre abbiamo anche visto che il popolo ebraico ha avuto la forza e la determinazione, affiancato da alcuni fedeli amici fra cui splendono gli Stati Uniti, mentre sprofonda nel buio l’Unione Europea, di affermare il primato della libertà e della democrazia di fronte a un attacco senza precedenti di grandi, ricchissime forze oscure, e lo ha saputo portare avanti senza paura: non ha avuto paura di attaccare il più pericoloso fra gli odiatori, l’Iran; il più pericoloso fra gli aggressori, Hezbollah; non si è tirato indietro di fronte alla necessità di mettere in sicurezza i confini di una Siria cambiata e incerta; non ha indietreggiato dal colpire un nemico plagiato e ubriaco di odio che dista duemila chilometri, gli Houthi nello Yemen, mentre seguitava a battere i continui attentati terroristici. Dall’inizio dell’anno ne ha evitati mille. Intanto, battendosi per la liberazione degli ostaggi, numero uno degli scopi di ogni ebreo del mondo, i ragazzi dell’IDF hanno combattuto una guerra in cui ogni famiglia è coinvolta, ogni madre, ogni moglie.
Abbiamo pianto mille soldati con compostezza e dignità, stiamo curando 20mila feriti senza alzare le mani. Intanto nella diaspora il mondo ebraico si è stretto intorno a Israele con valore e resistenza, con maggiore consapevolezza della sua identità meravigliosa, correndo nuovi rischi, nuove espulsioni, soffrendo l’ingiustizia di esclusioni e malevolenze senza demordere. Certo, c’è stato, come sempre nella storia, anche fra di noi, chi si è fatto da parte e chi si è unito al coro degli aggressori, spesso per dimostrare che la vecchia strada dell’identificazione dell’ebraismo con una parte politica non veniva a mancare nemmeno in questo momento.
Non solo episodi rilevanti: importante è che si cominci a capire nel mondo che chi odia Israele, e lo si vede nelle piazze, chi insulta gli ebrei, di fatto odia, qui in Italia, anche il proprio Paese, i suoi valori di base, la democrazia, che l’antisemitismo come nel secolo scorso è una bandiera di sovversione fascista di qualsiasi colore la si dipinga.
Il cancelliere tedesco l’ha detto chiaramente: “Israele fa per noi il lavoro sporco”, ovvero affronta la grande sfida che soffrono le democrazie da parte da un’asse rosso-woke-islamico. Chi ancora non l’ha capito, dovrà presto rendersene conto, speriamo mentre la pace finalmente che Israele ha perseguito dalla sua nascita, diventi realtà. Ma una pace vera, Israele e gli ebrei non accetteranno nessun inganno, la forza della storia, della religione, del popolo, li difende.
(Shalom, 6 ottobre 2025) ____________________
Proponiamo la visione di due video del podcast NordVPN.
Il primo di quattro giorni fa: Cancellare HAMAS o cancellare ISRAELE? Il secondo di nove giorni fa:
Nascita di Israele: la STORIA contro la PROPAGANDA - con David Elber. storico.
Questi video, e soprattutto i commenti dei lettori, fanno capire che l’odio del mondo contro Israele è invincibile con razionali armi umane, perché è di natura diabolica. Il diritto all’esistenza di Israele è stato fissato in origine da Dio stesso, ed è per questo che Israele è per natura e genesi indistruttibile. Tutti un giorno dovranno rispondere di come avranno considerato e trattato il Suo popolo, compresi coloro che oggi storicamente ne fanno parte. M.C.
Qual è il vero obiettivo dell’Autorità Palestinese? La risposta si può leggere sulle carte geografiche dei loro libri scolastici. Su tutta la regione compresa tra il Giordano e il mare compare un solo nome: Palestina. Il nome “Israele” non si trova. L’obiettivo è dunque quello del salmo 83: far sparire dalla terra il nome di Israele.
Naturalmente i sapienti di questo mondo non danno importanza a queste cose: per loro quello che conta sono gli accordi politici ad alto livello. Per la Bibbia invece i nomi sono importanti, perché dare il nome esprime autorità. Due nomi allora sono in gioco in questo conflitto: Israele e Palestina.
Chi ha scelto il primo nome? Il Dio che ha creato i cieli e la terra:
“Perciò di’: Così parla Dio, il Signore: Io vi raccoglierò in mezzo ai popoli, vi radunerò dai paesi dove siete stati dispersi, e vi darò la terra d’Israele” (Ezechiele 11:17).
E chi ha scelto il secondo nome? L’imperatore romano che ha distrutto Gerusalemme e si era proposto di cancellare il nome di Israele dalla terra.
Israele e Palestina sono dunque due nomi dietro i quali sono in lotta due campi spirituali: da una parte Dio e il Suo popolo, dall’altra Satana e le nazioni. I ben intenzionati, gli “amanti della pace” che soffrono per le intolleranze degli “opposti estremismi” vorrebbero risolvere il problema facendo a metà: due zone, due Stati, due nomi: Israele e Palestina. Come dire: un po’ a Dio e un po’ a Satana. Questi pacifisti che credono di poter essere più buoni di Dio assumendo il ruolo di mediatori tra due gruppi di violenti in lotta, in realtà finiscono sempre per difendere una sola delle due parti: la Palestina. Alla fine costituiranno le truppe di riserva dell’esercito di Satana: dopo i falchi oltranzisti dell’Islam, scenderanno in campo contro Israele le colombe accomodanti delle Nazioni Unite. E tutti e due i gruppi parteciperanno alla comune sconfitta.
“In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d’Israele, dice Dio, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici [...] Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui. Così mostrerò la mia potenza e mi santificherò; mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 38:18,22-23).
Navi vuote, ipocrisia tanta. Segui i soldi della flotilla e trovi Hamas
Le navi erano desolatamente vuote, altro che aiuti umanitari
di Stephen M. Flatow*
Ancora una volta, la cosiddetta “flotilla di aiuti per Gaza” si è rivelata meno un’operazione di soccorso e più un’operazione mediatica. Nonostante tutte le dichiarazioni roboanti sul “rompere l’assedio” e “fornire aiuti”, le autorità israeliane non hanno trovato alcun carico umanitario a bordo delle navi intercettate. Niente. Neanche un pallet di cibo, medicine o attrezzature mediche: solo poche centinaia di attivisti che navigavano sotto la bandiera della superiorità morale. Non si è trattato di una missione di soccorso, ma di una trovata pubblicitaria in mare.
• Teatralità anziché sostanza Anche dopo che Israele ha invitato la flotilla ad attraccare ad Ashdod, dove qualsiasi aiuto reale avrebbe potuto essere ispezionato e trasportato legalmente a Gaza, gli organizzatori hanno rifiutato. Hanno persino respinto un appello personale del Papa in tal senso. Quel rifiuto la dice lunga: se l’obiettivo fosse stato quello di consegnare aiuti, avrebbero accettato. Ma il vero obiettivo era quello di essere intercettati, di ottenere quelle foto drammatiche delle navi della marina israeliana che si avvicinavano e di proclamare la propria vittimizzazione sui social media prima che i fatti venissero alla luce. Per gli attivisti che speculano sull’indignazione morale, ciò che conta è lo scontro, non il carico.
• Un movimento diviso al suo interno La flottiglia di quest’anno ha anche messo in luce le profonde fratture all’interno del movimento di “solidarietà globale”. Gli attivisti LGBTQ che erano stati coinvolti sono stati messi da parte. Greta Thunberg, un tempo beniamina della sinistra protestante, è stata sfruttata per la sua visibilità e poi abbandonata, letteralmente. Alla faccia della solidarietà. Sembra che l’inclusione arrivi solo fino al momento della foto. Una volta che le telecamere smettono di girare, la politica interna prende il sopravvento e coloro che sono considerati scomodi vengono silenziosamente allontanati dalla scena. Quando la leadership inizia a epurare le voci queer e a emarginare gli alleati, ciò che rimane non è una causa morale, ma un test di purezza ideologica mascherato da compassione.
• Segui i soldi e troverai Hamas Ogni volta che queste coalizioni della “società civile” appaiono dal nulla, completamente finanziate e pronte per i media, bisogna chiedersi: chi paga per tutto questo? Noleggiare navi, equipaggi, logistica, coordinamento dei media internazionali… non è economico. La storia fornisce un indizio. Nel corso degli anni, le indagini condotte da Israele e da osservatori indipendenti hanno tracciato i legami finanziari tra gli organizzatori della flottiglia diretta a Gaza e i gruppi di facciata vicini a Hamas. L’incidente della Mavi Marmara del 2010 ha rivelato come la turca IHH (Humanitarian Relief Foundation), uno dei principali sponsor della flottiglia, avesse legami con le reti di raccolta fondi di Hamas. Da allora, lo stesso ecosistema di “ONG solidali” ha continuato a raccogliere fondi con pretesti umanitari, incanalando i fondi attraverso canali opachi che confondono il confine tra aiuti e finanziamento del terrorismo. La flottiglia odierna segue lo stesso schema. La mancanza di aiuti reali a bordo suggerisce che il vero scopo dell’operazione non era il soccorso, ma il ripulimento della reputazione. Fingendosi attivisti umanitari, gli organizzatori creano una copertura per più ampie iniziative di propaganda che avvantaggiano indirettamente Hamas. Ogni scontro inscenato aiuta Hamas a presentarsi come vittima e distoglie l’attenzione dallo sfruttamento della popolazione e delle risorse di Gaza da parte del regime. E non ci sono dubbi: Hamas prospera grazie a questa messinscena. Ogni volta che le telecamere del mondo si concentrano sulle “navi di aiuti” intercettate, Hamas può continuare a recitare la parte della vittima, mentre tassa i gazawi, dirotta i carichi di aiuti e ricostruisce le scorte di razzi sotto ospedali e scuole.
• Il costo di una falsa missione La vera tragedia qui non è che alcuni cercatori di pubblicità siano stati sorpresi a mentire sul loro carico. È che hanno sminuito il vero lavoro umanitario. Ogni volta che un gruppo come questo mette in atto una trovata pubblicitaria, rende più difficile il lavoro delle organizzazioni legittime. Aumenta lo scetticismo, diminuiscono le donazioni e la popolazione di Gaza, che ha davvero bisogno di aiuto, ne paga le conseguenze. C’è anche la questione dell’onestà. Sollecitare donazioni per “aiuti a Gaza” quando a bordo non ci sono aiuti sembra una frode, anche se è mascherata dal linguaggio della resistenza. Qualcuno ne subirà le conseguenze? Probabilmente no. La comunità internazionale degli attivisti ha la memoria corta e un’attenzione ancora più breve quando uno dei suoi membri viene sorpreso a prendere scorciatoie morali.
• Un’ultima considerazione La “Global Sumud Flotilla” dovrebbe servire da monito: quando la politica sostituisce i principi, quando le foto sostituiscono gli obiettivi e quando gli slogan sostituiscono la sincerità, ci si ritrova con una nave vuota, una metafora perfetta della bancarotta morale di chi la guida. Gli attivisti possono affermare quello che vogliono. Ma la verità è semplice: non sono venuti per aiutareGaza. Sono venuti per usarla e, così facendo, hanno aiutato ancora una volta Hamas più di quanto abbiano aiutato un solo bambino affamato.
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* Stephen M. Flatow è presidente dei Sionisti Religiosi d’America (RZA). È il padre di Alisa Flatow, uccisa nel 1995 in un attacco terroristico palestinese sponsorizzato dall’Iran, e autore di A Father’s Story: My Fight for Justice Against Iranian Terror (La storia di un padre: la mia lotta per la giustizia contro il terrorismo iraniano). Nota: la RZA non è affiliata ad alcun partito politico americano o israeliano.
(Rights Reporter, 6 ottobre 2025)
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La stupidità criminale e le sue conseguenze
di Davide Cavaliere
La fine della soap opera sulla «Global Sumud Flotilla», che aveva deliziato i suoi sostenitori con false partenze, musica degli Abba, balletti e battibecchi tra i suoi membri, ha scatenato un’ondata di reazioni isteriche, pianti, singhiozzi, nonché appelli a «dare fuoco a tutto». È un fenomeno noto in psicologia come «lutto post-serie TV».
Questi atteggiamenti scomposti e collerici, non possono non indurci a riprendere il discorso sulla stupidità degli adepti della religione politica «palestinista». Jean Cocteau scrisse: «La tragedia del nostro tempo è che la stupidità ha cominciato a pensare». Ed è proprio questa la cifra della stupidità dei filo-palestinesi: essa è dotata dei segni esteriori dell’intelligenza e adornata dalla retorica dell’impegno. Una stupidità benpensante, che si vuole prestigiosa e si pavoneggia sui media.
La loro caratteristica è quella di sistemarsi comodamente nel campo delle «buone battaglie» e delle provocazioni calcolate, al fine di incarnare con la necessaria fermezza il Bene e il Giusto. Assumono così la forma dei «nobili estremisti», e più in particolare di «attivisti» impegnati, nientemeno, che per la salvezza del mondo e della nostra comune umanità.
La «causa palestinese» è la più facile delle lotte, non solo perché ha alle spalle una lunga storia di estremismo politico, ma perché si rivolge contro Israele, uno Stato nazionale sovrano, dotato di una solida economia capitalista e di un’identità radicata nella tradizione religiosa, che ne fanno il bersaglio perfetto di tutti gli «ismi» e gli «anti-ismi» di buona reputazione: femminismo, antirazzismo, anticapitalismo, ambientalismo, decolonialismo, antifascismo.
Tra le fila degli «attivisti», accanto agli stupidi semplici e comuni che, colpiti da una generale debolezza della comprensione, credono davvero alle menzogne raccontate su Israele e gli ebrei, illustrando così una stupidità «onesta» o schietta, spesso sfruttata attraverso contenuti altamente emotivi come quello dei «bambini uccisi a Gaza», troviamo un gran numero di individui che incarnano la forma «più pericolosa», secondo Robert Musil, della stupidità: quella sofisticata, «colta», a volte sottile ma sempre immodesta. Non la semplice mancanza di intelligenza, riducibile alle difficoltà di comprensione proprie di una mente passiva, ma una forma di attività del pensiero che mette l’intelligenza al servizio di cause criminali.
La testa dello stupido sofisticato non è vuota, ma piena di certezze condensate in un numero limitato di frasi preconfezionate, slogan e sillogismi capziosi. Convinzioni ideologiche che lo eccitano e lo spingono all’azione «radicale» (salpare con la Flotilla è una di queste). Tale genere di «attivista» non pensa, bensì «è pensato» dall’ideologia. Vive immerso in una «seconda realtà» dove causa ed effetto sono invertiti e la coscienza, invece d’intendere i «fatti», genera immagini mentali sostitutive della realtà. È così che il «palestinista» militante, su uno sfondo di serietà intellettuale, riesce a credere alle più volgari panzane della propaganda antisionista: dai soldati dell’IDF che sparerebbero ai testicoli dei bambini fino al negazionismo sugli stupri del 7 ottobre.
Siamo così di fronte a quella che Eric Voegelin chiamava «stupidità criminale», dal momento che si pone al servizio di chi danneggia altri esseri umani, sempre foriera di catastrofi quando cede alla vertigine dell’allineamento e diventa «di massa». Queste «anime belle» rincretinite sono diaboliche: sventolando pretese umanitarie, si genuflettono alla barbarie islamista.
Perché Dio ha creato il mondo? - 16Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Una questione di sovranità Nella rilettura panoramica della Bibbia che si vuol fare in questa trattazione, partiamo da due punti già acquisiti:
In tutti i racconti della Bibbia il personaggio principale è sempre Dio;
in tutto l’Antico Testamento, da Abramo in poi, l’interlocutore umano di Dio è sempre e unicamente Israele, come nazione e popolo.
Aggiungiamo che tutti i singoli personaggi che compaiono nei vari racconti acquistano importanza soltanto in relazione al posto che occupano nella storia di Israele. Un’eccezione potrebbe essere il libro di Giobbe, in cui non compare alcuna traccia di Israele. A questo riguardo rimandiamo all’articolo “Il mio servo Giobbe”, presente su questo sito, in cui si sostiene che il libro appartiene alla preistoria di Israele, che precede Abramo ma appartiene a Israele come rivelazione ricevuta in esclusiva da Dio affinché la conosca e ne tenga conto per sé e per il resto del mondo.
Ripetiamo allora che il primo compito che Dio si è dato con la promessa fatta ad Abramo è di formare in lui una grande nazione, rendere grande il suo nome, benedire lui e renderlo fonte di benedizione (Genesi 12:1-3). La volontà di mantenere questa promessa costituirà per Dio la base del suo progetto redentivo.
Due aspetti sono legati in un complesso unico a Israele:
ha la forma di una nazione come tutte le altre, dunque con esse è paragonabile e si mette in relazione;
ha il carattere unico di essere stata generata da Dio.
Mosè ha ricevuto da Dio l’incarico di presentare Israele al Faraone come “mio figlio”, affinché il re della più potente nazione del mondo sapesse che nei suoi rapporti con quel particolare gruppo di immigrati da Canaan che ha preso il nome di Israele da un loro lontano progenitore a cui Dio stesso aveva dato questo nome, dovrà sempre e in ogni caso vedersela con Dio, che gli piaccia o no.
Il contrasto tra Mosè e il Faraone, espressione della guerra asimmetrica fra Dio e Satana, deve dunque mettere in chiaro una questione di sovranità. Chi è che comanda? questo è il problema.
Il vero motivo dell’ostinazione del Faraone viene fuori dopo la settima piaga, quella della grandine, quando Mosè annuncia al Faraone:
“Così dice l'Eterno, l'Iddio degli ebrei: 'Fino a quando rifiuterai di umiliarti davanti a me?” (Esodo 10:3).
Umiliarsi come re d’Egitto davanti al Dio degli ebrei che gli presenta Mosè è il massimo riconoscimento di una sconfitta che risulta intollerabile a chi si è sempre pensato come un favorito speciale degli dei. Non per nulla il Faraone aveva alla sua corte uno stuolo di maghi, ognuno con le sue particolari linee di collegamento con gli dèi del cielo, che gli garantivano sostegno e protezione dall’alto.
La prima umiliazione gli era arrivata da quel bastone di Aaronne trasformato in serpente che aveva ingoiato uno dopo l’altro tutti i serpenti dei suoi maghi. Una botta dura. Ma dopo quella prima mano a poker persa, il Faraone aveva sempre sperato di potersi rifare, come infatti spesso accade in questo gioco. E invece no: era stato sempre Mosè ad averla vinta. Intollerabile. Alla fine il Faraone ha rovesciato il tavolo da gioco:
“Il Faraone disse a Mosè: “Vattene via da me! Guardati bene dal comparire più in mia presenza! poiché il giorno che comparirai alla mia presenza, tu morirai!”. E Mosè rispose: “Hai detto bene; io non comparirò più in tua presenza” (Esodo 10:28-29).
Il gioco è finito.Dopo averlo informato sulle intenzioni di Dio, “Mosè uscì dalla presenza del Faraone, acceso d'ira” (11:9).
Sta scritto che “Mosè era un uomo molto mansueto, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra (Numeri 12:3), questo significa allora che quella di Mosè era ira di Dio. Sarebbe la seconda volta che questo avviene nella Bibbia: la prima volta l’ira si era accesa contro Mosè (4:14).
Una cosa accomuna questi due casi: l’ira di Dio compare in ritardo, dopo un ripetuto rifiuto dell’uomo. Si noti infatti la pazienza con cui Dio tratta entrambi i casi.
A Mosè Dio concede di fare, una dopo l’altra, quattro obiezioni, e alla fine Mosè dice no: “O Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (4:13), che è come dire “manda qualcun altro”. Allora “l'ira dell'Eterno si accese contro Mosè” (4:14), e l’ordine fu ripetuto ancora una volta, in modo netto e deciso. E Mosè ubbidì.
Al Faraone Dio concede di rifiutare quattro volte l’ordine dato, eseguendo ogni volta le punizioni promesse e offrendo ogni volta una nuova possibilità di ubbidienza. Ma con il quinto rifiuto il Faraone raggiunge il punto di non ritorno: Dio stesso indurisce il suo cuore e i successivi ordini, dati sapendo che non avrebbe ubbidito, sarebbero serviti a rivelare il grado di iniquità da lui raggiunto. Dio allora avverte Mosè che il Faraone non gli avrebbe dato più ascolto “affinché i miei prodigi si moltiplichino nel paese d'Egitto” (11:9). Il Faraone, che aveva cominciato col dire: “Io non conosco l’Eterno” (5:2), finirà per conoscerlo come Dio sovrano su tutta la creazione e come “l’Eterno, l’Iddio degli ebrei” (5:1). Parola e azione tra loro collegate sono i modi con cui Dio si fa conoscere dall’uomo.
• La nascita di Israele
A mezzanotte l'Eterno colpì tutti i primogeniti nel paese di Egitto, dal primogenito del Faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il Faraone si alzò di notte: lui con tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e ci fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto. Allora egli chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d'Israele; e andate, servite l'Eterno, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!”. E gli egiziani forzavano il popolo per affrettarne la partenza dal paese, perché dicevano: “Noi siamo tutti morti” (Esodo 12:29-33).
Il giudizio che Dio fa cadere sul Faraone e sul popolo d’Egitto è tremendo, ma perché questa fretta del Faraone che si alza di notte, convoca i suoi servitori, chiama immediatamente Mosè e Aaronne per dare l’ordine, non il permesso, di andarsene, e subito? E perché gli egiziani stessi forzano il popolo ad andare via il più presto possibile? Risposta: perché temevano di subire un genocidio. Lo dicono infatti: siamo tutti morti!
Il grande grido che secondo la Scrittura si levò in Egitto al passare dell’angelo sterminatore fu in concreto una somma di gridi che si levarono da ogni famiglia. Non avvennero tutti contemporaneamente, ma ogni volta al passare dell’angelo. Fu un susseguirsi spaventoso e caotico di gridi che s’innalzano da ogni famiglia vicina o lontana. Ma che succede? è la domanda che passa di bocca in bocca. “È l’angelo degli ebrei che colpisce le case degli egiziani perché il Faraone non li lascia partire”, si sente dire da diverse parti. E corre voce che l’angelo continuerà a colpire fino a che l’ultimo ebreo non avrà lasciato il paese. Non è vero, ma certe voci paurose corrono alla velocità della luce e appaiono subito verissime a chi già per conto suo ha una paura che se lo porta via. Ed ecco allora la fretta messa agli ebrei: andate via, andate via subito, se no qui fra poco saremo tutti morti.
E si spiega anche la fretta del Faraone, che forse ricorda quello che avvenne quando ci fu la piaga delle mosche velenose. Allora Mosè gli disse che ci sarebbe stata un’eccezione per il paese di Goscen, dove abitano gli ebrei, perché l’Eterno aveva detto:
“lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo” (8:22-23).
Dunque l’Eterno stava in mezzo al paese, e c’è ancora adesso - pensa il Faraone - e sta mettendo in pratica quello che aveva promesso di fare:
“Verso mezzanotte, io passerò in mezzo all'Egitto; e ogni primogenito nel paese d'Egitto morirà... Ma fra tutti i figli d'Israele, tanto fra gli uomini quanto fra gli animali, neppure un cane muoverà la lingua, affinché conosciate la distinzione che l'Eterno fa tra gli Egiziani e Israele” (11:4,7).
Ecco perché ora il Faraone ha una fretta tremenda di vedere gli ebrei andare via: perché in mente sua vede l’Eterno che passa in mezzo all’Egitto e continua a fare strage di egiziani. E forse gli viene anche il dubbio che se il popolo comincia a temere che la carneficina non si fermi ai primogeniti, e che la causa di tutto il guaio stia nel suo ostinato divieto di lasciar andare gli ebrei, le cose potrebbero mettersi male per lui.
Per il Faraone questa è la giusta nemesi: il tentativo fallito di fare una strage di ebrei ha ottenuto come risultato di veder fare una strage di egiziani. E questo giorno, che per l’Egitto fu di tragica calamità, diventò per il popolo d’Israele il giorno della sua nascita:
E avvenne che in quello stesso giorno l'Eterno trasse i figli d'Israele fuori dal paese d'Egitto, secondo le loro schiere (Esodo 12:51).
È in questo giorno infatti che avviene il parto: dal grembo egiziano in cui era cresciuto in forma embrionale per oltre quattrocento anni, Israele viene ora alla luce come popolo. È un giorno che dovrebbe essere festeggiato tra gli ebrei come “Natale di Israele”, perché in questo giorno è nato colui che l’Eterno aveva presentato al Faraone con le parole: “Israele è mio figlio, il mio primogenito” (4.22), con la raccomandazione più volte ripetuta: “Lascia andare il mio popolo, affinché mi serva” (Esodo 4.23; 7.16; 8,1,20; 9.1,13; 10.3).
Adesso il figlio è venuto alla luce. È la luce della parola che ora può ricevere direttamente da Dio, senza che passi attraverso l’autorità pagana a cui era stato sottoposto per secoli.
Ha ottenuto la libertà? A dire il vero, qui Dio pretende di avere suo figlio “affinché mi serva”, non affinché possa godersi la sua libertà. Israele passa da un’autorità all’altra, da una schiavitù che minaccia morte e sfocia nella morte, a un servizio che produce vita e dona vita a chi serve e a chi è servito. In altre parole, si passa da Satana a Dio.
Il paragone col parto può essere spinto più avanti. Le piaghe sono spinte di travaglio che si susseguono fino alla spinta finale che provoca l’espulsione del corpo che nasce, insieme alla perdita di sangue del corpo che espelle. E’ sangue del corpo egiziano, quello che esce mentre viene espulso il corpo ebraico. Questo deve avere il suo significato.
È soltanto una colorita metafora? Un antropomorfismo? Potrebbe essere, se mettiamo l’uomo al centro di tutto e l’idea di Dio come un’espressione della sua sensibilità. Ma potrebbe anche essere che certe analogie esprimano forme fondamentali del modo di agire di Dio creatore; azioni che si ripetono in vari contesti e assumono quindi forme diverse, che però fanno intravedere inaspettate analogie. Può essere un modo in cui Dio rivela qualcosa di Sé, nel desiderio di farsi conoscere come Dio creatore usando un linguaggio che gli uomini potrebbero capire.
In particolare, le questioni genetiche, quelle in cui si passa dal non essere all’essere, sono quelle che più di altre dicono qualcosa intorno a Dio, non in termini di essenza, come fanno i filosofi pagani, ma attraverso il parlare e l’agire di Dio nei fatti della storia, come riportati nella Bibbia. Il fatto allora che nel libro dell’Esodo Mosè riceva l’ordine di dire al Faraone: “Così dice l’Eterno: Israele è il mio figlio primogenito” (Esodo 4:22), e nel Vangelo di Matteo si usi la stessa terminologia quando, dopo il battesimo di Gesù, una voce dal cielo dice: “Questo è il mio diletto figlio nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3:17), non può essere un accostamento casuale. In entrambi i casi Dio rivela un modo creativo di agire nel suo porsi in relazione con gli uomini.
Tentare un approccio olistico alla rivelazione biblica significa allora porsi in osservazione attenta del muoversi di Dio in parole e fatti quando entra in rapporto con gli uomini, nella convinzione che se anche nel succedersi del tempo i fatti e le parole cambiano forma, dietro a tutto c’è sempre l’unico vero Dio che rimane fedele a Se stesso.
Israele dunque ora è nato, come popolo generato da Dio per un preciso servizio da svolgere sulla terra. Con il popolo si è formata la prima parte di quella che è destinata ad essere la “grande nazione” promessa da Dio ad Abramo. Le due parti che mancano, comuni ad ogni nazione degna di questo nome, sono una terra propria e un governo proprio. La terra è già stabilita fin dall’inizio: Canaan; e in quella direzione il Signore comincerà subito a guidare il suo popolo. Quanto al governo, Dio provvederà strada facendo.
Hamas ha annunciato al mondo di aver accettato gran parte del piano di pace proposto da Donald Trump, ma dietro le dichiarazioni ufficiali l’organizzazione resta lacerata da profonde divisioni. Se all’esterno il gruppo islamista tenta di mostrarsi pronto al compromesso, internamente la spaccatura tra l’ala politica e quella militare continua a condizionare ogni mossa, rendendo l’ipotesi di un cessate il fuoco duraturo ancora lontana. Venerdì scorso Hamas aveva diffuso un comunicato definito «storico», in cui si diceva disposta a rilasciare gli ostaggi israeliani e ad accettare una transizione di potere su Gaza. Parole che, per la Casa Bianca, rappresentavano una svolta capace di rafforzare la strategia di Trump per chiudere la guerra. Ma il linguaggio ambiguo scelto dal movimento, rilevano diversi osservatori, lascia margini interpretativi tali da minare il cuore stesso dell’accordo: disarmo dei miliziani e condizioni per la liberazione degli ostaggi. Secondo mediatori arabi coinvolti nei colloqui, il principale negoziatore di Hamas, Khalil al-Hayya, insieme ad altri esponenti politici della diaspora, avrebbe sostenuto l’accettazione della proposta, pur con riserve significative. Tuttavia, di al-Hayya non si hanno più notizie dal 9 settembre, giorno in cui un raid israeliano ha colpito Doha: c’è chi ipotizza che possa essere rimasto ucciso insieme a Khaled Meshal, storico leader politico del movimento. Il suo silenzio pesa sulla leadership esterna di Hamas e alimenta dubbi sulla reale capacità di incidere nelle trattative. In ogni caso, l’influenza dei dirigenti in esilio resta limitata sull’ala armata, radicata dentro la Striscia. A Gaza la situazione è più complessa. Dopo l’uccisione dei fratelli Yahya e Mohammed Sinwar da parte di Israele, la guida militare è passata a Ezzedin al-Haddad. Quest’ultimo si è detto disponibile a compromessi, arrivando a ventilare l’ipotesi di consegnare razzi e armi pesanti all’Egitto e alle Nazioni Unite, mantenendo però i fucili d’assalto, considerati «armi difensive». Il nodo centrale resta proprio questo: l’imposizione del disarmo rischia di far esplodere il fronte interno. Hamas ha arruolato migliaia di giovani dall’inizio della guerra, spesso reduci dalla perdita di familiari o dalla distruzione delle proprie case. Mediatori e funzionari arabi temono che questi combattenti non accetterebbero di deporre le armi, interpretando un eventuale accordo come una resa umiliante. Non a caso, tra i quadri militari c’è chi bolla la proposta come una semplice «tregua di 72 ore» e non come un vero percorso di pace. Trump, nel frattempo, ha rilanciato la sua visione sui social, dichiarando che Hamas «è pronto per una pace duratura». Ha invitato Israele a sospendere i bombardamenti su Gaza per garantire le condizioni minime di sicurezza necessarie al rilascio degli ostaggi. La Casa Bianca ha fatto sapere di considerare la risposta del movimento come un’accettazione di principio, anche se vincolata a ulteriori negoziati. I vertici armati del gruppo hanno però dettato le loro condizioni: ogni rilascio di ostaggi dovrà essere accompagnato da una chiara tempistica sul ritiro israeliano dalla Striscia. «Gli ostaggi saranno liberati con la fornitura delle necessarie posizioni sul campo» hanno fatto sapere i mediatori, riportando il messaggio recapitato da Gaza. Una formula che ha spinto Israele a mantenere una linea prudente. Benjamin Netanyahu ha risposto che il Paese «si prepara al rilascio» ma alle condizioni di Gerusalemme e del presidente americano. L’esercito, pur annunciando un atteggiamento più difensivo, non ha escluso nuove operazioni in caso di minacce dirette. Alla luce di quanto accaduto nelle ultime ore, l’impressione è che Hamas abbia redatto un documento calibrato più per compiacere Trump che per aderire davvero alla sua proposta. In sostanza, un «no» mascherato da linguaggio diplomatico. Perché mai Hamas dovrebbe rinunciare all’unico strumento rimastogli per negoziare con Israele, ossia gli ostaggi? Quei prigionieri rappresentano la sola leva per mantenere un potere di ricatto e nessun osservatore serio crede che verranno liberati tutti senza contropartite di enorme valore. Le fratture interne a Hamas emergono anche nelle reazioni politiche. Il senatore repubblicano Lindsey Graham ha liquidato la dichiarazione del movimento come «un prevedibile Sì, ma», sottolineando che l’assenza di un vero disarmo e la subordinazione del rilascio degli ostaggi a condizioni negoziali equivalgono, di fatto, a un rifiuto mascherato. Sul terreno, Hamas appare indebolito ma non sconfitto. L’ala armata ha perso gran parte della leadership e migliaia di miliziani esperti, rimpiazzati da reclute poco addestrate. L’assedio israeliano ha reso difficili comunicazioni e coordinamento, costringendo il gruppo a delegare il comando a cellule più piccole, che spesso agiscono in autonomia con tattiche di guerriglia, tra esplosivi, cecchini e razzi improvvisati. Lo stesso Haddad esercita un controllo limitato su queste unità, aggravato dalla grave crisi finanziaria che ha ridotto la capacità di Hamas di pagare stipendi e mantenere la fedeltà dei combattenti. Israele ha conquistato ampie zone di Gaza City, evacuata in gran parte dai civili e abbandonata da molti miliziani diretti a sud. Restano alcune migliaia di combattenti, in gran parte giovani e inesperti, ma determinati a proseguire la resistenza. Secondo un alto ufficiale israeliano, gli episodi di resa sono rarissimi e avvengono solo quando i miliziani si trovano completamente circondati. Amir Avivi, ex generale israeliano, ha commentato: «Per la prima volta in questa guerra Hamas inizia a capire che la sua eliminazione è reale». Ma gli stessi mediatori arabi mettono in guardia: un’eventuale firma del piano di Trump potrebbe spaccare ulteriormente il movimento, con il rischio di defezioni verso altri gruppi palestinesi come la Jihad Islamica o il Fronte di Liberazione Palestinese, già attivi con cellule autonome. Proprio per questo Qatar, Egitto e Turchia hanno intensificato le pressioni, avvertendo i leader islamisti che questa potrebbe essere «l’ultima occasione» per fermare la guerra. Se Hamas respingerà l’intesa, hanno fatto sapere fonti arabe, il sostegno politico e diplomatico finora garantito non potrà più essere assicurato. In un messaggio pubblicato online, Trump ha concluso: «Non si tratta solo di Gaza, ma della pace a lungo cercata in Medio Oriente». Ma al di là della retorica, la realtà è che Hamas resta divisa, Israele diffida delle sue promesse e la tregua appare ancora appesa a un filo.
Gaza: l'IDF ferma l'offensiva e passa allo "stato difensivo"
A seguito delle dichiarazioni di Hamas e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump sulla proposta americana di porre fine alla guerra a Gaza e liberare gli ostaggi, l’IDF annuncia che il capo di Stato Maggiore, il tenente generale Eyal Zamir, ha incontrato i generali di alto rango per “una valutazione speciale della situazione alla luce degli sviluppi”.
Una dichiarazione dell’esercito afferma che “su ordine dell’élite politica”, Zamir ha incaricato le Forze di Difesa Israeliane di prepararsi “all’attuazione della prima fase del piano di Trump per liberare gli ostaggi”, senza specificare i dettagli dell’ordine.
La dichiarazione sembra anche confermare le notizie secondo cui i leader politici hanno ordinato all’IDF di interrompere l’offensiva per conquistare Gaza City e di concentrarsi invece sulle operazioni difensive, sottolineando che “la sicurezza delle nostre forze è di fondamentale importanza e tutte le capacità dell’IDF saranno assegnate al Comando Sud per difendere le nostre forze”.
“Il capo di Stato Maggiore ha sottolineato che, alla luce della delicatezza dell’operazione, le forze devono dimostrare una maggiore prontezza e consapevolezza. Allo stesso modo, è stata chiarita la necessità di una risposta rapida per eliminare qualsiasi minaccia”, aggiunge la dichiarazione.
Il piano di pace di Trump è una riedizione di Oslo
Gli accordi degli anni '90 hanno dimostrato che i quadri di pace condizionati, che dipendono dalla buona volontà e dalla cooperazione dei palestinesi, sono illusori.
(JNS) Il nuovo piano di pace in 20 punti per il Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, basato in gran parte sul suo piano “Peace to Prosperity” del suo primo mandato, stabilisce condizioni che a prima vista sembrano dettate dal buon senso. I palestinesi devono porre fine all'incitamento all'odio. Non devono più educare i loro figli a odiare gli ebrei. Devono costituire una forza di polizia controllata per garantire l'ordine, accettare la supervisione internazionale, ricostruire la loro società e creare un'amministrazione autonoma moderata. Sembrano criteri ragionevoli. Ma il problema è semplice: tutte queste misure sono già state tentate. Si chiamavano accordi di Oslo. E hanno fallito miseramente. Oslo doveva essere il quadro di riferimento per la pace tra palestinesi ed ebrei, basato sulla reciprocità e sulla fiducia reciproca. Israele ha ceduto territori e autorità in cambio dell'impegno palestinese a rinunciare alla violenza, a porre fine all'incitamento all'odio e a gettare le basi per un'amministrazione autonoma responsabile. Israele ha rispettato la sua parte dell'accordo. Si è ritirato dai territori, ha smantellato i posti di blocco e ha permesso l'uso di armi alle forze di sicurezza e alla polizia dell'Autorità Palestinese. E i palestinesi hanno violato ogni singolo impegno. Non hanno smesso con l'incitamento all'odio. Al contrario, l'Autorità Palestinese ha utilizzato le scuole, la televisione, le moschee e i discorsi ufficiali per rafforzare la cultura dell'odio. Ai bambini venivano insegnate canzoni che incitavano all'uccisione degli ebrei. Le mappe cancellavano Israele. Il martirio veniva glorificato. Lungi dall'essere un'istituzione stabilizzante, la polizia palestinese è diventata un esercito terroristico in uniforme. Durante la seconda Intifada, dal 2000 al 2005, i membri di questa stessa forza hanno puntato le loro armi contro i civili israeliani. I supervisori internazionali erano impotenti o complici. Invece di insistere sul rispetto degli impegni palestinesi, hanno giustificato il terrorismo, condannato l'autodifesa di Israele e di fatto permesso ulteriori violenze. E lo stesso governo palestinese era un regime corrotto e autoritario che sosteneva apertamente il terrorismo. Dal leader dell'OLP Yasser Arafat al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, la leadership palestinese ha costantemente negato il diritto all'esistenza di Israele. Il risultato è stato quasi 1.100 vittime israeliane a causa del crescente terrorismo palestinese. Israele ha subito attentati agli autobus, attentati suicidi nei ristoranti, aggressioni con coltelli, attacchi con auto. E quando gli israeliani hanno fatto notare che i palestinesi violavano il 100% dei loro impegni, la risposta dell'industria del “processo di pace” è stata sempre la stessa: smettete di lamentarvi. Date ai palestinesi più tempo per imparare a governare. Fate altri “sacrifici per la pace”. In pratica, ciò significava ulteriori concessioni unilaterali da parte israeliana, mentre la società palestinese diventava sempre più radicalizzata. Ora arriva il piano di Trump che, nonostante la nuova confezione, chiede ancora una volta a Israele di credere alla favola della moderazione palestinese. Ma perché dovrebbe farlo? Dopo quasi 30 anni da Oslo, quali prove ci sono che la società palestinese sia pronta ad abbandonare la sua cultura della morte? È vero piuttosto il contrario: i sondaggi mostrano costantemente un sostegno schiacciante al terrorismo, il rifiuto della legittimità di Israele e l'ammirazione per le atrocità compiute da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre 2023. E non solo Hamas: migliaia di arabi palestinesi di Gaza hanno partecipato al massacro di quel giorno. La dura verità è che il problema non è solo Hamas, o l'Autorità Palestinese, o la cattiva leadership. Il problema è una cultura radicata nell'antisemitismo e nel culto del rifiuto, rafforzata da un dogma religioso secondo cui ogni terra che è stata sotto il dominio musulmano deve rimanere tale per sempre. Oslo dimostra che gli accordi di pace che dipendono dalla buona volontà e dalla cooperazione dei palestinesi sono un'illusione. Il piano di Trump è Oslo 2.0, confezionato in abiti più eleganti e presentazioni PowerPoint. Credere che avrà successo richiede un atto di deliberata cecità. Israele non può permettersi di continuare a giocare a Charlie Brown mentre il mondo è Lucy. Il pallone non è lì. Non c'è mai stato.
(Israel Heute, 4 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La Flotilla ha compiuto una missione di grande valore etico: spero che la coscienza morale si risvegli per tutti
di Paolo Maddalena
Come è noto, tutti gli attivisti della Global Sumud Flotilla sono stati arrestati e sono in attesa dell’espulsione. Di questi, quattro parlamentari sono stati rilasciati e sono già in Italia. Gli altri subiranno un processo ai fini dell’espulsione. Al riguardo il Ministro degli esteri israeliano ha affermato: “la provocazione di Hamas/Flotilla Sumud è finita. Tutte le navi sono state fermate ed una soltanto è rimasta a distanza e, se si avvicinasse, anche il suo tentativo di entrare in una zona di combattimento e violare il blocco navale verrebbe impedito. Tutti i passeggeri, sani e salvi, stanno viaggiando verso Israele, da dove saranno espulsi in Europa”. Una dichiarazione spavalda che elogia la prepotenza e, illogicamente, pone sullo stesso piano Hamas e la Flottiglia. In sostanza una chiara volontà di perseverare nell’uso della forza.
In realtà non è possibile negare che la Global Sumud Flotilla ha portato positivamente a termine, con enormi rischi personali, una azione di grande valore etico, dimostrando che nell’uomo, come diceva Kant, è insopprimibile la “coscienza morale” , la quale, in certe circostanze, come quella del genocidio del Popolo Palestinese, impone come “imperativo categorico” di agire necessariamente a tutela del bene dell’intera “umanità” di cui ogni uomo è parte.
In concreto si è trattato di portare avanti il tentativo di aprire un corridoio umanitario che attraversi il blocco navale posto da Netanyahu. Un blocco del tutto illegittimo, sia perché si estende per 150 miglia dalla costa, invadendo le acque internazionali, sia perché la costa, la Striscia di Gaza, non è israeliana, ma palestinese, sia perché esso vìola le precise disposizioni di cui all’art. 42 dello Statuto delle Nazioni Unite. Si comprende dunque perché gli attivisti della Flottiglia non hanno ascoltato gli autorevoli consigli di tornare indietro, ed hanno messo da parte le loro “utilità personali”, comportandosi da veri “eroi”, ai quali va tributato onore e sincera gratitudine.
Ed è importante sottolineare che l’effetto della loro azione si è concretata nel risveglio della “coscienza morale” di gran parte dei cittadini, soprattutto giovani studenti, che hanno organizzato grandi manifestazioni pacifiche in tutta Europa, e soprattutto in Italia. Nel frattempo la Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato che gli attivisti della Flottiglia sono degli “irresponsabili”, e pongono in crisi l’attuazione del piano di pace di Donald Trump.
La verità è che i governi italiani che si sono succeduti dal 1990 in poi hanno svolto una politica economica a tutto favore dei potentati economici (ai quali Israele è fortemente legata), ponendo come fine “l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi”, come metodo “la forte competitività” e come risultato “l’esclusione dello Stato (e cioè di tutto il Popolo) dall’economia”, nonché l’avvento dei regimi oligarchici. Fatto gravissimo, che ha ristretto l’economia “pubblica e privata” in una economia soltanto “privata”, provocando, la “dissoluzione del diritto”, come aveva da tempo previsto il grande civilista Salvatore Pugliatti.
E’ tuttavia lecito ritenere che la accennata riemersione della “coscienza morale” possa estendersi anche agli altri Italiani, inducendoli a chiedere, non solo all’attuale governo, il proseguimento nell’immediato degli sforzi necessari per realizzare un corridoio umanitario per Gaza, ma anche ad adoperarsi, in prospettiva, per un radicale mutamento dei rapporti fra gli Stati, in modo da ottenere il rifiuto della forza bruta e il ristabilimento della efficacia del “diritto internazionale”. In pratica, il ritorno a un sistema economico che garantisca l’eguaglianza economica e sociale e il pieno sviluppo della persona umana, un obiettivo che può raggiungersi attraverso la “redistribuzione” della ricchezza e “l’intervento” dello Stato (e cioè del Popolo) nell’economia, come sancito dagli articoli 2, 3, comma 2, 41, 42 e 43 della nostra Costituzione democratica e repubblicana. E’ la “coscienza morale” che è in ciascuno di noi che richiede questo inderogabile passo di civiltà.
(il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2025) ____________________
"Risveglio della coscienza morale"? Il livello di sciocchezze che dice la sinistra "intellettuale" ormai è fuori misura, proprio come l'antisemitismo di oggi. Non vale la pena di prendere in considerazione i loro argomenti. Di seguito un articolo di commento di altro taglio. M.C.
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Italiani sciocca gente
L’italica superficialità di massa di cui non ci possiamo vantare.
Lo slogan “Italiani brava gente” è semplicistico, ma dice qualcosa di vero. Non è che noi italiani non siamo antisemiti, ma non si può negare che in fatto di sanguinose persecuzioni antiebraiche siamo decisamente indietro rispetto ad altre nazioni, sia orientali che occidentali. Nella storia di Roma, per esempio, dalla fine dell'impero romano non si registrano esempi di pogrom. Gli ebrei sono stati emarginati, sbeffeggiati, considerati feccia umana ma non massacrati in massa. Sul piano individuale, sia moralmente che tecnicamente, noi italiani abbiamo punti a nostro vantaggio, ma chi riesce a raccogliere grandi folle italiane, ci riesce soltanto perché sfrutta la nostra superficialità di massa. L’ironico Leo Longanesi ricorda la folla dei suoi tempi che si radunava sotto il balcone di piazza Venezia e sentiva Mussolini che chiedeva a gran voce: “Italiani, volete burro o cannoni?” e gli italiani che rispondevano in massa: “Cannoni!!”, e poi in privato andavano a comprare il burro al mercato nero.
Non è da stupidi andare a manifestare in piazza per quella flottiglia che sembra organizzata appositamente per stupidi? Sì, e forse molti italiani in privato lo ammetterebbero. Ma ci sono i bambini palestinesi ammazzati dagli ebrei; e c’è che andare a lavorare significa mettersi dalla parte degli ebrei che ammazzano i bambini; e poi c’è il venerdì che unito a sabato e domenica è un bel ponte; e infine c’è che in ogni caso tra l’andarci e il non andarci la cosa più comoda è andarci. E allora andiamo. Lì non abbiamo più bisogno di pensare da soli: è la massa che pensa per noi. Noi ci sentiamo sollevati e la seguiamo. Fino a che fa comodo, naturalmente. Poi no, è chiaro. Del resto, qual è il canto che cantiamo insieme e ci fa sentire uniti? E’ l’Inno d’Italia. “Siam pronti alla morte…” cantiamo in massa a piena voce, magari con la mano sul cuore. Ma mica significa che io, proprio io, dovrei andare a farmi uccidere per salvare la patria. Non scherziamo, ci mancherebbe. Parliamo di cose serie.
Vale la pena di riportare una poesia dell’indimenticabile poeta romanesco Trilussa. M.C.
LA PELLE - Povero me! Me tireranno er collo! - disse un Faggiano ar Pollo - Ho letto sur giornale che domani c'è un pranzo a Corte, e er piatto prelibbato saranno, come sempre, li faggiani ... - E te lamenti? Fortunato te! - je rispose l'amico entusiasmato.- Nun sei contento de morì ammazzato pe' la Patria e p'er Re? E l'Ideale indove me lo metti? Fratello mio, bisogna che rifretti ... - Eh, capisco, tu sei nazzionalista, - disse er Faggiano - e basta la parola. Ma t'avviso, però, che su la lista c'è puro scritto: polli in cazzarola. A 'sta notizzia, er povero Pollastro rimase così male che se scordò d'avecce l'Ideale e incominciò a strilla: - Dio, che disastro! La Patria, er Re, so' cose belle assai, ma la pelle è la pelle ... capirai! Ne faccio una questione personale!
• Un’operazione senza violenza Fra mercoledì notte e giovedì in giornata la marina israeliana ha bloccato le 45 barche della “flottiglia” che cercavano di rompere il blocco navale di Gaza, le ha portate al porto di Ashdod e ha arrestato le circa 200 persone che erano a bordo, di cui ora è in corso l’espulsione. L’operazione, condotta dal corpo d’élite della Shayetet 13 e dalle donne del reparto Snapir, è stata tranquilla, incruenta, senza violenza né danni alle persone e alla cose. Gli unici oggetti distrutti sono stati i telefoni cellulari e i computer del gruppo dirigente, che i proprietari hanno gettato in mare subito prima dell’arrivo dei militari israeliani, presumibilmente per non lasciare le prove dei loro contatti. Il primo ministro Netanyahu ha elogiato i soldati per essersi sacrificati a compiere l’operazione durante il giorno di Kippur, la ricorrenza più sacra del calendario ebraico, in cui gli ebrei digiunano e chiedono perdono per le colpe commesse e tutta Israele si ferma. È ovvio che chi ha diretto il viaggio della flottiglia, durato un mese con molte soste nei porti del Mediterraneo, avesse calcolato di arrivare proprio quel giorno, magari sperando in un indebolimento delle misure di sicurezza, come del resto avevano fatto i paesi arabi che avevano attaccato in questo giorno Israele nel 1973, dando luogo alla guerra detta “di Kippur”.
Una cosa importante e perfino paradossale sta emergendo dalla perquisizione di alcune delle barche della flottiglia da parte della polizia israeliana, come si vede in questo filmato. Non sono stati trovati finora, almeno su alcune delle barche più grandi, i famosi aiuti alimentari che la flottiglia pretendeva di portare ai palestinesi. Se fosse così per tutte le barche, si capirebbe perché la flottiglia ha rifiutato di far portare a Gaza dal Vaticano o da Israele gli aiuti (inesistenti) lasciandoli in un porto. Insomma troverebbe conferma quel che molti hanno detto spesso: la flottiglia non è stata una missione umanitaria ma un’operazione di pura propaganda anti-israeliana.
• La legalità del blocco Vale la pena di chiarire ancora che il blocco navale di Gaza è stato proclamato il 3 gennaio 2009 per impedire il contrabbando di armi verso Gaza che era già iniziato prima del colpo di stato di Hamas nel 2007 e poi è continuato. Per esempio vi è stato il caso della nave Karine A, diretta a Gaza e catturata nel Mar Rosso il 3 gennaio 2002 con 62 razzi Katyusha, 700 proiettili di mortaio da 120mm, missili anticarro e oltre 400.000 colpi di munizioni per armi automatiche, oltre a una tonnellata e mezza di esplosivo C-4, tutti provenienti dall’Iran. O quello della la nave Francop, fermata al largo di Cipro il 4 novembre 2009 con un carico di oltre 320 tonnellate di armi iraniane nascoste tra sacchi di polietilene. O ancora quello della nave Victoria, intercettata il 15 marzo 2011 nel Mediterraneo con 50 tonnellate di armamenti: 2.500 colpi di mortaio, 66.960 proiettili Kalashnikov, e sei missili antinave C-704. Nel 2011 il blocco fu sottoposto al giudizio delle Nazioni Unite. Un rapporto della commissione Onu, guidata da Sir Geoffrey Palmer, ex Primo Ministro della Nuova Zelanda, concluse che il blocco era legale secondo il diritto internazionale. Bisogna aggiungere che l’argomento secondo cui non si può arrestare la navigazione in acque internazionali non ha senso: tutti i blocchi navali della storia (che sono stati numerosi, almeno fin dai tempi del blocco continentale dichiarato dalla Gran Bretagna contro Napoleone) si esercitano non al largo del territorio dello stato bloccante ma di quello bloccato, anche in acque internazionali. Del resto il blocco di Gaza è stato attuato già contro numerosi tentativi come quello attuale, a partire dalla flottiglia turca guidata dalla nave Mavi Marnara, fermata il 31 maggio 2010 con un assalto reso sanguinoso dalla resistenza armata di terroristi organizzati di un gruppo turco. Israele non è mai stato condannato per queste operazioni. Ovviamente, dato che a Gaza adesso si svolge una guerra, il blocco è ancor più giustificato per ragioni di sicurezza.
• La risonanza all’estero Bisogna dire che questa volta l’operazione non ha presentato particolari difficoltà tecniche, salvo quella di raggiungere molte decine di barche che cercavano di arrivare sulla costa (dove però non vi sono porti funzionanti) prima di essere raggiunte dai militari israeliani. Per questa ragione l’arresto non ha avuto uno spazio rilevante sui media israeliani, che hanno ripreso a informare ieri sera,dopo la pausa di Kippur. Altre notizie hanno colpito di più: l’orribile attentato di Manchester in cui un terrorista di origine siriana ma con cittadinanza britannica ha ucciso a coltellate due ebrei all’ingresso di una sinagoga, e se non fosse stato eliminato dal fuoco della polizia avrebbe potuto fare danni ben più gravi, dato che portava una cintura esplosiva; gli scontri a Gaza dove Hamas è riuscita a sparare tre missili sul territorio israeliano, fermati da Iron Dome, e c’è stata l’infiltrazione di un terrorista in una postazione israeliana, che prima di essere eliminato ha ferito gravemente due soldati. Soprattutto ci si interroga sulla risposta che darà Hamas al piano Trump, perché da questo dipende l’intensificazione oppure la fine delle operazioni a Gaza. Del resto il blocco della flottiglia e prima il suo percorso e le sue dichiarazioni non hanno suscitato grande interesse internazionale. I giornali dei vari paesi, inclusa la Spagna che è l’origine della crociera nel Mediterraneo ed ha un governo violentemente anti-israeliano, non hanno quasi mai messo il tema in prima pagina, non si sono registrate quasi manifestazioni, occupazioni, scioperi.
• Le reazioni in Italia Che in Italia le cose siano invece andate così e che ci sia ancora un’intensa agitazione intorno alla flottiglia, è un tema su cui è necessario riflettere. In primo luogo tutti i dati dicono che le manifestazioni e gli scioperi sono violenti e provocano gravi disturbi, ma sono estremamente minoritari. Lo testimoniano i risultati elettorali delle organizzazioni studentesche più impegnate come “Cambiare rotta” (che in genere ottiene meno del 5% dei voti per le elezioni dei rappresentanti studenteschi) e anche l’adesione agli scioperi. Per fare un esempio solo, quello del 22 settembre, sempre sul tema di Gaza, ha riscosso adesioni fra il 15% (Atm Milano) e il 6% (funzione pubblica nazionale). Il punto critico è che non viene più mantenuta la distanza tradizionale fra le organizzazioni politiche nazionali di sinistra come il PD o di sindacati come la CGIL e i gruppi estremisti filoterroristi. Il fatto che il piano Trump abbia proposto per la prima volta una prospettiva concreta per la pace a Gaza e che ciò cambi il quadro e gli obiettivi di chi aspira alla pace, agli estremisti della flottiglia e di chi proclama di essere il suo “equipaggio di terra” chiaramente non interessa, anzi li preoccupa, anche perché ormai sono ben documentati i rapporti politici e finanziari fra la flottiglia e Hamas. Ma dovrebbe interessare a organizzazioni politiche e sindacali responsabili, almeno considerando la posizione favorevole di quasi tutti i principali paesi europei e anche di quelli musulmani (Egitto, Arabia, Giordania, Emirati, Pakistan, Indonesia) e perfino dell’Autorità Palestinese. Purtroppo le cose non stanno così e non si può non interrogarsi sulla ragione di questo atteggiamento.
Hamas ci studia bene e ora parla lo stesso identico linguaggio dei nostri partiti. Hamas ha investito in occidente e con la flotilla passa all’incasso
di Giulio Meotti
“Il blocco della Global Sumud Flotilla da parte di Israele è un gravissimo atto di pirateria internazionale” denuncia il Movimento 5 stelle. “Un atto di pirateria” secondo Elly Schlein. “Azioni di pirateria internazionale che si configurano come violazioni esplicite del diritto internazionale” dice l’Alleanza verdi sinistra. “Un grave atto di pirateria” anche secondo Riccardo Magi di +Europa. “Grave atto di pirateria”, il commento della Cgil. Hamas, che sa leggerci molto bene, riprende alla lettera i comunicati occidentali. L’abbordaggio della flotilla è “un crimine di pirateria” secondo i terroristi al potere a Gaza.
Hamas attacca Israele per l’operazione con cui ha intercettato e bloccato la flottiglia che voleva superare il blocco navale di Gaza e accusa Israele di “crimine di pirateria e di terrorismo marittimo contro civili”, esortando “tutti i difensori della libertà nel mondo” a criticarlo. L’intercettazione “in acque internazionali, come l’arresto di attivisti e giornalisti” che si trovavano a bordo delle imbarcazioni della flotilla “costituiscono un infido atto di aggressione”, continua la dichiarazione di Hamas, “che si aggiunge al triste record di crimini commessi” da Israele. Lo stesso comunicato dalla Turchia di Erdogan, grande sostenitore dei Fratelli musulmani e di Hamas (“da Israele atto di pirateria contro la flotilla”).
Il giurista americano Eric Posner dell’Università di Chicago ha spiegato così sul Wall Street Journal la legalità del blocco israeliano di Gaza:
“L’accusa più grave è che, prendendo il controllo della flotilla, Israele abbia violato la libertà delle navi di navigare in alto mare. Ma ci sono delle eccezioni. La coalizione guidata dagli Stati Uniti impose un blocco all’Iraq durante la prima guerra del Golfo. Se Gaza fosse uno stato sovrano, allora Israele sarebbe in guerra con Gaza e il blocco sarebbe legittimo. Se Gaza fosse una parte di Israele, Israele avrebbe il diritto di controllarne i confini, ma non intercettando navi straniere al di fuori del suo mare territoriale di dodici miglia. Gaza non è uno stato sovrano e non fa parte di Israele né di alcun altro stato. Il suo status è ambiguo, così come lo è la natura del conflitto armato tra Israele e Hamas”.
Ma Hamas è riuscita a trasformarsi in resistenza e a fare del blocco israeliano un atto di pirateria. Come ci sia riuscita, è chiaro.
A partire dal 2014, Hamas ha compiuto sforzi importanti per attirare a sé l’occidente usandone le parole d’ordine e le immagini. Nel 2017 ha pubblicato un documento supplementare al suo manifesto antisemita del 1988, che contiene un “linguaggio di liberazione” più politicamente corretto e meno nazista (convincendo anche un noto fisico italiano autore di libri di successo che Hamas non è antisemita).
Hamas poi ha pubblicizzato la “Grande Marcia del Ritorno”, al confine con Israele, come una “marcia per i diritti umani”, con i leader di Hamas che hanno tenuto discorsi davanti ai poster di Martin Luther King, Gandhi e Mandela, come il leader dei terroristi houthi, Abdul Malik al Houthi, accusa l’Italia di avere una “nera storia coloniale alle spalle”. Fino a Yahya Sinwar, il defunto leader di Hamas a Gaza, che in una intervista pubblicata nel 2021 da Vice puntava al sostegno occidentale, sostenendo che “lo stesso tipo di razzismo che ha ucciso George Floyd è usato da Israele contro i palestinesi”.
E così, in una strana convergenza delle lotte, si arriva allo stesso identico registro sulla flotilla da parte dei sindacati, dei partiti, delle associazioni della società civile, dei Giuristi democratici e di Hamas. Un po’ come i festeggiamenti della “vittoria” da parte dei terroristi dopo l’annuncio del riconoscimento di uno stato palestinese all’Onu la scorsa settimana, le accuse di “genocidio” a Israele e i silenzi occidentali sui palestinesi uccisi da Hamas. Tutto fa gioco.
E la propaganda gioca su due registri: in arabo, esalta lo sterminio, mentre in inglese, in italiano e in francese Hamas parla la lingua di legno woke. Per adescare quelli che George Orwell definì i cani addestrati, “quelli che fanno il salto mortale anche senza la frusta”.
Per fermare la guerra, il mondo intero deve gridare ai terroristi di Hamas: “Arrendetevi, rilasciate gli ostaggi!”. Invece chiede solo a Israele di fermarsi. Perché?
di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] Secondo anniversario della tragedia del 7 ottobre. Quanto è durata la solidarietà del lontano Occidente? Domanda retorica la mia. Lo so bene: nemmeno 24 ore. Ma ora siamo in una situazione molto differente. Perché alla posizione tentennante dei Paesi “amici” di Israele (“non superate la proporzionalità nella difesa!”, come se esistesse una “proporzione” al massacro bestiale di quel giorno), si sono aggiunte le sempre più numerose iniziative della “società civile”. Metto queste due parole tra virgolette perché di “civile” nei boicottaggi, negli insulti, nelle prese di posizione di Regioni, Province e Comuni – per non parlare di università e associazioni come l’Anpi – non c’è nulla. In questi 24 mesi, vivere da ebrei in Italia (oltre frontiera anche peggio) ha avuto il significato di sentirsi immersi in un’atmosfera da anni Trenta. Siamo stati avvolti da una nube oscena di menzogne che avrebbero fatto invidia alle veline dell’era fascista. Con rare eccezioni, i media italiani hanno continuato a pubblicare – come fossero dati ineccepibili – le notizie di fonte palestinese (Hamas). Se tutto quanto letto in Italia e nel mondo fosse stato vero, oggi la Striscia di Gaza dovrebbe assomigliare a un deserto nucleare, senza più abitanti né futuro.
È davvero così? No che non lo è: ma qual è la differenza? La realtà è quella che si percepisce, quella che si costruisce nella nostra mente. Quella che si vuole credere perché risponde al pregiudizio innato. Questo è lo stato della civile Europa nell’anno 2025-5786: gli ebrei (e Israele come “ebreo degli Stati”) sono come nel passato all’origine del caos e dei mali del mondo. Sono guerrafondai, uccidono bambini come sport e, cosa più grave, non accettano di stare al loro posto e farsi massacrare come è stato negli ultimi duemila anni. Intendiamoci, so bene che a Gaza il dramma è reale. Che gran parte della Striscia è stata livellata, che migliaia di abitanti vivono in tende di fortuna. Che i morti sono stati tanti (la maggior parte terroristi). Il punto è che tutto questo è il frutto di una scelta scellerata, di una volontà assassina che ha nutrito la popolazione araba palestinese negli ultimi vent’anni, ovvero da quando Sharon ordinò il ritiro completo (compreso i morti dei cimiteri) degli israeliani dagli insediamenti.
Dunque, la responsabilità di questa guerra non voluta da Israele è solo e soltanto di chi l’ha progettata e scatenata: Hamas (con i burattinai di Teheran). Oggi, con il senno di poi, potremmo dire che lasciare Gaza, per Israele, è stato un errore dalle conseguenze nefaste. Ma è evidente anche un’altra verità: di fatto, in questi due decenni, Gaza è stata indipendente. Un mini-Stato governato prima dall’Anp e, subito dopo, da Hamas eletta nelle urne (e poi protagonista di un sanguinoso golpe interno). Dunque, in questo lungo periodo, invece di porre le fondamenta per una futura indipendenza formale (magari con altri territori in Giudea e in Samaria), gli uomini al potere nella Striscia hanno costruito una fortezza sotterranea studiata per l’aggressione, non certo per proteggere la popolazione civile, armandosi fino ai denti. Più volte hanno scatenato attentati e veri e propri conflitti contro Israele.
Mai una volta hanno immaginato una convivenza pacifica. E come potrebbero? Nella loro carta fondamentale è scritto che bisogna cancellare Israele e uccidere tutti gli ebrei. Ecco perché tutto è precipitato. Ecco perché Israele, dopo il 7 ottobre, non ha avuto che una scelta di fronte a sé: distruggere chi voleva distruggerla. La guerra non è un evento piacevole, mai. Non è un film. Non ci sono eroi. Ci sono soltanto esseri umani che si battono per la sopravvivenza. Ma una guerra può essere combattuta per un fine morale.
Ed è questo che sta facendo Israele da due anni a questa parte, per di più, come sappiamo, avendo a che fare con sette nemici contemporaneamente. Ora mi spiegate voi, se riuscite, perché il mondo intero – con l’eccezione degli Stati Uniti (ora) e di pochi altri – invece che gridare ad alta voce ai terroristi di Hamas: “Arrendetevi, rilasciate gli ostaggi!”, continua a spingere in un angolo l’unico e morale Stato degli ebrei? Questo atteggiamento ha una definizione precisa. Si chiama antisemitismo, una macchia di infamia di cui il lontano Occidente non riesce a mondarsi.
Flottilla e piazze italiane: la sinistra senza voti cerca rifugio nell’antisemitismo
di Stefano Piazza
Le piazze italiane, negli ultimi giorni, sono diventate il teatro di una mobilitazione che poco ha a che fare con la solidarietà e molto con la propaganda. La vicenda della Global Sumud Flottilla, partita come iniziativa internazionale contro il blocco di Gaza, ha offerto il pretesto perfetto a sindacati, movimenti e partiti di sinistra per riportare la protesta in strada. Il risultato? Una miscela di cortei pro-palestinesi, slogan antisemiti, tensioni con la polizia e la proclamazione di uno sciopero generale che rischia di trasformare un tema estero in un’arma di destabilizzazione interna.
Non è il diritto di manifestare a fare problema, ma la degenerazione del messaggio. I cortei non parlano di pace, ma di odio. Non invocano dialogo, ma sventolano cartelli che glorificano la violenza e slogan che ripropongono cliché antiebraici. È la solita Italia delle piazze: quando manca il consenso nelle urne, si cerca legittimità tra cori e bandiere. Che i sindacati siano ormai a corto di battaglie credibili lo si sapeva. Ma la proclamazione di uno sciopero generale “per Gaza” è la caricatura della loro crisi. Per Stellantis che chiude stabilimenti? Silenzio. Per l’Ilva di Taranto che muore pezzo dopo pezzo? Nulla. Ma per una Flottilla bloccata a centinaia di miglia da Israele e Gaza, ecco lo sciopero. Evidentemente il lavoro degli italiani vale meno del palcoscenico ideologico.
Peggio ancora fanno i partiti di sinistra – PD, AVS e Cinque Stelle – che hanno trasformato la Flottilla in un nuovo vessillo. Il loro copione è sempre lo stesso: forte presenza nelle piazze, irrilevanza nelle urne. È accaduto nelle Marche, dove i megafoni hanno coperto per qualche giorno il vuoto politico, salvo poi scomparire la sera dello spoglio. Eppure insistono, convinti che l’antisemitismo travestito da solidarietà sia il carburante per rilanciarsi. Il vero pericolo è che questo clima degeneri. Le manifestazioni pro-palestinesi stanno scivolando sempre più spesso verso la violenza, con scontri, vandalismi e aggressioni. L’antisemitismo, che si pensava sepolto, riemerge nelle piazze italiane con una naturalezza inquietante. Alcuni leader, anziché arginare, preferiscono soffiare sul fuoco, immaginando di capitalizzare un malcontento che in realtà sta minando la coesione sociale del Paese.
Come ha fatto notare il premier Giorgia Meloni, «nei prossimi giorni, temo, gli italiani affronteranno diversi disagi per una questione che mi pare c’entri poco con la vicenda palestinese e c’entri molto con le questioni italiane e del resto ce lo spiegano i sindacati, perché mi sarei aspettata che almeno su una questione che reputavano così importante non avessero indetto uno sciopero generale di venerdì, perché il weekend lungo e la rivoluzione non stanno insieme». Parole che colgono nel segno. Perché se lo sciopero “rivoluzionario” coincide strategicamente con il ponte, non è più lotta sociale ma weekend lungo mascherato da solidarietà internazionale.Alla fine resta un’Italia dove i sindacati fingono di difendere i lavoratori ma si accodano a bandiere ideologiche, e dove la sinistra non riesce a governare nemmeno un circolo culturale ma si illude di cambiare il mondo con i cortei. Il tutto condito da un antisemitismo che torna a infettare il dibattito pubblico. Una miscela tossica: più che una rivoluzione, un triste carnevale di piazza sperando che non ci scappi il morto.
Manchester – Rav Ephraim Mirvis: «Attentato esito di una lunga campagna di odio»
«Questo è il giorno che speravamo di non vedere mai, ma che in fondo sapevamo sarebbe arrivato», ha dichiarato al termine del Kippur il rabbino capo del Regno Unito, Ephraim Mirvis, commentando l’attentato di matrice islamica a una sinagoga di Manchester costato la vita a due ebrei inglesi. «Per così tanto tempo abbiamo assistito a un’incessante ondata di odio contro gli ebrei nelle nostre strade, nei campus, sui social media e altrove: questo è il tragico risultato», ha accusato il rav, parlando di attacco non solo agli ebrei ma anche «ai fondamenti stessi dell’umanità e ai valori di compassione, dignità e rispetto che tutti condividiamo».
In una nota il Board of Deputies of British Jews, principale organo rappresentativo dell’ebraismo britannico, sottolinea: «In un momento di crescente antisemitismo nel Regno Unito, questo attacco era purtroppo qualcosa che temevamo. Invitiamo tutti coloro che ricoprono posizioni di potere e influenza ad adottare le misure necessarie per combattere l’odio contro il popolo ebraico, collaboreremo con le autorità per adottare una serie di misure aggiuntive per proteggere la nostra comunità nei prossimi giorni».
Il primo ministro britannico Keir Starmer ha lasciato in anticipo il Vertice della Comunità Politica Europea di Copenaghen per presiedere una riunione d’emergenza. «Stiamo dispiegando ulteriori mezzi di polizia nelle sinagoghe di tutto il paese, faremo di tutto per garantire la sicurezza della nostra comunità ebraica», ha annunciato l’inquilino di Downing Street, dichiarandosi «scioccato» per quanto accaduto a Manchester.
Per l’ong Campaign Against Antisemitism, «il sangue degli ebrei britannici è sulle mani di politici virtuosi che hanno gettato benzina sul fuoco dell’estremismo con i loro atteggiamenti e le loro concessioni» e tra gli altri anche «delle università e delle scuole che hanno tollerato l’incitamento, della parzialità e del crollo morale della Bbc» che l’ong accusa di essere diventata di fatto una «portavoce di Hamas».
Per l’Ucei, «quello che temevamo è accaduto e per il clima di tensione e di odio poteva accadere esattamente anche qui, in una delle nostre sinagoghe». L’Ucei denuncia un clima pericoloso anche in Italia dove «le libertà di culto, di uguaglianza e non discriminazione sono compresse» e si assiste in queste ore «all’abuso di libertà che legittimano ogni scatenamento di odio, manifestazioni, scioperi, editoria che in nome della critica e della pacificazione in Medio Oriente» trasformano le città italiane in luoghi dove si praticano «guerriglia e violenza».
Il presidente Trump ci ha abituato in più di un’occasione ai colpi di scena: affermazioni e smentite nel giro di poche ore, dichiarazioni roboanti o decisioni deflagranti per l’economia mondiale poi ridimensionate dai fatti.
Nel caso dei 20 punti della sua proposta per Gaza e per un nuovo equilibrio in Medio Oriente, ci sono alcuni motivi che potrebbero giustificare un cauto ottimismo.
Il primo riguarda l’adesione di molti paesi arabi e musulmani, in passato riluttanti a tagliare il proprio legame con Hamas forse anche per timore dell’integralismo islamico all’interno dei propri confini: Turchia e Qatar ne sono certamente gli esempi più eclatanti e proprio per questo sono eletti mediatori privilegiati nell’azione di convincimento alla resa dei terroristi.
Il secondo sono le implicazioni per Israele: non solo il ritorno degli ostaggi previsto dall’accordo, vivi o morti, ricucirebbe un paese lacerato, ma isolerebbe inevitabilmente la fazione più estremista del governo Netanyahu, infatti da subito contraria alla proposta americana. Il Primo Ministro israeliano si trova con le spalle al muro, isolato internazionalmente, con un paese stremato, spaccato, economicamente in affanno e senza una via d’uscita. Sa con certezza che quello che rimane di Hamas si è ormai mescolato con la popolazione in fuga e che non saranno certo ulteriori bombardamenti o invasioni a chiudere la partita a suo favore.
Il terzo è l’adesione di Putin a questo accordo, probabilmente non certo fatta senza uno scambio del quale non ci è dato sapere nulla. In uno scenario geopolitico mondiale, se Stati Uniti, Russia e anche Cina invocano la fine immediata della guerra in Medio Oriente significa che difficilmente i tempi potrebbero essere ulteriormente dilatati.
Il quarto punto è forse il più importante: il dramma di Gaza, sebbene la narrazione dei media occidentali in gran parte abbia voluto assecondare la propaganda di Hamas, ha scosso profondamente l’opinione pubblica e costretto tutta la politica occidentale a un confronto sempre più acceso. Porne fine significa non solo fermare una tragedia umanitaria le cui immagini rimarranno a lungo impresse, ma anche “sminare” la dialettica politica di buona parte dell’Occidente dal rischio di scontri non più gestibili e di piazze ormai lontane da quelle stesse forze che le hanno promosse.
Naturalmente rimangono molte perplessità: l’accordo prevede un percorso di indipendenza e autonomia per i palestinesi che Netanyahu ha sempre con forza negato, compiacendo in questo modo i suoi ministri più estremisti. L’accordo prevede una ricostruzione dettagliata di quel territorio devastato e non è chiaro cosa avverrà di questa popolazione disperata mentre verranno create le condizioni minime per poter rientrare in quelle che oggi sono solo macerie. Si prevede l’esclusione di qualunque movimento terrorista dal futuro Gaza e un rafforzato ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ma nel 2006 i gazawi votarono il partito di Hamas e non Abu Mazen e, come sempre in quella parte del mondo, le previsioni e tantomeno le semplificazioni sono facilmente smentite dai fatti.
Per i palestinesi non è prevista nessuna deportazione forzata, concetto barbaro che giustamente aveva mosso vibrate proteste anche in Israele, bensì quelli tra di loro che hanno sostenuto Hamas potranno godere di un’amnistia e andare nei paesi che li accoglieranno. Un punto questo certamente combattuto dall’attuale governo dello Stato ebraico ma irrinunciabile per avere il sostegno dei paesi arabi.
In conclusione, dopo due anni, alla vigilia della commemorazione del massacro del 7 ottobre, dopo decine di migliaia di vittime, l’unica opzione è quella proposta dal presidente Trump, seppur piena di incognite e di ostacoli oggettivi: è meglio crederci e sperare che si possa realizzare, anche perché l’alternativa sarebbe un abisso ancora più profondo del quale non si vedrebbe la fine.
GERUSALEMME – La risposta di Hamas ancora non è arrivata. Ma dalla milizia palestinese arrivano segnali discordanti. Alcune fonti danno ormai quasi per certo l’ok del gruppo al piano del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e già accettato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Altre, invece, segnalano che all’interno della milizia si stia rafforzando il partito del rifiuto, perché l’accordo è visto come eccessivamente aderente alle posizioni di Israele e agli obiettivi che Netanyahu si è posto per dichiarare la vittoria nella Striscia di Gaza. Ma al momento, tra le due posizioni, quella che appare maggioritaria è quella di una “pausa di riflessione”. E forse serviranno più delle 72 ore immaginate dal presidente Usa. Una fonte del gruppo che ha parlato con Al-Arabiya dicendo che “Hamas ha ribadito ai mediatori il proprio diritto di proporre modifiche al piano, sottolineando come lo stesso Netanyahu abbia già apportato cambiamenti analoghi”. La milizia palestinese non è convinta soprattutto della gestione futura della Striscia, soprattutto perché l’entità internazionale di transizione pensata da Trump non sarebbe coerente con un’amministrazione esclusivamente locale, anche se slegata da Hamas e altri partiti. Infine, Hamas vorrebbe una sorta di “cronoprogramma” del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza e non una semplice promessa di un abbandono graduale della regione da parte delle Israel defense forces. Mentre altre fonti, questa volta all’Afp, hanno detto che il gruppo vorrebbe modificare le clausole sul disarmo e sull’esilio dei suoi membri. La trattativa, quindi, sembra iniziata. E sono in molti a sospettare che The Donald rischia di non vedere affiorare un vero e proprio “si” al suo piano. Le pressioni su Hamas sono molte, anche da parte dei governi del Medio Oriente. Secondo Axios,Egitto, Qatar e Arabia Saudita stanno facendo di tutto per convincere Hamas ad accettare l’accordo. I leader del gruppo sono stati raggiunti da ben tre delegazioni in 24 ore per cercare di sbloccare la trattativa. Ci sono stati incontri con il premier del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, il capo dell’intelligence egiziana, Hassan Rashad, e anche il vertice dei servizi segreti turchi, Ebrahim Kalin. Ma dal Cairo, lo stesso ministro degli Esteri Bader Abdelatty ha confermato che potrebbero servire altri negoziati. La questione è ovviamente centrale anche nel dibattito interno di Israele, entrato oggi nello Yom Kippur. Perché se Netanyahu ha accolto il piano, le opposizioni hanno concordato sulla bontà della bozza firmata da Trump, e le piazze e i familiari degli ostaggi hanno ammesso la loro gioia, la destra radicale è già sul piede di guerra. Il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha già criticato il piano definendolo un “fallimento diplomatico”. Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, lo ha addirittura definito “pericoloso per la sicurezza di Israele”. “Ne parlerò ampiamente”, ha dichiarato Ben Gvir, “ma fin da ora bisogna dire che danneggia la sicurezza, è pieno di lacune e non raggiunge gli obiettivi di guerra che ci siamo prefissati”. “È vero, siamo tutti entusiasti del ritorno degli ostaggi” ha continuato il ministro e leader di Otzma Yehudit, “ma il prezzo da pagare è inconcepibile e avrò altro da dire su questo argomento”. E anche all’interno del Likud, il partito di Netanyahu, c’è chi ha già storto il naso. Si tratta, come raccontano i media locali, di membri non troppo importanti del movimento. Ma in ogni caso, è un segnale che “Bibi” non può sottovalutare. L’impressione, in ogni caso, è che a questo punto Netanyahu può solo attendere. Se Hamas accetta, può dire di avere costretto la milizia a un accordo che aderisce ai suoi obiettivi di guerra. Se rifiuta, le forze armate sono pronte a stringere ancora di più l’assedio su Gaza. Ieri, l’Idf ha preso il pieno controllo del Corridoio Netzarim bloccando ogni spostamento da sud a nord. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha avvertito anche la popolazione. “Questa è l’ultima opportunità per i residenti di Gaza che desiderano farlo di spostarsi a sud e lasciare gli operativi di Hamas isolati a Gaza City”, ha detto il ministro, “Coloro che rimarranno, saranno considerati terroristi e sostenitori del terrorismo”.
L'accordo di Trump su Gaza: una mossa magistrale che elude verità scomode
I nemici di Israele – e persino coloro che attualmente sostengono il piano – rimangono in definitiva legati all'ideologia islamica, così come l'Occidente rimane legato a un antisemitismo profondamente radicato.
di Ryan Jones
Il piano per Gaza del presidente Donald Trump e il modo in cui ha ottenuto il sostegno e lo ha presentato sembrano a prima vista una mossa magistrale. I paesi che finora hanno tacitamente sostenuto Hamas nella sua guerra contro Israele sono ora allineati e insistono affinché il gruppo terroristico accetti i termini di una proposta che in sostanza significa la sua sconfitta. Sembra che Trump abbia messo Hamas in scacco matto. O accetta l'accordo e perde la guerra, oppure esita – se non addirittura rifiuta categoricamente la proposta – e viene bollato come l'ostacolo evidente alla fine del conflitto. Ma abbiamo già visto questo film. O qualcosa di simile. Gli accordi precedenti, che avrebbero dovuto rappresentare una situazione vantaggiosa per Israele, si sono sempre rivelati in qualche modo errori catastrofici. Due esempi eclatanti sono la firma degli “accordi di Oslo” – quando Israele accettò di riconoscere e negoziare con la PLO, la principale organizzazione terroristica al mondo – e il ritiro da Gaza del 2005 – quando Israele concesse unilateralmente ai palestinesi di Gaza tutto ciò che chiedevano. In entrambi i casi, i leader israeliani e i loro partner internazionali hanno affermato che o i palestinesi avrebbero reagito in modo responsabile, aprendo la strada alla pace, oppure sarebbero rimasti irremovibili, rivelandosi una volta per tutte i veri cattivi della storia. Ma questo modo di pensare ignorava due scomode verità: gli arabi sono motivati principalmente dall'ideologia islamica e l'Occidente rimane ancorato all'antisemitismo. In entrambi i casi, i compromessi di Israele hanno portato a un aumento, non a una diminuzione, del conflitto, poiché gli islamisti palestinesi sono stati incoraggiati e rafforzati. E in entrambi i casi, il mondo non ha ritenuto responsabili i palestinesi, ma Israele e, di conseguenza, gli ebrei, perché si sono rifiutati di morire e scomparire. Trump è un tipo diverso di leader, quindi forse resisterà come baluardo contro queste due forze dell'islamismo e dell'antisemitismo. Finora lo ha fatto. Ma non sarà lì per sempre. E l'accordo è già sul tavolo. Israele è già vincolato. Nonostante tutte le sue qualità positive quando si tratta di Israele, Trump, come i suoi predecessori, ha comunque un certo punto cieco quando si tratta del ruolo dell'Islam in questo conflitto e della persistente diffusione dell'odio verso gli ebrei nell'Occidente “cristiano”. Non si tratta solo di inconvenienti. Sono forze potenti che non possono essere superate con generosi vantaggi economici. Richiedono una rieducazione intergenerazionale. Ciò significa, in realtà, che non scompariranno. Non riconoscere questo fatto significa che il piano di Trump finirà, come tutti i precedenti, nel mucchio dei rifiuti della storia, come un'altra “soluzione” che è servita solo a generare ulteriori conflitti.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Kiryat Sefer compie 15 anni. Una porta sempre aperta verso la tradizione ebraica
La libreria della Comunità ebraica di Roma diffonde cultura. È un punto di incontro e dialogo tra religioni diverse fondamentale per combattere pregiudizi e antisemitismo
di Ruben Della Rocca
In uno degli angoli più suggestivi e ricchi di storia della Capitale, incastonata tra la Sinagoga e il Portico d’Ottavia, da 15 anni un luogo magico di Roma diffonde cultura, libri e sapere. È la libreria della Comunità ebraica di Roma, la Kiryat Sefer, unica libreria a tema esclusivamente ebraico in Italia che proprio nel corso di quest’anno raggiunge la cifra tonda dei tre lustri. Luogo di incontro e di divulgazione, dove sfogliando le pagine del Talmud o immergendosi negli scritti di rabbini e pensatori ebrei di ogni secolo, ci si immerge nel mondo ebraico con la curiosità e la voglia di conoscere e approfondire. Allo stesso tempo, la narrativa moderna proveniente da Israele o dagli Stati Uniti, oppure quella prodotta dai tanti scrittori ebrei italiani, permette di avere un quadro di insieme che altrimenti sarebbe impossibile ricostruire.
La Kiryat Sefer, letteralmente tradotto Città del Libro, rappresenta un unicum nel panorama culturale del nostro Paese e un luogo da visitare, dove poter scoprire libri e volumi che nelle librerie generaliste sarebbero impossibili da trovare, assieme all’oggettistica a tema ebraico. Tutto questo fa parte della proposta all’affezionata clientela o al turista italiano e straniero che si reca nel locale di Via Elio Toaff per trovare quanto di ebraico non si trova altrove. Dal Rabbino Capo Riccardo Di Segni a monsignor Vincenzo Paglia, dall’ex presidente della Comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello all’onorevole Andrea Riccardi, dall’attore Luca Barbareschi al giornalista Enrico Mentana, sono tanti i personaggi noti che si recano alla Kiryat Sefer per scoprire le ultime novità dell’editoria ebraica o per riscoprire vecchi testi utili anche allo studio e alla ricerca, oltre che allo svago di un buon libro.
La libreria rappresenta anche e soprattutto un luogo di incontro e di vicinanza tra culture e religioni. Uno spazio quindi dedicato al rispetto e a quella conoscenza reciproca tra popoli e persone indispensabile ad abbattere luoghi comuni e pregiudizi. Se le librerie rappresentano un faro di luce e di educazione nelle nostre città, troppo spesso immerse nel buio dell’ignoranza e dell’odio, la Kiryat Sefer, assieme al Museo Ebraico e al Centro di Cultura della Comunità ebraica di Roma, costituisce un punto di riferimento fondamentale nel contrastare le false credenze e la sottocultura che sono il motore dell’antisemitismo e dell’antisionismo.
Manchester, accoltellamento fuori da una sinagoga nel giorno di Yom Kippur: due morti, ucciso l'aggressore
Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall.
Un accoltellamento si è verificato oggi fuori da una sinagoga di Manchester, nel nord dell'Inghilterra. Lo riferisce la polizia britannica, intervenuta sul posto. Il sindaco della città, Andy Burnham, in contatto con la polizia, ha definito l'episodio «grave». Il bilancio è di due morti e due feriti. L'accoltellatore, come riporta la Bbc, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla polizia. Secondo Burnham, dopo l'intervento della polizia non ci sono ulteriori «pericoli imminenti» per la collettività. «Stiamo valutando la situazione e collaborando con gli altri membri dei servizi di emergenza. La nostra priorità è garantire che le persone ricevano l'assistenza medica di cui hanno bisogno il più rapidamente possibile», ha reso noto il servizio di ambulanze.
• L’aggressione Gli accoltellamenti avvenuti oggi a Manchester si sono verificati dinanzi alla sinagoga di Middleton Road, nella zona di Crumpsall. Si tratta di un tempio frequentato da fedeli ortodossi askhenaziti completato nel 1967. I media britannici sottolineano come l'attacco - la cui potenziale matrice terroristica e il cui movente resta da chiarire - è avvenuto nel giorno di Yom Kippur, festività sacra per gli ebrei.
Marina Soranzo e Heinz Reuss, Presidente del movimento internazionale March of Life
Domenica 28 Settembre 2025 si è svolta March of Life (Marcia della Vita) a Padova. E’stato un onore poter partecipare a questa marcia poiché nel 2018 e 2019 ho avuto modo di essere ospite alla March of Life House a Cesarea (Israele) e insieme a Petra e Lesly, le due volontarie che si occupavano della casa, pregavamo per un apertura in Italia dove poter organizzare la Marcia magari con la collaborazione di Edipi. Ringrazio Abba, che nel dicembre 2024 ha dato risposta a quelle preghiere, perché a Vò Euganeo PD c’è stata la prima March of Life in Italia. Quella successiva del 2025 invece si è svolta a Padova, dove ha la sede Edipi, e dove questa volta Edipi nella veste del Presidente Andie Hortai Basana, insieme ad altre associazioni ha collaborato per l’evento.
La manifestazione ha avuto inizio davanti alla Sinagoga di Padova, l’organizzatrice Marina Soranzo ha salutato i partecipanti elencando il programma e specificando il tema della Marcia, ovvero NON RESTEREMO IN SILENZIO, l’importanza di ricordare e riconciliare, per dare tutti insieme un segnale contro l’antisemitismo e l’odio verso gli ebrei. Non restare in silenzio in quanto nei tempi della Shoa gli italiani, compresi i cristiani, sono stati in silenzio davanti alle deportazioni e abusi nei confronti degli ebrei. Ovviamente, il ricordo non deve essere solo rivolto al passato ma, deve anche gettare un ponte verso il presente e futuro. Ha poi illustrato il tragitto che partiva dalla Sinagoga in Via delle Piazze (Ghetto Ebraico) fino alla Piazza del Santo, sfilando con la bandiera israeliana e cartelloni con foto e nome degli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Sottolineando che si tratta di una manifestazione pacifica, ha avvisato i partecipanti che in caso di contestatori sul tragitto, non rispondere ma affidarsi alla scorta, scorta molto numerosa tra altro per il numero di partecipanti. Qui viene fatta notare la prima differenza, differenza tra una manifestazione a favore dei palestinesi e una pro Israele, ovvero le manifestazioni pro Israele devono essere per forza scortate, perché siamo arrivati a un punto di antisemitismo dove manifestare per Israele può essere pericoloso per i manifestanti, e se la scorta non c’è la manifestazione o evento viene cancellato!
Il saluto iniziale è stato dato dal Presidente della Comunità Ebraica di Padova Gianni Parenzo, seguito subito dopo dal saluto del Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss arrivato dalla Germania. La parola poi passa al Rabbino Adolfo Aharon Locci che parla del fatto che oggi si vuole delegittimare la Shoa, poiché la si vuole paragonare con i fatti del conflitto in corso tra Israele e Gaza per far dimenticare che cosa veramente è stata la Shoa, esortando le nuove generazioni di non confondere quello che accade oggi con ciò che accadde allora. Ha concluso ribadendo che anche se stiamo vivendo gli stessi tempi della Shoa, Israele pur se resta sola, a differenza di quei tempi oggi è in grado di difendersi. Infine ha concluso i saluti don Enrico Piccolo responsabile diocesano per il dialogo interreligioso continuando sul filo del discorso del Rabbino Locci, ricordando inoltre la figura di Padre Placido Cortese che ha aiutato ebrei a sfuggire dal regime nazista, cosa per cui è stato omaggiato nel 2021 da una Pietra d’ Inciampo proprio in Piazza del Santo. E’ intervenuta la Prof. Edda Fogarollo (CFI) docente di temi di Storia Moderna e Contemporanea che ha raccontato l’episodio del 1943 quando la Sinagoga è stata incendiata dai fascisti e altri episodi di quei tempi bui. Sono poi intervenute due ragazze dell’organizzazione tedesca e uno svizzero, che hanno raccontato la loro storia familiare, ovvero che i propri nonni servivano nelle SS e quindi si sono resi complici della morte di ebrei, hanno chiesto perdono per il loro operato agli ebrei presenti. Queste testimonianze sono state fatte con intensa emozione da toccare anche tutti i presenti. La parola poi è stata data a Benedetto Sacerdoti, padovano, portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, ringraziando per questa iniziativa, ringraziando i presenti per dimostrare la loro vicinanza alla Comunità Ebraica, a Israele e alle famiglie degli ostaggi, come padovano è stato importante per lui essere lì, nella Piazza del Santo, sfilare con le immagini dei volti degli ostaggi che da quasi due anni sono ancora prigionieri nel buio dei tunnel di Gaza. Ha fatto notare che nelle ultime settimane l’Italia è stata investita da manifestazioni, spesso violente per chiedere la fine di questo conflitto, che potrebbe finire immediatamente, qualora gli ostaggi venissero liberati. Ha sottolineato l’ambiguità presente nei nostri media, che non raccontano tutta la storia ovvero quello che è successo due anni fa, il 7 Ottobre 2025. Atti terribili sono successi in questa data, 1200 persone sono state trucidate, tra cui bambini e 250 persone rapite, di cui 48 ancora in ostaggio. Tutto ciò evidenzia che non si vuole la pace ma si cede ad una propaganda terroristica che vuole la distruzione d’Israele. Anche il Presidente del movimento internazionale March of Life, Heinz Reuss, ha evidenziato le incoerenze dei media e di tutta l’informazione che oggi giorno pone Israele come il cattivo della situazione, dimenticando che è stato attaccato quel 7 Ottobre, mentre nessuna condanna viene fatta ad Hamas, anzi, i media continuano a mandare avanti fake news come quella dei bambini morti, aumentando cosìl’antisemitismo nelle Nazioni.
Ha concluso l’evento il Presidente di Edipi Andie Hortai Basana, che risponde alla domanda perché siamo dalla parte d’Israele. Risposta: come Cristiani Evangelici il nostro punto di riferimento è la Parola di Dio, che ci chiede di sostenere Israele. In Genesi 12, Dio fa una promessa ad Abramo, “benedirò quelli che ti benediranno”… ,e in Esodo 4, Dio dice a Mosè, “tu dirai al Faraone, Israele è il mio figlio, il mio primogenito”…. Questo ci fa comprendere il sentimento che Dio ha verso Israele e aspetta anche da parte nostra un atteggiamento conforme alla Sua volontà.
Durante la marcia ci sono state alcune contestazioni verbali come criminali e free palestine, ma grazie al servizio d’ordine la cosa è sfumata in poco tempo e ringraziando Dio la marcia si è svolta senza incidenti. Concludo ricordando il versetto della Sua Parola che ha accompagnato questo evento:
Isaia 62:1 Per amore di Sion io non tacerò, per amore di Gerusalemme io non mi darò posa, finché la sua giustizia non spunti come l’aurora, la sua salvezza come una fiaccola fiammeggiante.
Il capo dell'IDF Eyal Zamir esorta alla vigilanza e sottolinea l'importanza storica dei prossimi passi.
Durante una visita alle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza, il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha parlato di una “realtà unica” in cui si trova attualmente Israele. Ha definito la guerra contro l'organizzazione terroristica Hamas un “bivio decisivo”, in cui i prossimi passi avranno conseguenze di vasta portata. Zamir ha elogiato il coraggio e la determinazione dei soldati che operano da mesi a Gaza. Allo stesso tempo, ha avvertito che il pericolo non deve essere sottovalutato. Hamas è ancora in grado di sferrare attacchi e quindi la concentrazione, la pazienza e la perseveranza sono di fondamentale importanza. Solo così sarà possibile raggiungere l'obiettivo: il ritorno degli ostaggi e lo smantellamento delle strutture militari dell'organizzazione terroristica. Il capo di Stato Maggiore ha inoltre chiarito che l'esercito sta pianificando le sue operazioni in modo da garantire alla leadership politica il necessario margine di manovra. L'IDF deve essere in grado di reagire in modo flessibile alle diverse decisioni del governo. Ha così sottolineato che l'operazione militare non può essere considerata isolatamente, ma va vista nel più ampio contesto strategico e politico. Lo stesso giorno, l'IDF ha anche annunciato che il 9 settembre Muhammad Rashid Muhammad Masri, comandante di compagnia dell'unità Nukhba nel battaglione di Hamas di Beit Hanoun, era stato ucciso in un attacco mirato. Masri si era infiltrato nel territorio israeliano il 7 ottobre 2023 durante il massacro e successivamente, il 19 aprile 2025, aveva partecipato a un attacco a Beit Hanoun in cui il sergente maggiore G'haleb Sliman Alnasasra era stato ucciso e altri tre soldati erano rimasti gravemente feriti. L'incidente dimostra che, parallelamente alle operazioni su larga scala nella Striscia di Gaza, Israele continua a eliminare in modo mirato i vertici di Hamas. Zamir ha ricordato alle truppe che, sebbene la guerra abbia portato a progressi significativi, non è ancora stata decisa. Gli attacchi alle unità israeliane nelle ultime settimane hanno dimostrato quanto sia importante mantenere un'elevata vigilanza. “Non dobbiamo sottovalutare il nemico”, ha ammonito, esortando i soldati ad affrontare le prossime fasi con la massima attenzione e perseveranza. Con queste parole, il capo di Stato Maggiore ha chiarito che Israele si trova in una fase che può decidere l'esito dell'intera guerra.
(Israel Heute, 1 ottobre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Meloni: “La Flotilla è un pretesto per far saltare la pace”Pressing sul Parlamento per votare il piano Trump
di Luca Spizzichino
La premier Giorgia Meloni è intervenuta con toni decisi sul caso della Global Sumud Flotilla, il convoglio di circa 50 imbarcazioni con attivisti internazionali entrato questa notte nella “zona ad alto rischio”, a 150 miglia nautiche da Gaza. “La Flotilla – ha dichiarato – è un pretesto per far saltare la pace”.
Secondo la premier, non si tratta di un gesto umanitario isolato, ma di una provocazione con il rischio di innescare incidenti e compromettere un fragile equilibrio diplomatico. “Non possiamo permettere che iniziative strumentali compromettano un percorso che finalmente può portare alla fine delle ostilità”, ha ribadito, inserendo la vicenda in un quadro politico più ampio: la difesa del piano Trump, che secondo Meloni rappresenta “l’unica speranza concreta per fermare la guerra e porre fine alla sofferenza dei civili palestinesi”.
Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha lanciato un appello all’unità: “Non dividiamoci sulla pace, il piano Trump è l’unica strada per avviare una soluzione”. Stessa linea dal ministro della Difesa Guido Crosetto, che avverte sul rischio di escalation e sottolinea che gli aiuti umanitari devono essere consegnati attraverso canali sicuri, “come il Patriarcato latino, non con operazioni che possono degenerare in incidenti”.
La fregata italiana Alpino, impegnata nel Mediterraneo orientale, da stanotte non scorta più la flottiglia, ma resterà pronta a intervenire in caso di emergenze che coinvolgano cittadini italiani.
Sul fronte politico interno, Carlo Calenda propone un voto unitario in Parlamento sul piano Trump. Dal Partito Democratico arrivano segnali di apertura, pur con critiche legate al riconoscimento dello Stato palestinese; il Movimento 5 Stelle parla di “spiraglio”, mentre Alleanza Verdi e Sinistra boccia il piano definendolo “colonialista e suprematista”.
Le dichiarazioni della premier si intrecciano con la linea di Israele, che prepara l’intercettazione delle navi accusando gli organizzatori di legami con Hamas. Meloni non si è espressa direttamente su questo punto, ma la vicenda rafforza l’idea che la Flotilla non sia solo una missione umanitaria.
Nella giornata di ieri, l’IDF ha diffuso documenti che accusano la Flotilla di ricevere finanziamenti da Hamas tramite la PCPA (Palestinian Conference for Palestinians Abroad), un network internazionale con sedi in Libano e in Europa. Tra i promotori citati figurano attivisti storici delle flottiglie, come Zaher Birawi nel Regno Unito e Saif Abu Kashk in Spagna.
Sul piano operativo, la marina israeliana si prepara a intercettare le imbarcazioni con i commando Shayetet 13, con l’obiettivo di fermare le navi prima che entrino nelle acque di Gaza, trasferire gli attivisti al porto di Ashdod e procedere con l’espulsione. Alcune barche potrebbero essere affondate dopo il sequestro.
Yom Kippur – In 100mila al Kotel assieme agli ex ostaggi
Gerusalemme alla vigilia di Yom Kippur
Al tramonto di mercoledì inizia il digiuno dello Yom Kippur, il giorno più sacro del calendario ebraico. A Gerusalemme, informa la Western Wall Heritage Foundation, oltre 100mila persone hanno partecipato alla lettura delle preghiere penitenziali (Selichot) nell’area del Muro Occidentale (Kotel). Tra loro gli ex ostaggi Eliya Cohen, Omer Shem Tov e Romi Gonen, a lungo prigionieri di Hamas a Gaza, che hanno recitato assieme al rabbino Shmuel Rabinowitz una preghiera speciale per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi: i vivi affinché possano riunirsi alle loro famiglie, i morti affinché possano essere sepolti. Einav Zangauker, la madre dell’ostaggio Matan Zangauker, ha depositato nelle crepe del muro un biglietto con una preghiera per il ritorno a casa degli ostaggi e dei soldati dell’Idf che stanno combattendo nella Striscia. Alla cerimonia sono intervenuti i rabbini capo del paese David Yosef (sefardita) e Kalman Bar (ashkenazita), il rabbino Yaakov Shapira a capo della yeshiva Mercaz HaRav, il sindaco della città Moshe Lion, ministri e rappresentanti istituzionali.
La Western Wall Heritage Foundation ha informato che quasi un milione e mezzo di persone si sono recate nell’area del Kotel nei dieci giorni penitenziali compresi tra Rosh haShanah e Kippur, facendo registrare «un aumento significativo delle presenze» rispetto al passato. Nell’occasione della cerimonia delle Selichot sono stati allestiti alcuni maxischermi nelle vicinanze del Kotel, nei pressi della porta di Giaffa e in piazza Safra, la piazza del municipio.
Giro dell’Emilia: esclusa la squadra Israel-Premier Tech
di Pietro Baragiola
Alla vigilia del Giro dell’Emilia, la gara ciclistica di fama internazionale in programma il 4 ottobre, è arrivata una decisione inattesa: la squadra Israel-Premier Tech è stata esclusa dall’edizione di quest’anno.
La decisione, comunicata ufficialmente dagli organizzatori della gara in un comunicato stampa, è stata motivata da “ragioni di sicurezza pubblica”.
Negli ultimi mesi sono state diverse le corse ciclistiche a livello internazionale ad essere interrotte per la stessa motivazione a causa delle manifestazioni propalestinesi.
In Spagna, a La Vuelta, ben quattro tappe, compresa quella conclusiva a Madrid, hanno dovuto subire modifiche e riduzioni causando problemi durante la competizione. Per questo motivo il team del Giro dell’Emilia ha deciso di agire preventivamente ed evitare possibili incidenti.
“Il pericolo è troppo grande” ha affermato Adriano Amici, presidente della GS Emilia. “Il circuito finale, ripetuto cinque volte attorno a Bologna, potrebbe facilmente diventare teatro di proteste violente. È una scelta che mi addolora dal punto di vista sportivo, ma necessaria per tutelare il pubblico e gli altri corridori.”
• Il Giro dell’Emilia
Il Giro dell’Emilia è una delle corse più importanti del calendario ciclistico italiano e internazionale. Con i suoi 199 chilometri che si estendono da Mirandola fino a Bologna, rappresenta un banco di prova importantissimo per Il Lombardia, l’ultimo grande appuntamento della stagione.
Nel 2024 la vittoria è andata al campione sloveno Tadej Pogačar, confermando la presenza di molti dei migliori talenti del panorama mondiale.
L’arrivo è sempre fissato al Santuario della Madonna di San Luca, un luogo iconico, la cui pendenza supera il 10%, e domina la città di Bologna. Un panorama stupendo ma anche logisticamente delicato: Bologna è storicamente un centro di forte partecipazione politica dei moti studenteschi, molti dei quali quest’anno sono stati propalestinesi.
“Considerando quanto sta accadendo a Gaza, sarebbe ipocrita considerare insignificante la presenza di una squadra legata a questo governo” ha dichiaratoRoberta Li Calzi, assessora dello sport dell’amministrazione comunale di Bologna. Il portavoce della Israel-Premier Tech ha risposto a queste affermazioni volendo ricordare che la squadra non è la nazionale ufficiale di Israele, bensì un team di proprietà del miliardario Israelo-canadese Sylvan Adams. La formazione è da anni presente nei principali eventi ciclistici, tra cui il Tour de France e il Giro d’Italia.
Quest’anno però la situazione è diventata così delicata che persino il co-sponsor, Premier Tech, ha chiesto di rimuovere la parola “Israel” dal nome ufficiale della squadra, nel tentativo di ridurre l’esposizione politica e mediatica.
• L’esclusione di Israele nel mondo dello sport La decisione di escludere la Israel-Premier Tech si inserisce in una più ampia ondata di boicottaggi e proteste che sta colpendo il mondo dello sport e della cultura israeliana.
Diversi eventi internazionali hanno visto crescere le pressioni per limitare la partecipazione dei team israeliani in segno di protesta contro il conflitto a Gaza. Israele, dal canto suo, respinge le accuse di genocidio e ribadisce di adottare tutte le misure possibili per limitare le vittime civili, accusando Hamas di usare la popolazione come scudo umano. Ma la percezione internazionale resta fortemente polarizzata e lo sport, che teoricamente dovrebbe rimanere neutrale, finisce spesso al centro di questo clima di tensioni.
• Il consenso generale È davvero un passo storico il piano annunciato ieri da Trump e Netanyahu. Esso annuncia la via d’uscita dalla guerra scatenata due anni fa da Hamas con il sostegno dell’Iran, segnando una piena vittoria israeliana. Alla conferenza stampa dei due leader è rapidamente seguita una dichiarazione formale di appoggio dei maggiori stati islamici (Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati, Turchia e anche il più popoloso paese musulmano del mondo, l’Indonesia e il più forte militarmente, il Pakistan). Perfino l’Autorità Palestinese ha dichiarato il suo consenso, anche se l’accordo la taglia fuori dalla gestione di Gaza fino a una riforma profonda e “reale non fatta di parole”, come ha detto Netanyahu ieri sera e cioè comprendente la “fine del pagamento degli stipendi ai terroristi, fine dell’incitamento anti-israeliano nelle scuole e nei media, fine dell’appoggio alla ‘lotta armata’, democratizzazione e fine della corruzione”. In Europa hanno approvato il piano il governo italiano (per primo), quello francese, quello inglese e diversi altri.
• Perché Israele ha vinto Come ha dichiarato il Segretario del gabinetto israeliano Yossi Fuchs, il 7 agosto 2025 il governo aveva stabilito cinque condizioni per porre fine alla guerra: 1. Il ritorno di tutti gli ostaggi, sia vivi che caduti. 2. Il disarmo di Hamas. 3. La smilitarizzazione della Striscia di Gaza. 4. Il controllo di sicurezza israeliano sulla Striscia di Gaza. 5. Un’amministrazione civile alternativa che non sia né Hamas né l’Autorità Palestinese. Tutte questa condizioni sono soddisfatte nel piano di Trump, certamente perché non è uscito dalla solita macchina delle trattative che funzionava cercando di far pressione su Israele per fargli accettare la condizioni di Hamas. Questa volta il processo è stato inverso: c’è stato prima l’accordo con Israele e ora Hamas ha la scelta fra accettarlo o essere completamente distrutta da Israele, con l’approvazione dell’America e senza la protezione dei suoi alleati, a parte l’Iran che in questo memento ha il suo daffare ad affrontare le nuove pesantissime sanzioni. La reazione del gruppo terrorista non è ancora nota. Il piano comunque prevede la sua realizzazione anche in caso di rifiuto di Hamas. Dall’inizio della guerra non era mai stata presentata alcuna proposta che includesse il ritorno di tutti gli ostaggi contemporaneamente, insieme al mantenimento del controllo della Striscia di Gaza da parte delle IDF e alla garanzia della sicurezza dello Stato di Israele. E per quanto riguarda l’opposizione israeliana a uno Stato palestinese, questa è soddisfatta; il piano non lo istituisce, il Presidente Trump ha dichiarato esplicitamente di rispettare la posizione israeliana. Le manovre tentate all’Onu da Francia, Gran Bretagna e altri stati sono rese completamente inutili, il premio che Hamas giustamente vi vedeva per la sua azione criminale non ci sarà. Anche la richiesta di una riforma vera dell’Autorità Palestinese, al momento impossibile, la mette fuori gioco, come Israele voleva. È poi completamente tagliata fuori e si mostra vacua e anacronistica anche tutta la mobilitazione delle sinistre pro Hamas, dalle piazze alla flottiglia. La canea anti-israeliana e antisemita continuerà probabilmente ancora per qualche tempo, ma non ha più una prospettiva di impatto reale.
• Le conseguenze sul Medio Oriente Trump ha molto sottolineato nel suo discorso che il piano non ambisce solo a concludere i combattimenti a Gaza, ma vuole disegnare un nuovo Medio Oriente, con collaborazioni larghe che avranno grandi effetti economici e politici sul mondo intero. Il progetto di un nuovo Medio Oriente pacifico e collaborativo fra stati che si riconoscono a vicenda senza rivendicazioni era del resto implicito nei patti di Abramo, molto citati nella conferenza stampa, e che ora saranno probabilmente nella condizione di espandersi all’Arabia Saudita e più in là “fino all’Iran” se esso cambierà regime e politica, come ha predetto Trump. Proprio contro questi patti e la pace regionale che cercava Israele era stato scatenato il 7 ottobre, con l’intento di portare tutto il mondo arabo e musulmano a combattere e distruggere Israele. Il risultato ora è l’inverso: uno schieramento di tutti i paesi della regione che accettano di stringere una pace con lo Stato ebraico e di ragionare su un futuro comune. Questa è la vittoria più influente per il futuro, perché rompe anche le strategie anti-occidentali di Cina e Russia, con conseguenze che andranno dall’Ucraina a Taiwan. Bisogna dire che questa vittoria diplomatica non sarebbe stata possibile senza le vittorie militari di Israele, senza la distruzione di Hezbollah, senza i bombardamenti che hanno disabilitato il progetto di armamento nucleare dell’Iran, senza il coraggio di sfidare il consenso internazionale e portare vittoriosamente la battaglia su Gaza, prima sull’asse Filadelfia e su Rafah, ora su Gaza City, senza anche l’incursione su Doha, che ha fallito nell’eliminare i capi di Hamas ma è riuscita a mostrare la determinazione di Israele per distruggere le minacce. Tutte queste operazioni sono state scelte imposte da Netanyahu, spesso contro il parere dei vertici della sicurezza e degli amici (o presunti tali) occidentali. Oggi è tutta sua la decisione di aderire al piano di Trump, anche in questo caso contro l’opposizione di parti del governo.
• Le reazioni in Israele Per arrivare a questo punto Israele ha già pagato un grande prezzo di sangue, con tutti i suoi caduti e i danni della guerra, e ne paga un altro dovendo liberare numerosi condannati per delitti di terrorismo anche sanguinosi e rinunciare a parte delle aspettative conseguenti alla vittoria, come la dichiarazione di sovranità su parti della Giudea e Samaria o la conquista definitiva di parti di Gaza che alcuni nella maggioranza volevano. L’esercito resterà a tempo indeterminato una zona cuscinetto e avrà la possibilità di intervenire se vi saranno a Gaza concentrazioni terroristiche, come già accade nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Ma non basta. La presenza di un’amministrazione internazionale diretta da Trump con Tony Blair e di truppe internazionali è una garanzia del processo di deradicalizzazione e di disarmo totale che è necessaria. Il piano ha soddisfatto il Likud, i partiti di riferimento degli Haredim, Gantz, Lapid, Eisenkot. Esiste una maggioranza parlamentare per sostenerlo. Sembra che Netanyahu non lo sottoporrà alla riunione di governo che si terrà questa sera dopo il suo ritorno, ma chiederà una votazione quando si metterà in pratica la liberazione degli ostaggi. Fino al momento in cui scrivo, Ben Gvir e Smotrich non hanno preso posizione. Avevano minacciato di uscire dal governo, ma non è detto che lo faranno. In silenzio sono rimasti anche gli avversari di Netanyahu che vengono da destra, innanzitutto Bennett e Lieberman. Senza dubbio se il piano si realizzerà anche la politica interna israeliana dovrà aprire una nuova pagina.
(Shalom, 30 settembre 2025)
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Il piano di Trump per Gaza: speranza o illusione?
Il corrispondente di Israel Geute Itamar Eichner parla della nuova iniziativa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, di Hamas e del futuro di Gaza.
di Itamar Eichner
GERUSALEMME - In una conferenza stampa dall'atmosfera surreale tenutasi a Washington, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato un nuovo piano di pace per porre fine alla guerra tra Israele e Hamas, basato sulla mediazione del Qatar e dell'Egitto. Il cosiddetto “documento programmatico” comprende 20 punti e mira a consentire il rilascio di tutti gli ostaggi, la smilitarizzazione della Striscia di Gaza e la creazione di una nuova struttura di governo. Mentre il Qatar ha segnalato agli americani che Hamas potrebbe accettare, i leader di Hamas e della Jihad islamica hanno espresso profondo scetticismo. La domanda centrale rimane: Hamas accetterà l'offerta e, in caso affermativo, a quali condizioni?
• I 20 punti di Trump in sintesi
Deradicalizzare Gaza: la Striscia deve diventare una zona libera dal terrorismo che non rappresenti più una minaccia per i paesi vicini.
Ricostruzione per la popolazione: Gaza sarà ricostruita nell'interesse della sua popolazione, che ha sofferto a lungo.
Cessazione immediata delle ostilità: se entrambe le parti acconsentono, la guerra cesserà immediatamente. Israele si ritirerà sulle linee concordate e tutte le operazioni militari saranno sospese.
Rilascio degli ostaggi entro 72 ore – Tutti gli ostaggi, vivi o morti, devono essere restituiti previo consenso di Israele.
Scambio di prigionieri – Dopo il rilascio di tutti gli ostaggi, Israele rilascerà 250 persone condannate all'ergastolo e 1.700 arrestate dopo il 7 ottobre 2023. Per ogni cadavere di ostaggio israeliano saranno consegnati 15 cadaveri palestinesi.
Amnistia e ritiro sicuro – I membri di Hamas che puntano alla convivenza pacifica e consegnano le armi otterranno l'amnistia. Chi desidera lasciare il Paese riceverà un scorta sicura.
Aiuti umanitari – Fornitura immediata di acqua, elettricità, medicinali, generi alimentari, attrezzature ospedaliere e per panifici, nonché attrezzature per la rimozione delle macerie.
Distribuzione da parte di organizzazioni internazionali – Gli aiuti umanitari saranno distribuiti dall'ONU, dalla Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e da altre istituzioni; apertura del valico di Rafah secondo il meccanismo del 19 gennaio 2025.
Amministrazione provvisoria – Un comitato palestinese tecnocratico e imparziale assume l'amministrazione. Supervisione da parte di un “Board of Peace” internazionale presieduto da Donald Trump (con Tony Blair, tra gli altri).
Piano economico di Trump – Un comitato di esperti sviluppa un piano di ricostruzione sul modello delle moderne “città miracolose” del Medio Oriente, al fine di creare investimenti e posti di lavoro.
Zona economica speciale – Istituzione di una zona con vantaggi doganali e commerciali, negoziata con gli Stati partecipanti.
Libera scelta – Nessuno sarà costretto a lasciare Gaza; chi se ne va potrà tornare in qualsiasi momento. Obiettivo: le persone devono rimanere e costruire un futuro migliore.
Nessun ruolo per Hamas – Hamas e altre fazioni non possono assumere alcun ruolo di governo. Tutte le infrastrutture militari (tunnel, fabbriche di armi) vengono distrutte. Disarmo con controllo internazionale, riacquisto e reintegrazione.
Garanzie regionali – Gli Stati partner garantiscono che Hamas e altri gruppi rispettino i loro impegni e che Gaza non rappresenti più una minaccia.
Forza internazionale di stabilizzazione (ISF) – Una forza internazionale sarà di stanza a Gaza, addestrerà le forze di polizia palestinesi e lavorerà a stretto contatto con Egitto, Giordania e Israele. Obiettivo: nessuna fornitura di armi, ma flusso sicuro delle merci.
Ritiro graduale dell'IDF – Israele non annetterà né occuperà in modo permanente Gaza. Ritiro graduale, a seconda dei progressi in materia di sicurezza e disarmo. Un perimetro di sicurezza rimarrà in vigore fino alla completa stabilizzazione.
Il piano procede anche senza l'approvazione di Hamas – Se Hamas ritarda o rifiuta, le misure di aiuto saranno attuate nelle aree controllate dall'ISF.
Dialogo interreligioso – Un processo mira a cambiare gli atteggiamenti e le narrazioni da entrambe le parti, basandosi sulla tolleranza e sulla coesistenza pacifica.
Prospettiva di autodeterminazione: se la ricostruzione procede e l'Autorità Palestinese attua le riforme, potrebbe aprirsi una strada credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese.
Dialogo politico Israele-Palestina: gli Stati Uniti avvieranno colloqui per creare un orizzonte politico a lungo termine per la coesistenza pacifica.
• Un progetto vago o un concetto incompleto? Il piano presentato da Trump è volutamente generico, per consentire ad Hamas di accettarlo senza impegni troppo concreti. Prevede il rilascio di tutti gli ostaggi – vivi o morti –, la distruzione di tunnel, officine di armi e missili, nonché l'istituzione di una nuova amministrazione, possibilmente con il coinvolgimento di un'Autorità Palestinese riformata. Tuttavia, mancano scadenze o tempistiche chiare, il che fa sorgere in molti osservatori il dubbio che si tratti piuttosto di una proposta “incompleta”, volta anche ad alimentare le ambizioni di Trump di ottenere il Premio Nobel per la Pace. Un alto funzionario di Hamas, Mahmud Mardawi, ha dichiarato ad Al Jazeera che le disposizioni sono “troppo simili alla posizione israeliana” e sono “vaghe e prive di garanzie”. Pur non escludendo un dialogo, ha sottolineato che Hamas discuterà prima le proposte con altre fazioni palestinesi. Ziad Nachala, segretario generale della Jihad islamica, ha invece respinto con decisione il piano, definendolo un “accordo americano-israeliano” che riflette gli interessi di Israele e “garantisce il proseguimento degli attacchi contro il popolo palestinese”.
• Punti controversi: Stato palestinese e smilitarizzazione Un punto di conflitto fondamentale rimane la questione di uno Stato palestinese. Già nel suo primo mandato, Trump aveva sollevato la possibilità di uno Stato palestinese con il “piano del secolo” e ora ha nuovamente accennato indirettamente al suo consenso, tenendo sempre conto della posizione negativa del primo ministro Benjamin Netanyahu. Quest'ultimo ha ribadito il suo rifiuto di principio di uno Stato palestinese e ha ringraziato espressamente Trump per non averlo riconosciuto ufficialmente. Anche il ruolo futuro dell'Autorità palestinese rimane incerto. Sebbene il piano preveda una possibile partecipazione dopo riforme globali, Netanyahu ha posto condizioni molto rigide: niente più soldi per i terroristi, niente più incitamento all'odio nelle scuole. Hamas, dal canto suo, ha segnalato che non si piegherà a un processo di disarmo totale. Mardawi ha sottolineato che le armi della “resistenza” sono destinate esclusivamente alla “libertà e all'indipendenza”. Trump, invece, ha precisato che la smilitarizzazione deve comprendere la distruzione di tutti i sistemi di tunnel e delle fabbriche di armi e ha annunciato che, in caso di rifiuto da parte di Hamas, Israele riceverà il pieno sostegno di Washington e degli Stati arabi per “portare a termine la questione”.
• Il Qatar come grande vincitore? Senza il Qatar questo piano non sarebbe stato realizzato. Doha ha svolto un ruolo decisivo di mediazione e, dal punto di vista israeliano, ha persino ottenuto un trionfo diplomatico. Le scuse israeliane dopo un attacco aereo a Doha, percepito come “imbarazzante”, hanno rafforzato la posizione del Qatar come attore chiave in Medio Oriente. I critici in Israele temono addirittura che il Qatar sia il vero artefice dell'iniziativa. Lo stesso Trump ha dichiarato apertamente di voler essere in futuro “l'addetto alle pubbliche relazioni del Qatar”, un'osservazione che ha rafforzato le preoccupazioni a Gerusalemme che Doha possa uscire dal processo come chiaro vincitore.
• Netanyahu sotto pressione o in vantaggio? Per Benjamin Netanyahu il piano è un esercizio di equilibrismo politico. Durante la conferenza stampa è apparso teso, come se fosse parte involontaria di una messa in scena. Trump, dal canto suo, ha approfittato del palcoscenico per criticare sottilmente Netanyahu: “Gli israeliani ne hanno abbastanza della guerra”, ha detto, riferendosi ai numerosi manifesti affissi nelle strade di Israele che chiedono l'immediato rilascio degli ostaggi. Netanyahu ha cercato di presentare l'iniziativa come una conferma dei propri obiettivi di guerra: il rilascio di tutti gli ostaggi e la smilitarizzazione di Gaza. Tuttavia, l'entourage del primo ministro sta già promuovendo il piano come un successo. I collaboratori di Netanyahu sottolineano che si tratta di una svolta strategica: Israele sta uscendo dall'isolamento internazionale, mentre Hamas è sempre più isolato in tutto il mondo arabo e musulmano. Per la prima volta è previsto il rilascio di tutti gli ostaggi, vivi o morti, in un'unica fase, mentre Israele è ancora presente a Gaza. Si tratta di un successo grande e significativo. Inoltre, secondo l'entourage di Netanyahu, il piano non prevede alcun obbligo di creare uno Stato palestinese. La posizione di Israele su questo tema rimane invariata. Anche l'elenco delle condizioni poste all'Autorità palestinese è così severo da apparire praticamente irrealizzabile. È inoltre prevista la costituzione di una forza multinazionale – composta da soldati degli Emirati Arabi Uniti, dell'Indonesia e dell'Azerbaigian – con il compito di disarmare Hamas. Il ritiro israeliano avverrà solo se Hamas sarà effettivamente completamente disarmato.
• Cosa succederà ora? La palla passa ora a Hamas. Il Qatar e l'Egitto continuano i loro tentativi di mediazione, Washington attende una risposta. Un accordo potrebbe portare al rilascio dei primi ostaggi entro pochi giorni. Ma se Hamas reagisse con un “sì, ma”, ci si aspetta una maratona negoziale difficile a Doha. Fino ad allora, la guerra continuerà a imperversare e le famiglie degli ostaggi temeranno per il destino dei loro cari. Il piano di Trump rimane un'impresa rischiosa: potrebbe portare a una svolta o finire nei cassetti della storia come una bolla di sapone politica. Trump lo ha comunque annunciato nella sala da ballo della Casa Bianca, il luogo in cui spesso vengono rilasciate dichiarazioni storiche. Il tempo dirà se questa sarà una di quelle o se sarà presto dimenticata.
(Israel Heute, 30 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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In un video Netanyahu modifica un po’ il piano di Trump
di Sarah G. Frankl
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu elogia il piano in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per porre fine alla guerra a Gaza in una dichiarazione video da Washington, dove, nella stessa giornata, ha affiancato il presidente degli Stati Uniti e ha dato il suo benestare alla proposta. “È stata una visita storica”, afferma. “Invece di essere isolati da Hamas, abbiamo ribaltato la situazione e isolato Hamas. Ora il mondo intero, compreso il mondo arabo e musulmano, sta facendo pressione su Hamas affinché accetti i termini che abbiamo creato insieme a Trump, per riportare indietro tutti gli ostaggi – vivi e morti – mentre l’IDF rimane nella Striscia”. Le sue osservazioni sembrano travisare una parte del piano di Trump, pubblicato online dalla Casa Bianca, poiché non prevede che l’IDF rimanga nella Striscia a tempo indeterminato, ma piuttosto che si ritiri gradualmente e ceda il posto a una forza di sicurezza internazionale. “Chi l’avrebbe mai creduto”, dice della visione di Trump, sostenendo che fino ad ora a Israele era stato detto di accettare le richieste di Hamas e di consentirgli di rimanere e ricostruire all’interno dell’enclave devastata dalla guerra. La persona dietro la telecamera chiede se Netanyahu abbia acconsentito alla creazione di uno Stato palestinese, cosa che il premier nega prontamente. “Assolutamente no”, dice. “Non è scritto nell’accordo”. “Abbiamo detto che ci saremmo opposti con forza a uno Stato palestinese”, aggiunge, sostenendo che Trump è d’accordo con lui sul fatto che sarebbe un “enorme premio per il terrorismo”. Ancora una volta, questa sembra essere una rappresentazione piuttosto distorta del piano, poiché il punto 19 afferma che, dopo la ricostruzione di Gaza e una volta che l’Autorità palestinese avrà attuato le riforme necessarie, potrebbero finalmente esserci le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come aspirazione del popolo palestinese.
(Rights Reporter, 30 settembre 2025)
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Smotrich furioso, ma sì dalle opposizioni
«Un clamoroso fallimento diplomatico, un atto di cecità volontaria che ignora ogni lezione del 7 ottobre». Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, non ha preso bene il piano di pace illustrato alla Casa Bianca da Trump e Netanyahu. Aggiungendo che a suo avviso «finirà in lacrime».
Una reazione del genere da parte del ministro di ultradestra e leader del Partito Sionista Religioso, che potrebbe ora lasciare il governo, era nell’aria. Nel paese prevale però la speranza e molte voci anche dell’opposizione appoggiano l’iniziativa, lanciando messaggi di consenso più o meno esplicito e guardando anche alla prossima contesa elettorale. Tra gli analisti c’è chi ipotizza che possa essere anticipata di qualche mese rispetto all’ottobre del 2026, naturale scadenza dell’esecutivo.
Per l’ex premier Naftali Bennett il sì al piano «è un passo difficile, ma necessario, poiché il governo non è riuscito a raggiungere una decisione con Hamas e a recuperare i nostri fratelli rapiti che languiscono in cattività, e il prezzo che stiamo pagando e continueremo a pagare in vite umane è insopportabile». Bennett, che potrebbe candidarsi alla guida del paese nel 2026, aggiunge che «il difficile capitolo in cui ci troviamo deve chiudersi con il ritorno a casa dei nostri figli e delle nostre figlie e con la transizione verso un nuovo e diverso capitolo di unificazione e ricostruzione dello Stato di Israele». I punti presentati da Trump «non sono perfetti, ma rappresentano la migliore opzione sul tavolo», sostiene Yair Lapid, il leader dell’opposizione, rivendicando di aver elaborato «un piano molto simile» un anno fa. Per il politico di Yesh Atid il progetto di Trump «non è privo di buchi e interrogativi, ma l’esperienza degli Accordi di Abramo dimostra che il metodo di Trump funziona». Tre, nella sua interpretazione, i punti salienti: stabilire un obiettivo ambizioso, fissare una tabella di marcia e definire i dettagli man mano che si procede.
«Si tratta di un accordo sul tavolo da oltre un anno. Dobbiamo sperare che questa volta venga effettivamente attuato, che i rapiti tornino finalmente a casa e che questa guerra politica giunga alla fine», ha dichiarato Yair Golan, il leader dei Democratici, per il quale la guerra di Gaza «ha da tempo cessato di avere uno scopo di sicurezza» e il primo ministro Netanyahu dovrebbe chiedere scusa per il sangue versato «ai rapiti e alle loro famiglie, alle famiglie in lutto e a tutti i cittadini israeliani che combattono da due anni».
(moked, 30 settembre 2025)
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La genialità del piano Trump per Gaza risiede nel suo fallimento inevitabile
Il piano del presidente Donald Trump per porre fine al conflitto di Gaza non è una proposta di pace; è una dichiarazione di guerra all’illusione strategica. Agli architetti del declino a Washington e a Bruxelles, sembrerà un’offerta ragionevole di ricostruzione, aiuti e autonomia. Si torceranno le mani per la frustrazione quando fallirà, ma non ne colgono il punto. La vera genialità del piano non risiede nel suo potenziale di successo, ma nel suo fallimento predeterminato. È un test finale e chiarificatore, progettato per smascherare i nemici di Israele, smascherare i loro protettori e fornire una giustificazione per l’unica politica in grado di portare una pace duratura nella regione. Ovvero che la politica si fonda su una verità semplice e storicamente innegabile: i conflitti non si concludono con negoziati o compromessi quando una delle parti è un nemico implacabile e ideologico. La pace duratura non è il prodotto di un’intesa condivisa; viene imposta a un nemico sconfitto, la cui volontà di combattere è stata spezzata. Il percorso per trasformare Giappone e Germania in pacifiche democrazie dopo la Seconda Guerra Mondiale ha richiesto la loro resa incondizionata e la trasformazione della società. Questa è la realtà necessaria, seppure brutale, che una generazione di politici occidentali si è rifiutata di accettare. A prima vista, la proposta di Trump offre a Hamas un ponte d’oro verso la resa. Offre un cessate il fuoco, un massiccio scambio di prigionieri, l’amnistia per i combattenti che si disarmano e uno sforzo internazionale multimiliardario per ricostruire Gaza. È una via d’uscita da una guerra che Hamas ha iniziato e non può vincere, un’alternativa superficialmente attraente alla propria distruzione. Per la mentalità occidentale, assuefatta alla fantasia che tutti i conflitti siano semplicemente incomprensioni che il dialogo può risolvere, questa sembrerà un’offerta che Hamas non può rifiutare. Ma è proprio questo il fallimento dell’immaginazione che ha portato all’eccidio del 7 ottobre 2023. Hamas non è un attore razionale che persegue obiettivi politici negoziabili; è un culto ideologico della morte, un movimento totalitario la cui intera identità si fonda sul rifiuto genocida dell’esistenza di Israele. Mentre i suoi leader ora affermano che rivedranno il piano in “buona fede”, l’asse del rifiuto ha già mostrato le sue carte. I suoi alleati, come la Jihad Islamica, hanno denunciato la proposta, e i delegati dell’Iran l’hanno definita un “complotto”. Il piano di Trump esige che Hamas si disarmi, rinunci al suo potere e accetti una realtà di coesistenza pacifica. Per Hamas, questo non è un compromesso; è un atto suicida. Il loro rifiuto è una certezza, ed è questa certezza che conferisce al piano il suo vero valore. Quando Hamas dirà di no, metterà il suo principale sostenitore, il Qatar, in una posizione impossibile. Per anni, i qatarini hanno giocato un doppio gioco, presentandosi all’Occidente come mediatori indispensabili e, allo stesso tempo, agendo come principali finanziatori e protettori ideologici di Hamas e della Fratellanza Musulmana globale. Con un’ampia coalizione di ministri degli esteri arabi e musulmani che accolgono pubblicamente con favore l’impegno americano, la pressione sul Qatar affinché consegni un Hamas compiacente è immensa. Il suo fallimento sarà un’umiliazione globale, che lo mostrerà come non disposto o incapace di controllare il suo mandatario. Questo è il momento di spezzare finalmente l’asse Hamas-Qatar. Il “no” di Hamas sarà il momento più chiarificatore di questo conflitto dai tempi dell’eccidio stesso. Eliminerà l’ultima scusa per la codardia morale dell’Occidente. Dimostrerà, una volta per tutte, che il conflitto persiste non per mancanza di concessioni israeliane – che persino il leader dell’opposizione Yair Lapid ora ammette – ma per l’impegno palestinese alla distruzione di Israele. Quando Hamas rifiuterà questa ultima, generosa offerta di resa, fornirà a Israele la chiarezza morale e la legittimità internazionale per offrire l’unica alternativa. La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “finire il lavoro” non sarà più una minaccia; sarà una necessità, e una con il “pieno appoggio” di Trump. Questo piano non riguarda il processo di pace; riguarda la fine del processo di pace, una frode strategica che ha premiato il rifiuto palestinese per trent’anni. Costringendo Hamas a rifiutare una via verso la vita, il piano Trump apre la strada alla necessaria fine del gruppo. È l’atto finale di un teatro dell’assurdo, e il suo fallimento sarà l’apripista per un ordine nuovo e più realistico, costruito non sulle sabbie mobili dell’illusione diplomatica, ma sul fondamento di una vittoria israeliana.
Il liberalismo occidentale ha cercato a lungo di bandire Dio dalla sfera pubblica.
di
Meira Kolatch
(JNS) Nel mondo occidentale è da tempo di moda trattare la fede con una sorta di imbarazzata condiscendenza, come una reliquia di un'epoca più primitiva. Qualcosa che forse era utile per ispirare la grande arte o confortare chi era in lutto, ma che non doveva essere menzionato in ambienti seri, tanto meno in compagnia di generali o capi di Stato. Ad un certo punto, il pensiero moderno è giunto alla conclusione che fosse incivile fare riferimento a Dio. Che le preghiere fossero una cosa da bambini e predicatori televisivi. Che i miracoli fossero metafore. Ma poi è successo qualcosa di straordinario. Nelle ultime settimane, anche il laico più incallito difficilmente potrebbe negare che siamo testimoni di eventi che sfuggono alla politica. Eventi che non possono essere spiegati con la diplomazia o la realpolitik. Eventi che, e lo dico con cautela, sembrano biblici. Il presidente Donald Trump ha neutralizzato il cosiddetto “cuore nucleare” dell'Iran in una delle operazioni militari più audaci della storia recente. In poche ore è stata eliminata una delle più grandi minacce per il popolo ebraico dal 1945. Non solo non ci sono state vittime, ma l'operazione è stata condotta con precisione chirurgica, quasi divina. È stato un miracolo sotto ogni punto di vista. E poi ci sono le immagini: Trump al Muro del Pianto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che parla apertamente della guida divina e l'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, che invoca Dio senza mezzi termini. Non si tratta di impressioni casuali. Sono uomini – con i loro difetti, sì, come tutti i leader – che sembrano essere molto consapevoli di far parte di qualcosa di molto più grande di loro. Che la storia è guidata da una mano che non è la loro. Da decenni il liberalismo occidentale cerca di bandire Dio dalla sfera pubblica. La fede è stata degradata a hobby personale. “Tienilo per te”, ci è stato detto, come se la fede in Dio non fosse altro che un hobby come il birdwatching. Ma il popolo ebraico e anche lo Stato di Israele non esistono per realismo o probabilità. Esistono per l'alleanza tra Dio e il popolo ebraico. Per la promessa. Per i miracoli. Quello a cui stiamo assistendo non è solo un cambiamento geopolitico. È qualcosa di più profondo. Un ritorno al linguaggio della fede. Un ripristino dell'immaginazione morale. Un mondo in cui possiamo dire senza imbarazzo che il faraone ha indurito il suo cuore. Che il male esiste. E che ci sono messaggeri, shluchim, come li chiamano gli ebrei, inviati dal cielo per intervenire. Trump, nonostante tutta la sua eccentricità, comincia ad apparire come uno di loro, proprio come Netanyahu. Non perché siano perfetti, ma perché in questo momento storico stanno colmando il vuoto, tenendo duro e salvando una nazione che ancora una volta si trovava sull'orlo del baratro. L'istinto ebraico, plasmato dall'esilio e dai pogrom, era quello di ritirarsi dalle manifestazioni pubbliche di fede. Attenersi alle regole di un mondo secolare che tollera le menorah come decorazione, ma non come professione di fede. Ma questo non è più sostenibile. La fede non è più facoltativa. È la lente attraverso la quale ora deve essere compresa la realtà. L'Iran non è una minaccia solo per l'uranio. È una minaccia a causa della sua ideologia, radicata nella fede teocratica che il popolo ebraico debba essere sterminato. Combattere un odio simile senza il linguaggio di Dio significa andare in battaglia con un'armatura incompleta. Il nemico è spirituale. E così deve essere anche la risposta. I cristiani in America lo hanno capito da tempo. Camminano coraggiosamente nel mondo con la loro Bibbia. Votano secondo i loro valori. Costruiscono movimenti incentrati sulla preghiera. E non se ne vergognano. È ora che il popolo ebraico, in particolare coloro che ricoprono posizioni influenti, facciano lo stesso. È ora di smettere di sussurrare il nome di Dio come se fosse un peso e di pronunciarlo invece, come un tempo, con riverenza e orgoglio. C'è un motivo per cui il Muro del Pianto è ancora in piedi e un motivo per cui è diventato teatro di questa guerra, una guerra che non è solo per la terra o la sicurezza, ma per la verità, per la luce e per la fede stessa. Quindi sì, diciamolo chiaramente: Dio è tornato. E prima lo accoglieremo nei nostri titoli, nella nostra politica e nelle nostre anime, prima capiremo cosa sta realmente accadendo. Non solo in Israele. Non solo in Iran. Ma nel cuore della storia. Let's make faith great again.
(Israel Heute, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Perché sono sionista e rivendico il mio diritto a esserlo
di Stefano Piazza
Essere sionista, nel 2025, è diventato per molti una colpa da cui difendersi, un’accusa da respingere. Per me, invece, è un’identità che rivendico con fierezza e con piena consapevolezza storica. Sionista non come insulto, ma come definizione legittima di appartenenza a un movimento che ha garantito al popolo ebraico ciò che per secoli gli è stato negato: la possibilità di vivere libero, sovrano e autodeterminato nella propria terra.
Il sionismo non nasce come ideologia di conquista, ma come movimento di liberazione nazionale. È la risposta a secoli di persecuzioni, ghettizzazione e pogrom in Europa e in Medio Oriente, fino all’apice dell’orrore della Shoah. Theodor Herzl, padre del sionismo politico, lo aveva capito già a fine Ottocento: finché gli ebrei fossero rimasti una minoranza dispersa, nessuna emancipazione, nessuna promessa di integrazione avrebbe potuto proteggerli dall’antisemitismo. La storia gli ha dato ragione in modo tragico.
Il ritorno a Sion non è stato un capriccio moderno, ma la concretizzazione di un sogno millenario. Nelle preghiere quotidiane, nel ricordo collettivo, nella cultura ebraica, Gerusalemme non è mai stata solo un simbolo: è stata sempre un luogo vivo, atteso, reclamato. Il sionismo ha trasformato quella speranza in un progetto politico. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, il Mandato britannico e le migrazioni forzate, lo Stato di Israele è stato proclamato nel 1948 e riconosciuto dalle Nazioni Unite come patria del popolo ebraico.
Essere sionista oggi significa, quindi, difendere un diritto fondamentale: che Israele esista e viva in sicurezza. Non è odio verso altri, non è negazione dei diritti palestinesi, non è arroganza coloniale. È la semplice affermazione che il popolo ebraico, come tutti i popoli, ha diritto a un focolare nazionale. Eppure, troppo spesso, il termine “sionismo” viene rovesciato in insulto, in etichetta da additare per delegittimare Israele e chi lo sostiene.
Per questo rivendico il mio diritto a essere sionista. Perché nessuno dovrebbe vergognarsi di difendere l’esistenza di uno Stato nato dopo secoli di oppressione e dopo lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei. Perché non accetto che, nel XXI secolo, si cerchi di negare a Israele ciò che è considerato naturale per ogni altro Paese: la legittimità a esistere e a difendersi.
Essere sionista significa anche rifiutare la manipolazione storica che riduce Israele a un intruso. La guerra del 1948 e i conflitti successivi non sono stati causati dall’idea stessa di Israele, ma dal rifiuto di accettarne l’esistenza. Ancora oggi, i movimenti che invocano la “liberazione della Palestina dal fiume al mare” non chiedono due Stati, chiedono la cancellazione di Israele. Davanti a questa minaccia, il sionismo resta l’unica risposta possibile.
Naturalmente il sionismo, come ogni movimento nazionale, non è stato privo di errori e contraddizioni. Ha conosciuto correnti diverse, dal socialismo dei kibbutz al revisionismo più rigido. Israele, nella sua storia, ha commesso scelte discutibili e politiche contestate. Ma nessuno di questi elementi può cancellarne la legittimità. Non si chiede agli italiani di rinnegare il Risorgimento per gli errori del Regno d’Italia, né ai francesi di vergognarsi della Rivoluzione perché sfociò nel Terrore. Allo stesso modo, il sionismo non si misura solo dalle sue imperfezioni, ma dalla sua ragion d’essere: garantire al popolo ebraico un futuro.
Io sono sionista perché credo che la sicurezza ebraica non sia negoziabile, e perché so che senza Israele gli ebrei del mondo sarebbero ancora una minoranza vulnerabile, facile bersaglio dell’odio. Sono sionista perché non accetto che l’unico Stato ebraico venga trattato con parametri diversi da quelli applicati a ogni altra nazione. Sono sionista perché, in un tempo in cui l’antisemitismo torna a crescere sotto nuove maschere, il sostegno a Israele è una forma di resistenza morale. Il sionismo, infine, non è chiusura ma apertura. Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi, significa piuttosto cercare un equilibrio in cui due popoli possano vivere fianco a fianco. Il rifiuto del sionismo, invece, non porta pace: porta solo all’illusione che un popolo intero possa essere cancellato. E mentre il mondo discute, Hamas giura apertamente di voler ripetere i massacri del 7 ottobre ancora e ancora. Questo è il terrore che Israele e il mondo libero devono affrontare: la minaccia dichiarata di chi non vuole la pace, ma la distruzione. Ed è per questo che io sono, e resto, sionista.
La scorsa settimana, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e il presidente del Paraguay, Santiago Peña, a New York. Durante il primo incontro, il Primo Ministro ha discusso con il presidente Vučić i modi per estendere la cooperazione tra Israele e Serbia, in particolare nei settori della sicurezza e del commercio. “Il primo ministro Netanyahu ha espresso la sua gratitudine al presidente Vučić per il suo incrollabile sostegno agli sforzi di Israele per liberare tutti gli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, incluso Alon Ohel, che detiene la cittadinanza serba”, ha detto una dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu. “Il Primo Ministro ha condiviso con il presidente della Serbia i dettagli della sua conversazione con i genitori di Alon, a seguito della diffusione da parte di Hamas di un video che mostra il loro figlio nella brutale prigionia dell’organizzazione terroristica”, ha aggiunto. Separatamente, Netanyahu ha incontrato il presidente del Paraguay, Santiago Peña. L’ufficio del Primo Ministro ha detto che i due hanno discusso l’espansione della cooperazione tra Israele e Paraguay in una varietà di settori: sicurezza, tecnologia, energia e altro ancora. “Il Primo Ministro Netanyahu ha ringraziato il presidente Peña per il suo incrollabile sostegno a Israele e la sua ferma posizione contro l’antisemitismo e contro il terrore, che è stata espressa anche nelle designazioni del Paraguay dell’IRGC, di Hezbollah e di Hamas come organizzazioni terroristiche”, ha aggiunto la dichiarazione. “Il Primo Ministro ha espresso il suo apprezzamento per la ferma opposizione del Paraguay al pregiudizio anti-israeliano presso le Nazioni Unite, la Corte penale internazionale e altri organismi internazionali”. Durante la sua visita negli Stati Uniti, Netanyahu si è rivolto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York venerdì e lunedì incontrerà il presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca.
(Bet Magazine Mosaico, 29 settembre 2025)
Il ritrovamento comprende circa 100 monete e diversi frammenti di gioielli.
HIPPOS – Durante uno scavo nell'antica città di Hippos, gli archeologi hanno fatto una grande scoperta. Come comunicato la scorsa settimana dall'Università di Haifa, nell'insediamento situato a circa 2 chilometri a est del lago di Tiberiade sono state rinvenute circa 100 monete d'oro e decine di frammenti di gioielli. Gli scienziati datano il ritrovamento all'inizio del VII secolo.
Come riporta il “Times of Israel”, il ritrovamento è stato casuale. Secondo quanto riportato, un collaboratore ha trovato per caso il tesoro di monete con il suo metal detector, lontano dall'attuale scavo, quando ha urtato accidentalmente una pietra con l'apparecchio. Il metal detector ha improvvisamente iniziato a emettere un segnale acustico, segno inequivocabile di aver trovato qualcosa. “Il dispositivo è impazzito”, riporta il quotidiano online citando l'archeologo. E continua: “Non potevo crederci: una moneta d'oro dopo l'altra continuava ad apparire”.
• Monete rare
Gli archeologi ipotizzano che il tesoro appartenesse a un ricco abitante della città, forse un orafo. Quest'ultimo potrebbe aver nascosto le sue monete dai Sasanidi, che conquistarono la città nel 614. Le monete risalgono al periodo bizantino. Alcune sono databili all'epoca dell'imperatore Giustino I (518-527). Le monete più recenti risalgono al primo periodo del regno dell'imperatore Eraclio (610-613).
Il co-direttore dello scavo, Michael Eisenberg, ritiene che la particolarità del ritrovamento risieda soprattutto nella varietà delle monete. Alcune monete sono state trovate finora solo molto raramente in Israele. Nel complesso, gli archeologi sperano che il ritrovamento fornisca nuove informazioni sul periodo bizantino in Israele.
I resti di Hippos si trovano nel Parco Nazionale di Sussita. Si trovano su una collina alle pendici delle alture del Golan, a est del lago di Tiberiade e di fronte al kibbutz Ein Gev. La città fu fondata intorno al 250 a.C. e raggiunse il suo apice durante il dominio romano e bizantino. Dopo la conquista musulmana continuò ad esistere fino a quando non fu distrutta da un forte terremoto.
Sussita è anche considerata una delle dieci città più importanti per i pellegrini cristiani, poiché si presume che sia la “città sulla collina” del discorso di Gesù sul Monte delle Beatitudini. Durante il periodo bizantino era la città cristiana centrale nella regione del lago di Tiberiade e fungeva da sede vescovile. Gli archeologi stanno studiando il sito da circa 20 anni. (mas)
(Israelnetz, 29 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un cambiamento sottile ma profondo nel modo in cui si manifesta l’antisemitismo negli spazi accademici: non più solo episodi clamorosi, volantini offensivi, vandalismi, ma una pressione costante, nutrita di sfumature, ambiguità e silenzi. È quella che Yael Silverstein e C. J. Block, in un articolo pubblicato recentemente sul Journal of Jewish Education, definiscono «antisemitismo contemporaneo» e che la loro analisi intende rendere visibile, costruendo una tassonomia delle esperienze antisemite che si dispiegano tra microaggressioni e manifestazioni più esplicite. Il contributo degli autori si fonda sul quadro teorico delle microaggressioni, uno strumento concettuale che consente di indagare come certe forme lievi, quotidiane e diffuse di discriminazione — commenti ambigui, battute sugli stereotipi, allusioni contestuali, omissioni — possano configurarsi come esperienze antisemitiche reali, anche se non sempre riconosciute come tali da chi le subisce o da chi le osserva. La forza di questa prospettiva è che sposta l’attenzione dall’evento straordinario all’esperienza ordinaria: non conta solo l’attacco violento, ma anche quel piccolo gesto che, ripetuto, logora un’identità, isola una persona, trasmette un senso di non appartenenza. Silverstein e Block elaborano una tassonomia che distingue vari livelli e modalità di antisemitismo contemporaneo nelle università: dalle forme sottili e pervasive, difficili da identificare, fino a manifestazioni più evidenti. La loro ricerca mostra che, tra gli studenti degli atenei nordamericani, gli episodi sottili prevalgono numericamente su quelli espliciti, ma entrambi — quelli “aperti” e quelli “invisibili” — producono effetti negativi sul benessere psicologico, sul senso di appartenenza e sull’impegno accademico. In altre parole, non sono gesti innocui né “deroghe tollerabili”: generano danno reale. Quasi la totalità degli studenti ebrei intervistati dichiara di aver subito almeno un episodio di questo tipo. Questo sforzo di visibilità è rilevante non solo per chi studia l’antisemitismo, ma per chiunque voglia comprendere come oggi si costruiscano le soglie della discriminazione. L’articolo mette in guardia contro la tentazione di minimizzare o ignorare, sotto la scusa della delicatezza o della “buona intenzione”, pratiche che non esplodono in violenza ma che alimentano un clima sistemico di esclusione e marginalizzazione. Non tutte le aggressioni si manifestano con cartelli o scritte: talvolta si insinuano nei silenzi, negli sguardi, nei contesti in cui una battuta può passare per ironia, eppure lasciare un segno. Un’opinione pubblica che accetta l’idea secondo cui “non è nulla di grave” rischia di legittimare comportamenti discriminatori mascherati. Allo stesso modo, le istituzioni accademiche che non riconoscono queste forme come parte integrante del fenomeno antisemita restano cieche a un danno collettivo: indeboliscono la fiducia di chi già si interroga sulla propria appartenenza e falliscono nel promuovere ambienti pluralisti e rispettosi. Ciò non significa che qualsiasi critica al mondo ebraico o commento ambiguo debba essere automaticamente bollato come antisemitismo. Silverstein e Block invitano a un esercizio di discernimento: distinguere tra critica legittima, controversia politica e attacchi che replicano stereotipi, generalizzazioni o forme di isolamento sistemico. Serve uno sguardo sensibile, capace di contestualizzare senza eludere. La rilevanza di questo contributo travalica il contesto accademico: ci ricorda che ogni comunità soggetta a discriminazione vive su un continuum che va dalla microaggressione alla violenza aperta. Negli spazi pubblici, nei media, nelle istituzioni, in ogni ambito della convivenza civile, l’attenzione ai segnali deboli non è secondaria: è parte della difesa di una comunità, ma anche della salute democratica condivisa. In conclusione, ciò che Silverstein e Block ci consegnano è un invito alla vigilanza: l’antisemitismo contemporaneo non è scomparso, si è trasformato in forme più sottili. Riconoscerlo non significa criminalizzare ogni parola, ma assumersi la responsabilità di non sottovalutare gesti che alimentano un clima di esclusione. Un’opinione pubblica matura, un ateneo sensibile, una società viva devono saper vedere l’invisibile — e reagire non solo alla violenza esplosiva, ma anche a quella che si consuma goccia dopo goccia.
(Setteottobre, 29 settembre 2025)
Taranto – Debutta la nuova Sezione ebraica: «La cultura porta cultura»
«La cultura porta cultura. È stato un ottimo inizio». È soddisfatta Eugenia Curiel Demattei, referente della neonata Sezione ebraica di Taranto. Domenica la città pugliese è stata protagonista di una iniziativa per la Giornata europea della cultura ebraica alla biblioteca civica Pietro Acclavio, con interventi dedicati alla storia ebraica nel territorio e al tema che fungeva da filo conduttore della Giornata di quest’anno: il popolo del libro. «C’erano tanti amici con noi e a salutarci è venuto tra gli altri il vicesindaco Mattia Giorno», sottolinea Curiel Demattei, israeliana d’origine, trapiantata da tempo nella città ionica e affiancata ieri in biblioteca dal vicepresidente Ucei Giulio Disegni, venuto a portare la vicinanza dell’ebraismo italiano e a testimoniare l’impegno dell’ente nei confronti del meridione d’Italia. «La Sezione, che dipende dalla Comunità di Napoli, è stata fondata a fine luglio e questo è stato di fatto il nostro debutto, la nostra presentazione alla cittadinanza», spiega la referente. Una presentazione calorosa: «L’ebraismo è un’identità positiva e gioiosa, fatta di stimoli culturali e anche della fragranza della challah, il pane del Sabato, che i nostri ospiti hanno potuto gustare e che certo non mancherò di riproporre in prossime circostanze». Curiel Demattei ha insegnato per anni ebraico a Taranto, a titolo volontaristico. Tra i suoi studenti, afferma, «c’era chi voleva avvicinarsi alle Sacre Scritture nella lingua originale, chi voleva riscoprire la propria identità ebraica, chi voleva andare in Israele per studiare archeologia».
Nel corso dell’evento di domenica sono state messe le basi di un nuovo progetto, in collaborazione con una delle relatrici della giornata: l’insegnante di ebraico Luisa Basevi, anima dell’Ulpan online dell’Ucei. «Chi volesse approcciarsi localmente alla lingua, potrà farlo in biblioteca per le prime quattro-cinque lezioni basiche con me», spiega Curiel Demattei. «Superata questa prima fase ci sarà poi la possibilità di proseguire online con la professoressa Basevi». Alla Giornata tarantina sono inoltre intervenuti Mariapina Mascolo, che ha parlato della presenza ebraica a Taranto dal Tardo antico all’Alto Medioevo, Maurizio Wiesel e Bernardo Kelz, che hanno raccontato la Puglia ebraica come “terra d’arrivo, di partenza, di transito”, Francesco Lucrezi, soffermatosi nella sua relazione su “Oralità e scritture nell’ebraismo”, e il rabbino capo di Napoli Cesare Moscati con una riflessione sull’argomento “Il popolo del libro: la parola e la tradizione”. Disegni condivide la soddisfazione di Curiel Demattei: «La partecipazione è stata buona e l’interesse era tangibile. Si conferma l’importanza di avere dei presidi ebraici in città con un passato fertile e voglia di rilancio. Anche tenuto conto della rilevante presenza, a Taranto e dintorni, di cittadini israeliani». a.s.
La settimana di Israele: il conflitto reale e la propaganda
di Ugo Volli
• Le battaglie in corso La guerra di autodifesa di Israele sul terreno prosegue. A Gaza City l’esercito avanza con cautela per evitare il più possibile perdite di soldati e anche di abitanti civili, ma l’avanzata continua: ogni giorno qualche parte del difficilissimo teatro urbano di questa battaglia finale viene preso e liberato dai terroristi, le fortificazioni di Hamas sia negli edifici più alti sia sottoterra sono smantellate. Ormai oltre 800.000 del milione di abitanti della città hanno accettato l’indicazione delle forze armate israeliane a spostarsi in zone sicure, nonostante i tentativi di blocco da parte di Hamas: sia appelli verbali, sia violenze vere e proprie, inclusa la fucilazione, trasmessa online, di alcuni gazawi colpevoli secondo i terroristi di aver accettato rifornimenti alimentari provenienti da Israele. È caldo anche il fronte aereo con lo Yemen, da dove gli Houthi continuano a sparare razzi e droni contro la popolazione civile israeliana. Uno di questi droni ha colpito un albergo di Eilat, provocando danni e numerosi feriti. Israele reagisce bombardando installazioni militari, depositi di carburanti, porti da cui gli Houthi ricevono rifornimenti militari dall’Iran. Dato che Eilat è sotto attacco e che il pericolo viene soprattutto dai droni difficili da rilevare prima dell’arrivo, mentre i missili sono quasi sempre distrutti fuori dallo spazio aereo israeliano, proprio in questa città sono state installate le prime batterie della nuova difesa laser che Israele ha reso operativa per la prima volta al mondo.
• Le nuove sanzioni all’Iran Il fronte principale nella scorsa settimana è stato però quello delle iniziative politiche, diplomatiche e mediatiche. In questo ambito bisogna distinguere gli atti esclusivamente propagandistici che colpiscono l’opinione pubblica ma hanno scarso impatto, dalle azioni politiche, giuridiche ed economiche vere e proprie, che hanno effetti reali e duraturi. In quest’ultima categoria c’è stata una sola notizia, molto importante e significativa, ma praticamente ignorata dai media: il ritorno delle sanzioni ONU all’Iran che erano state tolte dall’accordo Jcpoa del 2015. In esso era contenuta una clausola “snapback” che permetteva di reintrodurre le sanzioni in maniera pressoché automatica e a prova di veto del Consiglio di Sicurezza se alcuni dei firmatari avessero riconosciuto violazioni gravi ai limiti di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran. Così è accaduto e neppure il tentativo in extremis di Russia e Cina è riuscito a sabotare il meccanismo snapback. Da oggi vigono dunque le seguenti sanzioni:
1. Embargo sulle armi (divieto di vendita, acquisto o trasferimento di armi convenzionali, incluse restrizioni su missili balistici e tecnologie correlate).
Restrizioni su transazioni finanziarie, commercio internazionale e investimenti esteri in settori chiave dell’economia iraniana, come quello energetico (petrolio e gas), bancario e industriale.
Divieti di viaggio e congelamento dei beni detenuti all’estero a individui e entità iraniane coinvolti nel programma nucleare.
Limitazioni all’accesso dell’Iran a materiali, tecnologie e attrezzature utilizzabili per lo sviluppo di armi nucleari, con un rafforzamento delle ispezioni da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.
Controlli e restrizioni su navi e aerei iraniani sospettati di trasportare materiali proibiti o legati al programma nucleare. Sono sanzioni severe, che possono colpire i terzi che commerciano con l’Iran; anche se ci saranno tentativi di aggirarle, esse potranno essere controllate dagli Usa. La ricostruzione militare dell’Iran ne sarà sensibilmente danneggiata.
• I riconoscimenti Degli atti politici e simbolici fa parte certamente il “riconoscimento” di uno stato inesistente come quello “di Palestina”, che è stato proclamato nei giorni scorsi all’Onu da una serie di stati occidentali (Francia, Gran Bretagna, Canada, Australia ecc.). Esso non ha nessuna conseguenza concreta, ed esprime solo una volontà di mostrare pubblicamente (e soprattutto al proprio elettorato interno) l’avversione a Israele. Ci saranno nei giorni prossimi certamente reazioni israeliane a questi gesti, come la chiusura dei consolati a Gerusalemme che servivano soprattutto gli arabi dell’Autorità Palestinese. Seguiranno contro-reazioni, si innescheranno scontri diplomatici e mediatici, ma il senso è chiaro fin da adesso: questi importanti stati, tutti con governi di sinistra o centrosinistra, che si proclamavano amici di Israele, non lo sono più e vogliono che sia chiaro a tutti. Come del resto Spagna, Irlanda, Brasile. Amici importanti restano gli Usa di Trump, l’Argentina, l’India, l’Ungheria, in parte la Germania e l’Italia.
• Il discorso di Netanyahu Questa posizione si è vista anche durante un altro importante atto simbolico, il discorso di Netanyahu all’Onu. Seguendo un copione consolidato, ma anche le istruzioni contenute in una lettera della delegazione dell’Autorità Palestinese rivelata alla stampa, tutti gli stati musulmani, ma anche Cina, Russia e molti stati africani sono usciti dall’aula per non sentire le posizioni israeliane. Per la prima volta ad essi si sono uniti la Gran Bretagna, la Francia, l’Australia, l’Irlanda, la Spagna, il Belgio, la Slovenia, che di solito non partecipavano alla sceneggiata. Il discorso di Netanyahu è stato molto bello e chiarissimo. Partendo dalla situazione dell’anno scorso, ha ricordato le vittorie di Israele e la possibilità di pace che hanno aperto con Siria e Libano e in futuro magari con un Iran liberato dalla dittatura degli ayatollah. Netanyahu ha rivendicato il diritto di Israele all’autodifesa, ha spiegato che bisogna finire il lavoro a Gaza per evitare nuovi assalti terroristici, ha fatto molti paragoni con la situazione degli Usa e in particolare con l’11 settembre, rivolgendosi al pubblico americano. Ma si è indirizzato anche agli israeliani e in particolare agli ostaggi, premettendo a tutto l’impegno alla loro liberazione. Ha escluso la possibilità di lasciare Hamas al governo della Striscia ma anche la sua sostituzione con l’Autorità Palestinese, e in particolare la trasformazione in Stato di quest’ultima, citando i sondaggi che danno l’80% di gradimento a Hamas fra i suoi sudditi. Ha escluso che Israele possa cambiare politica se il suo governo cadesse, sottolineando il consenso al 90% della Knesset per il rifiuto dello “Stato di Palestina”. Ha rinnovato la speranza di un Medio Oriente pacificato e prospero dopo la vittoria di Israele, aprendo agli Stati Islamici moderati e alle iniziative di Trump, con cui dovrà discutere le ultime proposte americane nel corso dell’incontro di lunedì.
• La flottiglia Fra le iniziative propagandistiche che hanno un’eco mediatica di gran lunga superiore alla propria importanza reale, primeggia la “flottiglia” detta Samud (che, pochi lo sanno, è una parola che indica la resilienza o la determinazione – evidentemente quella di Hamas contro Israele). Il rifiuto della proposta israeliana di scaricare nel porto di Ashdod le (pochissime) merci trasportate come “soccorso per Gaza”, come pure quella della Chiesa di lasciarle a Cipro, sempre con la garanzia di consegna ai gazawi, ha messo in luce il progetto esclusivamente politico e non umanitario dell’iniziativa: “rompere il blocco israeliano”. Ma naturalmente si tratta di un obiettivo solo propagandistico, senza alcuna possibilità di realizzazione. La marina israeliana è perfettamente in grado di bloccare senza violenza le barche e di arrestare i loro equipaggi (che entrando in acque di guerra soggetta a blocco navale compiono un reato), come ha sempre fatto. Incidenti potrebbero scoppiare solo se, come accadde alla nave turca “Mavi Marmara” di un’analoga flottiglia nel 2010, ci fosse una resistenza violenta contro i marinai israeliani. È comunque probabile che di questa montatura propagandistica dovremo riparlare perché la flottiglia da settimane sta ritardando il viaggio, in maniera da raccogliere il maggior eco di comunicazione, magari col progetto di far coincidere il suo arrivo e gli arresti col secondo anniversario del 7 ottobre, in maniera tale da coprirne il ricordo.
Discorso di Gesù della fine dei tempi sul Monte degli Ulivi
Quando Gesù Cristo annunciò profeticamente la distruzione del Tempio sul Monte degli Ulivi, le sue parole si adempirono con sconvolgente precisione. Un'interpretazione.
di Roger Liebi
Il martedì che precedette il Venerdì Santo, il Signore Gesù Cristo trascorse l'intera giornata nel Tempio di Gerusalemme. Fu una giornata particolarmente intensa, colma di tensione spirituale e conflitti aperti. Diversi gruppi religiosi ebraici si avvicendarono per sfidarlo: cercarono, con argomentazioni sottili e trappole verbali, di metterlo in difficoltà, di screditarlo davanti al popolo, e, in ultima analisi, di farlo cadere. I Vangeli sinottici riportano in modo dettagliato le dispute di quella giornata, che si estendono in una
narrazione continua e drammatica: (cfr. Matteo 21:23; 23:39; Marco 11:27; 12:44; Luca 19:47; 21:4). Alla fine di quella lunga giornata, si delineò chiaramente un fatto drammatico: la maggior parte dei capi religiosi d'Israele aveva rigettato Gesù come Messia. La sua autorità non fu riconosciuta, la sua missione fraintesa o volutamente respinta. Quando il Signore lasciò il Tempio, rivolse ai Suoi discepoli un annuncio sconvolgente: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata» (Matteo 24:2) (cfr. anche Marco 13:2; Luca 21:6).
Questo annuncio profetico non era solo un monito: era la rivelazione di una catastrofe nazionale imminente, il segno concreto della conseguenza del rifiuto del Salvatore promesso. Il Tempio - cuore pulsante del culto e dell'identità d'Israele sarebbe stato distrutto.
Terminata la sua uscita dal santuario, Gesù e i suoi discepoli attraversarono la valle del Cedron e si diressero verso il Monte degli Ulivi, sul versante opposto. Da quella collina, più elevata rispetto al Monte del Tempio, si può godere la vista più maestosa della spianata sacra. Quel luogo, silenzioso e sopraelevato, divenne teatro di uno dei discorsi più profondi del Signore: il cosiddetto discorso escatologico.
I discepoli, turbati e colmi di domande, si rivolsero al loro Maestro con inquietudine. La sola idea della distruzione del Tempio - centro spirituale e simbolico della nazione - era per loro impensabile. E così, in privato, Gli posero quattro domande fondamentali, domande che toccano il cuore stesso della fede, della storia e del destino dell'umanità.
Queste domande possono essere divise in due gruppi: le domande 1 e 2 riguardano la distruzione del tempio.
Le domande 3 e 4 sono relative alla fine dei tempi.
Le domande 1 e 2 riguardano gli eventi successivi alla prima venuta di Gesù 2.000 anni fa, mentre le domande 3 e 4 riguardano gli eventi precedenti alla seconda venuta di Gesù come Re del mondo.
Le domande 1 e 2 si riferiscono al periodo che la Bibbia descrive come «l'inizio dei tempi», mentre le domande 3 e 4 si riferiscono alla «fine dei tempi». Nessuno dei Vangeli menziona tutte e quattro le domande. È necessario considerare tutti i resoconti sinottici nel loro insieme per ottenere un quadro completo.
• Dall'inizio alla fine In risposta alle domande dei discepoli, il Signore Gesù tenne il cosiddetto discorso del Monte degli Ulivi. Questo discorso è riportato in tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo 24-25; Marco 13; Luca 21), sebbene con accenti differenti, come avviene sempre nei racconti evangelici paralleli.
Prima di rispondere alle quattro domande, il Signore mise in guardia in modo generale i suoi seguaci dal pericolo della seduzione da parte di falsi messia:
«Gesù rispose loro: "Guardate che nessuno vi seduca! Poiché molti verranno nel mio nome, dicendo: 'Io sono il Cristo'; e ne sedurranno molti» (Matteo 24,4-5).
Il termine «Cristo» (dal greco christos) usato nel testo è l'equivalente greco della parola ebraica «Messia». Nella tradizione ebraica, il Messia è il redentore promesso, l'unto da Dio come re, sacerdote e profeta
Secondo Matteo 24:5, dopo la venuta di Gesù Cristo (circa duemila anni fa), sarebbero comparsi molti che avrebbero affermato di essere il compimento delle profezie dell'Antico Testamento riguardanti il Redentore.
In questo punto, il riferimento ai falsi messia non rappresenta ancora un segno della fine dei tempi; tale segno viene menzionato solo in Matteo 24:24 (cfr. anche Marco 13:22). Si tratta invece di un avvertimento generale, valido in ogni epoca, sin dall'«inizio» fino al tempo della «fine».
Il primo vero segno degli ultimi tempi viene introdotto nel versetto seguente, ed è preceduto dalla congiunzione greca «de» (tradotta «ma» o «però»), che lo distingue dall'ammonimento precedente: «Ma voi udirete parlare di guerre e di rumori di guerre ... » (Matteo 24:6).
Come conseguenza del rifiuto del vero Messia, nella storia del giudaismo - dal tempo della venuta di Gesù fino a oggi - sono apparsi più di 50 falsi messia. Alcuni di loro sono riusciti a trascinare grandi masse del popolo ebraico con inganno e seduzione.
Segue un elenco che riporta oltre cinquanta falsi messia comparsi negli ultimi duemila anni, con l'indicazione tra parentesi del periodo in cui sono apparsi (d.C.).
Theudas (44-46) Il Messia d'Egitto (tra il 52-58) Il profeta senza nome (59) Menachem il Galileo (circa 66) Jonathan il Tessitore (dopo il 70) Lukuas (115) Bar Kochba (ca. 100-135 d.C.) Il Messia-Mosè di Creta (440-470) Il Messia della Siria (circa 643) Abu Isa di Isfahan, Persia (684-705) Sereno di Siria (circa 720) Yudghan di Hamad, Persia (circa 800) Mushka (850) Menachem, Kazakistan (1000) Il Messia di Le6n, Spagna (1060) Ibn Ayre di Cordova, Spagna (noo'Chadd, Iraq (1100) Chadd, Irak (1100) Moshe al Dar'l del Marocco (1120) Il Messia illetterato dello Yemen (1192 David Alroy del Kurdistan (1120-1147) Abraham Abulafia, Spagna (1240-1291) Samuel di Ayllon, Spagna (1290) Nissim Ben Abraham, Spagna (1295) Moses Botarel, Spagna (1393) Rabbino Joseph Karo, Spagna (1488-1575) Il Messia dello Yemen meridionale (1495) Asher Lemmlein, Reutlingen (1500-1502) Shlomo Molkho, Portogallo (1500-1532) Ludovico Luis Diaz, Portogallo (1540) Isacco Luria Ashkenazi, Safed/Israele (1534-1572) Chajim Vital Calabrese (1542-1620) Shabbetai Zwi, Smirne (1626-1676) Suleiman Jabal, Yemen (1666) Miguel Cardoso, Creta (1630-1706) Moshe Chajim Luzzato, Padova (1707-1747) Nehemia Chija Chajun, Amsterdam (1650-1726) Jacob Filosofi (ca. 1650-1690) Mordechai Mokia, Eisenstadt (1650-1729) Jacob Querido, Turchia(? - 1690) Berechja (1740; figlio di Filosofi) Baruchja Russo (ca. 1720) Jacob Joseph Frank, Leopoli (1726-1791) Lobele Prossnitz (? - 1750) Rachel Frank (1770) Baal Shem Tov (1700-1760) Rabbino Nachman di Bratslav (1772-1811) Rabbino Israel di Rhuzin (1797-1850) Rabbino Itzak Eizik di Komarno (1806-1874) Shukr Ben Salim Kuhayl I, Yemen (1821-1865) Shukr Kuhayl II, Yemen (1867) Rabbino Menachem Mendel Schneerson, New York (1902-1994)
La tragedia del successo seducente di questi falsi Cristi dimostra che coloro che rifiutano la verità corrono il grave rischio di cadere nell'errore e di diventare vittime autoinflitte della seduzione (cfr. Giovanni 5,43)! Questo è un principio che si applica a tutti.
• Il Discorso sui Templi Nel Vangelo di Matteo, capitolo 24, il Signore Gesù non affronta nel dettaglio le prime due domande poste dai discepoli riguardo alla distruzione del Tempio. Tuttavia, nel passo parallelo del Vangelo di Luca (capitolo 21), vi è un chiaro accento su questo tema.
In effetti, la questione del segno che preannuncia la distruzione del Tempio è menzionata esplicitamente solo da Luca:
«Maestro, quando dunque avverranno queste cose? E quale sarà il segno che queste cose stanno per compiersi?» (Luca 21:7).
Nei versetti successivi (Luca 21:8-11) - così come nei brani paralleli di Matteo 24 e Marco 13 - Gesù descrive i segni che anticiperanno la fine dei tempi, o meglio, l'inizio delle doglie di parto che precederanno l'instaurazione dell'era messianica. Tuttavia, in Luca 21:12 si verifica un'importante inversione cronologica. Il versetto introduce un vero e proprio flashback rispetto agli eventi della fine:
«Ma prima di tutte queste cose ... » (Luca 21:12a).
Questa indicazione temporale va osservata con attenzione. I versetti 12-19 contengono infatti dichiarazioni profetiche che si sono adempiute con precisione tra il 32 e il 68 d.C., nel periodo immediatamente successivo alla risurrezione di Cristo. Un breve parallelo si trova in Marco 13:9-11, ma per il resto, questo passaggio rappresenta un tratto distintivo del Vangelo di Luca.
Consideriamo da vicino le parole del Signore:
«Ma prima di tutte queste cose, metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza.» (Luca 21:12-13).
Nel brano parallelo di Marco 13:9, il riferimento è ampliato con la menzione del Sinedrio:
«Badate a voi stessi, perché vi consegneranno ai tribunali; sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro» (Marco 13:9).
In risposta alla domanda su quando sarebbe stato distrutto il Tempio, Luca 21:12 e seguenti descrivono gli eventi che lo avrebbero preceduto. Solo dopo l'adempimento di questi eventi, la distruzione avrebbe potuto avere luogo.
Gesù annuncia ai suoi discepoli ebrei un tempo di persecuzione intensa. Essa sarebbe provenuta inizialmente dall'interno del giudaismo stesso. Questo è evidente dalla menzione delle sinagoghe come luoghi di giudizio e dal riferimento ai tribunali ebraici - il Sinedrio incluso.
Fino all'anno 70 d.C., i cristiani furono perseguitati in modo particolare dalle autorità ebraiche. Ma con la caduta di Gerusalemme, si verificò un cambiamento profondo: da quel momento, furono gli ebrei stessi a diventare oggetto di persecuzioni, per secoli.
Dopo la crocifissione e la risurrezione di Gesù nella primavera del 32 d.C., nacque la comunità di Dio - la Chiesa. Le sue radici affondano nel giorno di Pentecoste di quello stesso anno, come descritto in Atti 2. In origine, questa comunità era formata esclusivamente da ebrei che avevano riconosciuto in Gesù il Messia.
Nei primi decenni, decine di migliaia di ebrei giunsero alla fede in Cristo (cfr. Atti 2:41; 4:4; 6:7; 21:20). I capitoli da Atti 3 a 8 (tra il 32 e il 33 d.C.) narrano di come i primi ebrei messianici furono perseguitati, trascinati davanti al Sinedrio, imprigionati, e come questa persecuzione si trasformò in occasione di testimonianza.
Stefano fu il primo martire della Chiesa (Atti 7:54-8:1), dopo aver proclamato con potenza la gloria del Messia davanti alla corte suprema d'Israele. A seguito della sua morte, la persecuzione si intensificò, costringendo quasi tutti i cristiani a fuggire da Gerusalemme (Atti 8:1-3). In questo contesto, Saulo di Tarso (il futuro apostolo Paolo) giocò un ruolo centrale nella repressione, conducendo molti ebrei cristiani davanti ai tribunali locali (Atti 26:11).
In Luca 21:12 e Marco 13:9, il Signore non menziona solo sinagoghe e consigli, ma anche interrogatori davanti a governatori e re. Questo trova conferma nel racconto di Atti 23, in cui Paolo deve difendersi davanti al governatore romano Felice (anno 58). Ma il testo biblico parla di «governatori» al plurale: dunque, almeno un altro caso è atteso. E infatti, in Atti 25, Paolo si presenta davanti a Porcio Festo, successore di Felice, nell'anno 59.
Infine, Luca 21:12 menziona anche processi davanti a re, elemento fino ad allora mancante. Ma nell'anno 60, l'apostolo Paolo viene portato davanti al re Agrippa (Atti 26), adempiendo così pienamente la profezia di Gesù.
Anche questo gli diede l'opportunità di annunciare la Buona Novella di Gesù Cristo a quest'uomo di alto rango, proprio come aveva fatto in precedenza con i governatori (Atti 26). Questa sarebbe stata la prova di un processo davanti a un re. Tuttavia, Luca 21:12 parla di «re» al plurale, intendendo almeno due.
Poiché Paolo si era appellato alla corte suprema dell'Impero Romano per ottenere giustizia (Atti 25:11), dovette essere condotto davanti all'imperatore nella capitale dell'impero, al re di tutti i re dell'impero mondiale a lui soggetti (Atti 25:12-28:31). Una volta a Roma, Paolo dovette attendere «due anni interi» (Atti 28:30) per il processo, fino all'anno 62. Secondo il diritto romano, gli accusatori dovevano comparire in giudizio entro «due anni interi», altrimenti l'accusato avrebbe dovuto essere assolto.
A quanto pare, i capi sacerdoti di Gerusalemme che accusarono Paolo non comparvero mai davanti all'imperatore a Roma. Pertanto, nella sua lettera ai Filippesi, scritta intorno al 62 d.C., Paolo poté annunciare la sua imminente assoluzione da parte dell'imperatore Nerone (Filippesi 1:12-14, 26; 2:24). Paolo poté anche rendere testimonianza di Gesù Cristo davanti all'imperatore, il re supremo di Roma (Filippesi 1:12-14).
A quel tempo, tutte le predizioni di Luca 21:12-13 si avverarono. Nell'anno 62, il tempo della distruzione del tempio era già molto vicino, che - come sappiamo a posteriori - sarebbe avvenuta nel 70 d.C. Descrivendo la prima persecuzione dei cristiani e le varie prove che si sarebbero susseguite, il Signore Gesù rispose alla domanda sul momento della distruzione del tempio nel suo Discorso sul Monte degli Ulivi. Mentre Luca 21:12-19 risponde quindi alla domanda «Quando sarà distrutto il tempio?»chiarisce la domanda: «Quale sarà il segno della distruzione del Tempio?»
«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina. Allora quelli che sono in Giudea, fuggano sui monti; e quelli che sono in città, se ne allontanino; e quelli che sono nella campagna non entrino nella città. Perché quelli sono giorni di vendetta, affinché si adempia tutto quello che è stato scritto. Guai alle donne che saranno incinte, e a quelle che allatteranno in quei giorni! Perché vi sarà grande calamità nel paese e ira su questo popolo. Cadranno sotto il taglio della spada, e saranno condotti prigionieri fra tutti i popoli; e Gerusalemme sarà calpestata dai popoli, finché i tempi delle nazioni siano compiuti» Luca 21:20-24.
La storia conferma queste precise previsioni in ogni dettaglio:
La rivolta ebraica contro l'occupazione romana scoppiò nel 66 d.C. Intorno al 73 d.C., fu definitivamente e brutalmente schiacciata dalla drammatica caduta di Masada. Tutto iniziò con una spontanea rivolta popolare. La situazione politica era da tempo estremamente tesa. L'ultimo fattore scatenante per lo scoppio della rabbia popolare ebraica fu quando Gessio Floro, l'ultimo governatore romano a governare la Giudea, iniziò a saccheggiare il tesoro del Tempio a Gerusalemme. Inizialmente, i ribelli ottennero un grande successo. La conseguenza, tuttavia, fu che l'imperatore Nerone inviò Vespasiano, uno dei suoi migliori generali, con un grande esercito nella zona ribelle. All'inizio dell'estate del 67, Vespasiano, l'ex conquistatore della Britannia, arrivò nel nord del paese. Prima, Jodphat in Galilea fu sconfitta dai Romani, poi cadde Gush Halav e, alla fine dell'estate, cadde anche Gamla sulle alture del Golan.
Con la conquista di queste importanti città, la Galilea tornò finalmente sotto il controllo romano. Vespasiano si assicurò poi la Samaria. In Transgiordania, bloccò le strade per la Giudea. Poi si spostò lungo la fascia costiera e conquistò Giaffa, Yavne e Ashdod. Tutti questi eventi si verificarono nel 167.
• Gerusalemme circondata Nel corso del 68, Vespasiano circondò progressivamente il centro della Giudea, la città di Gerusalemme. Ad eccezione di Macheronte, occupò tutta la Transgiordania e la riva occidentale del Giordano, comprese Gerico e Qumran. A ovest, conquistò l'intera Sefela, partendo dalle città costiere.
Anche le città di Lod, Emmaus e Beth Guvrin caddero in mano romana. Furono istituiti posti di blocco lungo le
principali arterie stradali nel resto della Giudea per impedire agli ebrei di lasciare la zona.
Nell'estate del 68, tuttavia, l'imperatore Nerone si suicidò.
Scoppiarono disordini nell'Impero Romano, che rallentarono la lotta contro gli ebrei. Lo stato d'assedio rimase sostanzialmente invariato. Nel luglio del 69, Vespasiano fu proclamato imperatore da gran parte dell'esercito. Successivamente lasciò la zona di guerra per recarsi a Roma, da dove rivendicò il suo diritto al trono in tutto l'impero.
• Fuga in montagna Gerusalemme era ormai circondata da accampamenti militari romani, ma sorprendentemente, le ostilità sembravano essersi fermate. La guerra, pur scoppiata, si era come cristallizzata: per un periodo, tutto rimase in sospeso. Gli ebrei che avevano riconosciuto Gesù come il Messia compresero che ciò che stava accadendo corrispondeva esattamente alle parole da Lui pronunciate:
«Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina» (Luca 21:20).
Alla luce di questa profezia, ebbe luogo un esodo di massa: migliaia di ebrei messianici fuggirono da Gerusalemme e dalla Giudea, obbedendo al comando di Gesù:
«Allora quelli che saranno nella Giudea fuggano ai monti ... » (Luca 21:21a)
Le montagne verso le quali fuggirono erano situate prevalentemente nell'attuale Cisgiordania. Molti trovarono rifugio a Pella, una città della regione della Decapoli, al di là del Giordano. Qui furono accolti e protetti da re Agrippa II, che li riconobbe come cittadini pacifici e non sovversivi.
È significativo ricordare che, in un momento precedente, durante il suo processo riportato in Atti 26, l'apostolo Paolo aveva rivolto ad Agrippa un'appassionata testimonianza del Vangelo. Anche se il re non accolse la salvezza, rispondendo con una nota di sarcasmo: «Per poco non mi persuadi a diventare cristiano!» (Atti 26:28), quel discorso non fu vano. Sebbene Agrippa non si convertì, le parole di Paolo contribuirono a dissipare i sospetti romani verso i cristiani, rendendo possibile, anni dopo, che il re vedesse con favore quegli ebrei credenti fuggiti da Gerusalemme.
Così, quel discorso divenne per molti una salvezza non dell'anima, ma della vita. Il risultato fu straordinario: non risulta che un solo ebreo messianico sia perito durante la catastrofica distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. La loro fede nel Messia Gesù e la fiducia nella Sua parola profetica contenuta in Luca 21 salvarono loro la vita.
Lo stesso Vangelo di Luca fu redatto e pubblicato prima del 62 d.C., ben prima dell'inizio della guerra giudaica del 66-73 d.C.. Ciò significa che la profezia di Gesù era già nota e condivisa tra gli ebrei cristiani in Israele, costituendo una guida vitale nei momenti decisivi. Fu, letteralmente, una parola che salvò.
• Guerra per Gerusalemme Nel luglio del 70 d.C., Vespasiano salì definitivamente al potere come imperatore di Roma. Aveva già affidato a suo figlio Tito il compito di portare a termine la guerra contro gli ebrei. Nella primavera dello stesso anno, Tito raggiunse la zona di guerra, pronto a colpire il cuore della resistenza: Gerusalemme.
L'assalto alla città cominciò da nord, il punto meno fortificato. Il primo obiettivo fu il terzo muro, che una volta abbattuto permise ai legionari romani di conquistare i sobborghi esterni. Dopo questo, anche il secondo muro cadde sotto l'avanzata. Uno degli obiettivi più strategici era la fortezza Antonia, allora occupata dalle forze ebraiche, situata immediatamente a nord della spianata del Tempio. La sua riconquista fu decisiva: da lì, i romani potevano controllare tutto il quartiere del Tempio.
Ancor prima di lanciare l'assalto finale al santuario, Tito intraprese una feroce battaglia per conquistare anche la Città Alta, dove oggi si trova il quartiere ebraico di Gerusalemme. Ma fu durante l'estate del 70, che si consumò il momento più tragico: il 9 di Av, secondo il calendario ebraico, il Tempio prese fuoco.
La data ha un significato profondamente simbolico. Quel medesimo giorno, secoli prima, il Primo Tempio, costruito da Salomone, era stato distrutto dai Babilonesi. Il 9 di Av era già allora il giorno annuale di lutto nazionale per la caduta del santuario. Dopo il 70 d.C., questa data continuò a rappresentare il giorno del ricordo della perdita del Tempio, per oltre 2.500 anni. Una coincidenza tanto potente da diventare, per il popolo ebraico, una ferita sacra nella memoria collettiva.
Deportazione e dispersione Dopo la feroce battaglia per la conquista del Tempio, i Romani si concentrarono sull'eliminazione delle ultime sacche di resistenza nella Città Alta. Una volta completata la presa di quel settore, Gerusalemme fu definitivamente sottomessa. Fu allora che ebbe inizio una delle deportazioni più drammatiche della storia ebraica.
Lo storico Giuseppe Flavio riporta che circa 97.000 ebrei furono fatti prigionieri e condotti in varie regioni dell'Impero Romano per essere venduti come schiavi. Il numero era così elevato che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto l'Impero. Gesù aveva profetizzato con chiarezza questa tragedia:
«Cadranno sotto i colpi della spada, saranno condotti prigionieri fra tutte le nazioni, e Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (Luca 21:24).
Dopo l'anno 70, iniziò un processo di diaspora che avrebbe segnato l'identità ebraica per secoli. Il popolo d'Israele
fu disperso gradualmente in ogni angolo del mondo conosciuto, fino a raggiungere tutti e cinque i continenti.
Era l'inizio di una lunga attesa, un cammino nella storia segnato da sofferenze, persecuzioni e speranze, ma anche da una promessa che, secondo le Scritture, non è venuta meno.
• «Calpestando Gerusalemme» Il Messia Gesù aveva predetto con precisione sorprendente il tragico corso della storia di Gerusalemme, da quel primo secolo fino all'epoca contemporanea.
Le Sue parole, pronunciate secoli fa, mantengono una forza profetica impressionante: «Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei Gentili siano compiuti» (Luca 21:24).
L'espressione «i tempi dei Gentili» si riferisce al periodo durante il quale il dominio politico e militare non apparterrà al popolo eletto, ma sarà nelle mani di imperi umani, spesso oppressivi e idolatri. È il medesimo scenario descritto nei capitoli 2 e 7 del libro di Daniele, dove le visioni del profeta parlano di una successione di regni terrestri, ciascuno con il proprio splendore e la propria ferocia, destinati però a essere sostituiti da un Regno eterno. Secondo questa prospettiva profetica, la dominazione delle nazioni su Israele - e in particolare su Gerusalemme - rappresenta una fase intermedia e necessaria del piano divino. Tuttavia, Gesù non lascia spazio a dubbi: questa fase avrà una fine. Il dominio dei Gentili cesserà quando il Regno di Dio, stabilito dal Messia, verrà manifestato pienamente alla fine dei tempi.
Gerusalemme, dunque, sarebbe stata, e in parte ancora è, sottomessa, vilipesa, calpestata, come segno visibile di un mondo governato da potenze lontane da Dio. Ma, come ogni periodo stabilito da Dio, anche questo ha un termine.
Con Luca 21:24, il racconto evangelico ci riporta nel cuore della fine dei tempi. E a partire dal versetto 25, il discorso si sposta nuovamente, con forza crescente, verso la manifestazione gloriosa del Figlio dell'uomo. Dopo aver parlato di guerre, persecuzioni, cadute e dispersioni, il Vangelo apre lo sguardo alla speranza finale.
«Allora si vedrà il Figlio dell'uomo venire su una nuvola con potenza e grande gloria. Quando queste cose cominceranno ad accadere, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione si avvicina» (Luca 21:27-28).
Queste parole sono tra le più consolanti dell'intero discorso profetico. Quando la paura crescerà, quando i segni dei tempi diventeranno visibili, il credente non è chiamato a piegarsi, ma ad alzare lo sguardo. La venuta gloriosa del Messia non sarà motivo di terrore per i suoi, ma l'inizio della liberazione tanto attesa.
ROMA - In una New York dove Israele ha lanciato una campagna su cartelloni pubblicitari e camion intorno al palazzo delle Nazioni Unite e a Times Square con lo slogan “ricorda il 7 ottobre”, ieri è arrivato il premier Benjamin Netanyahu per parlare al Palazzo di vetro. I delegati Onu di molti paesi (fra cui quelli di Irlanda, Spagna, Belgio e Norvegia) hanno abbandonato l’aula appena il premier israeliano ha iniziato a parlare. Netanyahu aveva una spilla durante il discorso e ha invitato a “inquadrare il codice Qr: vedrete perché combattiamo e dobbiamo vincere”.
Netanyahu ha ricordato che “il 7 ottobre Hamas ha condotto l’attacco peggiore contro gli ebrei dall’Olocausto, ha decapitato uomini, stuprato donne, bruciato bambini vivi, questi mostri hanno preso in ostaggio 200 persone”. Netanyahu ha chiesto il ripristino delle sanzioni contro l’Iran e a Hamas ha detto: “Deponete le armi e liberate tutti i 48 ostaggi o vi daremo la caccia”. Ha liquidato i due stati: “I palestinesi non ci credono, non vogliono uno stato vicino a Israele ma al posto di Israele. Dare ai palestinesi uno stato a un miglio da Gerusalemme dopo il 7 ottobre è come dare uno stato ad al Qaida dopo l’11 settembre a un miglio da New York”.
Netanyahu ha detto a cosa si oppone, ma non abbiamo sentito cosa li sostituirà. Il commentatore israeliano di destra Shimon Riklin ha elogiato un “discorso forte, intelligente e toccante”, per poi aggiungere un ma: “La lacuna del discorso è la mancanza di una spiegazione su dove andremo con Gaza e l’ignorare il grande banco di sabbia in cui Israele è bloccato. Hamas continuerà a rifiutare ogni accordo. Ogni giorno che passa intrappola Israele nell’arena internazionale ed economica. La nostra trasformazione in Sparta continuerà. Il mercato azionario continuerà a crollare. Altri paesi annulleranno i contratti. Hamas vede tutto e ne è felice, desiderando che la situazione continui. Alla fine, forse dal loro punto di vista, tutta la distruzione a Gaza sarà valsa la pena”. L’ex premier inglese Tony Blair potrebbe giocare un ruolo chiave dopo la fine del conflitto a Gaza: il Financial Times rivela che a Blair sarebbe stato proposto, con l’avallo della Casa Bianca, di presiedere in prima persona la Gaza International Transitional Authority dal momento in cui dovessero cessare le ostilità e gli uomini di Hamas fossero costretti a uscire di scena. Netanyahu ha risposto alle accuse di usare la carestia a Gaza: “Né genocidio né fame, evacuiamo civili e li sfamiamo. Quale paese che sta commettendo un genocidio cerca di convincere i civili a recarsi in una zona sicura? Ci accusano di affamare deliberatamente Gaza. Israele sta deliberatamente sfamando Gaza. Se non c’è abbastanza cibo è perché Hamas lo ruba”. Altoparlanti per il discorso di Netanyahu sono stati installati dall’esercito dentro Gaza su camion e gru, per rivolgersi agli ostaggi. “Non vi abbiamo dimenticato, non riposeremo finché non vi avremo riportato a casa” ha detto Netanyahu in ebraico. Il premier israeliano ha accusato i paesi europei: “Quando il gioco si è fatto duro, avete ceduto. Ma non commetteremo un suicidio perché non avete il coraggio di affrontare media ostili e folle antisemite che chiedono il sangue di Israele”. Netanyahu ne ha castigato l’ipocrisia: “Molti leader critici in pubblico, in privato ci ringraziano”.
Da diplomatico, l’isolamento per Israele rischia di trasformarsi anche in militare. Israel Hayom, il giornale vicino a Netanyahu, ieri ha rivelato che gli arsenali dello stato ebraico sono mezzi vuoti, complici la guerra che dura da due anni, ben oltre quanto immaginato inizialmente, e gli embarghi imposti da vari paesi sulla vendita di armi e componenti a Israele. Quella di Netanyahu su Sparta rischia di essere ricordata come un’autoprofezia.
Il Foglio, 27 settembre 2025)
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Le sedie vuote e l’orgoglio di Israele
di Niram Ferretti
Sono due gli elementi che devono essere tenuti bene presenti in merito al discorso che ieri, Benjamin Netanyahu ha tenuto all’ONU. Uno sono le numerose sedie vuote lasciate da molteplici delegazioni, la maggioranza islamiche, l’altro è la determinazione con cui il premier israeliano ha rivendicato i molteplici successi bellici ottenuti da Israele in questi ormai due anni di guerra su diversi fronti: contro Hamas, Hezbollah, l’Iran, nel perimetro siriano, con la caduta di Assad.
Le sedie vuote ci dicono soprattutto di come la propaganda di Hamas, diffusa principalmente da Al Jazeera, la tv del Qatar, grande sponsor della formazione jihadista, e recepita acriticamente da quasi tutto il comparto mediatico occidentale, abbia ottenuto i risultati sperati. Il portavoce di Hamas ha infatti dichiarato come, quelle sedie vuote, illustrino “l’isolamento di Israele e le conseguenze della sua guerra di sterminio”, ed è vero che è stato isolato, è vero che l’incessante criminalizzazione nei suoi confronti lo abbia trasformato oggi, agli occhi di molti, in uno Stato canaglia.
Da una parte abbiamo dunque, plasticamente evidente, la forza della menzogna, il suo riscontro, Hamas può certamente dirsi soddisfatto, dall’altra abbiamo l’evidenza delle parole di Netanyahu che respingono la menzogna con fatti incontrovertibili.
Come si fa a praticare un genocidio, avvisando con largo anticipo la popolazione che si vuole sterminare, di attacchi imminenti, in modo che si possa spostare? come si fa a praticare un genocidio quando si fanno entrare nel luogo in cui dovrebbe essere commesso, 2000,000 di derrate alimentari? Come si fa a praticare un genocidio quando il rapporto tra morti civili e terroristi è sostanzialmente paritario?
Ma questo è solo uno dei punti e non il più saliente del discorso di Netanyahu. Gli altri riguardano i Paesi che, dichiarandosi amici, hanno voltato le spalle ad Israele riconoscendo lo Stato palestinese. Ad essi Netanyahu ha ricordato come uno Stato arabo-palestinese non sia mai venuto in essere a fianco di quello ebraico per il costante rifiuto arabo di farlo nascere, ha ricordato altresì che uno Stato palestinese in miniatura è già nato ed è quello che ha portato al 7 ottobre. Israele non permetterà che, a un miglio da Gerusalemme, possa esserci uno Stato simile, “Non lasceremo che ci venga cacciato in gola”. Hamas e Fatah, ovvero l’Autorità palestinese, sono le due facce della stessa medaglia, entrambe nutrite dal medesimo antisemitismo, dal medesimo rifiuto di Israele, “usano gli stessi testi scolastici di Hamas, esattamente gli stessi. Insegnano ai loro bambini ad odiare gli ebrei e a distruggere lo Stato ebraico”.
L’altro punto riguarda la stessa storia ebraica, rivendicata con forza e orgoglio, di come Israele sia parte intrinseca e ineludibile di una storia che dura da più di tremila anni, non una pietra di inciampo, ma un “faro del progresso, dell’ingegno e dell’innovazione a beneficio di tutta l’umanità”.
Verità abbagliante, troppo, e insostenibile per le forze regressive e distruttive in seno all’Islam, per i nemici del progresso e dello sviluppo, di cui Hamas, che si è congratulato per le poltrone vuote, è uno degli esempi più flagranti.
L’ONU, già definito da Netanyahu, “palude antisemita”, è di nuovo il luogo in cui si palesa quell’avversione nei confronti di Israele cominciata dopo la guerra dei Sei Giorni e continuata nei decenni con un numero esorbitante di risoluzioni contro di esso, che non hanno eguali con quelle nei confronti di nessun altro Stato al mondo.
L’ONU delle poltrone vuote, di cui alcune lasciate da Paesi occidentali, certifica lo smarrimento morale in cui si trova una parte del mondo libero e democratico, quello che dovrebbe essere risolutamente dalla parte di Israele, ma che invece, per interessi economici, abiezione ideologica e meri calcoli politici, ha scelto di fiancheggiare chi ne vuole la capitolazione.
(L'informale, 27 settembre 2025)
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Il coraggio di Israele, baluardo contro l’isteria idolatrica di chi se ne frega di Hamas
di Giuliano Ferrara
A nessuno interessa l’unica notizia che conta, e che sarebbe o si spera sarà l’esito di una strategia di fermezza e di disperata ma inevitabile difesa di Israele dai suoi assassini. La sconfitta di Hamas, ormai accerchiato e incalzato a Gaza City da un esercito che ha perso mille uomini ed evacua i civili dal campo di guerra, il suo disarmo, la sua resa, il rilascio degli ostaggi vivi e morti, per gli abbracci e per i pianti e i kaddish dei superstiti, la ricostruzione di Gaza sotto un’autorità indipendente con i paesi arabi alla testa e l’egida delle Nazioni Unite. La vittoria di Israele e della sua difesa e la sconfitta di Hamas e la distruzione del suo progetto genocidario, compreso in tutto questo la liberazione degli ostaggi, non è oggetto di interesse e di passione. Non gliene frega niente a nessuno tra quanti si considerano gente umanitaria e militanti dell’antisionismo. Il mondo civilizzato in teoria dovrebbe essere in ansia per ricevere questa notizia, e solo per questo, per accogliere i reduci di una prigionia e di una tortura di due anni nei tunnel, cominciate con l’atroce spargimento di sangue e crudeltà perpetrato da Hamas il 7 ottobre. Questa è o dovrebbe essere l’unica cosa che conta e che rimanda una eco ansiosa nell’aula dell’Assemblea generale dell’Onu: una soluzione militare e politica al dramma della Striscia, possibile solo con la distruzione della banda di predoni e assassini che ha aperto questo tremendo, doloroso capitolo di storia della disumanità. Ieri abbiamo invece assistito a uno spettacolo di isteria collettiva, una miserabile messinscena propagandistica, che di questa fermezza è lo specchio deformante, un’isteria di teatro che ha contagiato visibilmente e strumentalmente le diplomazie di mezzo mondo e più di mezzo mondo. Il capo di Israele si è presentato al podio con un QR Code sul bavero della giacca. Lì c’è la documentazione sul 7 ottobre, l’alternativa era vedere per credere oppure non guardare e urlare al genocidio.
L’aula in cui si riuniscono i rappresentanti e funzionari di un’organizzazione sottomessa all’ideologia, dove è l’Iran a dettare le regole in tema di diritti umani, un’agenzia internazionale incapace di fare il suo antico mestiere, ormai una tribuna di propaganda antisemita per moltissimi dei suoi componenti, si è rapidamente svuotata, dimostrando che l’isteria non ha limiti nell’emozione collettiva ma è generata dalla lucida strategia di intervento nei conflitti degli stati dei terroristi del jihad e nel tentativo di ridurre l’unica democrazia del medio oriente allo stato di nazione paria. Nello sforzo di far scattare il piano psicologico esplicito di Hamas, cioè addossare a Israele le sofferenze procurate a Gaza dall’infame progrom del 7 ottobre 2023 e trasformare le vittime di un genocidio storico, la Shoah, e di un genocidio programmato e teorizzato dal jihadismo, dal fiume al mare, negli autori di un genocidio inesistente, che si esprime in modo blasfemo nel conto delle vittime civili di guerra esposte a favore di telecamera da una banda di terroristi che si nasconde in una rete sotterranea e lascia il popolo in superficie come agnello sacrificale della sua causa di morte.
L’unica replica possibile all’isteria di teatro è la fermezza e la tenacia di un popolo e di uno stato e di una comunità combattente che non accettano, come ha detto Netanyahu, quello che sarebbe identico alla formazione di uno stato del terrore di al Qaida a un miglio da New York all’indomani dell’11 settembre. Non dovevano entrare nella Striscia né colpirla, per risparmiare le vittime civili. Oggi Hamas sarebbe il governo legale e diplomaticamente attivo di uno stato fortezza pronto a replicare il 7 ottobre e i palestinesi il suo ostaggio principale e il pegno della sua sopravvivenza come organizzazione terroristica. Non dovevano entrare a Rafah. Sinwar sarebbe vivo e vegeto con tutto il suo stato maggiore. Non dovevano colpire l’Iran, oggi uno stato prenucleare e guerrafondaio che minaccia la pace e l’equilibrio e la vita degli ebrei dell’entità sionista sarebbe forte e autorevole, insieme con i suoi eserciti di riserva come gli Hezbollah e la Siria di Assad. Non dovevano infine entrare nella città di Gaza, nemmeno muovendosi con lenta circospezione e organizzando l’evacuazione di centinaia di migliaia di civili. E così nessuno si augura che accada quello che deve accadere, a nessuno preme la caduta della tirannia di Hamas sui palestinesi, la fine dell’incubo, il rilascio degli ostaggi costretti a scavarsi da soli la fossa nei sotterranei dell’orrore. Quando tutto sarà finito, e il cuore e la testa delle persone che non hanno smarrito il senso etico della storia e non lo hanno barattato per la buona coscienza autogratificante non vedono l’ora che tutto sia finito al più presto, sarà studiata per anni questa guerra idolatrica dell’isteria contro la fermezza e il coraggio di un popolo.
Il Foglio, 27 settembre 2025)
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Netanyahu all’ONU: discorso trasmesso anche a Gaza tra risultati militari e messaggio agli ostaggi
di Samuel Capelluto
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato oggi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in un discorso definito “storico” dall’ufficio del premier, accompagnato da una campagna di comunicazione inedita: la proiezione del filmato delle atrocità del 7 ottobre all’interno del Palazzo di Vetro, l’invito ai delegati a scansionare un codice QR sulla sua giacca per accedere alle immagini del 7 ottobre, e la trasmissione simultanea del suo intervento nella Striscia di Gaza tramite altoparlanti e messaggi SMS inviati direttamente ai telefoni cellulari dei residenti, con traduzione in arabo.
Netanyahu ha aperto il suo intervento ricordando i risultati conseguiti da Israele al cosiddetto “asse iraniano”: «Abbiamo colpito gli Houthi, distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, ucciso Nasrallah, fatto esplodere beeperim a Hezbollah, demolito l’esercito di Assad e annientato l’apparato nucleare e missilistico balistico dell’Iran». Ha poi ribadito: «Cosa resta dell’asse iraniano? Gli Houthi li abbiamo sconfitti, Sinwar non c’è più, Nasrallah non c’è più, Assad non c’è più. I vertici dell’esercito iraniano – non ci sono più».
Nel corso dell’intervento Netanyahu ha cercato di rispondere alle accuse internazionali sul piano umanitario, sostenendo che Israele non sta compiendo un genocidio e che gli sforzi israeliani mirano a ridurre le vittime civili. «700.000 abitanti di Gaza sono già stati evacuati verso aree sicure — ha affermato — quale Paese che commette un genocidio cerca di convincere i civili a spostarsi in zone protette?» Ha poi aggiunto: «Israele ha fatto entrare a Gaza oltre due milioni di tonnellate di cibo… davvero una “politica di fame!”».
Rivolgendosi direttamente agli ostaggi israeliani a Gaza, Netanyahu ha dichiarato in ebraico: «Fratelli nostri, eroi, non vi abbiamo dimenticato neanche per un istante. Non ci fermeremo finché non vi riporteremo tutti a casa – vivi e caduti». Ha poi sintetizzato le condizioni per una rapida fine della guerra: restituzione degli ostaggi, disarmo di Hamas e smilitarizzazione della Striscia.
In un passaggio informale, il premier ha persino proposto al pubblico un’interazione retorica: «Facciamo un gioco, vi faccio delle domande — chi urla “morte all’America”? Iran, Hamas, Hezbollah, gli Houthi o tutti loro?». Dal palco la risposta riportata è stata «tutti loro!», seguita da Netanyahu: «Risposta corretta!».
Ha poi affermato che i palestinesi non vogliono uno Stato accanto a Israele ma «uno Stato al posto di Israele», ricordando che «avevano già Gaza e l’hanno trasformata in una base di terrorismo» e avversando la soluzione dei due Stati: «Dare ai palestinesi uno Stato accanto a Gerusalemme è come dare ad al-Qaeda uno Stato accanto a New York. Non lo permetteremo».
Ampio spazio è stato dedicato anche alla diplomazia regionale. Netanyahu ha detto di credere in un possibile accordo con la Siria «che garantisca la sicurezza delle minoranze come i drusi», e ha rivolto un appello diretto a Beirut: «Se il governo libanese agirà contro Hezbollah potremo raggiungere una pace stabile». Secondo il premier, la vittoria su Hamas «porterà a una massiccia espansione degli Accordi di Abramo».
La trasmissione del discorso ai cittadini di Gaza è stata definita da Netanyahu un messaggio di chiarezza e pressione: «La guerra può finire subito con la restituzione degli ostaggi, il disarmo di Hamas e la smilitarizzazione della Striscia. Chi lo farà, vivrà. Chi non lo farà, sarà perseguitato».
Alcune delle famiglie degli ostaggi hanno reagito con durezza. Einav Tzangauker, madre di Matan, ha dichiarato di aver provato «un pugno nello stomaco» sentendo il premier citare il nome del figlio mentre si trova ancora in prigionia a Gaza: «Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Altre famiglie hanno parlato di «vergogna» per il fatto che il premier abbia menzionato solo parte dei rapiti, quelli vivi, accusandolo di «chiedere al mondo di ricordare il 7 ottobre mentre dimentica 28 ostaggi».
Il discorso ha avuto immediata eco internazionale: fonti riferiscono che, al termine dell’intervento, il presidente americano Donald Trump abbia detto ai giornalisti che «sembra che avremo presto un accordo a Gaza».
La giornata alle Nazioni Unite ha così mostrato un Netanyahu deciso a ribadire la linea di Israele: eliminare Hamas, impedire la nascita di uno Stato palestinese che possa minacciare Gerusalemme e ampliare le prospettive di pace partendo da una posizione di forza. La trasmissione del discorso fino a Gaza, insieme alla proiezione delle immagini del 7 ottobre, ha reso evidente la volontà di parlare non solo ai leader mondiali, ma anche ai nemici sul terreno e ai civili coinvolti.
Ma al centro del messaggio restano soprattutto gli ostaggi: Netanyahu ha ripetuto che Israele non li dimentica neanche per un istante e che ogni sforzo politico e militare continuerà fino al loro ritorno.
(Shalom, 27 settembre 2025) ____________________
«Mentre Matan subisce torture, Netanyahu fa su di lui un giro propagandistico all’ONU». Queste parole della madre di un ostaggio, dette in un'occasione come questa, sono vergognose. Avrebbero dovuto essere respinte con parole severe, non fatte conoscere ad altri. M.C.
Storie di donne al fronte, le soldatesse Idf che abbattono stereotipi e terroristi
“Sentivamo di dover studiare più degli altri. Col tempo i dubbi spariscono”
di Paolo Crucianelli
Dalla danza classica al campo di battaglia. La tenente Sharon. ex ballerina promessa di una compagnia a Barcellona, oggi comanda un plotone del battaglione di ricognizione “Givati”, con le mani sporche di grasso dopo aver aggiustato un motore di un carro armato. Con lei, la tenente Karen, ufficiale di supporto al fuoco nella stessa unità; la dottoressa Abigail, medico nel battaglione di ricognizione “Nahal”; e la maggiore Naomi., ufficiale operativo del battaglione di ricognizione “Haruv”. Quattro donne che hanno scelto la prima linea, demolendo pregiudizi e dimostrando che il coraggio non ha genere. Fino a pochi anni fa, l’idea di soldatesse in ruoli di combattimento suscitava scetticismo. Persino un ministro come Bezalel Smotrich aveva liquidato il tema affermando che «l’esercito deve combattere e vincere, non promuovere il femminismo». Ma la guerra di Gaza ha cambiato tutto: le donne hanno combattuto, guidato operazioni e salvato vite sotto il fuoco. «Un tempo si temeva l’idea di una donna caduta prigioniera», ricorda la maggiore Naomi, 25 anni. «Oggi ci spaventa altrettanto pensare a uomini in cattività. Se la mia vita vale come quella di un uomo, non c’è motivo di escludere le donne dal fronte». Le prove sul campo non sono mancate. La tenente Karen ha coordinato il fuoco di artiglieria dopo un attacco che aveva ucciso tre commilitoni: «Sapevo che se sbagliavo i calcoli avrei colpito i nostri». La dottoressa Abigail ha curato soldati feriti in scontri a fuoco a Gaza e in Libano:«Sul campo non puoi pensare alle emozioni, solo a quello che devi fare». Sharon racconta di aver rimesso in moto un blindato sotto le esplosioni: «L’adrenalina è enorme, ma sai che senza di te quel mezzo non si muove». Entrare in reparti tradizionalmente maschili ha richiesto tenacia. «All’inizio sentivo di dover studiare più degli altri, imparare a memoria ogni vite e bullone», dice Sharon «Poi il comandante mi disse: ti considero una professionista, e da lì ho trovato la mia sicurezza». Anche Abigail ricorda lo scetticismo iniziale di un riservista: «Ma una volta dimostrata l’affidabilità, i dubbi spariscono». Le quattro ufficiali respingono con decisione le accuse di “stragi indiscriminate” che vengono mosse contro l’IDF. «Le procedure di approvazione degli obiettivi sono rigidissime», sottolinea Naomi «Abbiamo evitato di colpire una donna e l’abbiamo accompagnata in un’area sicura: ne sono stata fiera». Karen conferma: «Ogni attacco è chirurgico, supervisionato dai gradi più alti». La guerra le ha fatte crescere. «Dormire due ore a notte, non lavarsi per settimane, vedere la morte da vicino: ci ha temprate», dice Karen «Quando torno a casa capisco quanto sia preziosa la normalità», aggiunge Naomi. Guardando al futuro, i progetti sono diversi: Karen vuole studiare medicina, Sharon sogna una laurea in legge e relazioni internazionali, Abigail punta alla neurochirurgia, mentre Naomi proseguirà la carriera militare come vicecomandante di battaglione. Tutte però condividono la stessa convinzione: «Chi pensa che una donna non possa combattere si sbaglia di grosso. Sul campo conta solo la professionalità».
Cerchiamo di chiarire alcuni punti controversi sul blocco navale israeliano su Gaza, sul perché è legale e sul perché se la flotilla per Gaza forzasse il blocco sarebbe passibile di gravi conseguenze legali anche in Italia (per gli italiani). Partiamo dallo spiegare perché il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo: Secondo la Commissione d’inchiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite sul raid della Mavi Marmara (2010) nota come Rapporto Palmer (dal nome del presidente, Sir Geoffrey Palmer, ex primo ministro neozelandese), il blocco navale israeliano su Gaza è legittimo in base al Diritto Internazionale.
• Cosa ha detto il Rapporto Palmer (2011):
Ha riconosciuto che Israele affronta una seria minaccia alla propria sicurezza da parte di Hamas.
Ha concluso che il blocco navale imposto da Israele a Gaza era, in linea di principio, legale sotto il diritto internazionale, come misura legittima di sicurezza.
Tuttavia, ha criticato duramente l’uso eccessivo e sproporzionato della forza da parte delle forze israeliane durante l’abbordaggio della Mavi Marmara, definendolo “inaccettabile”.
• Cosa dice il Diritto Internazionale Base giuridica: il diritto internazionale dei conflitti armati (DICA)
Le norme rilevanti sono contenute nelle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra e nel Manuale di Sanremo sul diritto dei conflitti armati in mare (1994), che, pur non essendo un trattato vincolante, è spesso richiamato come riferimento.
In linea teorica, un blocco navale può essere considerato legale se:
è pubblicamente dichiarato e notificato;
è efficace (cioè applicato in modo reale e non solo proclamato);
non ha l’obiettivo principale di affamare la popolazione civile;
consente il passaggio di aiuti umanitari essenziali, sotto controllo dell’autorità che impone il blocco;
non discrimina tra Stati neutrali.
Quindi, quando sentiamo qualche esaltato affermare che “la flotilla vuole forzare il blocco illegale israeliano su Gaza” sappiate che dice una sciocchezza. Il blocco navale su Gaza è perfettamente legittimo e rispetta tutti i requisiti richiesti dal Diritto Internazionale. Anzi, per quanto riguarda i cittadini italiani, un amico mi fa notare che commettono un reato penalmente perseguibile in base all’Articolo 244 del codice penale (R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398) [Aggiornato al 03/07/2025] Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra il quale afferma che: Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo. Qualora gli atti ostili siano tali da turbare soltanto le relazioni con un Governo estero, ovvero da esporre lo Stato italiano o i suoi cittadini, ovunque residenti, al pericolo di rappresaglie o di ritorsioni, la pena è della reclusione da tre a dodici anni. Se segue la rottura delle relazioni diplomatiche, o se avvengono le rappresaglie o le ritorsioni, la pena è della reclusione da cinque a quindici anni. Essendoci in Italia l’obbligatorietà dell’azione penale e considerando che c’è almeno una nave da guerra italiana a protezione della flotilla per Gaza, al loro rientro in patria i cittadini italiani dovrebbero essere quantomeno indagati.
• Altre piccole considerazioni:
Uno Stato che vuole fare un genocidio non ci mette due anni per conquistare un terreno di pochi Kmq come la Striscia di Gaza, specie se ha i mezzi militari che ha Israele. Se ci mette tutto quel tempo è perché pone attenzione alla vita dei civili.
Si sente spesso dire che il numero delle vittime civili è “accertato”. È accertato da chi? Come è stato accertato? L’unica fonte fino ad oggi è Hamas, quindi non c’è proprio niente di accertato.
Sempre sulle vittime si sente spesso affermare che sono in maggioranza “donne e bambini”. Non esiste un solo dato che lo provi. Non solo, nel conteggio delle vittime non si fa mai cenno al numero dei miliziani morti, tra i quali ci sono sicuramente molti bambini soldato di Hamas dei quali le tantissime ONG che ci sono a Gaza si guardano bene di parlare. La verità è che nessuno sa quanti sono i morti civili, quanti sono i terroristi, quanti i bambini e quanti i bambini soldato.
(Rights Reporter, 27 settembre 2025) ____________________
Dovranno un giorno vergognarsi tutti coloro che oggi, con consapevole e grave volontà o ignorante e colpevole leggerezza, usano il termine "genocidio" per indicare quello che oggi sta facendo lo Stato d'Israele in difesa della sua esistenza. M.C.
Un report svela i rapporti tra la Flotilla e Hamas
di Nathan Greppi
Un rapporto recentemente pubblicato per conto del governo israeliano, dal titolo Waves of Hate: The Terror Flotilla, ha messo in luce i legami esistenti tra i capi della Global Sumud Flotilla e alti dirigenti di Hamas e della Jihad Islamica palestinese. Sebbene il Comitato Direttivo della Flotilla abbia scelto di presentare Greta Thunberg come testimonial, in realtà l’attivista svedese non sarebbe affatto una figura centrale nell’organizzazione. La vera leadership è composta da individui che presentano legami assai documentati con Hamas e i Fratelli Musulmani.
• I leader Una delle figure chiave dietro la Global Sumud Flotilla è Saif Abu Keshk , palestinese residente a Barcellona e membro del loro Comitato Direttivo. Nel giugno 2025, le autorità egiziane hanno arrestato Abu Keshk, che stava guidando la campagna “Marcia verso Gaza” in collaborazione con Yahia Sarri, un importante esponente religioso dei Fratelli Musulmani in Algeria direttamente legato ad Hamas. Nel 2022, Sarri è stato in contatto diretto con alti funzionari di Hamas durante una conferenza tenutasi in Algeria, in occasione del 68° anniversario dell’inizio della guerra d’indipendenza algerina. All’evento hanno partecipato esponenti di spicco di Hamas, tra cui Zaher Jabarin e Osama Hamdan. Nel gennaio 2024, Sarri ha incontrato in veste ufficiale Basem Naim, alto funzionario di Hamas di cui era il capo del dipartimento per le relazioni internazionali. Questo incontro ha posto le basi per la collaborazione di Sarri con la Marcia su Gaza e la Global Sumud Flotilla.
• Legami ramificati Molti membri del Comitato Direttivo della Flotilla hanno partecipato a incontri con rappresentanti di organizzazioni terroristiche designate come tali dagli Stati Uniti, tra cui Hamas e la Jihad Islamica. Muhammad Nadir al-Nuri, cittadino malese nato nel 1987 in Scozia, fondatore e CEO dell’associazione Cinta Gaza Malaysia, si presenta come un “attivista umanitario”. Al-Nuri ha finanziato diverse iniziative a beneficio di enti di Gaza affiliati ad Hamas. Ad esempio, ha finanziato la costruzione di un edificio per l’Ufficio per lo Sviluppo Sociale, un’istituzione operante sotto il controllo di Hamas. Durante la cerimonia di inaugurazione, al-Nuri è stato fotografato insieme a Ghazi Hamad, un alto funzionario dell’ufficio politico di Hamas, che solo di recente ha dichiarato che con l’ondata di riconoscimenti di uno Stato palestinese da parte dei paesi occidentali si stanno cogliendo i “frutti” degli attacchi del 7 ottobre 2023. Marouan Ben Guettaia è un attivista filopalestinese algerino affiliato al Convoglio Soumoud. Oltre a mantenere legami personali con Sarri, è stato visto incontrare l’alto funzionario di Hamas Youssef Hamdan. Un altro membro del comitato direttivo della Flotilla è Wael Nawar, che in precedenza ha ricoperto il ruolo di coordinatore e portavoce del Convoglio Soumoud. È stato ripreso durante incontri con rappresentanti di Hamas, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e della Jihad Islamica Palestinese. Nel febbraio 2025, Nawar ha partecipato al funerale di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso in un attacco israeliano. Durante l’evento, è stato fotografato mentre incontrava Ihsan Attaya, un alto funzionario della Jihad Islamica Palestinese.
“Meloni all’Onu stigmatizza l’aggressione russa e critica Israele per aver superato il limite”
Dal giornale “La Verità” riportiamo parte del discorso del Presidente del Consiglio alll’Assemblea Generale dell’Onu.
LA GUERRA IN UCRAINA Tre anni e mezzo fa, il 24 febbraio 2022, Mosca ha deciso di attaccare Kiev. Penso che non si sia riflettuto abbastanza sulle conseguenze di quella scelta e su un punto che considero fondamentale: la Federazione Russa, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ha deliberatamente calpestato l'articolo 2 dello Statuto dell'Onu, violando l'integrità e l'indipendenza politica di un altro Stato sovrano, con la volontà di annetterne il territorio. E ancora oggi non si mostra disponibile ad accogliere seriamente alcun invito a sedersi al tavolo della pace. Questa ferita profonda inferta al diritto internazionale, come era prevedibile, ha scatenato effetti destabilizzanti molto oltre i confini nei quali si consuma quella guerra. Il conflitto in Ucraina ha riacceso, e fatto detonare, diversi altri focolai di crisi. Mentre le Nazioni Unite si sono ulteriormente disunite.
IL MEDIO ORIENTE Non è un caso, che Hamas abbia approfittato dell'indebolirsi di questa architettura per sferrare - il 7 ottobre del 2023 - il suo attacco contro Israele. La ferocia e la brutalità di quell'attacco - la caccia ai civili inermi - hanno spinto Israele ad una reazione, in principio, legittima. Perché ogni Stato e ogni popolo ha il diritto di difendersi. Ma la reazione a una aggressione deve sempre rispettare il principio di proporzionalità. Vale per gli individui, e vale a maggior ragione per gli Stati. E Israele ha superato quel limite, con una guerra su larga scala che sta coinvolgendo oltre misura la popolazione civile palestinese. E su questo limite che lo Stato ebraico ha finito per infrangere le norme umanitarie, causando una strage tra i civili. Una scelta che l'Italia ha più volte definito inaccettabile, e che porterà al nostro voto favorevole su alcune delle sanzioni proposte dalla Commissione Europea verso Israele. Però non ci accodiamo a chi scarica su Israele tutta la responsabilità di quello che accade a Gaza. Perché è Hamas ad aver scatenato la guerra. È Hamas che potrebbe far cessare le sofferenze dei palestinesi, liberando subito tutti gli ostaggi. È Hamas che sembra voler prosperare sulla sofferenza del popolo che dice di rappresentare. Israele deve uscire dalla trappola di questa guerra. Lo deve fare per la storia del popolo ebraico, per la sua democrazia, per gli innocenti, per i valori universali del mondo libero di cui fa parte. E per chiudere una guerra servono soluzioni concrete. Perché la pace non si costruisce solo con gli appelli, o con proclami ideologici accolti da chi la pace non la vuole. La pace si costruisce con pazienza, con coraggio, con ragionevolezza. I bambini di Gaza, come quelli che l'Italia sta orgogliosamente accogliendo e curando nei propri ospedali, chiedono risposte che possano migliorare la loro condizione, e su quello siamo impegnati. L'Italia c'è e ci sarà per chiunque sia disposto a lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi, un cessate il fuoco permanente, l'esclusione di Hamas da ogni dinamica di governo in Palestina, il graduale ritiro di Israele da Gaza, l'impegno della comunità internazionale nella gestione della fase successiva al cessate il fuoco, fino alla realizzazione della prospettiva dei due Stati. Consideriamo, in questo senso, molto interessanti le proposte che il presidente degli Stati Uniti ha discusso con i paesi arabi in queste ore e siamo pronti ovviamente a dare una mano. Riteniamo che Israele non abbia il diritto di impedire che domani nasca uno Stato palestinese, né di costruire nuovi insediamenti in Cisgiordania al fine di impedirlo. Per questo abbiamo sottoscritto la Dichiarazione di New York sulla soluzione dei due Stati. È la storica posizione dell'Italia sulla questione palestinese, una posizione che non è mai cambiata. Riteniamo, allo stesso tempo, che il riconoscimento della Palestina debba avere due precondizioni irrinunciabili: il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e la rinuncia da parte di Hamas ad avere qualsiasi ruolo nel governo della Palestina. Perché chi ha scatenato il conflitto non può essere premiato.
(La Verità, 26 settembre 2025) ____________________
E’ un discorso in classico stile democristiano. Non è né critica, né elogio: è rassegnazione. Di più non si poteva sperare. Per la posizione politica internazionale dell’Italia e per lo spessore di conoscenza personale della premier in fatto dipolitica mediorientale. È bene dire questo perché in altri settori di politica interna Giorgia Meloni ha mostrato di avere competenze, capacità e grinta di primo piano, ma la gioventù biologica e anche politica in fatto di questioni estere si fa sentire. Una cosa si potrebbe chiedere: che significa “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi”? Che lavoro c’è da fare? Perché non dire semplicemente che bisogna lasciarli tutti e subito? Aggiungendo magari qualcosa su quello si dovrebbe fare ai rapitori. Qualcosa di più si poteva anche dire sul “principio di proporzionalità”. Che cos’è? E’ difficile da definire con precisione. Effettivamente, l’azione di Israele è molto diversa da quella di Hamas. Per equipararla Israele potrebbe inizialmente catturare a sua volta 250 ostaggi palestinesi a caso, trattarli in modo “proporzionale” a quello usato da Hamas con i suoi, e invitare l’Onu a “lavorare a un piano serio per il rilascio degli ostaggi” di entrambe le parti. È un paragone stupido, è vero, ma è in questo stile che viene trattato in sede pubblica l’aspetto più grave della congiuntura in cui si trova oggi il mondo. M.C.
Il leader palestinese “moderato” si congratula con il terrorista e assassino di bambini rilasciato
“Mahmud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica”.
Mahmud Abbas, presidente dell'OLP e dell'Autorità Palestinese (AP), dovrebbe essere il partner di Israele per la pace. Secondo l'opinione pubblica internazionale, è anche considerato un leader arabo “moderato”. Tuttavia, le sue azioni continuano a smentire questa definizione. Sabato scorso Abbas ha nuovamente incoraggiato il terrorismo antiebraico quando si è congratulato personalmente con un terrorista palestinese rilasciato che era stato incarcerato in Israele per aver ucciso o tentato di uccidere indiscriminatamente uomini, donne e bambini ebrei. L'emittente televisiva pubblica israeliana KAN ha trasmesso la registrazione di una telefonata tra Abbas e Yasser Abu Bakr, condannato nel 2004 a 115 anni di carcere per aver partecipato ad attacchi terroristici in cui sono stati uccisi diversi civili israeliani, tra cui un bambino di nove mesi, e molti altri sono rimasti feriti. Nella registrazione si sente il presidente dell'Autorità Palestinese congratularsi con Abu Bakr per il suo rilascio dal carcere e dirgli che la sua detenzione era stata “per il bene della nazione palestinese”. Abbas ha anche suggerito che la pena fosse eccessiva, come mostra una traduzione della piattaforma di notizie israeliana Walla. Le dichiarazioni di Abbas hanno suscitato condanne da parte di politici israeliani, tra cui il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. "La sua telefonata di stasera a un assassino di ebrei è un campanello d'allarme per coloro che nutrono ancora illusioni sul fatto che l'Autorità Palestinese possa essere un'alternativa ad Hamas nella Striscia di Gaza dopo la guerra. Questo non accadrà. Né a Gaza né in Giudea e Samaria“, ha detto Smotrich. ”Mahmoud Abbas era e rimane un nemico, un sostenitore e promotore del terrorismo, e l'autorità da lui guidata era e rimane un'organizzazione terroristica e non è un ‘partner’". Sabato Gerusalemme ha rilasciato circa 200 terroristi, nell'ambito della seconda ondata di rilasci nella prima fase del cessate il fuoco. Ciò è avvenuto in cambio di quattro soldatesse delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) catturate durante il massacro compiuto dal gruppo terroristico il 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Molti dei terroristi rilasciati sabato stavano scontando l'ergastolo per attacchi mortali contro israeliani. 109 terroristi palestinesi sono stati riportati in Giudea e Samaria, 21 nella Striscia di Gaza e i restanti – circa 70 – sono stati espulsi in Egitto. Secondo i termini dell'accordo, entrato in vigore il 19 gennaio, essi dovrebbero partire per altri paesi. Al Cairo, i terroristi rilasciati sono stati accolti da rappresentanti di Hamas e della Jihad islamica palestinese, sostenuta dall'Iran. Secondo quanto riferito, almeno alcuni dei terroristi si sono poi recati in Qatar. (JNS)
(Israel Heute, 26 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La Repubblica Islamica dell’Iran ha giustiziato almeno mille persone negli ultimi nove mesi, nel più assoluto silenzio delle organizzazioni per la difesa dei Diritti Umani, evidentemente troppo prese a tenere gli occhi su Gaza. A denunciarlo è l’organizzazione umanitaria Iran Human Rights organization (IHR), con sede in Norvegia, la quale fa notare come solo nell’ultima settimana le esecuzioni in Iran siano state almeno 64, con una escalation senza precedenti. Secondo quanto riferito da fonti locali, dopo la guerra dei 12 giorni con Israele, l’Iran avrebbe dato il via ad una campagna di incarcerazioni di massa a danno di dissidenti politici fatti passare per “spie di Israele”. Da due settimane sono iniziate le esecuzioni di massa le quali però vengono indicate come “esecuzioni di trafficanti di droga”, ma secondo le fonti in realtà sarebbero per buona parte dissidenti politici, tra cui molte ragazze e persino alcune donne incinte. Il Presidente iraniano Masoud Pezeshkian, definito da molti un “moderato” e per questo eletto con molti voti di giovani e di donne, risulta in realtà il presidente del record di esecuzioni.
Un eccezionale reperto archeologico risalente al periodo bizantino è emerso in Israele: gli archeologi dell’Università di Haifa hanno scoperto a Sussita, sulle alture del Golan, un tesoro sepolto che comprende 97 monete d’oro puro e decine di frammenti di orecchini in oro decorati con perle, pietre semipreziose e vetro. La scoperta è datata tra il VI e il VII secolo d.C.; uno dei pezzi più rari è una tremissis probabilmente coniata a Cipro intorno al 610, durante il regno dell’imperatore Eraclio il Vecchio e suo figlio, nell’epoca della rivolta contro l’imperatore Foca.
Secondo i ricercatori, il tesoro sarebbe stato nascosto “per paura della conquista sassanide-persiana”. Una curiosità: alcune delle monete recano ancora tracce del sacchetto di stoffa che le conteneva. L’opera degli orefici dell’epoca si rivela particolarmente raffinata nei gioielli: metalli di pregio, pietre, perle… un’eleganza che ha sorpreso gli studiosi.
Sussita, situata con vista sul Mar di Galilea, era nei secoli bizantini un centro cristiano importante, sede vescovile, con numerose chiese; la scoperta amplia la comprensione di come convivevano culture, comunità e pratiche religiose in quell’area tra cristiani, pagani e altri gruppi.
(Shalom, 26 settembre 2025)
Nel momento in cui il conflitto tra Israele e Hamas vive uno dei suoi momenti più incandescenti e drammatici, le parole contano. Eccome se contano. Il report pubblicato da Gariwo, dal titolo «Le dodici tattiche di Israele per negare il genocidio», curato da Gregory H. Stanton del Genocide Watch, non solo travisa la realtà della guerra in corso, ma offre una rappresentazione ideologica e unilaterale, che mina alla radice ogni tentativo di lettura equilibrata della situazione. Ancora più grave: alimenta una narrazione che avvicina, fino a sovrapporre, la legittima critica alle politiche di un governo alla delegittimazione dell’intero Stato d’Israele – operazione in cui è specializzato uno degli autori di punta di Gariwo: Anna Foa. Il report in questione, fin dall’introduzione, inanella un errore dopo l’altro, a cominciare dell’affermazione secondo cui «Gli Stati arabi e altri Stati musulmani rifiutarono la creazione di Israele perché il suo territorio era stato sottratto a parte della Palestina». Le cose sono andate esattamente all’opposto: del territorio mandatario designato per l’erezione di uno Stato ebraico, circa il 72% fu destinato agli arabi e solo il 28% per il popolo ebraico (si rimanda, per quanto concerne la suddivisione del Mandato Britannico per la Palestina, agli ottimi studi di David Elber). Il report prosegue con un secondo errore: «700.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono da Israele sotto la pressione di paramilitari sionisti o delle forze militari israeliane». Come ha scritto Benny Morris, il più autorevole storico del conflitto arabo-israeliano: «Ciò che accadde fu che in alcuni luoghi alcuni ufficiali espulsero della gente, ma in molti casi gli arabi semplicemente fuggirono». Ma veniamo più propriamente al tema del report, ovvero l’accusa di «genocidio» mossa a Israele. Definire le azioni israeliane come «genocidio» è un’accusa gravissima, usarla per descrivere un conflitto armato in cui uno Stato democratico risponde a un attacco terroristico brutale e senza precedenti – il mega pogrom del 7 ottobre 2023, con 1.200 israeliani massacrati, stupri, rapimenti, corpi bruciati – significa svuotare la parola di significato e farne un’arma ideologica. Il diritto internazionale, almeno su un punto, è chiaro: per parlare di genocidio è necessario vi sia l’intento specifico di distruggere un gruppo in quanto tale. Nessuna prova concreta, né dai documenti ufficiali né dalle dichiarazioni delle autorità israeliane né deducibile dalle azioni sul campo delle Forze di Difesa Israeliane, supporta questa accusa. L’articolo, poi, elenca dodici presunte «tattiche» con cui Israele «negherebbe» il «genocidio», ma nessuna di esse viene discussa con rigore o verificata alla luce dei fatti o del diritto. È una lista ideologica, costruita per dimostrare una tesi preconfezionata. Nessuna delle complesse dinamiche del conflitto viene presa in considerazione: il ruolo di Hamas, l’uso sistematico di scudi umani, i tunnel sotto ospedali e scuole, la strategia deliberata di coinvolgere civili per guadagnare il favore mediatico. Tutto viene ricondotto a una narrativa semplicistica e manichea: Israele male assoluto, Palestina vittima sacrificale. Si dimentica, inoltre, che Israele è una democrazia pluralista, dove esiste un’opposizione interna, una stampa libera, un sistema giudiziario che ha più volte limitato l’operato del governo, e una società civile che discute aspramente ogni decisione militare. Non un regime autoritario monolitico. L’operazione a Gaza è condotta in un contesto urbano densamente popolato, contro un nemico che si nasconde tra i civili e usa la popolazione come scudo. Le Forze di Difesa Israeliane adottano misure senza precedenti per minimizzare le vittime civili: volantini, messaggi mirati, corridoi umanitari. Può essere legittimo discutere se queste misure siano sufficienti, ma ignorarle completamente è disonesto. L’articolo cita solo le statistiche fornite dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, o quelle dell’ONU, agenzia inquinata da una storica e documentata pregiudiziale contro lo Stato ebraico, senza mai mettere in discussione la loro attendibilità. Come possiamo parlare di verità se ci affidiamo a una fonte diretta di una parte belligerante, con un evidente interesse a gonfiare i numeri delle vittime civili? Il report raggiunge vette d’involontaria comicità quanto parla di «destino divino di Israele». Secondo l’autore «Gli ebrei ultra-sionisti sostengono di avere un diritto divino a occupare Gaza e la Cisgiordania». Si tratta di una mistificazione, l’area della Giudea e la Samaria, impropriamente nota come «Cisgiordania», appartiene a Israele in base a quanto stabilito dal Mandato Britannico per la Palestina, l’unico documento dotato di un valore giuridico definitivo secondo il diritto internazionale. Occupata illegalmente della Giordania dal 1948 al 1967 e resa judenrein dagli arabi, la «Cisgiordania» viene, oggi, rivendicata su basi storiche e giuridiche, e non in nome di un improbabile «messianismo» ebraico. Il report presentato da Gariwo è un compendio delle peggiori calunnie mai formulate contro Israele. Sebbene il rapporto presenti anche qualche minima e ipocrita raccomandazione per Hamas («Hamas deve liberare ORA tutti gli ostaggi rimanenti»), rimane un testo fondamentalmente antisionista, come dimostrano le seguenti espressioni: «occupazione della Cisgiordania», «persecuzione dei palestinesi», «distruzione genocidaria di Gaza». Ormai, Gariwo, più che di piantare alberi per «Giusti» veri o presunti, si occupa di seminare odio anti-israeliano. Se continuerà su questa linea, il prossimo albero lo dedicherà al «resistente» Yahya Sinwar.
Eilat tra attacchi Houthi e alberghi pieni per Sukkot
Durante l’attacco degli Houthi al centro commerciale di Eilat, l’ultimo di una lunga serie contro Israele, Hanna Gamarsani non è riuscita a distinguere se il rumore che aveva sentito fosse davvero un’esplosione. «Ero seduta fuori, ho sentito l’allarme e sono corsa in hotel», racconta a Ynet. «Poi la deflagrazione sopra la mia testa. Mio marito era con me, ma non sapevo dove andare. Ero sotto shock, tremavo». Gamarsani è rimasta ferita in modo lieve, ma ha descritto soprattutto la paura: «Non sapevo nemmeno se ci fosse un rifugio vicino. Alla fine ci siamo nascosti in un magazzino».
Ieri sera, a causa del drone esplosivo lanciato dallo Yemen, all’ospedale Yoseftal sono arrivate 48 persone: due in condizioni gravi, una in condizioni moderate, le altre con ferite leggere o sintomi d’ansia. «In pochi minuti il pronto soccorso era pieno», ha spiegato a Kan Daher Agbariya, responsabile dei servizi di emergenza. «Siamo addestrati a gestire scenari di maxi-emergenza e possiamo trattare fino a 250 pazienti. Ma la verità è che in un evento con molte vittime Eilat sarebbe scoperta».
Il sindaco Eli Lankri ripete lo stesso timore in tutte le interviste: «Se ci fossero stati più feriti gravi, non saremmo stati in grado di garantire cure adeguate. Le lacune nei servizi sanitari qui sono enormi. Abbiamo i peggiori servizi medici dello stato di Israele. È ora di intervenire». L’ospedale Yoseftal ha 65 posti letto e un pronto soccorso non protetto: i reparti più delicati, come maternità e dialisi, avranno spazi sicuri solo nel 2028.
Negli ultimi mesi Eilat è diventata un fronte sempre più caldo del conflitto. Dall’inizio della guerra a Gaza circa 300 droni sono stati lanciati dai ribelli yemeniti verso la città, dieci dei quali hanno superato le difese e sono esplosi in aree civili. Hanno colpito l’aeroporto Ramon, l’ingresso dell’hotel Jacob e, ieri sera, il cuore del distretto turistico, tra negozi, bar e pub. «Gli allarmi non sempre suonano», ha lamentato una residente della città. «Ieri ho avuto un attacco di panico, correvamo senza sapere dove portarci i bambini. La città non è pronta per la guerra».
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha telefonato al sindaco di Eilat per garantire sostegno e promesso: «Ogni attacco alle città israeliane sarà seguito da un duro e doloroso colpo contro il regime terroristico degli Houthi». L’esercito lavora a rafforzare ulteriormente le difese aeree nel sud e c’è un’indagine aperta per capire perché il drone non sia stato intercettato.
Accanto alla paura, ci sono i danni economici. Thomas Levy, proprietario del bar Bardak, ha visto il locale appena ristrutturato nuovamente danneggiato: «Siamo alla vigilia di Sukkot, dopo due anni di calo la città non regge altri colpi. Le pratiche burocratiche sono lente, sembra che nessuno abbia fretta di rimetterci in piedi», ha spiegato a ynet Levy.
Eppure, sottolinea il quotidiano israeliano, Eilat continua a riempirsi. «Non ci sono cancellazioni per Sukkot», sottolinea Itamar Elitzur, direttore dell’associazione albergatori. «La città è quasi al completo: il 90% delle camere sono piene. È tutto turismo interno. Gli hotel sono preparati, le procedure funzionano, le persone vogliono continuare a vivere». Anche Lior Raviv, ceo della catena Isrotel, conferma: «Nessuno ha lasciato gli hotel dopo l’attacco. È finita, e basta. La gente in Israele è abituata ad affrontare le emergenze».
Gli Houthi hanno preso di mira il simbolo stesso del tempo libero israeliano: il Mar Rosso, il turismo, l’economia stagionale. «I nemici vogliono distruggere la nostra routine», ha commentato il sindaco Lankri. «Il modo migliore per rispondere è non lasciarglielo fare».
Dal libro “Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo” riportiamo un capitolo in cui si commenta il nocciolo del pensiero di Leon Pinsker (1821-1891) sulla “questione ebraica”, così come si presentava nell’Ottocento. Secondo Pinsker, gli ebrei senza terra sono come uno spirito vagante senza corpo, dunque uno spettro. E gli spettri fanno paura. Dare un corpo a questo spirito sarebbe la soluzione, e il corpo non potrebbe essere che la nazione ebraica. Le difficoltà che vede Pinsker a questa soluzione sono soprattutto interne, cioè tra gli ebrei, soggetti a una malattia che non percepiscono e di cui dunque non cercano il rimedio. Quando Pinsker morì, la nazione ebraica non era neppure all’orizzonte, ma ora che è presente, le ragioni che Pinsker porta per sottolineare l’importanza vitale del legame tra spirito e corpo, tra singoli e nazione, possono servire egregiamente come quadro per una riflessione su quello che sta avvenendo oggi tra ebrei, Israele e resto del mondo.
di Marcello Cicchese
Dalla fine dell’Ottocento la cosiddetta “questione ebraica” si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L’emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell’ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
Le cose invece sono andate diversamente nell’Europa dell’est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l’abbandono da parte degli ebrei dell’yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell’impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo “Auto-emancipazione”. Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell’individuazione del motivo profondo che secondo l’autore sta alla base dell’antisemitismo moderno: l’assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
Varrà la pena di fare lunghe citazioni [in colore diverso] di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
“Come nei tempi passati, l’eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo.”
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare “sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l’allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l’originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
“Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo.”
Pinsker parla di “riconquista di un’esistenza nazionale indipendente”, dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell’esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l’assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: “Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli”. La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L’autore non discute su che cosa l’abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
“Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione.”
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall’inesistenza all’esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
“In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
1) cittadini (il popolo);
2) patria (la terra);
3) sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto - secondo Pinsker - che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l’elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte “spirituale”. Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell’impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità “spirituale”, nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
“Questa apparizione spettrale, questa figura d’un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di ‘demonopatia’: ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.”
Per Pinsker dunque l’antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L’emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
“La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E’ il limite massimo della nostra ambizione.
È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
“Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato la nostra vita individuale, abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente.”
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
“Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?”
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Come commento, la riflessione che segue.
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Paura che genera odio
di Marcello Cicchese
Nel pensiero di Leon Pinsker sugli ebrei ci sono due punti singolari che non sembra siano stati ripresi in seguito da altri:
1) intorno agli ebrei vaga un indefinito spirito che misteriosamente li accomuna in qualunque nazione essi abitino e in qualunque epoca essi vivano;
2) questo spirito di una nazione senza corpo appare ai non ebrei come un fantasma che genera paura.
Questo indefinito spirito che tiene unito l’insieme degli ebrei può essere visto come Dio in azione che lavora per mantenere l’impegno che si è dato di mantenere in vita il suo popolo fino alla fine. E il fantasma che inquieta qualcuno è la visione ingannevole di Dio che può apparire a chi non crede in Lui.
Ma se dietro il fantasma c’è Dio, allora la paura che genera è paura di Dio. C’è un tipo di paura che emerge davanti a un vuoto di cui non si vede il fondo, o davanti a un enigma importante di cui non si trova la risposta. La presenza operante di ebrei in una società crea prima o poi il sorgere di un tale enigma. L’enigma sono loro, gli ebrei. Chi sono questi ebrei? perché ci sono? come si definiscono? da dove vengono? che cosa vogliono? Domande su domande, e un’infinità di risposte. Mistero. C’è qualcosa di nebuloso in questo mistero. È qualcosa che si avverte sulla pelle. È paura. Una strisciante, indefinibile paura. L’oggetto misterioso appare escompare. Poi riappare di nuovo mille volte, e sempre in forme nuove. Allora, nel momento in cui riappare e si pensa di poterlo trattenere si prova un tale odio per lui che lo si vorrebbe distruggere non una, ma due, tre, mille volte. E’ paura che genera odio. Pinsker pensava che si potesse far sparire la paura provocata da questo spettro che si aggira nel mondo dando agli ebrei il corpo di una loro nazione. Questo è avvenuto, una settantina di anni fa, ma il fantasma non è sparito. Dopo aver dato alcuni segni premonitori, è improvvisamente riapparso il 7 ottobre, in un diverso formato. Non è più l’assenza di una nazione per gli ebrei che genera paura, ma il contrario. E’ la presenza impudente di una nazione che si ostina a volersi dire ebraica, a essere l’enigma che solleva domande. Cos’è questa nazione? Da dove viene? Perché vuol dirsi ebraica? Perché crea problemi agli altri, prima a quelli intorno e poi a tutto il mondo? E come mai riesce sempre a rimanere in piedi, nonostante tutti tentativi di abbatterla? Domande su domande e un’infinità di risposte. Alla fine non si sa. Mistero. Paura. Odio. L’odio generato da paura è inattaccabile, impenetrabile da qualsiasi pensiero di ordine razionale. Adesso abbiamo i bambini di Gaza. Su quelli non si discute. Del resto è chiaro: chi è che li uccide senza pietà? Sono loro, gli ebrei. La loro nazione, Israele. E chissà che cosa potrebbero fare anche agli altri, questi ebrei. Anche a noi. Anche a me. C’è da aver paura, a sapere che esiste uno stato degli ebrei. Si capiscono allora i poveri palestinesi; e si capisce un movimento di liberazione come Hamas, che ha cercato di distruggere questo odioso stato che uccide i bambini e dare finalmente uno stato a questi poveri palestinesi. Ma in fondo è vero: chi odia Israele, anche se non lo fa per paura, ha un motivo serio per averla. Perché alla fine di tutto sarà proprio la nazione di Israele quella di cui si servirà Dio per colpire le nazioni che si saranno mosse contro Gerusalemme. Certo, prima regolerà i conti interni con la Sua nazione, e quelli alla fine andranno a posto.
Andranno a posto anche quelli esterni, con le altre nazioni. Ma la cosa sarà per loro molto, molto dolorosa. L’odio di adesso contro Israele può comprendersi allora come anticipazione della paura che coglierà in quel giorno tutte le nazioni che si saranno opposte alla volontà di Dio che, senza consultarsi con nessuno, ha scelto Israele. Infatti:
In quel giorno avverrà che io farò di Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli; tutti quelli che se la caricheranno addosso ne saranno del tutto lacerati, e tutte le nazioni della terra si raduneranno contro di lei (Zaccaria 12:3). In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo a della legna, come una torcia accesa in mezzo a dei covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti; Gerusalemme sarà ancora abitata nel suo proprio luogo, a Gerusalemme (Zaccaria 12:6). In quel giorno avverrà che io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme (Zaccaria 12:9) Questa sarà la piaga con la quale l'Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, gli occhi si scioglieranno nelle loro orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca (Zaccaria 14:12).
Dunque è vero, Israele fa paura. E’ paura di Dio che genera odio per Israele.
(Notizie su Israele, 25 settembre 2025)
Indignazione per un cartello affisso in un ristorante di Fürth
Dopo il cartello affisso in un ristorante che dichiarava indesiderati i cittadini israeliani, la comunità ebraica di Fürth parla ora di antisemitismo e valuta di intraprendere azioni legali. In precedenza si era verificato un caso simile a Flensburg.
"Cari clienti, amiamo tutti, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere in nessun caso delle vittime. Siamo una squadra internazionale. Facciamo parte della società civile e quindi non resteremo a guardare come il resto del mondo. Ecco perché abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non è politica, né tantomeno razzista. I cittadini israeliani non sono benvenuti in questa struttura. Naturalmente, saranno di nuovo benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore".
La comunità ebraica di Fürth protesta contro un cartello temporaneo affisso in un ristorante locale che dichiarava “cittadini israeliani” non graditi. “Una simile esclusione è semplicemente vergognosa e terribile”, ha dichiarato la presidente Julia Tschekalina alla Deutsche Presse-Agentur. L'incidente è antisemita e le ricorda il 1933. “Allora è iniziato tutto così”. Ha annunciato, tra l'altro, di voler valutare la possibilità di sporgere denuncia e di coinvolgere il commissario bavarese per l'antisemitismo Ludwig Spaenle. Lo stesso giorno Spaenle ha criticato un incidente simile: "È inconcepibile. Un negozio di musica chiede a un'orchestra israeliana di valutare la situazione nella Striscia di Gaza per poterle noleggiare un amplificatore“, si legge in un comunicato. ”Per lui è come un esame di coscienza pubblico". Secondo Spaenle, il negozio di musica dell'Alta Baviera sostiene quindi gli obiettivi del movimento antisemita Boycott, Divestment and Sanctions (BDS). Egli ha sottolineato: “Questa è una forma di antisemitismo”. A Fürth, il gestore del ristorante ha confermato alla dpa, su richiesta, l'esistenza del cartello criticato dalla comunità ebraica. Tuttavia, ha affermato che non era antisemita e non conteneva alcuna offesa. Il cartello, che era stato affisso solo all'interno del locale, è stato rimosso dopo due o tre ore. Il gestore del ristorante nega l'accusa di antisemitismo "Amiamo tutte le persone, indipendentemente dalla loro provenienza. Crediamo che i bambini di questo mondo non debbano essere toccati in nessuna circostanza. Siamo un team internazionale. Apparteniamo alla società civile e quindi non resteremo a guardare inerti come il resto del mondo. Per questo abbiamo deciso di protestare. La nostra protesta non ha carattere politico, tanto meno razzista“, si legge nel manifesto secondo una foto diffusa dalla comunità ebraica. E poi: ”I cittadini israeliani non sono i benvenuti in questo locale. Naturalmente saranno nuovamente i benvenuti non appena decideranno di aprire gli occhi, le orecchie e il cuore". Tschekalina ha affermato che è ovviamente possibile criticare l'azione militare del governo israeliano, cosa che fanno anche gli stessi israeliani. Tuttavia, il manifesto emargina un intero popolo. Secondo la procura, sussiste il sospetto “che il manifesto abbia offeso la dignità umana degli ebrei che vivono in Germania, in quanto questi ultimi sono stati maliziosamente disprezzati a causa della loro appartenenza al giudaismo”.
(Die Welt, 24 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Siria-Israele, si avvicina l’accordo sulla sicurezza militare. Le nuove garanzie per i drusi
Una luce in mezzo al buio per Tel Aviv: l’intesa potrebbe anticipare una vera collaborazione per la pace. Lo Stato ebraico si ritirerebbe parzialmente dalla zona cuscinetto, in cambio la rinuncia siriana al Golan
di Giuseppe Kalovski
TEL AVIV - Un nuovo anno pieno di paure per gli ebrei nel mondo sta arrivando, ma forse qualcosa di nuovo e di positivo timidamente si affaccia sullo scenario mediorientale, anche se viene taciuto o tenuto “low profile” dalle piattaforme mediatiche. Nei prossimi giorni, all’Assemblea Generale dell’Onu, verrà annunciato, a meno di improbabili ma possibili colpi di scena, l’Accordo di sicurezza (non un accordo di pace o di normalizzazione) tra Israele e il nuovo regime siriano guidato dall’ex terrorista sanguinario Ahmed Al-Shara’, più comunemente conosciuto con il nome di battaglia Al Jolani. Dopo aver fatto visita negli Usa da Trump, in Francia da Macron e in Russia da alti funzionari governativi, Al Jolani si accinge a parlare dal palco delle Nazioni Unite e se verrà firmato questo Accordo di Sicurezza tra Israele e la Siria è lecito e auspicabile pensare che possa essere il preludio, l’anticamera di un vero accordo di pace. Israele, tramite il suo ministro per gli Affari strategici Ron Dermer, ha posto delle condizioni prima di essere pronto a firmare questo storico accordo. Lo Stato Ebraico sarebbe disponibile a un ritiro parziale lasciando solo 2 km di profondità per la “zona cuscinetto” oltre il confine con la Siria ma non disponibile a ritirarsi dal Monte Hermon perché di vitale importanza strategica. Israele chiede anche una no fly zone a sud ovest di Damasco in direzione Israele e un corridoio aereo per i jet israeliani da utilizzare in caso di nuova guerra contro l’Iran. Al Jolani, tramite il suo ministro degli Esteri, aveva già espresso il suo assenso informale alla rinuncia della sovranità siriana sulle alture del Golan occupate da Israele nella guerra dei Sei Giorni nel 1967 e annessa nel 1981. Questa rinuncia, se confermata, avrebbe come conseguenze due effetti estremamente positivi: il primo di ordine meramente geopolitico, perché ufficializzerebbe una situazione che ormai esiste da quasi sessanta anni, cancellando di fatto la risoluzione dell’Onu che dichiarò nulla l’annessione israeliana. Il secondo effetto sarebbe quello di tranquillizzare i drusi che abitano nelle Alture del Golan, circa 25.000, e offrire loro una definizione dello status di cittadini. Attualmente solo il 30% dei drusi del Golan hanno la cittadinanza israeliana, gli altri sono apolidi. La comunità drusa, pur avendo una forte identità culturale e religiosa, è leale e integrata e vive in modo armonioso accanto agli ebrei, e chiede protezione allo Stato Ebraico. Lo scempio nella città drusa di Sweyda, in Siria, perpetrato dai beduini e dalle fazioni islamiche radicali nei confronti di uomini, donne e bambini drusi provocando 1400 morti e un numero imprecisato di donne in ostaggio, ha fatto salire alla ribalta in Israele, ma molto meno in Italia e nel resto dell’Occidente la questione drusa in Siria. I drusi sono una popolazione pacifica di origine araba che ha abbandonato l’Islam nel 1017 costituendo una religione che ha elementi cristiani ed islamici. Pur avendo le caratteristiche proprie di un popolo, non hanno velleità territoriali di autodeterminazione; si adattano pacificamente al governo dello Stato nel quale vivono. È scontato che un regime islamico sunnita come quello che si è instaurato cacciando Assad, l’Iran e i russi dal territorio siriano rappresenta, come si è tragicamente visto subito, un grave pericolo per la comunità drusa. Nell’accordo di sicurezza, Israele chiede anche garanzie per l’incolumità dei drusi siriani; l’Idf, come ha già fatto qualche mese fa, è pronta a difenderli e a proteggerli. Bisogna anche considerare che i 25.000 drusi del Golan occupato da Israele hanno moltissimi parenti in Siria e a Sweyda in particolare: le autorità druse hanno chiesto corridoi umanitari con Israele e una maggiore solidarietà operativa da parte israeliana nei confronti dei loro fratelli siriani perseguitati e trucidati. Israeliani e drusi si considerano fratelli e questo sentimento di estrema vicinanza obbliga giustamente lo Stato Ebraico a difendere questa pacifica e orgogliosa popolazione. Majdal Shams, villaggio druso ai piedi del Monte Hermon, è tristemente famoso per la strage dei 12 bambini drusi uccisi da un razzo di Hezbollah il 27 luglio del 2024. Quella orribile strage ha paradossalmente rafforzato i legami con il governo israeliano. Basta andare a fare una visita in quei luoghi e si può toccare con mano l’accoglienza, l’ospitalità, la gentilezza di questa popolazione che desidera solo di poter vivere liberamente, come già avviene in Israele. I drusi sono l’esempio, la testimonianza della volontà di pace e di convivenza da parte di Israele con chiunque non desideri annientarla. La comunità drusa in Israele può esprimersi liberamente a qualsiasi livello: è rappresentata in Parlamento come il resto degli arabi israeliani con un forte senso di lealtà nei confronti dello Stato Ebraico. Ma in un mondo che parla a sproposito di genocidio, di un assurdo riconoscimento unilaterale dello stato di Palestina senza neanche chiedere come precondizione il diritto all’esistenza di Israele, la recente mattanza di Sweyda è passata quasi inosservata. Un accordo di sicurezza con un inaffidabile ex terrorista diventato premier siriano appare, in un contesto così assurdo, un lampo di luce nell’oscurità delle cancellerie occidentali.
HERRENBERG – Il 7 ottobre ricorre il secondo anniversario dell'attacco terroristico di Hamas con il massacro nel sud di Israele. Esso ha scatenato la guerra di Gaza, che continua ancora oggi. Il grande attacco è stato seguito da un'ondata di antisemitismo e odio verso Israele, non solo in Germania. Molti cristiani vedono in questo sviluppo un'elevata carica spirituale. Per questo motivo diverse organizzazioni invitano alla preghiera il 6 ottobre. Dalle 18 alle 24 gli interessati potranno ricevere spunti in livestream. In gruppo o da soli potranno partecipare alla “notte nazionale di preghiera”. La preghiera sarà guidata da Detlef Kühlein del podcast “Bibletunes”. Il moderatore è Tobias Krämer di “Christen an der Seite Israels” (CSI), con sede a Herrenberg, nel Baden-Württemberg.
• Preghiera per gli ebrei e contro l'antisemitismo
È previsto che i cristiani preghino, tra l'altro, per le cerimonie commemorative in occasione dell'anniversario. Altre intenzioni di preghiera riguardano la Germania, Israele, gli ebrei in tutto il mondo e mezzi efficaci contro l'antisemitismo. All'inizio della serata, un esperto introdurrà il tema dell'antisemitismo, i suoi molteplici volti e le sue radici cristiane. Seguiranno brevi interventi di diversi oratori che indicheranno la via della preghiera. I dieci blocchi di preghiera dureranno circa mezz'ora, con brevi pause tra uno e l'altro. È possibile registrarsi qui. Tra i promotori e i sostenitori dell'iniziativa di preghiera figurano diverse organizzazioni cristiane. Anche Israelnetz partecipa all'iniziativa.
Pro-pal nell’università di Pisa, il rettore Riccardo Zucchi non denuncia
Peled: “È una vergogna”
di Marco Paganoni
In un’esibizione squadrista in stile Enzo Iacchetti – quello del “non accetto contradditorio, vengo lì e ti prendo a pugni” -, un manipolo di sedicenti pro-Pal (in realtà pro-Hamas, quindi contro la libertà dei palestinesi) hanno fatto irruzione in un’aula di Scienze Politiche dell’Università di Pisa dove hanno aggredito e malmenato il professor Rino Casella, “colpevole di sionismo”. La decisione del rettore Riccardo Zucchi di non denunciare la squadretta di picchiatori lascia esterrefatti. “È una vergogna – ha scritto su X l’ambasciatore d’Israele in Italia, Jonathan Peled – che il Rettore sia più preoccupato di ribadire la condanna inappellabile d’Israele, piuttosto che garantire che le aule dell’ateneo siano spazi sicuri, luoghi di convivenza e confronto civile. Legittimando una reazione violenta nei confronti di chi evidenzia la necessità di un dibattito più articolato su ciò che sta succedendo a Gaza, l’Università di Pisa ha di fatto abdicato al suo ruolo educativo e formativo”. In effetti, il magnifico rettore non si è accontentato di condonare i violenti e condannare Israele. Rivendicando con orgoglio che “il 24 luglio abbiamo rotto i rapporti con la Reichman University di Herzliya e la Hebrew University di Gerusalemme”, si è prodotto in un esempio da manuale di ignoranza e disinformazione. Ha infatti aggiunto: “La Hebrew [l’Università di Gerusalemme] ha aperto un campus nei Territori, in violazione della risoluzione dell’Onu”. Una menzogna. L’Università di Gerusalemme conta oggi quattro campus: l’Edmond J. Safra Campus s Givat Ram, fondato nel 1953 nella parte ovest di Gerusalemme; l’Ein Kerem Campus, fondato nel 1960, sempre nella parte ovest di Gerusalemme; il Rehovot Campus, che si trova appunto a Rehovot, nel centro di Israele, più vicino a Tel Aviv che a Gerusalemme. Ma il primo campus in assoluto della Hebrew Università è quello sul Monte Scopus, una famosa collina che sorge a nord-est della Città Vecchia. È sul Monte Scopus che venne posata la prima pietra dell’Università di Gerusalemme nel 1918. Ed è sul Monte Scopus che nel 1925 (cento anni fa esatti) venne inaugurata l’Università di Gerusalemme, patrocinata da personalità come Albert Einstein e Sigmund Freud. Il Monte Scopus è sempre stato israeliano. Quando la Legione Araba di Transgiordania (oggi Giordania) attaccò e invase il neonato stato ebraico nel 1948 e occupò illegalmente la parte est di Gerusalemme, il campus sul Monte Scopus non cadde in mani giordane. Rimase invece come un’enclave israeliana circondata dai soldati nemici, ma garantita dagli Accordi di armistizio. Gli Accordi vennero infranti nel 1967 dalla Giordania, che prese a bombardare i quartieri ebraici di Gerusalemme. La controffensiva israeliana in quella “guerra dei sei giorni” portò alla riunificazione della città e, fra l’altro, alla liberazione dall’assedio del campus sul Monte Scopus. Che è ed è sempre stato territorio israeliano. Lo era il 13 aprile 1948, quando terroristi arabi attraccarono a sangue freddo un convoglio sanitario che vi si recava, trucidando 78 donne e uomini ebrei, quasi tutti medici, infermieri e studenti di medicina. Lo era il 31 luglio 2002, quando terroristi palestinesi fecero esplodere un ordigno nella sala mensa del campus, causando 9 morti e un centinaio di feriti. Tra questi, anche una studentessa italiana e molti studenti arabi: giacché l’Università di Gerusalemme è sempre stata un libero ed eccellente centro di studi e ricerche frequentato da docenti, studiosi e studenti di ogni nazionalità, di ogni estrazione, di ogni provenienza. Con crescente angoscia, ci domandiamo: che insegnamento e che formazione potrà mai dare, invece, un’università come quella di Pisa, retta da persone che vantano tanta preclusione e ignoranza?
La notizia è rimbalzata in piena estate anche sui giornali italiani: pare che le autorità israeliane creino difficoltà nella concessione dei visti agli evangelici USA, che notoriamente si sono sempre spesi in difesa di Israele. Inevitabili le reazioni dei diretti interessati, che hanno interpretato questo giro di vite come una sorta di tradimento, e in questi toni la notizia è stata raccontata da alcuni media nostrani. In realtà, ricostruendo i fatti, pare che dopo decenni sia cambiata la procedura relativa alla concessione di visti, e la nuova richiesta da formulare risulti più farraginosa e complessa in particolare per le organizzazioni cristiane. Da qui i problemi e le lamentele, con tutto il risalto internazionale del caso. Ora, in tempi in cui il Risiko mondiale è costituito da presidenti che straparlano, ministri che azzardano e una diplomazia che arranca non è semplice trovare la giusta prospettiva sulle cose, ma la questione dei visti dev’essere stata percepita come una faccenda piuttosto seria, se l’ambasciatore USA a Gerusalemme, Mike Huckabee – pastore battista di cui si ricorda anche qualche candidatura alla Casa Bianca – ha presentato a Gerusalemme una lettera di protesta minacciando un pari trattamento per l’accesso negli USA dei cittadini israeliani. Anche se i media italiani non hanno dato seguito alla cosa – viene da pensare che la notizia fosse funzionale a una certa lettura dei fatti, più che alla ricerca della verità – la vertenza ha avuto uno sviluppo positivo: a stretto giro il ministro dell’Interno israeliano ha dato, come si dice, ampie rassicurazioni (pur manifestando una certa diplomatica sorpresa per l’iniziativa americana, vista come una fuga in avanti rispetto ai proficui colloqui già in corso). E l’ambasciatore USA ha così potuto annunciare – ovviamente sui social – di aver chiuso con successo la vertenza.
La rinascita di Israele è una benedizione per l'Europa
Il periodo di pace più lungo dell'Europa è iniziato con la rinascita di Israele e potrebbe finire con una crescente ostilità nei confronti dello Stato ebraico.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Storicamente, l'Europa ha raramente conosciuto un periodo di pace così lungo come quello delle generazioni successive alla seconda guerra mondiale. Pieni di fiducia in se stessi, gli europei ne erano entusiasti e convinti che le guerre nel loro continente fossero ormai un ricordo del passato. Alcuni credevano addirittura di aver trovato la formula per la stabilità e la pace tra i popoli. Quante volte ho dovuto ascoltare queste convinzioni. Persone provenienti dalla Germania e da altri paesi europei chiedevano ripetutamente perché una tale stabilità e tranquillità non fossero possibili anche in Medio Oriente. Molti erano convinti che l'Europa fosse un modello di convivenza pacifica. “Fate come noi!”, si sentiva dire spesso. A me sembrava sempre un misto di ingenuità e presunzione.
Il fatto è che per secoli le guerre hanno dominato, dalle faide medievali e dalle crociate alle guerre di religione e dinastiche fino alle guerre mondiali del XX secolo. I lunghi periodi di pace consecutivi erano l'eccezione, per lo più limitati a livello regionale e interrotti dall'instabilità politica. Dopo il 1945 si è creato per la prima volta un ordine di pace duraturo: la deterrenza e la cooperazione hanno mantenuto l'equilibrio della Guerra Fredda, mentre l'integrazione europea ha escluso la guerra tra gli Stati. Il benessere, l'integrazione della Germania e il ricordo di due guerre mondiali hanno consolidato queste fondamenta. Ma oltre a tutti questi fattori geopolitici ed economici, è accaduto qualcosa che difficilmente può essere spiegato razionalmente: contemporaneamente, Israele ha vissuto la sua rinascita, come se negli eventi mondiali si fosse dispiegata una dimensione più profonda della storia e della promessa. La pace e la tranquillità tra i popoli in Europa dopo il 1945 sono quindi storicamente uniche. Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Europa, almeno nella sua parte occidentale, vive in un periodo di tranquillità storico senza precedenti.
E qui lascio libero corso ai miei pensieri! Forse l'Europa gode di questa lunga pace e di questo straordinario periodo di tranquillità proprio grazie alla fondazione dello Stato ebraico di Israele nel 1948? Potrebbe essere che la rinascita di Israele sia una ragione fondamentale per cui l'Europa sta vivendo una stabilità senza precedenti nella sua lunga storia bellica? È possibile che l'esistenza di Israele nella sua patria sia una benedizione per le nazioni, qualcosa che è difficile spiegare dal punto di vista umano, ma che ha senso alla luce della Bibbia?
Proprio ora stiamo osservando come i governi europei, uno dopo l'altro, attribuiscano a Israele la responsabilità di ogni male in Medio Oriente e come questo atteggiamento si ritorca come un boomerang contro i loro stessi paesi. I migranti musulmani, che in Europa assumono un ruolo sempre più forte nella protesta contro Israele, mettono sempre più in discussione i sistemi occidentali e cristiani. Improvvisamente l'Europa comincia a temere per la stabilità, la tranquillità e la pace di lunga data che finora erano state date per scontate. Ci si può chiedere se tutto questo abbia a che fare con il fatto che le nazioni europee stanno perdendo la pazienza con lo Stato ebraico, mettendo sempre più apertamente in discussione il suo diritto all'esistenza e agendo così inconsciamente contro la missione di Israele.
Non potrebbe essere che, finché Israele prospera nella sua patria biblica, anche i popoli del mondo ne traggano beneficio? Dio non ha forse promesso ad Abramo: «E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra», e ancora: «Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni della terra, perché hai obbedito alla mia voce»? In parole povere: Dio promise ad Abramo che il suo popolo non sarebbe esistito solo per se stesso, ma come strumento attraverso il quale tutta l'umanità avrebbe potuto sperimentare la benedizione, la giustizia e la salvezza di Dio. Chi indebolisce Israele mette a rischio non solo il suo futuro, ma anche la propria pace.
Guardiamo indietro: fino a circa 80 anni fa lo Stato di Israele non esisteva, gli ebrei vivevano sparsi per il mondo, erano perseguitati ovunque e non avevano mai avuto il lusso di vivere nella loro patria biblica per essere da lì una luce per le nazioni. Guardate cosa accadde nel Medioevo, con guerre continue, dalla Guerra dei Cent'anni tra Inghilterra e Francia alle innumerevoli faide tra principi. All'inizio dell'era moderna, guerre di religione come la Guerra dei Trent'anni devastarono intere regioni e ridussero la popolazione di un terzo. Anche il XIX secolo, che con il Congresso di Vienna del 1815 inaugurò una fase di relativa stabilità, fu segnato da conflitti, dalla guerra di Crimea alle guerre di unificazione tedesca fino alla guerra franco-prussiana di oltre 150 anni fa. Per molti secoli i popoli europei hanno combattuto guerre sanguinose gli uni contro gli altri, spesso in nome di Gesù e del cristianesimo, nonostante fossero tutti popoli cristiani. Solo circa ottant'anni fa questa carneficina ha avuto fine.
Solo poco prima della fondazione dello Stato di Israele è diventato possibile ciò che prima sembrava impensabile: un ordine di pace duraturo in Europa. Il benessere, l'integrazione della Germania e il doloroso ricordo di due guerre mondiali hanno gettato le basi storiche per la stabilità. Tutto ciò può essere spiegato dal punto di vista politico ed economico, ma c'è un livello più profondo che spesso viene trascurato: la rinascita di Israele proprio in quel momento. È stata davvero una coincidenza? O forse si nasconde in questo evento la benedizione biblica che molti ancora oggi non vogliono ammettere?
Proprio in questi giorni l'Europa deve prendere una posizione chiara. Chi sta dalla parte di Israele non solo rafforza lo Stato ebraico, ma assicura anche la propria pace e apre le porte alla benedizione sul proprio continente. Ma solo pochissimi lo capiscono e lo vedono. Come disse il leggendario attore hollywoodiano Al Pacino: «Ammiro Israele. Se Israele è forte, il mondo è forte. Se Israele è debole, il mondo è debole. Per questo dobbiamo sostenere Israele!».
(Israel Heute, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
I dieci giorni di pentimento del mese di Tishri sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento dei rapporti tra gli uomini e tra l'uomo e Dio.
di Ariel Winkler*
In questo settembre in Israele si festeggia il Capodanno ebraico, che inizia lunedì sera, 22 settembre, e martedì, 23 settembre. Sebbene nella tradizione sia chiamato «Rosh Hashanah» («capo dell'anno»), nel calendario biblico non è l'inizio dell'anno (il primo mese è Nissan, quando si celebra la festa di Pesach; Esodo 12,2). Si tratta piuttosto di una festività speciale che la Bibbia chiama «Zikaron Teru'a» («memoria del suono della tromba», Levitico 23,24) o «Yom Teru'a» («giorno del suono della tromba», Numeri 29,1). È una delle sette feste che Dio ha dato al popolo d'Israele nel ciclo annuale biblico. Nella Bibbia non esiste una festa che sia espressamente definita come «inizio dell'anno». Tuttavia, nella tradizione rabbinica si è sviluppato il concetto di quattro diversi «inizi dell'anno», che rappresentano diversi conteggi e definizioni:
Il primo giorno di Nissan: Capodanno per i re e le feste - da questa data si contano gli anni di regno dei re in Israele e l'ordine delle feste di pellegrinaggio (Mishnah Rosh Hashanah 1,1).
Il primo giorno di Elul: Capodanno per la decima del bestiame - il momento a partire dal quale viene versata la decima delle pecore e dei bovini del nuovo anno.
Il primo giorno di Tishri: Capodanno per gli anni, per lo Shmitta (anno sabbatico) e l'anno giubilare, per le coltivazioni e per gli ortaggi - questa data determina il nuovo anno per il conteggio dello Shmitta (anno sabbatico) e degli anni giubilari, l'età degli alberi e la decima sugli ortaggi.
Il primo giorno dello Shwat: Capodanno per gli alberi - determina l'inizio del nuovo anno per il calcolo della decima dei frutti degli alberi.
Così è nata nel pensiero ebraico l'idea di Rosh Hashanah, non come un singolo giorno per tutto, ma in date diverse che esprimono i vari aspetti della vita nazionale e agricola.
Il Rosh Hashanah primo giorno di Tishri apre i dieci giorni di pentimento, un periodo speciale di raccoglimento interiore e di riflessione su se stessi. Questi giorni sono caratterizzati dalla richiesta di perdono, dall'esame di coscienza e dal rinnovamento delle relazioni tra le persone e tra l'uomo e Dio. Il culmine è rappresentato dallo Yom Kippur, in cui il popolo d'Israele si riunisce per digiunare, pregare e supplicare, chiedendo perdono e purificazione spirituale. A Rosh Hashanah è tradizione recarsi in riva a un corso d'acqua (fiume, sorgente o mare) e praticare l'usanza del Tashlich («tu getterai»). In questa occasione, le tasche vengono svuotate e liberate da ogni traccia di polvere o sporcizia, come simbolo dell'abbandono dei peccati. Durante questa usanza viene recitata la preghiera del Tashlich, basata su Michea 7,18-19:
«Chi è un Dio come te, che perdona l'ingiustizia e trascura la trasgressione del resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la sua ira, perché ha piacere nella misericordia. Egli avrà di nuovo pietà di noi, calpesterà le nostre iniquità; e tu getterai tutti i loro peccati nelle profondità del mare».
Anche se questo atto è simbolico, esprime la profonda consapevolezza che solo Dio può perdonare i peccati e gettarli nelle profondità del mare. Allo stesso modo, il re Davide confessa che solo Dio è colui che perdona: «Egli ti perdona tutti i tuoi peccati, guarisce tutte le tue malattie» (Salmo 103,3). Lo stesso vediamo quando Gesù servì a Capernaum e guarì il paralitico: «Ma alcuni scribi erano seduti lì e pensavano nei loro cuori: “Perché costui parla così? Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?”» (Marco 2,6-7). Questa reazione riflette la concezione biblica secondo cui solo Dio può perdonare i peccati. La morte vicaria di Gesù sulla croce ci dona proprio questo perdono dei peccati: «In lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, il perdono dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia» (Efesini 1,7). Nonostante l'atto simbolico del Tashlich, in cui il popolo d'Israele chiede a Dio di gettare i suoi peccati nell'acqua e implora il perdono, esso è ancora lontano dal suo Dio e Messia Gesù. Ma proprio l'ostinazione e la caduta di Israele sono diventate salvezza per le nazioni (Romani 11,12). Non dobbiamo dimenticare che Dio ha sempre un residuo fedele, proprio come ai tempi di Elia, quando il Signore disse: «Ma io ho lasciato in Israele settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal» (1Re 19,18) . Anche oggi Dio ha un residuo fedele in Israele. Inoltre, ha un piano per la salvezza del suo popolo Israele, come promesso:
«Riverserò lo spirito di grazia e di supplica sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto» (Zaccaria 12,10).
E come scrive Paolo ai Romani: «Una parte d'Israele è stata indurita, finché non sia entrata la pienezza dei gentili; e così tutto Israele sarà salvato» (11,25-26). Rosh Hashanah non è quindi solo un'occasione personale per esaminare la propria coscienza e chiedere perdono per il popolo d'Israele, ma anche un ricordo della fedeltà di Dio attraverso le generazioni. Il ricordo del suono delle trombe ci invita a pensare alla grazia di Dio, alle sue promesse infallibili e al suo piano globale per la salvezza del suo popolo Israele e del mondo intero. Quando oggi guardiamo alla condizione spirituale di Israele e preghiamo affinché si volga a Lui con tutto il cuore, manteniamo salda la speranza e la fede che Dio porterà a compimento ciò che ha iniziato.
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*Ariel Winkler, classe 1983, è cresciuto in Israele, dove ha portato a termine la sua formazione teologica e ha ottenuto il diploma di guida turistica. Lavora nel team di Beth Shalom ad Haifa.
(Nachrichten aus Israel Nr 9, september 2025/5786 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Potrebbe essere solo una coincidenza che Canada, Australia e Regno Unito abbiano deciso di riconoscere uno Stato islamico e terrorista – la cui identità si basa sull’uccisione degli ebrei – proprio a ridosso di Rosh ha-Shana, una delle più importanti festività ebraiche; ciò che, certamente, non è casuale, è che abbiano dato ai terroristi esattamente ciò che desideravano. L’idea di riconoscere uno «Stato palestinese» costituisce un’assurdità e un’offesa alla storia per almeno due motivi. In primo luogo, perché non esiste un «popolo palestinese» distinto, ma comunità arabe musulmane locali che, dopo la cocente sconfitta del 1967, hanno adottato l’identità «palestinese» per mascherare la volontà di distruggere Israele con una verniciatura di «liberazione nazionale». I «palestinesi» come popolo autoctono sono, in realtà, un’invenzione recente. In secondo luogo, perché il loro obiettivo non è mai stato costruire uno Stato in cui vivere in pace e in buoni rapporti con Israele, bensì sottrarre territorio agli ebrei e consolidare le proprie postazioni d’attacco. Recenti sondaggi dimostrano che il 64% degli arabi che vivono sotto il governo dell’Autorità Palestinese ritiene che la «soluzione dei due Stati» non sia più praticabile; il 72% approva il massacro del 7 ottobre e il 41% sostiene una «lotta armata» – ovvero il terrorismo – per annientare Israele. Starmer, Carney e Albanese hanno frainteso le reali aspirazioni dei cosiddetti palestinesi. Inoltre, non è chiaro dove questo «Stato palestinese» dovrebbe sorgere e con quali modalità. Non esistono confini concordati a livello internazionale, né una capitale definita, né un esercito, né un governo unitario. Gaza è nel mezzo di una guerra e la Cisgiordania non ha un esecutivo stabile: l’Autorità Palestinese esercita un controllo effettivo solo su porzioni limitate del territorio (zona A e parti della B). Nei discorsi dei vari leader internazionali si è fatto riferimento ai «confini del 1967», in riferimento a quelli antecedenti alla Guerra dei Sei Giorni, come linee di demarcazione per un futuro Stato palestinese. Tuttavia, quei confini non sono mai esistiti e non compaiono in alcun documento internazionale. Non si trattava di frontiere riconosciute, bensì di semplici linee armistiziali rimaste in vigore dalla fine del primo conflitto arabo-israeliano del 1948 fino al 1967. Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che, se Israele dovesse ritirarsi a quelle linee, lo Stato ebraico diventerebbe militarmente indifendibile. Pertanto, Israele non permetterà mai la nascita di una «Gaza su larga scala» a ridosso delle sue città principali. La scelta di Starmer, Carney e Albanese non è dunque un «atto di pace», ma una capitolazione di fronte al ricatto della violenza. Premiano il terrorismo invece di isolarlo, ne legittimiamo le rivendicazioni più estreme e tradiscono le idee di sicurezza e sovranità nazionale. Riconoscere lo «Stato palestinese» significa voler erigere un santuario per il jihad. E Israele, giustamente, non abbasserà la guardia mentre l’Occidente, ancora una volta, cede alla tentazione di una «pace» concordata al prezzo della sua esistenza.
La riunione indetta da Macron per riconoscere lo Stato palestinese completa la pluridecennale inimicizia dell'Onu verso Israele. Già il giorno prima Starmer, insieme ad altri tre volenterosi (Portogallo, Australia, Canada), ha dichiarato solennemente che sarà della partita. Così la Gran Bretagna, madre della dichiarazione Balfour e della risoluzione di Sanremo nel 1920 e mandataria per garantire la fondazione dello Stato ebraico, oggi tradisce Israele. È una pandemia: sono più di 150 stati che premiano Hamas. Sarebbe bello "due stati per due popoli", ma l'ombra del 7 ottobre incombe, già Macron, dice Hamas, ha causato il rifiuto di liberare i rapiti.
Menomale che l'Italia è stata saggia. Ma anche la gente dei Paesi che votano "Sì" lo sa: il 90% degli inglesi non è d'accordo, neppure due terzi dei francesi e il 38% chiede che almeno si restituiscano gli ostaggi. Macron ha indotto con un lavorio intensivo un risultato guerrafondaio. Solo l'estrema sinistra lo sostiene al 78%, il 41 nel suo partito. In Inghilterra solo il 13% sostiene un riconoscimento senza condizioni, il 51 lo vuole senza Hamas, il 41 chiede almeno gli ostaggi.
I genitori di Eviatar David e Ron Braslawsky, hanno firmato con gli altri parenti una lettera di protesta: chi è per lo Stato palestinese complica la restituzione dei rapiti. Starmer risponde alle accuse di Netanyahu di sostenere il terrorismo, ma è Ghazi Hamad, leader di Hamas, a vantare che il sostegno dello Stato palestinese è frutto del massacro del 7 ottobre. Macron ha fatto un passo indietro, senza ostaggi non ci sarà ambasciata. Ma ormai la valanga ruzzola, l'Onu fa saltare gli accordi di Oslo del '93: adesso per evitare il rischio dell'assedio di uno Stato palestinese fino a Tel Aviv, Israele potrebbe annettere una parte dei Territori. L'Anp, più furba di Macron, non dichiara l'indipendenza: cancellare gli accordi Oslo può portare in un baratro. L'Arabia Saudita minaccia un atteggiamento ostile in caso di annessione, ma avrà poco effetto.
Non c'è nessun segno che i palestinesi accettino la convivenza con Israele, rifiutata dal '48. Abu Mazen ha 90 anni e governa illegalmente dal 2006, le elezioni porterebbero al potere Hamas.
Uno stato sarebbe autoritario, antigay, antidonna, e ultra razzista. Non avrebbe strutture economiche né confini. Un'Onu ubriaca sembra convogliare il mondo su un'unica arte consolidata: l'odio per gli ebrei. Ovvero, alla guerra.
Da secoli la Chiesa insegna che i «minimi fratelli di Gesù» sono i poveri di questo mondo. I nostri fratelli messianici ci mostrano un nesso più profondo: Gesù racconta questa parabola in riferimento al Suo ritorno. Chiamiamo queste tre parabole di Matteo 25 anche parabole della fine dei tempi. Cristo dice: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me» (Matteo 25:40) Il nostro versetto settimanale per la 13ª domenica dopo la Trinità, che quest'anno cade il 14 settembre, è collegato al grande giudizio universale sui popoli. La linea spirituale risale all'affermazione del profeta Gioele: capitolo 3,1 ss. Qui viene descritto il grande giudizio punitivo sui popoli al momento del Suo ritorno. Il criterio per il Suo giudizio è il comportamento nei confronti del Suo popolo Israele. Leggetelo con attenzione! Il momento è la restaurazione di Israele nella Sua terra. Quindi ora è molto vicino! E se guardiamo più indietro nella storia, arriviamo alle promesse di Dio ad Abramo: «Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra!» (Genesi 12:3) Quindi, attraverso tutta la storia della salvezza, Israele è il metro di Dio per il Suo giudizio! Nella parabola del giudizio universale, Gesù, il giudice del mondo, si identifica con il Suo popolo: «Quello che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me». Se vogliamo fare del bene o del male a Gesù, lo facciamo facendo del bene o del male ai Suoi fratelli carnali. Che forte monito per noi in questo periodo così antisemita!
(Israelnetz, 23 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Tre sinagoghe di Halifax, in Canada, sono state vandalizzate con svastiche e la scritta “Jews did 9/11” (“Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre”). Ad essere colpite sono state la Shaar Shalom Congregation, il tempio ortodosso Beth Israel e il centro Chabad of the Maritimes. “È la prima volta che la nostra sinagoga è vandalizzata in questo modo”, racconta la pagina ufficiale di Shaar Shalom su Facebook. “In passato siamo stati bersaglio di minacce bomba inviate per email a tutte le comunità ebraiche del Paese, ma questo rappresenta per noi un nuovo passo dell’odio”. “Sappiamo che queste notizie spaventano, ma non ci lasceremo intimidire né ci allontaneranno dalla preghiera”, ha aggiunto la Comunità. Una serie di crimini d’odio che si aggiunge alla drammatica spirale di episodi di antisemitismo che imperversa da mesi in tutto il mondo. “Attaccare i luoghi di culto è inaccettabile”, ha tuonato il sindaco di Halifax, Andy Fillmore, condannando con fermezza l’accaduto. “Viviamo in un’epoca in cui le discussioni su identità, storia e giustizia possono sembrare divisive e travolgenti, ma non possiamo permettere che questa complessità degeneri in odio nella nostra città”. Nel frattempo, la polizia regionale ha immediatamente aperto le indagini e ha rilasciato l’immagine del sospettato dalle telecamere di sorveglianza, chiedendo la collaborazione dei cittadini per identificarlo. La grande tensione di quei giorni era probabilmente legata anche all’incontro di Coppa Davis tra Canada e Israele in programma proprio a Halifax. Tra l’altro la sfida, giocata a porte chiuse per motivi di ordine pubblico, aveva comunque attirato l’ambasciatore israeliano in Canada, Iddo Moed, che quindi ha testimoniato di persona lo spiacevole accaduto. “L’odio e le sue espressioni antisemite devono essere condannati. Questi atti vandalici sono inaccettabili e devono essere considerati un campanello d’allarme per tutti.”
(Bet Magazine Mosaico, 22 settembre 2025)
Il 28 luglio scorso, in un autogrill vicino a Milano, un ebreo francese insieme al figlio di sei anni è stato insultato e poi ha esposto denuncia per un’aggressione subita nell’indifferenza generale. Pochi giorni prima, una cinquantina di ragazzi ebrei francesi tra i 10 e i 15 anni, insieme alla loro direttrice di 21 anni, sono stati fatti scendere da un volo della compagnia Vueling in partenza da Valencia e diretto a Parigi, dopo aver cantato canzoni in ebraico a bordo: l’equipaggio avrebbe denunciato azioni di “disturbo”.
Questi episodi, su cui sono attualmente in corso le inchieste giudiziarie, costituiscono un paradigma di quanto accaduto dopo il pogrom del 7 ottobre: gli ebrei, vittime di un terribile massacro perpetrato da feroci assassini, dopo pochi giorni, vengono additati come “responsabili”.
Moltissimi commentatori sostengono che l’ondata di antisemitismo post 7 ottobre vada imputata alle azioni “genocide” del “governo di Tel Aviv”. In realtà, la solidarietà verso le vittime ebree è durata un battito di ciglia: nel giro di pochi giorni uccisi e rapiti sono stati dimenticati ed è iniziato il tam tam – spesso suonato da partiti politici, docenti universitari, altri prelati, cantanti, attori ed influencer – secondo il quale la reazione di Israele era “spropositata” e poi “genocida”. Gli ebrei sono stati considerati “responsabili” dell’antisemitismo poiché non hanno preso le distanze dal “genocidio” attuato dal “loro” governo. L’ex presidente del consiglio Giuseppe Conte – e non solo lui – ha invitato più volte gli ebrei a condannare il “genocidio in corso”, pena la corresponsabilità del medesimo. Va ricordato che, da sempre, gli antisemiti si presentano come vittime degli ebrei, i crociati che li massacravano nel basso Medioevo sostenevano che la loro era una risposta all’iniquità ebraica, mentre Hitler “rispondeva” alla dichiarazione di guerra che gli aveva rivolto l’“ebraismo internazionale”.
Le vittime di antisemitismo vengono immancabilmente inquadrate come “sioniste”, termine quest’ultimo che ha assunto un significato distorto, e sintetizza i principali topoi dell’immaginario antiebraico. L’impiego alterato del termine è trasversale e non connota solamente gli ambienti estremisti. La generalizzazione agisce come meccanismo di disumanizzazione, favorendo una crescente legittimazione della violenza e della normalizzazione dell’odio verso un nemico indefinito (il “sionista”). L’effetto combinato di queste narrative è la legittimazione della violenza verbale e fisica contro gli ebrei, percepiti non come individui, ma come rappresentanti collettivi (i “nuovi nazisti”) delle azioni “genocide e sterminazioniste” di “IsraHell”. I travisamenti del concetto di sionismo risultano sempre più influenzati da matrici ideologiche islamiste, le quali hanno progressivamente guadagnato legittimità e spazio nel discorso pubblico, trovando eco in ambiti scolastici, universitari, mediatici e culturali. Emergono gruppi organizzati di “professionisti dell’antisemitismo”, che promuovono la distorsione del sionismo attraverso l’appropriazione di simboli e distorsioni della Shoah.
Si tratta di soggetti che, in larga parte, operano in maniera coordinata, con strategie mirate alla diffusione dell’odio, spesso sfruttando le dinamiche virali delle piattaforme digitali.
In Italia come nel resto del mondo si registra un numero record di atti di antisemitismo e questo odio organizzato assume toni vieppiù aggressivi, determinati dal fatto che l’antisemitismo in veste di “antisionismo” viene considerato “democratico e antifascista”. Nei primi sei mesi del 2025, l’Osservatorio antisemitismo del CDEC ha registrato circa 500 casi di antisemitismo e, persistendo questo clima, alla fine dell’anno verrà superata la soglia record del 2024 di 874 casi. Gli atti contro gli ebrei si fanno sempre più violenti e ormai gli odiatori si sentono liberi di minacciare con toni come: «sei uno sporco ebreo infame…Ti arriverà un proiettile in testa da parte mia» (maggio 2025).
La normalizzazione dell’antisemitismo attraverso la demonizzazione del “sionismo” ha condotto a questa situazione che è in continuo aggravamento. L’unica soluzione a questo fenomeno globale è che l’ubriacatura ideologica passi al più presto. Ma devono essere enti e persone che hanno rivitalizzato un antisemitismo da anni ’30 a porvi rimedio. E devono farlo al più presto.
Rosh Hashana: Benjamin Netanyahu promette vittoria e pace per Israele
Alla vigilia di Rosh Hashana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha rivolto i suoi auguri ai cittadini di Israele, lodando la loro resilienza e il loro coraggio in questo periodo di guerra. In un messaggio solenne, ha reso omaggio ai soldati dell'esercito israeliano, sia regolari che riservisti, nonché a tutte le forze di sicurezza, che ha definito “il muro di protezione dello Stato di Israele”.
Netanyahu ha ricordato i recenti successi militari, in particolare una “operazione storica” che, secondo lui, ha permesso di eliminare una minaccia esistenziale proveniente dall'Iran. “Abbiamo colpito duramente l'asse iraniano, in Libano, Siria, Yemen e persino sul suolo iraniano”, ha dichiarato.
Il capo del governo ha sottolineato che le forze israeliane continuano la loro offensiva nella Striscia di Gaza per “sconfiggere definitivamente Hamas e riportare a casa tutti i nostri ostaggi”. Ha espresso il suo sostegno alle famiglie degli ostaggi e alle famiglie in lutto, pregando per il ritorno dei prigionieri e la guarigione dei feriti. Netanyahu ha anche promesso di continuare a rafforzare l'economia e la sicurezza di Israele attraverso la tecnologia, l'intelligenza artificiale e le industrie della difesa. Ha insistito sulla ricostruzione delle comunità del nord e del sud, pesantemente colpite dal conflitto, e ha ribadito il suo impegno ad ampliare “il cerchio della pace” nella regione. “Che quest'anno sia un anno di unità, vittoria e pace”, ha concluso, augurando un felice anno nuovo a tutto il popolo di Israele.
Nessun'altra scelta: la battaglia di Israele per la città di Gaza
Oltre mezzo milione di abitanti ha già abbandonato la città: l'esercito sta attaccando gli ultimi bastioni di Hamas, mentre le sofferenze della popolazione civile continuano ad aumentare.
Da giorni il centro dei combattimenti si sposta sempre più in profondità nelle strade e nei vicoli della città di Gaza. I carri armati attraversano quartieri distrutti, i soldati setacciano i blocchi di case alla ricerca di depositi di armi, trappole esplosive e accessi ai tunnel. Qui Hamas ha creato il suo baluardo più importante, sopra e sotto terra. Il portavoce dell'esercito, il generale di brigata Effie Defrin, ha chiarito domenica che non esistono soluzioni facili in questa guerra. “Hamas ha mostrato al mondo la sua vera strategia: sfruttare il proprio popolo e prolungare deliberatamente la guerra”, ha dichiarato. “Le nostre forze lavorano giorno e notte per riportare a casa gli ostaggi, smantellare le reti terroristiche di Hamas e creare un futuro più sicuro per l'intera regione”. Negli ultimi giorni Hamas ha dato nuovamente prova dei propri metodi: sparando contro una squadra delle Nazioni Unite, utilizzando veicoli rubati alle Nazioni Unite per bloccare i trasporti di aiuti umanitari e rubando con la forza quattro camion dell'UNICEF carichi di alimenti per neonati. “In questo modo migliaia di bambini piccoli sono stati privati delle loro provviste”, ha affermato Defrin. “Allo stesso tempo, Hamas continua a impedire ai civili di lasciare le zone di combattimento”. Israele sta rispondendo con un'operazione di evacuazione su larga scala. Con volantini, SMS, annunci altoparlanti e telefonate, i residenti sono invitati a lasciare le zone di combattimento. Secondo l'esercito, più di 550.000 persone hanno già lasciato la città di Gaza e si sono dirette verso sud. Lì Israele ha istituito una zona umanitaria vicino a Khan Yunis, con ospedali da campo, condutture idriche, impianti di desalinizzazione e nuove stazioni di rifornimento. Al valico di frontiera di Kerem Shalom si accumulano aiuti umanitari in attesa di essere ritirati dalle Nazioni Unite e da altre organizzazioni. “Israele garantisce ai civili l'accesso al cibo, all'alloggio e alle medicine”, ha sottolineato Defrin. “Ora spetta alle organizzazioni internazionali portare effettivamente questi aiuti alla popolazione”. Mentre la 162ª, la 98ª e la 36ª divisione operano direttamente nelle roccaforti di Hamas, rimane un fatto amaro: 48 ostaggi sono ancora nelle mani dell'organizzazione terroristica. Defrin ha dichiarato: “La loro prigionia è un capitolo aperto di questa guerra. Lo chiuderemo solo quando saranno di nuovo con noi. Non abbiamo altra scelta”. Con il Capodanno ebraico alle porte, Israele chiarisce che questa guerra non è solo un'operazione militare per il Paese, ma una necessità esistenziale.
(Israel Heute, 22 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
E così la Francia è stata battuta sul tempo, di un giorno, da Regno Unito, Australia e Canada.
Fu Macron il primo ad annunciare il riconoscimento di uno Stato palestinese, per altro già riconosciuto da 150 altri Paesi, che avverrà domani durante il consueto raduno all’ONU. Si riconosce una non entità politica, un luogo della mente, privo di governo, confini, classe dirigente, valuta, capitale. Ma appunto, lo Stato palestinese è un pensiero, o meglio un vessillo ideologico, con una bandiera che è quella giordana senza stella.
Lo Stato palestinese, ovvero il 23esimo Stato arabo, che gli arabi hanno sempre evitato che nascesse dal 1937 ad oggi, perché farlo avrebbe inevitabilmente significato legittimare l’esistenza di Israele e della presenza ebraica su un territorio considerato irrevocabilmente dotazione islamica, Dar al-Islam. Lo avrebbero già avuto fin da quando, dieci anni prima del secondo rifiuto, la Commissione Peel, propose agli arabi un loro Stato sull’80 per cento del territorio, relegando sostanzialmente gli ebri in un ghetto, tanto ci erano abituati da secoli. Ma dissero di no, e hanno detto di no fino al 2008, quando Ehud Olmert offrì ad Abu Mazen il 95 per cento dei territori della Cisgiordania, più Gerusalemme Est come capitale.
Hamas non ha mai nascosto le sue mire, e nemmeno Fatah se è per questo, sono riassumibili nello slogan tanto di moda tra gli studenti e i manifestanti occidentali, “Free Palestine from the river to the sea”, ovvero quello che volevano fare gli eserciti arabi nel 1948, e poi nel 1967 e poi ancora nel 1973, senza riuscirci. Eliminare gli ebrei dalla terra in cui è nata la loro storia, esattamente come Hitler voleva eliminarli dall’Europa e idealmente dalla faccia della terra.
“Non ci sarà nessuno Stato palestinese” ha dichiarato Netanyahu a stretto giro di posta, prossimo alla partenza negli Stati Uniti. Non ci sarà un altro più esteso stato jihadista a soli dieci chilometri da Tel Aviv. Un esempio di Stato palestinese si è già visto a Gaza dal 2005 ad oggi.
(Bet Magazine Mosaico, 21 settembre 2025)
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Il riconoscimento dello Stato palestinese rafforza Hamas e l’estrema destra israeliana
La promessa è compiuta: il Regno unito ha riconosciuto uno Stato arabo di Palestina, la Francia e altri Paesi occidentali seguono. È bene richiamare alla memoria alcuni punti. La nascita di uno Stato è un atto dichiarativo. L’elemento soggettivo della sua fondazione è la volontà di una popolazione di costituirsi come Stato. Nessun altro soggetto – nemmeno le Nazioni unite – ha diritto di pronunciarsi sulla volontà di un popolo che si vuole Stato. Un tale diritto di pronuncia lederebbe la pari dignità tra i popoli e gli Stati. Se la nascita di un nuovo Stato non pregiudica i diritti di altri già esistenti, la nuova entità statale sorge dal momento della sua autoproclamazione. Il riconoscimento formale da parte di altri non è necessario: se un governo compie atti giuridici con il nuovo Stato, lo riconosce per comportamento concludente. Nel 1947 la popolazione araba della Palestina aveva pieno diritto di costituirsi come Stato senza ledere diritti altrui. Al termine di una lunga controversia, l’ONU aveva deciso la spartizione territoriale della Palestina tra arabi ed ebrei. Quest’atto, però, produceva solo l’attribuzione dei rispettivi territori: l’ONU, infatti, non ha alcun potere di obbligare chicchessia a fondare uno Stato. Poiché gli arabi pretendevano per sé tutta la Palestina, hanno rifiutato quell’opportunità: accettarla avrebbe significato il riconoscimento implicito della divisione della regione. Da allora negano allo Stato ebraico, costituito legittimamente, il diritto di esistere. La situazione, nel frattempo, non è cambiata. Il motto Palestina libera dal fiume al mare significa la cancellazione di Israele, un obiettivo fissato anche nello statuto di Hamas (1988). La già controversa nuova versione di tale statuto (2017), nella quale Hamas afferma di accettare i confini del 1967, è contraddetta dai fatti. Il processo di pace di Oslo avrebbe dovuto implicare il riconoscimento di Israele da parte dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP),ma non si è mai completato. La distruzione di Israele resta un obiettivo iscritto anche nella Carta nazionale palestinese (1968), all’articolo 22. Anche per questo motivo, la posizione all’apparenza più moderata dell’Autorità nazionale palestinese, controllata da Fatah e di fatto priva di potere, non convince ed è sovrastata dalla più forte presenza di Hamas. Ne discende che il popolo arabo di Palestina non vuole affatto costituirsi come Stato, finché esiste Israele. Poiché il diritto di Israele di esistere non è in discussione, viene meno il requisito soggettivo per il riconoscimento di uno Stato arabo nella regione. In conseguenza, diventa superflua ogni ulteriore considerazione sugli elementi oggettivi secondo la Convenzione di Montevideo del 1933 (territorio definito, popolazione, governo, relazioni internazionali). Un tale riconoscimento, nella situazione attuale, è comunque privo anche di fondamento oggettivo. Non pochi giuristi e parlamentari hanno richiamato l’attenzione dei governi occidentali sulla mancanza di basi legali, per il riconoscimento di uno «Stato palestinese.» Sono stati zittiti. Quello che è stato riconosciuto è uno Stato che non vuole sé stesso; un castello in aria che serve a giochi di politica interna occidentale e non avrà alcun effetto sull’andamento della guerra, tanto meno sulle condizioni di vita nella Striscia di Gaza. Piuttosto, rafforza Hamas e i partiti dell’estrema destra israeliana, che si vedono confermati nelle loro opposte pretese.
Un anno d’Israele: tra sfide affrontate e prospettive future
di Ugo Volli
• Un anno fa Al posto della consueta sintesi sui fatti principali della settimana scorsa nella guerra che Israele sostiene, questa volta ho trovato opportuno considerare tutto l’anno che è trascorso. Non solo perché domani sera [domenica 21] inizia la celebrazione del capodanno ebraico, per cui faccio a tutti i lettori auguri per un 5876 buono e dolce. Ma anche perché è bene ricordare dove eravamo a settembre dell’anno scorso e dove siamo ora, per misurare come la situazione sia cambiata. All’inizio del 2024 Israele aveva preso il controllo delle zone di confine di Gaza e di parti del nord della Striscia. A maggio aveva conquistato l’asse Filadelfia che delimita il confine con l’Egitto, compreso il valico di Rafah (7 maggio), ma non la città, che sarebbe stata completamente conquistata solo ad aprile 2025, superato il blocco imposto dall’amministrazione Biden e una tregua. Israele aveva eliminato il leader storico di Hamas Ismail Haniyeh il 31 luglio a Teheran. Inoltre aveva colpito alcuni dei principali comandanti iraniani che coordinavano la guerra dei gruppi affiliati come Hamas e Hezbollah: il 25 dicembre 2023 Israele aveva eliminato a Damasco Razi Mousavi, un generale iraniano di alto rango, il 20 gennaio 2024 del generale di brigata Sadegh Omidzadeh, un ufficiale dell’intelligence della Forza Quds, e il 3 aprile il generale di brigata Mohamad Reza Zahedi. In seguito a queste eliminazioni, l’Iran aveva minacciato rappresaglie, che si sono poi concretizzate nell’attacco con droni e missili il 13 e 14 aprile del 2024, senza danni significativi. La controrappresaglia di Israele, frenato da Biden, fu minore ma significativa, colpendo le installazioni antiaeree vicino alla capitale e agli impianti nucleari.
• La situazione a settembre 2024 L’Iran appariva allora comunque come una minaccia gravissima e imminente, ormai alle soglie dell’armamento nucleare e fornito di un sistema missilistico capace di raggiungere non solo Israele ma anche l’Europa e di fare gravissimi danni. Anche Hezbollah faceva paura, con i suoi 100 mila missili, di cui parecchi forniti di impianti di precisione. Tenendo di riserva queste armi, Hezbollah bombardava però quotidianamente la Galilea, facendo numerose vittime e costringendo gli abitanti a fuggire nel centro di Israele. Nel gioco erano entrati anche gli Houthi, gruppo terroristico che controlla circa metà dello Yemen e grazie alle armi fornite dall’Iran stava bloccando lo stretto fra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, vitale per il commercio mondiale; ma iniziava a sparare anche direttamente su Israele. Anche in questo caso l’amministrazione Biden impediva l’autodifesa diretta israeliana; del resto essa bloccava o rallentava molto i rifornimenti militari delle forze armate di Israele (seguita in questo dalla Gran Bretagna). Sembrava in quel momento che Kamala Harris avesse buone possibilità di succedere a Biden, accentuandone le politiche anti-israeliane. Trump avrebbe vinto largamente ma un po’ a sorpresa solo il 20 novembre e avrebbe assunto il potere solo a metà gennaio di quest’anno. Nell’intervallo c’era stata molta preoccupazione per un possibile colpo di coda della vecchia amministrazione all’Onu, come era accaduto con Obama. A livello internazionale si intensificavano dichiarazioni politiche, falsificazioni mediatiche e manifestazioni di piazza contro Israele: iniziava ad affermarsi, sulla base delle false cifre diffuse da Hamas, la propaganda sul “genocidio”, sulla “strage dei bambini”, sulla “fame di Gaza”. Gli ostaggi prigionieri a Gaza erano circa 100.
• La svolta Insomma Israele aveva certamente prevalenza sul campo, ma era in grave difficoltà strategica, coi nemici principali ancora intatti. Proprio a partire da settembre però la situazione iniziò a cambiare profondamente. Il governo ottenne dallo Stato Maggiore lo spostamento al Nord delle truppe non più utilizzate a Gaza. Per decisione personale di Netanyahu, contro l’opinione di molti leader militari e politici israeliani, iniziò l’offensiva contro Hezbollah: il 17-18 settembre, con esplosioni di cercapersona e walkie-talkie (forniti dal Mossad) furono eliminati migliaia dei suoi quadri militari; il 23 settembre partirono i bombardamenti massicci sulle infrastrutture terroristiche che portarono il 27 all’eliminazione del leader carismatico del gruppo Nasrallah; il 1° ottobre iniziò una limitata, ma decisa operazione di terra oltre il confine libanese. Contemporaneamente furono colpiti numerosi obiettivi militari in Siria. Il risultato a medio termine fu un cambiamento politico fondamentale per tutto il Medio Oriente, l’eliminazione dell’influenza politica di Hezbollah sul Libano e il suo disarmo ancora in corso; il futuro scioglimento di Unifil, la forza Onu sostanzialmente “non ostile” ai terroristi, il rovesciamento del regime siriano con tutto quel che ne è seguito. Vale la pena di aggiungere che il 24 ottobre, durante una delle azioni preliminari al completamento della presa di Rafah, veniva eliminato Yaya Sinwar, capo militare di Hamas e primo responsabile del 7 ottobre.
• Una spinta che continua L’impulso iniziato un anno fa è poi continuato con le operazioni contro l’Iran, gli Houthi, Hamas a Gaza e in Qatar: è molto migliorato il rapporto politico con gli Stati Uniti, l’alleato determinante, anche se altri stati fanno a gara a cercare di esprimere (in forma solo simbolica, però, perché d’altro non sono capaci) la loro avversione a Israele e le piazze, le università, le redazioni, i parlamenti, i tribunali sono pieni di antisemitismo. L’Iran è stato colpito duramente, il suo programma di armamento nucleare riportato indietro di molti anni. E proprio ieri è saltata l’ultima protezione che gli aveva concesso Obama, l’esenzione dalla sanzioni più pesanti, che è stata annullata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: un colpo durissimo per il regime, che gli renderà molto più difficile non solo il progetto di riarmo, ma anche il mantenimento del livello economico necessario a soffocare il dissenso della popolazione.
• Speranza di pace Insomma, guardare indietro all’anno scorso mostra che la situazione è completamente cambiata, che Israele ha mostrato la forza e la determinazione necessaria a vincere e conservando questo atteggiamento è in grado di concludere la guerra nel giro di pochi mesi, eliminando le minacce incombenti e auspicabilmente liberando gli ostaggi. Questa vittoria sul campo è la condizione perché si acquieti la bufera sull’ottavo fronte, quello della comunicazione e delle prese di posizione politiche. È impossibile che su questo piano le cose tornino come prima, troppo veleno è uscito da politici, intellettuali, giornalisti, gente comune, troppo grande è stato il tradimento sentito dagli ebrei in Europa e altrove. Ma la sola pace possibile, che è quella della vittoria di Israele, permetterà a qualcuno dei nemici di Israele e degli ebrei di tornare indietro sinceramente, comprendendo di aver sbagliato, ad altri di cercare diversi temi di agitazione demagogica o di partecipazione isterica; altri ancora saranno costretti al silenzio dall’evidenza della sconfitta. È quanto ci auguriamo di poter constatare fra un anno.
Perché Dio ha creato il mondo? - 15Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Pieno successo
“A mezzanotte l'Eterno colpì tutti i primogeniti nel paese di Egitto, dal primogenito del Faraone che sedeva sul suo trono al primogenito del carcerato che era in prigione, e tutti i primogeniti del bestiame. Il Faraone si alzò di notte: lui con tutti i suoi servitori e tutti gli Egiziani; e ci fu un grande grido in Egitto, perché non c'era casa dove non ci fosse un morto. Allora egli chiamò Mosè e Aaronne, di notte, e disse: “Alzatevi, partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d'Israele; e andate, servite l'Eterno, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto; andatevene, e benedite anche me!” (Esodo 12:29-32).
“Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, e… andatevene!” Dio dunque ha ottenuto un pieno successo: in politica estera come in politica interna.
In politica estera: perché muovendo opportunamente le circostanze ha ottenuto che il Faraone non soltanto lasciasse andare il popolo, ma addirittura desse l’ordine di partire. Dunque non c’è stata alcuna rivolta popolare, né tanto meno una guerra di secessione: per partire il popolo ha aspettato che arrivasse l’ordine dall’autorità egiziana, che a sua volta è stata convinta a dare quell’ordine da un’Autorità più alta.
In politica interna: perché è riuscito a convincere Mosè a mettersi pienamente al suo servizio, e a far sì che il popolo restasse compatto dietro a lui.
Dio ha successo su Sé stesso quando muove le cose e aspetta fino a che sia l’uomo a darsi l’ordine di agire secondo la Sua volontà. È in questo modo che la creatura cresce nella conoscenza del Creatore.
Ed è quello che avviene anche nello svolgimento delle cosiddette “dieci piaghe” del libro dell’Esodo, che nell’uso popolare si presentano come dieci figurine da guardare con interesse una dopo l’altra e discuterne i coloriti aspetti tecnici, magari con una punta d’ironia. Ma sull’ultima piaga l’ironia si ferma: si è costretti a dire o pensare qualcosa di serio. Con la vita e la morte non si scherza.
Se si vuol parlare per immagini, più che come figurine le dieci piaghe possono essere pensate come fotogrammi staccati della pellicola di un film. Nelle figurine le immagini sono ferme; nel film invece, se si riesce a ricostruirlo a partire dai fotogrammi di cui sono parte, le immagini si muovono.
Si può fare allora un tentativo di ricostruire la storia avvenuta aggiungendo altri ipotetici fotogrammi a quelli ritrovati, ma in modo da ottenere una pellicola che costituisca uno stralcio credibile di un film che, se esistesse, rappresenterebbe l’intera storia della Bibbia. È dal movimento dei personaggi che compaiono nel film che si può sperare di capire il senso della realtà in cui si muovono.
• Contesa invisibile
La scena che precede le dieci piaghe è quella che abbiamo già visto: una partita a poker, con Mosè e Aaronne da una parte e il Faraone e i maghi egiziani dall’altra (Esodo 7:8-13). Era un test preliminare per stabilire chi è il più forte fra il Dio degli ebrei e gli dei degli egiziani. Con il serpente di Aaronne che ingoia tutti i serpenti dei maghi, la partita poteva dirsi finita, ma per i maghi egiziani evidentemente quello era soltanto un round di assaggio. Avranno detto al Faraone che se nel confronto tra serpenti ha vinto l’Eterno, vorrà dire che in questo settore è più forte, ma non è detto che sia il più forte in tutto.
I maghi dunque entrano in concorrenza con Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone: devono convincerlo che loro possono muovere gli dèi degli egiziani in modo più efficace di quello che può fare Mosè col suo Dio degli ebrei.
In un primo momento, nonostante la loro preliminare sconfitta, si direbbe che i maghi egiziani ci riescono, perché “il cuore del Faraone si indurì, ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne” (Esodo 7:13).
Alla contesa visibile tra i maghi e Mosè per l’accesso alla volontà del Faraone si affianca però una contesa invisibile fra Satana e Dio per la conquista del cuore del Faraone. È qui infatti la prima volta che si parla di indurimento del Faraone, cosa che non era accaduta nel primo incontro con Mosè. E nella Bibbia, quando si parla di indurimento s’intende quasi sempre la resistenza dell’uomo a Dio che parla o agisce.
Qui dunque si vede il Faraone che davanti all’agire di Dio chiude il suo cuore, così che non sia penetrato dalla Sua parola. Di conseguenza cade inevitabilmente sotto l’influenza del suo Avversario che, come disse Dio a Caino, “sta spiandoti alla porta” (Genesi 4.7).
Come nel caso di Caino, Dio non vuole il male di Faraone; vuole invece parlare al suo cuore con precisi ordini al fine di convincerlo che il vero bene per il popolo d’Egitto potrà arrivare soltanto dopo che Dio avrà potuto fare il bene del popolo di Israele. Se cercherà di impedire questo, alla fine il bene per Israele comunque arriverà, ma sull’Egitto si abbatterà il male.
Ma proprio in questo primo scontro il Faraone manifestò un indurimento che si mantenne tale fino alla fine. E fu dunque con una certa tristezza che “l’Eterno disse a Mosè: ‘il cuore di Faraone è ostinato’, egli rifiuta di lasciar andare il popolo” (7:14), e gli diede il compito di recapitare al Faraone un duro messaggio:
“L’Eterno, l'Iddio degli Ebrei, mi ha mandato da te per dirti: Lascia andare il mio popolo, perché mi serva nel deserto; ed ecco, fino ad ora, tu non hai ubbidito. ’Così dice l'Eterno: Da questo conoscerai che io sono l'Eterno; ecco, io percuoterò con il bastone che ho nella mia mano le acque che sono nel Fiume, ed esse saranno mutate in sangue (Esodo 7:17).
Sarebbe stata una possibilità per il Faraone di conoscere l’Eterno e, per il suo bene, adeguarsi ai Suoi ordini. Il messaggio di Mosè non voleva essere una sfida ai maghi egiziani, ma così la presero loro; quindi, per non perdere credito presso il Faraone a vantaggio di Mosè, “i maghi d'Egitto fecero lo stesso con le loro arti occulte” (7:22). E ottennero ciò che volevano: “il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto” (7:22).
Il sangue nel fiume durò sette giorni, poi sparì da solo. Il merito di questo risanamento dunque non andò a nessuno, e la contesa dopo il primo round rimase ancora in stato di parità.
Bisognava sparigliare le cose. Dio allora incaricò Mosè di ripetere al Faraone l’ordine di lasciar andare il suo popolo, ma di accompagnarlo con una minaccia:
“Se rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io colpirò tutta l'estensione del tuo paese con il flagello delle rane” (Esodo 8:2).
I maghi egiziani però sapevano fare anche questo, e “con le loro arti occulte fecero salire le rane sul paese” (8:7).
C’era però un problema per loro: non sapevano come mandarle via.
Da questo si capisce che dietro alle arti occulte c’è una potenza occulta che sa fare soltanto il male; e se talvolta sembra che abbia fatto qualcosa di bene, è soltanto perché ha fatto uso della più forte tra le sue arti: quella della menzogna.
Allo stato delle cose, resta il fatto che per il Faraone le rane continuano a imperversare nel paese e i suoi maghi non sanno come mandarle via con le loro invocazioni agli dèi. Non gli resta allora che rivolgersi ai due ebrei, che forse, invocando il loro Dio, potrebbero riuscire a mandare via le rane. Non si è convertito, il Faraone, ha soltanto licenziato temporaneamente i suoi maghi egiziani per incapacità e assunto i “maghi” ebrei a contratto. Il contratto consisterebbe in questo: Voi “pregate l'Eterno che allontani le rane da me e dal mio popolo”, e in cambio,“io lascerò andare il popolo, perché offra sacrifici all'Eterno” (8:8).
Se la cosa fosse andata in porto, il Faraone avrebbe potuto anche inserire l’Eterno tra gli dèi protettori dell’Egitto e assumere Mosè e Aaronne a tempo indeterminato come capi supremi della corporazione dei maghi. Un po’ come capiterà secoli dopo al profeta Daniele con il re di Babilonia (Daniele 2.48)
• “Affinché tu sappia”
“Sarà fatto come tu dici”, risponde Mosè al Faraone che gli chiede di mandar via le rane, ma specifica che l’Eterno avrebbe acconsentito alla sua richiesta per un motivo ben preciso: “affinché tu sappia che non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio” (8:10).
Non pensare dunque - sembra dire Mosè al Faraone - che l’Eterno si faccia mettere insieme a tutti gli altri dèi, perché “non c'è nessuno pari all'Eterno, che è il nostro Dio” .
La precisazione di Mosè nella formulazione del contratto ha un’importanza decisiva. Se accetti il contratto - vuol far capire Mosè al Faraone - sappi che tu sottoscrivi che il nostro Dio, l’Eterno, è unico e superiore a tutti gli altri dèi.
E questo, per il re d’Egitto, che per posizione è un uomo di Satana, è proprio difficile da mandare giù, perché Satana non sopporta che si facciano atti di glorificazione all’Eterno, suo nemico. Soprattutto dai suoi uomini.
Il Faraone allora si toglie da imbarazzo con perfida astuzia: accoglie volentieri la liberazione dalle rane, che ottiene per la fedeltà al patto della parte avversa, ma da parte sua viola il patto rifiutandosi di lasciar andare il popolo. Così fa finire il flagello delle rane e nello stesso tempo ottiene che nessuno potrà dire che lui ha riconosciuto l’Eterno come unico Dio superiore a tutti gli dèi, perché ha rotto il contratto che lo impegnava a questo.
In conclusione, il Faraone si è ostinatamente rifiutato di piegare il suo ginocchio davanti all’Eterno, l’Iddio d’Israele. E così continuerà a fare sempre in seguito. Un esemplare discepolo di Satana!
Questo secondo rifiuto indica qual è il vero motivo per cui il Faraone si ostinerà sempre a non lasciar andare il popolo: non è tanto per la perdita del bene sociale di una massa di schiavi a disposizione, quanto per il suo legame con l’autorità superiore da cui dipende, che gli vieta minacciosamente, come re della nazione pagana d’Egitto, di riconoscere pubblicamente l’autorità dell’Eterno, il Dio degli ebrei.
Il Faraone dunque si muove sotto l’influenza del “principe di questo mondo” (Giovanni 14:30); ma nello stesso tempo è interessato a lui anche il Signore, ma con tutt’altra intenzione. Certamente Dio avrebbe preferito che la liberazione del suo popolo fosse un bene per tutti, anche per gli egiziani, come aveva fatto secoli prima con Giuseppe: è per questo che fa pressioni su di lui attraverso Mosè. Ma non fu possibile.
Il cuore del Faraone si trova dunque sotto la contemporanea e contrapposta azione di Dio e di Satana, e questo spiega anche i suoi tentennamenti, le sue capriole decisionali, gli sbalzi di umore, tutte manifestazioni tipiche di persone internamente divise e combattute, come sarà secoli dopo anche il re Saul.
Il Faraone resta ostinato anche dopo aver perso credito tra i suoi uomini. Cominciano i maghi, che dopo non essere riusciti a mandar via le rane. davanti alla piaga delle zanzare alzano bandiera bianca:
“Allora i maghi dissero al Faraone: “Questo è il dito di Dio” (Esodo 8:19).
E intendono dire il Dio degli ebrei, a cui come dipendenti di Satana non si sottomettono, ma di cui sanno riconoscere la superiore potenza. Il Faraone, se avesse voluto, avrebbe potuto convertirsi, abbandonare Satana e passare dalla parte di Dio, ma non avvenne così:
“Il cuore del Faraone si indurì ed egli non diede ascolto a Mosè e ad Aaronne, come l'Eterno aveva detto (Esodo 8:19).
Dopo aver messo fuori gioco i maghi, il Signore passò al punto successivo del programma: far sapere al Faraone e convincerlo che il popolo d’Israele occupa per l’Eterno un posto particolare. L’esecuzione del punto fu affidata alle mosche, che invasero case e terre di tutto il paese, con una eccezione:
"Ma in quel giorno io farò eccezione nel paese di Goscen, dove abita il mio popolo; e lì non ci saranno mosche, affinché tu sappia che io, l'Eterno, sono in mezzo al paese. Io farò una distinzione fra il mio popolo e il tuo popolo. Domani avverrà questo miracolo" (Esodo 8:22-23).
“Affinché tu sappia” è la parola che spiega. Dal momento che il Faraone aveva annunciato di non sapere chi è l’Eterno, qui gli viene detto di osservare bene, perché l’Eterno è proprio lì, “in mezzo al paese”.
E più avanti, dopo l’ennesimo rifiuto di lasciar andare il popolo, Dio incarica Mosè di avvertire il Faraone con tremende parole di minaccia:
“Questa volta manderò tutte le mie piaghe su di te, sui tuoi servitori e sul tuo popolo, affinché tu conosca che non c'è nessuno simile a me su tutta la terra” (Esodo 9:14).
E promette di mandare presto una grandinata spaventosa, Ma avverte in anticipo, affinché si riconosca chi crede alle sue parole e chi no.
A questo punto il corpo dei servitori del re si divide: alcuni mostrano di credere alle parole di Mosè e mettono al riparo le loro bestie; altri invece, per convinzione o per paura, mostrano di voler essere fedeli al re e lasciano all’aperto il loro animali. Pagandone le conseguenze.
Ancora una volta però il Faraone si ostina, e arriva puntuale la grandine che devasta il paese.
Dopo di che il Signore manda un altro ordine con allegata minaccia. E a questo punto, davanti all’indugio del Faraone la corte del re insorge:
“I servitori del Faraone gli dissero: “Fino a quando quest'uomo sarà come un laccio per noi? Lascia andare questa gente, e che serva l'Eterno, il suo Dio! Non lo sai che l'Egitto è rovinato?” (Esodo 10:7).
A queste parole il Faraone compie l’ennesima capriola: in un primo momento sembra voler seguire il consiglio dei suoi servitori, ma poi ci ripensa.
• Inevitabile conclusione
Sappiamo come andrà a finire la cosa, ma qui vogliamo sottolineare che l’ostinazione del Faraone non era superabile per via diplomatica, perché avrebbe significato che la più alta autorità della nazione più potente del mondo riconoscesse, con una decisione che dipendeva soltanto dalla sua volontà, che l’Eterno, il Dio degli ebrei, è l’unico vero Dio che ha autorità su tutti e su ogni cosa. E questo, Satana non poteva assolutamente permetterlo. Non poteva permettere che questo avvenisse come “libera” decisione di un suo sottoposto. La decisione ci fu, ma fu “forzata”.
Si compì allora quella parola che dopo il fallimento della prima missione Dio aveva pacatamente detto a Mosè in risposta alla sua accusa di non aver liberato il suo popolo:
“Ora vedrai quello che farò al Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese” (Esodo 7:1).
Il Qatar è riuscito a costruire un’immagine di attore indispensabile sulla scena internazionale, capace di passare con disinvoltura dai salotti diplomatici alle trattative segrete con gruppi armati. Ma dietro questa patina di neutralità si nasconderebbe una strategia accurata che mescola diplomazia, denaro e sostegno al terrorismo. A sostenerlo è Oded Ailam, ex capo della divisione antiterrorismo del Mossad e oggi ricercatore al Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs (JCFA). «Il Qatar ha sviluppato una formula unica, quasi come una start-up globale, paragonabile a Charlie Chaplin che manda un ragazzo a rompere le finestre e poi torna a ripararle», ha dichiarato Ailam ad Arutz Sheva – Israel National News. «Hanno costruito un modello che permette a Doha di essere un attore dominante sulla scena mondiale. Oggi il Qatar è un impero diplomatico, economico e mediatico, costruito deliberatamente per conquistare un ruolo centrale a livello internazionale». Secondo Ailam, la formula ha funzionato: Doha si è proposta come mediatrice tra gli Stati Uniti e i talebani, in Siria con Jabhat al-Nusra, in Nigeria e in altri scenari instabili. «Il mediatore guadagna sempre prestigio, visibilità e potere», osserva. «Non è un caso che il Qatar abbia ospitato la Coppa del Mondo e punti ora a portare a Doha le Olimpiadi del 2036. Si presentano come costruttori di pace globali, ma il rovescio della medaglia è il loro sostegno a movimenti jihadisti».
• L’ombra di Hamas e il ruolo dei media Uno degli esempi più evidenti riguarda Hamas. Dopo l’espulsione dalla Siria nel 2012, la leadership dell’organizzazione palestinese si è trasferita a Doha, dove risiede in condizioni di lusso. Da allora, il Qatar avrebbe trasferito circa 1,8 miliardi di dollari al gruppo, soldi che – secondo Ailam – hanno contribuito a rafforzarne l’apparato militare. «Il Qatar è il patrono dei programmi di Hamas, con Al Jazeera come suo portavoce», accusa. L’emittente qatariota non sarebbe solo un megafono politico: «I video degli ostaggi diffusi da Hamas sono stati realizzati da troupe di Al Jazeera», denuncia l’ex funzionario. E ricorda che poche ore dopo il massacro del 7 ottobre, il ministro degli Esteri di Doha accusò Israele senza mai chiamare Hamas alle proprie responsabilità. Per Ailam, la diplomazia israeliana è stata a lungo «abbagliata dall’offensiva di charme del Qatar», ma la realtà sarebbe diversa. «I veri negoziatori più duri non sono a Gaza, ma a Doha: induriscono le posizioni invece di favorire compromessi. È lecito sospettare che sia il Qatar stesso a spingere verso l’intransigenza».
• L’ambiguità di Doha tra Washington e Teheran Il potere del Qatar si fonda anche su un equilibrio geopolitico attentamente calibrato. Da un lato, ospita la base militare americana di al-Udeid, la più grande del Medio Oriente, considerata un pilastro della presenza statunitense nella regione. Dall’altro, mantiene rapporti stretti con Teheran, con la quale condivide il gigantesco giacimento di gas di North Dome/South Pars. «Doha ha capito come muoversi in equilibrio tra gli opposti», spiegano analisti regionali: agli occhi di Washington appare un alleato indispensabile, ma agli occhi dei movimenti islamisti resta un patrono affidabile. Questo doppio registro consente al Qatar di rafforzare il proprio peso sia in Occidente sia nel mondo arabo, mantenendo margini di manovra che altri Paesi del Golfo non possiedono.
• Influenza economica e scandali politici Secondo Ailam, la strategia qatariota non si limita alla diplomazia. «Stanno comprando l’Europa», denuncia. «Acquistano immobili, aziende, squadre di calcio: si dice possiedano un terzo dei grattacieli di Londra, una quota dell’Empire State Building a New York, oltre a compagnie aeree considerate tra le migliori al mondo». Il soft power sportivo e finanziario si intreccia però con dinamiche meno trasparenti. «Hanno sviluppato un ramo molto ‘interessante’ di acquisti di politici, usando qualsiasi mezzo, comprese le criptovalute», sostiene Ailam. Alcuni casi sarebbero già emersi in Francia e negli Stati Uniti, mentre in Europa il cosiddetto Qatargate ha scoperchiato i canali di influenza all’interno del Parlamento europeo. «Quella vicenda – aggiunge – è solo la punta dell’iceberg. Un intero sistema è in funzione da anni, capace di incidere direttamente sul processo decisionale dell’Unione Europea. Non è difficile capire perché al Qatar, una dittatura priva di diritti umani, sia stata comunque assegnata la Coppa del Mondo». Ailam descrive l’ideologia della famiglia al-Thani come radicale, anche se lontana dal jihadismo tradizionale. «Non vogliono conquistare il mondo sotto un califfato qatariota: conoscono i propri limiti, essendo uno Stato con 200.000 cittadini. Ma puntano al dominio e usano il jihad come strumento per promuovere questa ambizione».
• L’Europa e il dilemma Doha Il quadro tracciato da Ailam apre interrogativi anche per l’Europa. Bruxelles, che continua a intrattenere rapporti economici e politici stretti con il Qatar, si trova oggi in una posizione ambigua: da un lato condanna Hamas come organizzazione terroristica, dall’altro continua a considerare Doha un partner energetico e un interlocutore privilegiato. La vicenda Qatargate ha già mostrato quanto profonda possa essere la penetrazione dell’influenza qatariota nelle istituzioni europee. Alcuni Stati membri hanno chiesto maggiore cautela, mentre altri – attratti dagli investimenti miliardari di Doha – chiudono un occhio. «È proprio questa la forza del Qatar», avverte Ailam. «Mostrarsi come un mediatore indispensabile e allo stesso tempo esercitare una pressione silenziosa sui centri decisionali dell’Occidente». Per l’Unione Europea, dunque, il dilemma resta aperto: continuare a trattare il Qatar come un partner affidabile o riconoscerne il ruolo ambiguo, tra diplomazia e finanziamento del terrorismo.
“Gli ebrei non sono ammessi qui. Niente di personale. Non è antisemitismo. È solo che non vi sopporto”.
Il proprietario del negozio ha giustificato la misura come una protesta contro le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. Ha affermato che ciò non ha nulla a che vedere con l'antisemitismo. Ma chi legge queste parole, chi conosce la storia tedesca, rimane senza fiato. Perché è proprio così che è iniziato tutto: con cartelli che vietavano agli ebrei l'accesso a negozi, ristoranti, istituzioni pubbliche o teatri. All'epoca non era raro leggere a grandi lettere: “Ebrei indesiderati”. Oppure: “Ebrei fuori!” Il fatto che nel 2025 dobbiamo leggere di nuovo frasi del genere per le strade tedesche dimostra che non abbiamo imparato nulla, o forse troppo poco. Le reazioni della politica e della società non si sono fatte attendere. Il responsabile antisemitismo del governo federale, Felix Klein, ha parlato di “antisemitismo nella sua forma più pura”. I politici locali hanno espresso il loro sgomento, la polizia sta valutando la possibilità di perseguire penalmente il reato di incitamento all'odio razziale. Il codice penale tedesco è infatti chiaro: chi denigra o esclude un intero gruppo a causa della sua religione o origine è punibile. Ma al di là degli aspetti giuridici, qui si tratta di morale. Della consapevolezza che dovrebbe caratterizzare la Germania dal 1945. Il ricordo della Shoah, dell'emarginazione sistematica e dello sterminio degli ebrei, non è solo un capitolo nei libri di storia. È un impegno: mai più. Eppure, nel 2025, qualcuno appende un cartello nella sua vetrina che vieta l'ingresso agli ebrei. Con l'aggiunta: “Niente di personale”. Una distorsione assurda e allo stesso tempo amara. Come se fosse possibile smorzare l'antisemitismo con poche parole di relativizzazione. Naturalmente, la critica al governo israeliano deve essere consentita. In una democrazia è ovvio che si mettano in discussione i governi, si critichino le decisioni e si protesti anche a gran voce. Israele non fa eccezione. Qui in Israele, i dibattiti vivaci e spesso molto accesi sul governo fanno parte della vita quotidiana – lo vedo continuamente. Ma è proprio qui che sta la differenza fondamentale: chi critica un governo deve riferirsi a quel governo, non a un intero popolo. Chi appende un cartello con la scritta “Agli ebrei è vietato l'ingresso” non rivolge più la sua rabbia contro una politica, ma contro delle persone. Contro vicini, amici, contro coloro che non hanno nulla a che fare con Gaza o Gerusalemme, se non il fatto di essere ebrei. Questa non è più una protesta politica. È odio verso gli ebrei. E questo odio ha una storia particolare e terribile in Germania. Per questo non bisogna mai minimizzarlo. Questo episodio mi rende arrabbiato e triste allo stesso tempo. Arrabbiato perché dimostra che ci sono persone che evidentemente pensano che sia legittimo escludere interi gruppi solo per la loro appartenenza. Triste perché dimostra che il nostro lavoro di elaborazione storica, il nostro ricordo di ciò che è stato, evidentemente non sono stati sufficienti. Oggi c'è un cartello appeso a una vetrina a Flensburg. Domani altri si sentiranno incoraggiati a fare lo stesso. E a un certo punto una singola provocazione si trasformerà in un clima in cui sarà di nuovo normale emarginare gli ebrei. Un cartello come questo non è un piccolo errore. È un simbolo. E i simboli hanno potere. Il potere di ferire. Il potere di far rivivere la storia. Il potere di polarizzare la società. Questo cartello ricorda a noi tedeschi quanto velocemente le parole possano trasformarsi in fatti. Come da un “divieto di accesso” si è passati al boicottaggio, dal boicottaggio alla privazione dei diritti e dalla privazione dei diritti, alla fine, alla Shoah. No, il negoziante di Flensburg non è Hitler. Ma usa parole che un tempo hanno segnato l'inizio della Shoah. Questo dovrebbe bastare a scuoterci. Non dobbiamo permettere che l'antisemitismo torni ad essere socialmente accettabile, indipendentemente da come venga mascherato. Che si tratti di “critica a Israele”, di ‘provocazione’ o di “antipatia personale”. Parole come queste sono veleno per la nostra società. E ci ricordano che il passato non è così lontano come vorremmo credere. Quando vedo questo cartello, mi chiedo: non abbiamo davvero imparato nulla? Se permettiamo che una cosa del genere torni ad essere normale, allora non abbiamo davvero imparato nulla. Ma se la condanniamo chiaramente, se la perseguiamo legalmente e la condanniamo socialmente, allora dimostriamo di aver imparato molto bene. La scelta spetta a noi. Ed è lei a decidere se le parole “Mai più” sono più di una frase vuota.
(Israel Heute, 19 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La bandiera palestinese esposta in piazza del Campidoglio a Roma, a seguito della decisione dell’Assemblea capitolina per manifestare “vicinanza e solidarietà”, rappresenta un simbolo che va ben oltre gli intenti dichiarati nella mozione. Roma è la Capitale d’Italia, simbolo di civiltà e democrazia, città che porta e racconta nei suoi vicoli, nei muri e nelle piazze oltre 2.000 anni di storia di presenza e di contributo degli ebrei in ogni ambito. La bandiera in Campidoglio è un simbolo che ci racconta anche di due anni di narrativa a senso unico, di distorsioni, di accelerazione verso l’amnesia collettiva del pogrom di Hamas del 7 ottobre e del presente degli ebrei in Europa, in Italia.
Quel vessillo porta con sé ombre inquietanti: negli ultimi due anni, e sempre più quotidianamente, esso è diventato lo sfondo di atti antisemiti, aggressioni contro gli ebrei per le strade, insulti agli studenti, intimidazioni nei confronti dei professori negli atenei e slogan di odio lontani anni luce dalla soluzione per due popoli due Stati, ma che evocano semmai la soluzione finale (a cosa aspira, dopo tutto, chi grida “dal fiume al mare”, se non alla cancellazione dello Stato ebraico?). La violenza cieca di Hamas e il massacro del 7 ottobre 2023 hanno reso chiara la fragilità di chi interpreta la bandiera come simbolo di solidarietà, dimenticando le conseguenze concrete di certi silenzi e ambiguità.
Adesso, un’altra volta, si chiede agli ebrei di abbassare la testa, di aspettare “sotto coperta” che passi, sperando che ciò avvenga senza troppi danni. Ma la storia ci insegna che non è mai così. Che per ogni ambiguità e per ogni viatico alla distorsione, all’antisemitismo mascherato da antisionismo, la Storia presenta il suo conto.
Le vicende di Roma intrecciano storie e anniversari della città e degli ebrei. Tra pochi giorni, il 9 ottobre, ricorderemo l’attentato alla Sinagoga di 43 anni fa, quando un commando palestinese uccise il piccolo Stefano Gaj Tachè. Fu l’odio antiebraico, alimentato da anni di ostilità mascherata da sostegno ai palestinesi, a creare le condizioni per quel vile atto. Come ricordava Gady, fratello di Stefano, scrivendo su questo giornale del primo anniversario del pogrom del 7 ottobre, “fu lo stesso odio a colpire”. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare il memorabile J’accuse pronunciato l’11 ottobre 1982 da Bruno Zevi, proprio nelle stanze del Campidoglio, davanti al Sindaco Ugo Vetere. Zevi denunciò il disinteresse di alcune istituzioni, l’atteggiamento del mondo cattolico, la distorsione dei media e la complicità degli intellettuali nel presentare Israele come unico responsabile dei mali del mondo. Con una frase che resta di straordinaria attualità, impartì una lezione rimasta scolpita nella storia: “L’antisemitismo è esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita: è una contraddizione in termini”.
Domani, 20 settembre, ricorderemo la Breccia di Porta Pia, l’evento che nel 1870 sancì la fine del potere temporale della Chiesa e l’ingresso di Roma nello Stato italiano. Tra i bersaglieri che entrarono nella città c’erano giovani ebrei, pronti a combattere per l’Unità d’Italia. Fu Giacomo Segre, Ufficiale del Regio Esercito, a comandare la batteria di artiglieria che praticò la breccia nelle Mura Aureliane. Da quel giorno, gli ebrei romani non furono spettatori, ma protagonisti: figure come Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, contribuirono a dare alla città una visione moderna; altri parteciparono al governo, al commercio e alla vita culturale, intrecciando il proprio destino con quello della città. Nel giorno in cui Roma dovrebbe celebrare chi l’ha resa libera e unita, issare la bandiera palestinese sul Campidoglio significa voltare le spalle a chi ha contribuito alla vita di questa città. È come chiudere di nuovo i cancelli appena abbattuti, lasciando soli proprio coloro che un tempo avevano lottato per abbatterli.
(Shalom, 19 settembre 2025) ____________________
Per me, romano di nascita e di formazione, veder sventolare in Campidoglio la bandiera della Palestina, come un inno alla barbarie di un odio antiebraico che oggi continua ad esprimersi nella tortura applaudita di esseri umani presi in ostaggio, e questo proprio nel giorno della liberazione di Roma dall’oppressione papalina, è un pugno nello stomaco. Riportiamo due articoli inseriti nel sito esattamente quindici anni fa, giorno del 140° anniversario della Breccia di Porta Pia. M.C.
20 settembre. Quel capitano ebreo che, in fondo, fece un favore al Papa
Il varco, la breccia aperta il 20 settembre 1870 dalle cannonate degli artiglieri piemontesi del generale Cadorna nelle mura di Roma, vicino alla bella e monumentale Porta Pia, rappresentava per i liberali italiani insieme la fine del Risorgimento, il completamento dell'unità nazionale e la conquista della capitale storica.
Per i cattolici papisti voleva dire l'introduzione forzosa dei principi del liberalismo e la fine del potere temporale del papato, cioè dell'abnorme figura del "Papa Re".
Ma, visto col senno di poi, per tutti i cattolici, liberali e papisti, il 20 settembre era in realtà il giorno della rinascita, l'inizio della riscoperta della sfera puramente spirituale e religiosa del cattolicesimo, come era già avvenuto nell'Europa del nord protestante. A Roma e nel Centro Italia (Stato della Chiesa) le incrostazioni da eliminare erano tante, anche rispetto ad altri Paesi cattolici, e proprio per i guasti e la corruzione che il potere temporale aveva generato sul territorio e tra le coscienze. Da allora, insomma, anche i cristiani italiani come i cristiani francesi, tedeschi, spagnoli o americani, smisero di adorare un parroco, un monsignore, un Prefetto della Fede, un Cardinale, un Nunzio, un Ministro, un Delegato di Sua Santità. E riscoprirono, se non Dio, almeno la propria coscienza di Dio.
Tutto merito d'un ebreo.
Ma sì, l'ufficiale israelita piemontese a cui il cattolico Cadorna affidò il compito del primo bombardamento delle mura, per evitare - oh, delicatezza de "li cavalieri antiqui" - che la scomunica decretata dal Papa a chi per primo avesse comandato di sparare toccasse la quasi totalità degli ufficiali italiani. Squisitezze di coscienza d'epoca, machiavelli morali del buon tempo antico che oggi fanno sorridere, ma che dimostrano che non furono i perfidi atei, i mangiapreti, i radicali, i rivoluzionari - che erano una minoranza - a combattere contro il Papa-Re per l'unità d'Italia e i principi liberali, ma i tantissimi liberali cattolici. Che, non erano neanche tutti moderati, anzi.
Però, scusate, facciamo un po' di filologia storico-militare. Tutti dicono che questo benedetto ufficiale ebreo era "un tenente che sparò le prime cannonate". Doppio errore. Gente che non ha neanche fatto il servizio militare. Se no, saprebbe che un ufficiale non può essere addetto ad un cannone. Dunque il "tenente" al massimo avrà ordinato di sparare. Bene. Ma, ditemi, vi pare possibile che un ordine così importante, destinato a cambiare la storia d'Italia, il generale Cadorna lo affidasse ad un giovane ufficiale inferiore? No, lì ci voleva almeno un capitano. E infatti, fu il capitano Segre, ebreo e piemontese tutto d'un pezzo, a ordinare l'attacco fatale.
"C'è una tomba nel cimitero ebraico di Chieri sulla quale è scolpito un simbolo: due cannoni incrociati. È la tomba di un ufficiale di artiglieria, il capitano Segre, che nel 1870 diede l'ordine di "Fuoco!" che aprì la breccia di Porta Pia", ricorda Guido Fubini in una pagina dell'Unione delle Comunità ebraiche.
Segre, un protagonista sconosciuto, uno dei tanti eroi del Risorgimento liberale a cui purtroppo non è dedicata nessuna strada o piazza d'Italia. Grazie, capitano Segre. E grazie ai tanti liberali e patrioti ebrei che animarono il Risorgimento e poi nell'Italia liberale unita salirono con la loro intelligenza ai posti di prestigio in tutti i campi, dall'esercito alla scienza, dall'industria all'amministrazione, alla politica.
A lei, capitano Segre, dedichiamo la più bella, la più vera delle feste nazionali, quella ricorrenza del 20 settembre che il fascismo cinicamente, per puro calcolo politico (Mussolini era ateo) per un piatto di lenticchie eliminò dopo il Concordato, e che ora deve essere assolutamente ripristinata. [...]
(Salon Voltaire, 20 settembre 2006)
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Insieme ai bersaglieri, nel 1870 a Roma è entrata anche la Bibbia
di Marcello Cicchese
«Io non sono profeta, né figlio di profeta, ma in realtà vi dico che non entrerete in Roma» aveva detto Pio IX a chi gli aveva sottoposto la proposta di resa offerta al Papa dal governo italiano.
«Dopo tre giorni di inutile attesa (durante i quali si aspettò invano la dichiarazione di resa), la mattina del 20 settembre (intorno alle nove) l'artiglieria dell'esercito italiano, guidata dal generale Raffaele Cadorna, aprì una breccia di circa trenta metri nelle mura della città, accanto a Porta Pia, che consentì a due battaglioni (uno di fanteria, l'altro di bersaglieri) di occupare la città.» (Wikipedia)
Che a dare l'ordine di sparare sulle mura di Roma fosse stato un ebreo per evitare che la scomunica papale cadesse su un cristiano, è un fatto poco noto. Ma un altro fatto poco noto è che dietro ai bersaglieri c'era un carretto pieno di Bibbie in lingua italiana stampate in Inghilterra dalla British and Foreign Bible Society, pronte ad entrare in Roma.
«XX settembre 1870, una data fausta per le minoranze religiose in Italia, in primis protestanti ed ebrei. Perché? E' molto semplice: perché fino al 20 settembre gli ebrei potevano vivere nella città del papa solo ghettizzati, i protestanti nemmeno quello. Tra la Riforma del XVI secolo e il 1870 a Roma mi risultano soltanto le seguenti presenze protestanti: quella del pastore Giovan Luigi Paschale, ministro delle chiese valdesi di Calabria, che vi fu condotto nel 1561 per essere processato dall'Inquisizione e che fu arso di fronte a Castel Sant'Angelo; i membri protestanti delle ambasciate europee, che nelle sedi diplomatiche potevano celebrare il loro culto, ma che dovevano esser sepolti "fuori le mura" della città santa; quelli che vennero a stamparvi il Nuovo Testamento durante la Repubblica Romana e che dovettero lasciare la città dopo il rientro di Pio IX e furono così risparmiati dall'assistere al rogo papalino dei testi evangelici. Possiamo immaginare - e li condividiamo come cittadini e come cristiani - i sentimenti dei "colportori" che entrarono in Roma poco dopo i bersaglieri con un
carretto di Bibbie trainato da un cane
che portava una gualdrappa con il nome "Pio IX"!
XX settembre 1870, una data fausta per l'Italia. Veniva posta fine ad une delle ultime e più caparbie monarchie assolute dei tempi moderni, che motivava la sua intolleranza e il suo dominio sulle coscienze e sui corpi non solo con il richiamo ad un generico diritto divino, ma con la specifica pretesa che il papa-re fosse il vicario del crocifisso, una contraddizione in termini, tanto più per ogni lettore del Vangelo.» (Daniele Garrone, da NEV - Notizie evangeliche 36/37 - 2009)
La caduta dello Stato pontificio non ha significato soltanto la vittoria del liberalismo laico, ma anche l'introduzione della possibilità di leggere e diffondere la Bibbia in Italia. Potere temporale dei papi e ignoranza popolare andavano di pari passo. La Bibbia era un libro proibito, e più persone sapevano leggere, maggiori erano i rischi per il potere clericale. Per questo nei primi tempi dell'unità d'Italia l'opera missionaria degli evangelici italiani ed esteri è andata di pari passo con la creazione di scuole e asili, perché per conoscere il contenuto della Bibbia è indispensabile saper leggere. Fino a qualche anno fa si potevano trovare ancora dei vecchi che dicevano di aver imparato a leggere sulle pagine della Bibbia. Ed era una Bibbia edizione Diodati, scritta in un italiano antiquato che i giovani scolarizzati di oggi avrebbero qualche difficoltà a capire.
A quel tempo poi non c'era internet: il testo doveva essere portato fisicamente a contatto con le persone. Per questo scopo i colportori usavano la cosiddetta
"carrozza biblica".
Ecco come la presenta l'Osservatore Romano in un articolo del maggio 1890:
«Ora abbiamo anche la "Carrozza Biblica", un ritrovato di cui ha il brevetto d'invenzione la società protestante [...]; lo spacciatore [il colportore] è un tipo fra il ministro evangelico e il cavadenti, il quale dall'alto della vettura cerca di accreditare la merce con discorsi ciarlataneschi nei quali fa entrare un poco di tutto... e le risa di scherno e le apostrofi burlesche che gli vengono dirette devono avergli fatto già inghiottire vari bocconi amari.»
Vengono in mente i versi del poeta romanesco Cesare Pascarella (1858-1940) nella sua famosa "Scoperta dell'America":
Ché mettetelo in testa ch'er pretaccio
È stato sempre lui, sempre lo stesso!
Er prete? È stato sempre quell'omaccio
Nimico de la patria e der progresso.
E in quelli tempi, poi, si un poveraccio
Se fosse, Dio ne scampi, compromesso,
Lo schiaffaveno sotto catenaccio,
E quer che'era successo era successo.
E si poi j'inventavi un'invenzione,
Te daveno, percristo, la tortura
Ner tribunale de l'inquisizione.
E 'na vorta lì dentro, sarv'ognuno,
La potevi tené più che sicura
De fà la fine de Giordano Bruno.
Questo era il sentimento diffuso tra i patrioti di allora. Adesso i tempi sono cambiati, ma non per questo sono migliori. Anzi.
Analisi smentisce il rapporto ONU sul “genocidio” a Gaza
Secondo l’analista John Spencer del sito Washington Free Beacon , “il rapporto non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, dicendo che “non rappresentavano una minaccia esistenziale”. Per il rapporto ONU, inoltre, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano.
di Nathan Greppi
“L’ultimo rapporto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite su Gaza, che conclude che Israele sta commettendo un genocidio, è un caso di studio su come gli organismi internazionali possano mascherare la propaganda con il linguaggio della legge”. Con queste parole inizia un’analisi apparsa sul sito d’informazione americano Washington Free Beacon a firma di John Spencer, direttore esecutivo dell’Urban Warfare Institute. Presentato come un’analisi giuridica da un trio guidato da Navy Pillay, ex-Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, secondo Spencer, “chiunque legga il testo anche con un minimo di spirito critico si renderà conto che non si tratta di un’indagine imparziale. È un documento di attivismo che inizia con un verdetto e procede a ritroso, raccogliendo frammenti di informazioni a supporto della propria affermazione, escludendo tutto ciò che potrebbe complicarla o contraddirla”.
• Omessi i crimini di Hamas Secondo l’analista, “l’aspetto più sorprendente del rapporto non è ciò che afferma, ma ciò che omette”. Innanzitutto, non tratta Hamas come un’organizzazione terroristica e con un apparato militare, e nel menzionare l’offensiva militare israeliana a Gaza, fa solo un vago riferimento agli “attacchi nel sud d’Israele del 7 ottobre”, arrivando persino a dire che “non rappresentavano una minaccia esistenziale per Israele”. Per il rapporto ONU, a Gaza esiste solo una popolazione civile, senza menzionare le decine di migliaia di combattenti di Hamas, né l’arsenale bellico che possedevano quando è iniziata la guerra. Un altro aspetto è che il rapporto ONU non parla mai della rete di tunnel scavati da Hamas sotto la Striscia di Gaza. La parola “tunnel” compare solo una volta, per mettere in dubbio che Mohammed Sinwar sia stato ucciso all’interno di uno di questi tunnel. Scrivono della guerra senza parlare dei tunnel che sono centrali nella strategia militare di Hamas, consentendogli di spostare combattenti, immagazzinare armi, nascondere ostaggi e lanciare attacchi da sotto ospedali, scuole e quartieri. Un’altra omissione riguarda il fatto che il rapporto ignora completamente la distruzione compiuta da Hamas all’interno di Gaza, ad esempio quando trasformavano case civili in trappole esplosive. Così come viene trascurata la pratica di Hamas di utilizzare i civili come scudi umani.
• Gli ostaggi Ad essere trascurata dal rapporto dell’ONU è anche la questione degli ostaggi. Su 72 pagine, la parola “ostaggi” compare solo 4 volte. Non solo non hanno un ruolo centrale, ma in più il documento arriva a mettere in dubbio l’idea se garantirne il rilascio sia un obiettivo strategico legittimo per Israele. Questa non è la prima volta che i membri della suddetta commissione esprimono posizioni controverse: uno di questi, Miloon Kothari, in passato ha sostenuto che i social media siano controllati dalla “lobby ebraica”. Un altro, Christopher Sidoti, ha affermato che le accuse di antisemitismo vengono “lanciate come il riso ai matrimoni”.
L’aggressione al prof Casella era nell’aria, la deriva violenta ricorda quella dell’attentato alla Sinagoga di Roma
di Alessandra Veronese
Dopo l’aggressione al collega e amico Rino Casella, la domanda che tutti – ma in particolare il Rettore e la governance dell’Ateneo – dovrebbero porsi è cosa debba ancora accadere perché si decida di intervenire, per garantire a tutti coloro che insegnano e studiano all’Università di Pisa di esprimersi liberamente e senza rischi per la propria incolumità. Il clima che si respira in Ateneo è già da molti mesi pesantissimo: il punto non era dunque se dalle parole si sarebbe passati alla violenza fisica, ma quando. Quanto successo durante la lezione del prof Casella (offeso e infine malmenato da un gruppo di studenti “pacifisti”, per i quali evidentemente la non-violenza va applicata selettivamente) era un evento annunciato; ritengo moralmente responsabile il Rettore Zucchi di un eventuale, possibile peggioramento dell’attuale situazione: ha tollerato dapprima le “accampate”pro-Pal, con tanto di bandiere e tende nel giardino del mio Dipartimento (con relativi danni, ma si sa, “sono ragazzi”), poi le scritte contro Israele sul muro del Polo della Memoria “San Rossore 1938”. Scritte che non sono state rimosse, nonostante una richiesta arrivata anche dalla Comunità Ebraica, con la risibile motivazione della mancanza di fondi. E ha infine spinto per la sospensione degli accordi bilaterali con la Hebrew University e la Reichman University, colpevoli – a suo dire – di “rapporti con l’esercito israeliano”, contribuendo alla “mostrificazione” di Israele. Già a dicembre 2023, quando la guerra a Gaza era appena iniziata e gli ostaggi erano ancora tutti nelle mani di Hamas, si erano avute le prime avvisaglie di boicottaggio: due colleghi del mio Dipartimento e membri del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici “Michele Luzzati” (CISE), di cui ero all’epoca direttore, si sono opposti alla presentazione dell’ottimo libro di Samuele Rocca sugli ebrei nell’Italia imperiale. Il motivo? Lo studioso insegnava “anche ad Ariel”, un Ateneo che si trova nei cosiddetti “territori occupati”. Non ci si opponeva, insomma, ad accordi bilaterali, ma a un invito a un singolo studioso, peraltro noto per la sua avversione a Netanyahu. Pochi mesi dopo, il nuovo direttore del CISE e la Giunta mi hanno negato il patrocinio per una giornata di studio sulle università israeliane dopo il 7 ottobre, che vedeva invitati anche docenti di chiara fama come Sergio Della Pergola e Tamar Herzig. Anche in questo caso, la motivazione era risibile: non si trattava – a loro giudizio – di un convegno sufficientemente scientifico. Senza patrocinio, l’evento ha dovuto essere cancellato. Il Rettore, che pure aveva promesso di dare spazio a tutte le voci, in nome della par condicio, di fatto non si è mai sforzato di promuovere iniziative che consentissero di confrontarsi partendo da narrative diverse. In seguito, sono arrivate le mozioni dei Dipartimenti, tutte ovviamente contro Israele. Significativo che i colleghi, così profondamente scossi da quanto stava accadendo a Gaza, non abbiano mai sentito l’imperativo morale di esprimersi relativamente ad altre tragedie umanitarie, sei delle quali considerate dagli organismi internazionali assai più gravi e con un numero di vittime molto più elevato. La mozione del Dipartimento di Scienze Politiche ha avuto un solo voto contrario, quello del docente aggredito: da allora, i suoi simpatici colleghi ne parlano come del “sionista Rino Casella”. Nel mio Dipartimento, i voti contrari sono stati pochi di più, oltre a qualche astenuto: in compenso, qualcuno è intervenuto sostenendo che Hamas non sarebbe solo un gruppo terrorista ma un soggetto politico, rammaricandosi del fatto che non sia possibile firmare accordi di cooperazione scientifica. In questo clima avvelenato, il 5 settembre c’è stato un ennesimo deplorevole episodio: durante la cerimonia in cui si commemora da anni la firma a San Rossore – allora proprietà dei re d’Italia – delle leggi razziste che trasformarono 50mila cittadini ebrei italiani in individui di serie B, il presidente dell’ANPI si è esibito in un improvvido accostamento tra quell’evento e Gaza, invitando “a non voltarsi dall’altra parte”. Invito curioso, visto che ormai non c’è tg che non si apra informandoci di quanti civili l’esercito di Israele avrebbe eliminato. L’aggressione al collega, dunque, non mi stupisce. Mi stupisco, anzi, che sino ad ora non abbiano aggredito anche me. Come Casella, anche io sono “sionista”, termine che nella mente di alcuni si configura ormai come un insulto, anche se c’è da dubitare che gli odiatori pro-Pal abbiano studiato abbastanza da sapere che cosa fu veramente il sionismo. Tutti costoro affermano di essere “solo” antisionisti, non antisemiti; negano il diritto all’esistenza di Israele e dividono ormai da mesi gli ebrei italiani in “buoni” e “cattivi”. I buoni, ovviamente, sono quelli che si affannano a dichiararsi contro Israele. Gli altri sono cattivi, e quindi vanno insultati e boicottati. Questo clima violento e intollerante mi riporta con la memoria ai giorni bui del 1982, e ai sempre più espliciti discorsi d’odio, con il tragico epilogo dell’attentato alla Sinagoga di Roma, con oltre 40 feriti e un morto, il piccolo Stefano Gay Taché, di soli due anni. E mi chiedo: dobbiamo aspettare un’altra tragedia simile per porre un freno alle manifestazioni d’odio antiebraico negli Atenei e sui social?
Israele: operativo l’Iron Beam, il sistema laser che intercetta missili e droni
di Jacqueline Sermoneta
Test superati con successo. Star Wars? No, realtà. Il sistema di difesa laser ad alta potenza “Iron Beam” è operativo e sarà consegnato alle Forze di Difesa israeliane (Idf) entro la fine dell’anno. Ad annunciarlo il Ministero della Difesa israeliano e l’industria militare israeliana Rafael, che ha prodotto il sistema.
In un gesto simbolico, è stato dato anche un nuovo nome in ebraico all’Iron Beam: da ‘Magen Or’ (scudo di luce) a ‘Or Eitan’ (luce di Eitan), in memoria di Eitan Oster, 22 anni, comandante dell’Unità di commando Egoz, ucciso combattendo contro Hezbollah nel Libano lo scorso ottobre. Il padre di Oster, che lavora per la DDR&D – Directorate of Defense Research and Development -, è stato tra coloro che hanno concepito e sviluppato la sofisticata tecnologia.
L’Iron Beam è in fase di sviluppo già da oltre dieci anni. È stato presentato per la prima volta nel 2014. Durante l’attuale guerra, una versione meno potente del sistema è stata utilizzata dalle Idf per abbattere alcuni droni di Hezbollah, lanciati dal Libano.
L’Iron Beam (o ‘Or Eitan’) non è concepito per sostituire l’Iron Dome o gli altri sistemi di difesa aerea come David’s Sling e Arrow, ma per integrarli e completarli. Il laser utilizza una fonte di energia elettromagnetica costante, quindi ha una capacità ‘illimitata’ e non necessita di munizioni. Nella sua versione più potente, è in grado di sparare un raggio di 450 millimetri con una potenza di 100 kW, impiegando circa 4 secondi per distruggere droni e missili e poi passare al successivo. Inoltre, c’è un enorme risparmio economico: il suo colpo (solo il costo dell’energia necessaria per il fascio laser) si aggira intorno ai 2 dollari. I funzionari lo hanno salutato il sistema come un potenziale “punto di svolta”. Con la dichiarazione di operatività dell’Iron Beam, “si prevede un significativo balzo in avanti nelle capacità operative del sistema di difesa aerea, grazie alle armi laser a lungo raggio”, ha affermato il Ministero.
Lo scorso giugno, l’azienda Rafael aveva presentato al Salone Aeronautico di Parigi tre “sistemi d’arma laser ad alta energia”, che hanno alla base questa sofisticata tecnologia. L’Iron Beam 450, la versione aggiornata dell’Iron Beam; l’Iron Beam M, una versione compatta e mobile dell’intercettore laser, progettato per essere montato su camion e utilizzato dalle Forze di terra o per proteggere siti strategici; e il Lite Beam, un intercettore laser leggero, compatto e di minore potenza, progettato per essere montato su veicoli trasporto truppe o altri veicoli blindati durante le operazioni a terra.
L’azienda Rafael ha anche affermato che sta sviluppando una versione navale dell’intercettore laser, che può essere installato sulle imbarcazioni della Marina.
L’Iron Beam “pone lo Stato di Israele all’avanguardia della tecnologia militare mondiale e fa dello Stato di Israele il primo Paese a possedere questa tecnologia” – ha detto il ministro della Difesa Israel Katz – Questo non è solo un momento di orgoglio nazionale, ma una pietra miliare storica per il nostro sistema di difesa: un’intercettazione rapida, precisa ed economica che si integra agli strumenti difensivi esistenti e cambia l’equazione della minaccia”.
C’è un trucco francamente ignobile che oggi imperversa nel racconto del 1947-48: si annerisce Israele alle origini, si sbiancano leadership e milizie arabe, e un conflitto sporco di scelte diventa fiaba morale a buon mercato. Funziona perché è semplice. Ed è fuorviante. Nell’articolo di Lorenzo Cremonesi sul Corriere, la Nakba viene spacciata per un progetto unico e lineare di “cacciata”, un copione scritto in anticipo e recitato senza deviazioni. È narrativa consolatoria, non storia. Nessuno nega la tragedia dell’esodo palestinese, né minimizza massacri, espulsioni, vendette e paure. Ma un quadro onesto pretende cornice e profondità: la Risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 che prevede due Stati; l’accettazione ebraica e il rifiuto arabo; i mesi di guerra civile nel Mandato britannico con attentati, convogli colpiti, città miste lacerate; e, dal 15 maggio 1948, l’invasione degli eserciti arabi. Dentro quel teatro ogni villaggio, ogni snodo stradale, ogni quartiere diventa, tragicamente, un obiettivo militare. Qui va collocato il Piano Dalet, agitato come pistola fumante dell’“espulsione premeditata”: un piano operativo per garantire continuità territoriale, protezione delle vie di comunicazione e contrasto a milizie ostili. Che da esso siano scaturite anche espulsioni e abusi è vero. Che fosse un manifesto di pulizia etnica scritto al tavolo, è un falso. Scambiare un documento militare per un programma ideologico di annientamento civile è comodo per chi vuole un verdetto, non per chi cerca una verità scomoda e composita. Colpisce poi la disinvoltura con cui si cancellano le molte cause dell’esodo. In alcuni luoghi si combatte casa per casa e la popolazione fugge. Altrove comandanti e notabili arabi ordinano o caldeggiano evacuazioni tattiche, promettendo – anzi, assicurando – un ritorno dopo la “vittoria” e la cacciata degli ebrei. Altroché avvelenamento dei pozzi. In altre situazioni autorità ebraiche e britanniche invitano a restare; a Haifa gli appelli pubblici, documentati, furono ignorati da una leadership che scelse il ritiro. Negare questa varietà significa truccare il tavolo: ridurre tutto a “cacciata sistematica” è lo stesso vizio di chi, ieri, assolveva ogni responsabilità israeliana. Cambia il bersaglio, non il metodo. C’è infine l’uso strumentale dei “nuovi storici”. Si brandisce Benny Morris come clava per dimostrare la tesi dell’intenzione unica, dimenticando che proprio Morris ha scritto più volte che non esisteva un piano prebellico esplicito di espulsione generale e che le dinamiche dell’esodo furono molteplici, contraddittorie, spesso contingenti. Lo si cita a pezzi, lo si moralizza, lo si piega. E si elevano Irgun e Lehi a motore ideologico dell’intero movimento sionista, cancellando l’Haganah e la sua cultura politico-strategica, perché altrimenti il teorema perde nitidezza. Le parti si scambiano per il tutto: errore metodologico, comodo pregiudizio. Da qui nasce la demonizzazione retrospettiva di Medinat Israel. Se la storia della nascita di Israele è “cacciata degli arabi”, ogni sviluppo successivo diventa corollario di un peccato originale: pulito, rassicurante, falso. Spariscono le responsabilità dei vertici arabi nel 1947-48, che preferirono la guerra alla nascita, accanto allo Stato ebraico, di uno Stato arabo votato dalle Nazioni Unite. Svanisce l’ovvio – e rivoluzionario – che due nazionalismi in conflitto non si neutralizzano proclamando uno colpevole e l’altro innocente, ma si governano con patti, confini, rinunce reciproche. Indignarsi costa meno che leggere le carte con occhio chiaro, pulito, e non strabico. E poi c’è ciò che non entra mai a bilancio: oltre seicentomila ebrei scacciati o fuggiti dai Paesi arabi negli stessi anni, privati di beni e cittadinanza. Non è telegenico? Allora si espunge. Come si espunge – con mano leggera ma sistematica – la constatazione decisiva che l’esito politico del 1948 fu il fallimento di una leadership araba incapace di costruire istituzioni, più attratta dalla promessa di cancellare Israele che dalla fatica di edificare uno Stato. Denunciare una rimozione praticandone un’altra: ecco il giochetto. Diciamolo chiaro: l’equiparazione, secondo la sconcia moda quotidiana, tra Shoah e Nakba – esplicita o insinuata – è un’operazione intellettualmente scorretta. Non perché il dolore palestinese sia indegno, ma perché le categorie non sono intercambiabili: da una parte lo sterminio industriale di un popolo inerme in Europa; dall’altra la conseguenza tragica di una guerra avviata per impedire la nascita di uno Stato deliberato dall’Onu. Mettere sullo stesso piano ciò che è incommensurabile non nobilita i palestinesi ma di sicuro scredita chi lo fa. Criticare Israele è legittimo. Persino doveroso. Spacciare il 1947-48 per un’azione centrata su un infame e presunto avvelenamento dei pozzi e su una “distruzione metodica” predeterminata è fragile nelle fonti e tossico nel dibattito pubblico. Regala ai non specialisti l’illusione di aver capito in sei minuti una vicenda che chiede almeno un minimo di rigore che dovrebbe guidare persino chi esercita il mestiere aereo, spesso futile e ancor più spesso superficiale del giornalismo. E, sottotraccia, alimenta l’idea che la sola soluzione “giusta” sia l’azzeramento dell’esperimento sionista: come se l’esistenza di Israele fosse l’errore da correggere. O, meglio, da cancellare. Qui la semplificazione diventa complicità culturale con i professionisti della delegittimazione. Si può – e si deve – discutere la condotta delle forze ebraiche nel 1948, compresi atti inaccettabili. Lo si può fare senza feticizzare il Piano Dalet. Si può riconoscere che l’esodo palestinese ha cause molteplici, non ultime le sciagurate scelte arabe, e che la storia non è un processo sommario in cui si cerca la pena esemplare. Soprattutto, si può uscire dalla moda del “pezzo che fa giustizia morale” e tornare a un’antica virtù: distinguere. Il che non assolve nessuno ma sottrae la verità alle tifoserie. Se davvero vogliamo che le parole non preparino altre catastrofi, forse dovremmo smetterla con la scorciatoia della “Nakba totale”. Raccontiamo la nascita di Israele per ciò che fu: l’attrito duro e concreto di due diritti nazionali, in un Medio Oriente dominato da regimi che scelsero la guerra e da leadership palestinesi che troppo spesso imposero la promessa di un ritorno impossibile invece del lavoro paziente – e impopolare – di costruire un futuro accanto a Israele. Meno glamour, più realtà. È lì che sta l’utilità, per chi ancora oggi – da entrambe le parti – paga il conto di quelle scelte.
Se per Antonio Polito Gaza è un ghetto e il Qatar è un mediatore
di Iuri Maria Prado
Scrive Antonio Polito sul Corriere della Sera: “Ora, dopo aver trasformato il ghetto in una fossa comune, Netanyahu si riprende la Striscia con una guerra senza quartiere che identifica il popolo palestinese con Hamas, e che per questo durerà per generazioni”. “L’obiettivo storico di Israele”, continua Polito, cioè “difendersi con le armi dai suoi nemici per fare con loro la pace, si è capovolto nel suo contrario: la guerra permanente su sette fronti, colpendo anche chi, come l’Oman o il Qatar, si presentava come mediatore”.
Analizziamo una per una queste belle trovate dell’editorialista del Corriere della Sera. “Trovate” per modo di dire, perché sono il recupero di un ordinario refluo della sentina social.
Dunque:
1) Gaza sarebbe stata un “ghetto”. L’uso di questa parola, “ghetto”, è preciso: i palestinesi come gli ebrei. I palestinesi perseguitati come gli ebrei, e il persecutore – cioè Israele – nella posizione, nella funzione, nelle responsabilità che furono dei persecutori degli ebrei. Questa è tecnicamente una proposizione antisemita. Testualmente: “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti”, che è una delle figure di antisemitismo descritte da International Holocaust Remembrance Alliance, cui l’Italia aderisce.
2) Il ghetto trasformato in una “fossa comune”. Di nuovo: l’evocazione delle persecuzioni degli ebrei e delle distruzioni dei ghetti ebraici paragonate alla guerra di Gaza. Antonio Polito come un Di Battista qualunque. Come un Orsini qualunque. E il Corriere della Sera che dà spazio a questi spropositi. Che non sono – attenzione – farneticazioni: sono aggressioni. È vilipendio, letteralmente.
3) La “guerra permanente su sette fronti”, scrive Antonio Polito. Quindi è Israele che ha aggredito il Libano, lo Yemen, l’Iran… Non ci sono le migliaia di missili che inceneriscono la Galilea: c’è Israele che aggredisce il Libano. Non ci sono le bande di fondamentalisti che lanciano missili sui civili israeliani e sparano sui navigli commerciali nel Mar Rosso: c’è Israele che aggredisce lo Yemen. Non c’è la Repubblica delle impiccagioni che lancia centinaia di missili, razzi, droni sui civili israeliani e finanzia tutto il terrorismo del Medio Oriente, rivendicando di voler distruggere Israele e uccidere anche l’ultimo ebreo in Israele e nel mondo: c’è Israele che attacca l’Iran.
E infine il Qatar, che “si presentava come mediatore”, scrive Polito. Il Qatar che il 7 ottobre del 2023 emetteva un comunicato secondo cui il responsabile esclusivo era Israele. Ma evidentemente Antonio Polito non l’ha letto, quel comunicato: oppure (più probabile) è d’accordo con quel comunicato. E Antonio Polito non ha visto i leader di Hamas che nelle residenze dorate del Qatar festeggiavano in diretta i massacri, gli stupri, i rapimenti del 7 ottobre. Era distratto, Polito. Stava studiando la storia del ghetto di Gaza.
A Monaco è nata una nuova alleanza transnazionale contro l’antisemitismo che raccoglie oltre 200 comunità ebraiche, organizzazioni e chiese di Germania, Austria e Svizzera. L’iniziativa propone un piano in cinque punti per rafforzare sicurezza e libertà della vita ebraica ed è stata rilanciata con una petizione online da Guy Katz (nell’immagine), professore di gestione internazionale all’Università di Scienze Applicate di Monaco. «Viviamo nella paura», ha dichiarato Katz, ricordando che nel 2024 in Germania si sono registrati 8.627 incidenti antisemiti, con un aumento del 77% rispetto all’anno precedente. «Non possiamo farlo da soli, abbiamo bisogno del sostegno della società», ha aggiunto.
Il piano chiede un rafforzamento della legislazione contro l’incitamento all’odio: «La soglia di responsabilità penale dovrebbe essere abbassata al fine di proteggere efficacemente la vita ebraica», sottolineano i promotori. Si chiede di perseguire penalmente chi lancia appelli alla distruzione di Israele e di vietare «gli eventi in cui viene espresso odio contro gli ebrei o l’annientamento di Israele». Altre richieste riguardano il divieto dei boicottaggi accademici e culturali e una protezione più attiva di sinagoghe, memoriali ed eventi pubblici ebraici. Centrale anche il riconoscimento delle festività religiose, troppo spesso ignorate da scuole e datori di lavoro: i promotori ricordano che i dipendenti non dovrebbero subire alcuno svantaggio in quei giorni, «ad eccezione della perdita di guadagno per il tempo non lavorato».
Un punto cruciale è l’educazione, con l’introduzione di «contenuti educativi vincolanti» sulla vita ebraica e sull’antisemitismo nei programmi scolastici e universitari e la nomina di commissari contro l’antisemitismo in ogni ateneo, sul modello già sperimentato in Baviera. La dimensione culturale è stata sottolineata con forza: «Sono sconvolta dalla mancanza di solidarietà, soprattutto tra i giovani», ha affermato l’attrice Uschi Glas, denunciando «ignoranza e parzialità, soprattutto tra i giovani», e chiedendo che fondi pubblici non finanzino progetti che diffondono odio mascherato da attivismo politico.
Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera e sopravvissuta alla Shoah, ha ribadito che contrastare l’antisemitismo significa rafforzare la coesione dell’intera società. «Il potenziale di questa iniziativa è enorme», ha affermato, confessando la difficoltà di tornare a parlare pubblicamente di questi temi, «perché li ho già vissuti in passato». Il suo invito, come degli altri promotori, è alla società civile di partecipare in massa alla manifestazione contro l’antisemitismo organizzata a Monaco per il prossimo 5 ottobre. Proprio nella capitale della Baviera, il cancelliere Friedrich Merz, celebrando il recente restauro di una sinagoga, ha dichiarato «guerra a ogni forma di antisemitismo vecchio e nuovo in Germania a nome dell’intero governo federale».
Tra i sostenitori dell’alleanza e del piano in cinque punti figurano la premio Nobel per la Letteratura Herta Müller, l’attrice Iris Berben, il commissario governativo per l’antisemitismo in Germania Felix Klein e il ministro della Cultura tedesco Wolfram Weimer. L’iniziativa punta a raccogliere 100mila firme: superata la soglia delle 30mila, i promotori avrebbero già diritto a un’audizione al Bundestag, ma l’obiettivo è lanciare un messaggio più forte. «Non credo che la maggior parte dei tedeschi sia antisemita», ha sottolineato Katz. «Ma credo che la maggior parte dei tedeschi sia molto silenziosa. E questo ricorda un po’ la situazione degli anni ’30». E ha aggiunto: «Se non raggiungiamo le 100mila firme, possiamo anche andarcene».
Una normale lezione di Diritto pubblico comparato all’Università di Pisa, tenuta dal professor Rino Casella, che in pochi attimi diventa il teatro di un’azione squadristica. Un gruppetto di attivisti propal fa irruzione nell’aula agitando bandiere palestinesi, interrompe la lezione, occupa l’aula e spedisce il professor Casella al pronto soccorso con una prognosi di 7 giorni.
- Professore ci racconti com’è andata Stavo tenendo la mia lezione quando una trentina di facinorosi sono entrati nell’aula e sono saliti sulla cattedra strappandomi il libro che avevo in mano. Avevo anche un quadernino con la bandiera americana e hanno cominciato a chiamarmi “sporco imperialista” strappandomi il microfono. Ma quella bandiera era sul mio quaderno perché spiego anche l’ordinamento americano. È parte del programma didattico. Ho cercato di continuare la lezione alzando il tono della voce ed è allora che mi hanno spintonato e allontanato dalla cattedra. Gli studenti non hanno assolutamente solidarizzato con loro, anzi hanno chiamato più volte la polizia. Nel frattempo, uno studente ha cercato di togliere la bandiera palestinese ed è stato preso a calci e pugni e io mi sono frapposto nell’illusione che il mio ruolo istituzionale potesse proteggermi e invece mi sono preso un cazzotto e una gomitata e sono finito al pronto soccorso.
- Questo gruppo era composto da studenti? No, non erano tutti studenti, era un collettivo che a Pisa si sta agitando tantissimo. Ha occupato la stazione e ieri sera ha fatto un’altra manifestazione bruciando la bandiera israeliana. Ieri ce l’avevano con l’università perché, a detta loro, crea laureati per Leonardo che produce le armi. L’ennesimo ipocrita paradosso, che insieme ad una collega abbiamo denunciato, è che si chiede di boicottare le università israeliane ma non le università dell’Iran che produce i droni con cui viene bombardata l’Ucraina.
- Anche le istituzioni accademiche hanno le loro responsabilità Certamente ce l’ha anche il nostro Ateneo, perché un po’ li sostiene questi personaggi. Ci dialoga. Pochi giorni fa, per dire, il rettore ha sostenuto la Global Flottilla. Questo crea una situazione di ambiguità cosicché quando succedono problemi di ordine pubblico con minoranze molto violente l’università si trova in una posizione di debolezza e sembra quasi che si debba giustificare mentre esprime la propria condanna. Al contempo debbo dire che la maggioranza degli studenti vuole solo studiare e non solidarizza con i violenti.
- Che tipo di reazioni ci sono state tra i suoi colleghi? Il mio è un dipartimento molto schierato e molti sono rimasti in silenzio. Però stamani (ieri mattina n.d.r.) c’è stato il Consiglio di dipartimento ed è stato molto bello sapere che hanno adottato la proposta di accompagnarmi tutti insieme quando riprenderò le lezioni la settimana prossima, un gesto simbolico molto bello, anche molto intenso sul piano emotivo personale. Anche se presumo che molti colleghi non parteciperanno.
- Un bel gesto in un clima avvelenato. Il clima è quello che è. O ci si adegua alla narrativa o siamo assassini, sionisti, complici dello sterminio, agenti del Mossad, eccetera eccetera. Come si fa a discutere all’università in un clima del genere? Anche la persona con le migliori intenzioni si arrende perché il clima è davvero tossico e credo che agevoli poi episodi come quello capitato a me. Spero che questa cosa apra un po’ gli occhi e le menti.
Il quotidiano La Stampa ha offerto la propria prima pagina al rettore del Politecnico di Torino, Stefano Corgnati, per illustrare i motivi della cacciata di un professore ebreo molestato da squadracce pro-Pal durante una lezione. Ovviamente né La Stampa né il responsabile del provvedimento di repulisti presentano in quel modo la faccenda. Il manipolo di sgherri che ha interrotto la lezione molestando il professore è trasfigurato in un leggiadro consorzio di “alcuni studenti esterni al corso”, i quali “hanno sollevato questioni” in merito all’azione dell’esercito israeliano. Invece le risposte del professore – che ha servito nell’esercito israeliano, da lui giudicato “il più pulito” – diventano “esternazioni” che “appaiono inappropriate nel contesto di un compito didattico relativo a lezioni di carattere tecnico” e rischiano “di alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica”. Ricapitoliamo? “Inappropriato” non è il fatto che un branco di molestatori interrompa la lezione, ma il fatto che la vittima della molestia risponda dicendo di aver servito nell’esercito e di considerarlo esemplare. Ad “alzare il livello di tensione nella comunità studentesca e accademica” non è l’irruzione della falange pro-Pal al Politecnico di Torino, ma la “esternazione” del professore che osa dichiarare di aver prestato servizio nell’esercito e di averne apprezzato la levatura morale. Ma il meglio è quando il rettore dell’istituto torinese spiega che “quanto prima” parlerà con il professore “per comprendere meglio i contorni della vicenda e le motivazioni delle sue risposte”. Un processino interno, diciamo, nell’attesa del quale vale il “raus” pronunciato sulla scorta di “quanto risulta dai frammenti video diffusi sui social”. È dubbio se, per la conferma del provvedimento, occorrerà sentire anche il parere del capo caseggiato. Delizioso, infine, è il riferimento del rettore alla funzione profilattica della cacciata: “rappresenta”, spiega, “un’azione di tutela nei confronti del docente nostro ospite, così come degli studenti che frequentano le sue lezioni”. Le ragioni della tutela degli studenti, per carità, sono chiare: rischiavano di essere ulteriormente esposti alla contaminazione sionista, e ci sta. Ma tutela del docente in che senso? Lo proteggiamo dal pericolo di essere molestato (o peggio) sbattendolo fuori? I ghetti avevano una funzione analoga.
Certo che la realtà di Gaza è un inferno, anzi è più infernale di quanto descrivono le “anime belle” che odiano Israele. Ma questo abisso infernale esprime realtà, disvalori, sentimenti, finalità che formano, giorno per giorno, una guerra ibrida martellante, totalizzante, che ribalta tutto con feroce cinismo. Tutti i riflettori del mondo puntati su Gaza, mentre cala il buio su tante altre stragi e delitti disumani, dall’Iran all’Afghanistan. A Gaza 13mila operatori ONU, ottanta ONG, 1300 giornalisti accreditati. Tutti per una massiccia operazione di mistificazione, fabbrica di falsità, odio scatenato. Un mare di giornalisti falsari, pappagalli del terrore, senza giornalismo d’inchiesta, contraddittorio, con la censura totale sui tunnel, sulle strutture terroriste, i depositi di armi, sotto ospedali (veri e finti), scuole, moschee, abitazioni civili. Censura su Hamas che ruba il cibo, lo trattiene o lo rivende a prezzi maggiorati, quando dovrebbe essere naturalmente gratuito, con proventi che vanno a finanziare l’attività terrorista; Hamas sequestra con la violenza armata il cibo della Gaza Humanitarian Foundation, che consegna un’enorme quantità di pasti ogni giorno. Censura sull’arruolamento forzato dei minori, censura sulla condizione Auschwitz degli ostaggi israeliani, sulla vendita dei cadaveri, sull’eliminazione fisica dei gazawi dissidenti. Tutta una costruzione mediatica artificiale, ideologica, con inversione dei ruoli di vittima e carnefice. Tirannia mediatica che abolisce razionalità critica, dibattito, ogni dissenso dalla versione ufficiale dominante. Tutta la presenza dell’ONU nella Striscia è una convivenza complice con Hamas. La retorica umanitaria maschera il volto di un anti-umanitarismo di una crudeltà spietata. Una sinistra dell’odio e una destra moderata ignava sfruttano con cinismo la comoda rendita, a portata di mano, di un imperialismo mediatico che ribalta fatti e valori, per i loro calcoli. La dittatura della disinformazione in una dittatura elettorale, dove la schiavitù ad Hamas si fonde con l’incapacità difensiva e le tendenze autodistruttive delle correnti antioccidentali in Occidente. Da qui la negazione della realtà vivente di Israele, che sta realizzando con coraggio sia la propria esistenza sia i compiti propri della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, della giustizia di tutte le democrazie del mondo. La guerra è lunga proprio perché l’autodifesa israeliana realizza tattiche difensive selettive, a cominciare dai bombardamenti sulle strutture terroriste preceduti da appelli all’evacuazione per salvare vite umane. Niente di tutto questo, invece, nei bombardamenti sommari, massicci della coalizione anti-Isis a Mosul, o degli Alleati per la capitolazione di Germania e Giappone: attacchi senza avvisi di evacuazione o distribuzione di cibo, fino agli estremi di Dresda e dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki. La storia democratica ha accettato queste tragiche necessità. L’atomica ha suscitato un naturale dibattito etico, ma allora venne accettata e, in quel dibattito, lo stesso Norberto Bobbio la giustificava. Questa comparazione mostra che l’israelofobia su Gaza è antisemitismo tossico, filoterrorismo militante, ideologia e prassi antioccidentale. La sofferenza a Gaza, oltre quella vissuta, è generata e amministrata come arma politica per spostare i precari equilibri di un mondo tormentato e devastato a favore delle autocrazie e dei totalitarismi, con i loro orrori terroristi. Video di bambini affamati, di vittime, si trasformano in contenuti mediatici della guerra ibrida. Ogni tentativo onesto e umanizzante di squarciare il regime mediatico antisemita viene criminalizzato. La funesta ideologia antioccidentale, comune ad Hamas e al dominio mediatico, sfrutta proprio l’etica ebraica per eliminare l’unico, piccolo Stato ebraico al mondo. L’autolimitazione-autoregolazione della difesa israeliana viene sfruttata con un cinismo assoluto, considerandola una debolezza per intensificare l’aggressione fisica e la calunnia morale. La legittimazione della menzogna sistematica e del terrore genocida costituisce un autentico collasso morale dell’Occidente. Gaza è diventata la causa delle anime belle, ma è una vera trappola, fisica, militare e psicologica: da ogni anfratto, dai sottoscala, da tutte le strutture sotterranee di morte spietata, viene fuori l’agguato del mostro infernale. Realtà negata da una trappola ideologica che ribalta oppressori e oppressi, carnefici e vittime. Davide Cavaliere ci ha ricordato le nobili parole di Imre Kertész, grande scrittore ebreo ungherese, deportato quindicenne ad Auschwitz e poi trasferito a Buchenwald, Premio Nobel per la letteratura nel 2002: “Lo confesso con sincerità: quando per la prima volta vidi sullo schermo televisivo i mezzi corazzati israeliani diretti a Ramallah, inconsapevolmente e ineluttabilmente mi penetrò come una fitta questo pensiero: Dio mio, quant’è bello vedere la stella di Davide sui carri armati israeliani, piuttosto che cucita sul mio vestito, come avvenne nel 1944”.
La Paramount denuncia gli appelli al boicottaggio di Israele nel cinema: “Non fa avanzare la pace"
“L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.” Così la grande casa di produzione ha risposto all’appello firmato da 4.000 persone del mondo del cinema per boicottare le istituzioni cinematografiche israeliane.
di Nina Prenda
La Paramount ha condannato un impegno firmato questa settimana da oltre 4.000 attori, intrattenitori e produttori, tra cui alcune star di Hollywood, a non lavorare con istituzioni cinematografiche israeliane che affermano “sono implicate nel genocidio e nell’apartheid contro il popolo palestinese”. Tra i firmatari degli impegni ci sono gli attori Olivia Colman, Emma Stone, Mark Ruffalo, Tilda Swinton, Riz Ahmed, Javier Bardem, Joaquin Phoenix, Emma D’Arcy, Eric Andre, Elliot Page e Cynthia Nixon. La dichiarazione ha spinto Paramount a rispondere all’impegno rilasciato lunedì 15 settembre. “In Paramount, crediamo nel potere della narrazione per connettere e ispirare le persone, promuovere la comprensione reciproca e preservare i momenti, le idee e gli eventi che modellano il mondo che condividiamo. Questa è la nostra missione creativa”, si legge nella dichiarazione. “Non siamo d’accordo con i recenti sforzi per boicottare i registi israeliani. Mettere a tacere i singoli artisti creativi in base alla loro nazionalità non promuove una migliore comprensione o avanza la causa della pace”, ha continuato la dichiarazione. “L’industria globale dell’intrattenimento dovrebbe incoraggiare gli artisti a raccontare le loro storie e condividere le loro idee con il pubblico di tutto il mondo. Abbiamo bisogno di più impegno e comunicazione, non di meno.” L’impegno si distingue da altri precedenti boicottaggi di arte e cultura in Israele, in quanto menziona specificamente le istituzioni culturali israeliane che i firmatari della lettera stanno boicottando. Tra queste, importanti festival cinematografici israeliani come il Jerusalem Film Festival, l’Haifa International Film Festival, il Docaviv e il TLVfest. L’impegno non si rivolge specificamente agli individui israeliani. Invece, il documento dice che il “rifiuto mira alla complicità istituzionale, non all’identità” e che “alcune entità cinematografiche israeliane non sono complici”. Diverse lettere aperte firmate da figure di spicco del cinema, della musica e della letteratura sono state pubblicate mentre la pressione aumenta sul governo israeliano per porre fine alla guerra di quasi due anni contro Hamas a Gaza scatenata dall’invasione e dal massacro del gruppo terroristico in Israele il 7 ottobre 2023.
«Nel 1930, nella notte tra il 10 e l’11 agosto, ho avuto una visione: mi trovavo nell’oscurità e sentivo una voce che mi diceva: “Ecco, vi porto una luce”».
Prese le mosse da questa visione la “nuova vita” di Donato Manduzio (1885-1948), il fondatore della comunità ebraica di San Nicandro Garganico (FG) in Puglia. Una storia di “ebrei per scelta” senza alcun contatto fino a quel momento con l’ebraismo, convertitisi poi collettivamente nel Dopoguerra.
Un rabbino arrivato da Roma formalizzò quel processo, Alfredo Shelomò Ravenna (1899-1981). Ferrarese di nascita, formatosi a Firenze e nella capitale, fu in Gargano alla fine di luglio del 1946 e organizzò il rito di passaggio della circoncisione. Porta ora il suo nome la biblioteca di ebraismo inaugurata mercoledì sera nella sinagoga del comune pugliese nel corso di una cerimonia svoltasi alla presenza tra gli altri dei nipoti Elena e Yaakov Lattes, che hanno donato agli ebrei sannicandresi numerosi volumi della Rassegna Mensile di Israel, del vicepresidente della Comunità ebraica napoletana Sandro Temin e del rabbino capo del capoluogo campano Cesare Moscati.
«Ho avuto il privilegio di essere un suo allievo», sottolinea Moscati. «A parte la grande competenza, lo ricordo come un uomo dolce e simpatico. È stato emozionante onorarlo in un clima accogliente e caloroso come quello riservatoci». Concorda Temin: «Abbiamo sentito la vicinanza di tante persone toccate dalla sua storia, dal suo esempio e dalla personalità. Anche io ricordo il rav con molto affetto: era una presenza assidua in tante circostanze familiari». Lattes, che è docente allo Yaad Accademic College di Tel Aviv, ha rievocato nel suo intervento alcune tappe della sua carriera di rabbino e maestro e ricordato come anche durante l’occupazione nazista di Roma il rabbino Ravenna cercò di mantenere accesa, in clandestinità, una fiammella di ebraismo. Nei mesi successivi Ravenna sarebbe stato parte dell’equipe che, sotto la guida di Attilio Ascarelli, avrebbe dovuto riconoscere le salme e dare degna sepoltura alle vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Nel corso della serata è stata svelata una targa commemorativa ed è stato trasmesso anche un video di Umberto Piperno, il rabbino capo di Livorno. Hanno inoltre preso la parola un ex preside di scuola e una insegnante, per testimoniare l’apprezzamento della società civile verso il piccolo ma vivace nucleo ebraico locale.
(moked, 18 settembre 2025)
Dopo 2000 anni, il percorso di pellegrinaggio a Gerusalemme viene riaperto
Durante una cerimonia nella Città di Davide, Netanyahu, Rubio e Huckabee sottolineano il legame indissolubile tra l'eredità ebraica e quella cristiana.
GERUSALEMME - In un momento ricco di storia e fede, martedì Israele ha inaugurato l'intera lunghezza dell'antica Via dei Pellegrini, il sentiero in pietra lungo 600 metri che un tempo conduceva i fedeli dalla piscina di Siloe al Tempio. All'evento, che ha segnato la conclusione di 13 anni di scavi, hanno partecipato il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato americano Marco Rubio, l'ambasciatore Mike Huckabee, diversi ministri, il sindaco di Gerusalemme e archeologi di alto livello.
Questa è la nostra città. È sempre stata la nostra città e rimarrà sempre la nostra città”, ha dichiarato Netanyahu. “Duemila anni dopo la distruzione del Secondo Tempio, stiamo riportando alla luce il nostro passato e costruendo il nostro futuro su di esso. Gerusalemme non sarà mai più divisa”. Ha collegato la scoperta alle radici dell'alleanza di Israele e ha respinto i tentativi di separare Gerusalemme dal popolo ebraico: “Il nostro patrimonio comune ebraico-cristiano è nato proprio qui”. Rubio ha presentato la cerimonia come una testimonianza dei valori biblici che hanno plasmato sia Israele che l'America. “I principi su cui sono stati fondati gli Stati Uniti 250 anni fa derivano dalle parole che sono state scritte qui per la prima volta”, ha detto. “Stare su questa strada significa stare nel luogo in cui la fede ha dato origine alla libertà”. Huckabee, visibilmente commosso, ha ricordato la distruzione operata dai Romani nel 70 d.C.: “Hanno cercato di cancellare questo popolo e questo luogo. Ma gli ebrei non hanno mai dimenticato. Stasera le pietre proclamano la verità: che il popolo ebraico appartiene a questo luogo, non solo oggi, ma da 4.000 anni”. Gli archeologi hanno definito lo scavo uno dei più ambiziosi al mondo, con tunnel scavati sotto la Gerusalemme moderna per portare alla luce strati risalenti a 2.500 anni fa. Tra i reperti figurano monete con la scritta “Per la libertà di Sion”, vasi rituali e un raro mezzo siclo d'argento utilizzato per le offerte al tempio. La piscina di Siloe, menzionata sia nella Bibbia ebraica che nel Nuovo Testamento, costituisce il centro della strada e ne sottolinea il significato universale. Il direttore della Città di Davide, David Be'eri, ha affermato che l'inaugurazione della strada arriva in un momento in cui i nemici negano il legame degli ebrei con Gerusalemme. “Queste pietre smentiscono le loro menzogne”, ha detto. “Generazioni di pellegrini hanno camminato qui. Ora, dopo 2000 anni, milioni di altri seguiranno le loro orme”. Per Israele, il progetto è di natura sia archeologica che teologica: è la prova che la storia ebraica a Gerusalemme non è un mito, ma un fatto concreto scolpito nella pietra. Per i cristiani rafforza le radici della loro fede nella città in cui si è svolta la Bibbia. Per entrambi, il percorso di pellegrinaggio non è solo una storia riportata alla luce, ma una conferma della verità biblica.
(Israel Heute, 17 settembre 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
• Un’offensiva annunciata Come tutti i giornali hanno riportato, l’esercito israeliano è entrato l’altra mattina a Gaza City, il capoluogo della Striscia di Gaza. Non c’è nessuna sorpresa in questa azione, che era stata apertamente discussa fra governo e Stato Maggiore delle Forze Armate, con notevoli dissensi iniziali fra loro successivamente superati, poi annunciata tanto dal Primo Ministro Netanyahu e dal Capo di Stato Maggiore, contestata da parte (ma solo parte) dell’opposizione e da agguerrite manifestazioni di piazza. Soprattutto era stata preparata da una decina di giorni di colpi dell’aviazione su edifici che erano stati identificati come possibili roccaforti di Hamas, luoghi di avvistamento e di sparo sulle truppe, centri di coordinamento dell’azione terrorista. Oltre sessanta di queste “torri” erano state abbattute, nell’ultima settimana. La trasformazione di Gaza City da zona “santuario” di Hamas in terreno di guerra era stata anche largamente comunicata dall’esercito israeliano ai suoi abitanti, in maniera tale da sottrarli al fuoco dirigendoli in zone attrezzate per aiutarli e nutrirli, mentre Hamas aveva cercato in tutti i modi, dalla retorica religiosa alla violenza fisica, di trattenerli in città e usarli come scudi umani. Alla fine il via è venuto la mattina del 15 settembre dall’incontro fra Netanyahu e il Segretario di Stato (cioè il ministro degli esteri) americano Marco Rubio, che in una conferenza stampa ha dichiarato che la convinzione del Presidente Trump e sua è che “Hamas deve essere eliminato e gli ostaggi liberati”. Questo annunciato da Rubio è lo scopo dell’operazione: distruggere Hamas e finire la guerra.
• La propaganda contro Israele In realtà è difficile distinguere Gaza City (o il suo centro, perché la periferia era già stata investita in precedenza dalle azioni israeliane) dal resto della Striscia: non vi sono ostacoli naturali, l’edilizia disordinata caratteristica di tante città mediorientali ne rende confusi i confini. Essa non era stata toccata finora soprattutto per il sovraffollamento e la presenza di ridotti e fortificazioni terroriste sottoterra e negli edifici, che insieme al sovraffollamento degli abitanti e alla probabile presenza dei luoghi di detenzione dei rapiti rendevano (e rendono ancora) difficile e pericolosa l’azione militare sul terreno. Hamas era ben consapevole di questa difficoltà e ci ha montato intorno una campagna di propaganda, appoggiata da media e forze politiche “progressiste”, talvolta da governi soprattutto in Europa e nel mondo anglosassone. Difficile pensare che alla base di questo schermo propagandistico stia davvero la preoccupazione per i rapiti e neanche quella per la gente comune di Gaza, tant’è vero che non vi sono proteste per il violento tentativo di Hamas di costringerli a fare ancora una volta gli scudi umani. Nella migliore delle ipotesi c’è preoccupazione per una vittoria “troppo netta” e dunque “destabilizzante” di Israele, come già era accaduto in tutte le guerre del passato ad opera degli Usa; nella peggiore, come nel caso della “flottiglia”, ma anche del governo spagnolo e del suo capo, il socialista Sanchez, c’è una chiara vicinanza politica con Hamas; in altri casi ancora un cinico calcolo di bacino elettorale o, nel caso dei media, di vendite.
• Come Rafah Qualcosa di molto simile era accaduto in precedenza a Rafah, altra importante città della striscia di Gaza, che controlla l’accesso dall’Egitto. Israele aveva raggiunto questa frontiera da tempo ma la presa della città era stata bloccata da delibere dell’Onu, prese di posizione dei paesi europei, manifestazioni di piazza, ma soprattutto dal veto dell’amministrazione Biden. Tutti prevedevano che la conquista di Rafah avrebbe portato a disastri umanitari che non si sono verificati, a crisi internazionali che non si sono viste. Di fatto la conseguenza principale dell’ingresso israeliano in città è stata l’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas e il responsabile del 7 ottobre. Sia per Rafah, sia adesso per Gaza City c’è stata anche una certa resistenza interna, da parte dei vertici militari e di sicurezza. E’ stata la determinazione del governo, e personalmente di Bibi Netanyahu a superare queste esitazioni.
• Una battaglia difficile Lo scopo dell’operazione è chiaro: spezzare le ultime resistenze organizzate di Hamas, obbligarli ad arrendersi e a liberare i rapiti, ed eliminare completamente coloro che rifiutano. Già la settimana scorsa l’esercito ha riportato i nomi di alcuni capi di Hamas che avevano chiesto un salvacondotto per fuggire all’estero, A uno di loro, che probabilmente aveva fatto recuperare i resti di due salme del 7 ottobre trattenute dai terroristi, l’emigrazione è stata concessa, agli altri è stata negata. La conquista di Gaza City non è facile, richiede a fanti e carristi di entrare in un labirinto urbano certamente pieno di trappole esplosive e di terroristi disposti a qualunque azzardo per ucciderli o – ancor peggio – rapirli. Per dare un segnale forte, per la prima volta nella storia di Israele, il Capo di Stato maggiore si è impegnato a dirigere l’operazione venendo in prima linea. Non bisogna pensare però che questa battaglia decisiva duri ore o giorni. Ci vorranno settimane, forse mesi, per eliminare la resistenza di Hamas, che non ha la forma di uno schieramento frontale, ma di mille agguati e trappole.
• Gli altri fronti Intorno a questo scontro a Gaza, la guerra continua su altri fronti. Ci sono gli Houthi, che l’aviazione ha colpito ieri di nuovo, ma che continuano a sparare missili sulla popolazione civile, ci sono le situazioni di Libano e Siria, dove Israele sta intervenendo per impedire che Hezbollah si riarmi, che il regime siriano possa accumulare armi provenienti dalla Turchia e anche che possa sterminare i Drusi. E c’è l’Iran, con cui la partita quasi sicuramente non è finita: “ci saranno altri round” come ha detto il ministro della difesa Katz. Il più attivo di tutti però è l’“ottavo fronte” della politica internazionale, che ormai mira apertamente a isolare Israele, a impedirgli di difendersi negandogli armi e rifornimenti. Ciò potrebbe portare lo Stato ebraico a doversi trasformare in una “nuova Sparta” come ha detto con espressione molto discussa Netanyahu, che però ha aggiunto subito che il progetto di isolamento politico e militare di Israele non sta prevalendo, soprattutto grazie agli Stati Uniti. La visita di Rubio ne è una prova e un’altra è l’invito a visitare Trump fra due settimane che Netanyahu ha accettato: sarebbe il quarto incontro in un anno, un record assoluto.
«Fuori i sionisti dalle Università». Caos a Pisa: professore al pronto soccorso
«Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale», ha dichiarato il professore. La presidente UCEI, Noemi Di Segni: «Appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas». La ministra Bernini: «Intollerabile». Una frattura che divide il mondo accademico.
Momenti di forte tensione ieri mattina al Polo Piagge dell’Università di Pisa, dove un gruppo di circa quindici studenti dei collettivi pro Palestina ha interrotto una lezione del professor Rino Casella, associato di Diritto Pubblico Comparato. Gli studenti, saliti sulla cattedra e armati di megafono, hanno gridato slogan a favore di Gaza: «Palestina libera. Fuori i sionisti dalle Università».
Secondo quanto riportato dal docente, durante l’irruzione sarebbe stato colpito con calci e pugni: «Non mi è stato solo impedito di fare lezione – ha raccontato – ma sono stato anche aggredito fisicamente, soprattutto perché ho cercato di fare da scudo a uno studente picchiato solo per avere tentato di togliere una bandiera palestinese ai manifestanti». Dopo l’accaduto, Casella si è recato al pronto soccorso, dove gli sono state diagnosticate contusioni ed escoriazioni con prognosi di alcuni giorni. «Mi accusano solo perché non sono schierato con loro e perché, insieme a una collega, ho criticato la decisione dell’Ateneo di non restare neutrale».
Sul profilo Instagram del collettivo Studenti per la Palestina Pisa sono poi comparsi foto e video del blitz, corredati dall’accusa al professore di essere «sionista»: «Gente come questo professore nelle aule non ci deve stare, non deve avere spazio» ha detto una delle attiviste al megafono. «Abbiamo interrotto la lezione del professore – hanno aggiunto gli attivisti – perché il docente ci ha impedito di parlare del genocidio in atto in Palestina e del fatto che l’Università di Pisa è complice tramite accordi e progetti che porta avanti con lo stato genocidario di Israele».
• Le reazioni istituzionali La ministra dell’Università Anna Maria Bernini è intervenuta immediatamente e ha telefonato al rettore Riccardo Zucchi, al professor Casella e al prefetto di Pisa, Maria Luisa D’Alessandro. «Sarà la magistratura ad indagare», ha dichiarato il rettore, precisando che «accusare la nostra Università di sostenere uno stato genocidario mi sembra fuori dal mondo, oltre che un grossolano errore». E ha aggiunto: «Posso dire in generale che, ferma restando la nostra posizione su Gaza ormai nota, il nostro ateneo rifiuta ogni forma di violenza, verbale o fisica, che faccia passare le persone dalla parte del torto. L’interruzione delle lezioni, a maggior ragione se accompagnata da aggressioni fisiche, è assolutamente intollerabile». Bernini a sua volta ha condannato l’episodio con parole nette: «Le università non sono zone franche dove è consentito interrompere lezioni o aggredire professori. Quanto accaduto all’Ateneo di Pisa è intollerabile per una società che si riconosce nei valori della democrazia». La ministra ha poi aggiunto: «Colpire la libertà accademica significa attaccare il cuore della nostra democrazia: dobbiamo difenderla tutti, senza se e senza ma». (HuffPost). Durissima anche la presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), Noemi Di Segni: «Quel che è successo all’Università di Pisa è proprio l’escalation che da tempo temiamo e avvertiamo come deriva della violenza già lungamente tollerata, in nome della “dialettica democratica”, e come appiattimento sulla narrativa propagandistica di Hamas». Di Segni ha ammonito: «Va ricordato che i palestinesi sono strumentalizzati da chi li considera scudi umani e nessuna irruzione nelle aule potrà mai soccorrerli. Anzi così si continua a legittimare il terrorismo. Noi speriamo che l’anno accademico si avvii invece con ben altre capacità di comprendere la complessità escludendo giudizi arbitrari e violenza verbale e fisica».
• Il comunicato UGEI
«Quanto accaduto oggi all’Università di Pisa, con l’irruzione in aula e il ferimento del professor Rino Casella, rappresenta un’escalation preoccupante, richiamando dinamiche già viste lo scorso maggio al Campus Einaudi di Torino. Non si tratta di una semplice contestazione: è un attacco diretto alla libertà accademica e alla sicurezza della comunità universitaria. Come UGEI, esprimiamo piena solidarietà al docente coinvolto e ribadiamo con forza che violenza e intimidazione non possono trovare spazio negli atenei italiani. Serve un argine deciso contro questi comportamenti, perché l’università deve restare un luogo di studio, confronto e crescita, non un palcoscenico di propaganda».
Così in una nota l’Unione Giovani Ebrei d’Italia (UGEI).
• Una frattura che divide il mondo accademico L’episodio di Pisa si inserisce in una scia di tensioni già viste negli ultimi mesi in altre università italiane. A maggio, al Campus Einaudi di Torino, un’analoga irruzione durante una lezione aveva innescato polemiche e proteste. Non si tratta dunque di un caso isolato, ma di un fenomeno che sta assumendo un carattere ricorrente. La questione solleva interrogativi cruciali: fino a che punto la protesta studentesca può invadere gli spazi accademici senza trasformarsi in intimidazione? È legittimo che un docente venga marchiato con etichette ideologiche e messo all’indice per le sue opinioni? In una stagione internazionale segnata dalla guerra a Gaza e da un’ondata di proteste in campus universitari di tutto il mondo, le università italiane si trovano ora al centro di un bivio: restare luoghi di confronto aperto e civile, o diventare arene di scontro in cui il dialogo cede il passo alla forza.
(Bet Magazine Mosaico, 17 settembre 2025)
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Università al collasso morale: Pisa e Torino, avamposti dell’odio
Ciò che è accaduto all’Università di Pisa non è un episodio isolato, ma l’ennesima conferma che una parte del mondo accademico italiano è ormai ostaggio della violenza politica travestita da “solidarietà” per Gaza. Rino Casella, docente di Diritto pubblico comparato, è finito al pronto soccorso con sette giorni di prognosi: accusato di essere «sionista», circondato, spintonato, colpito a calci e pugni per aver osato difendere Israele e, peggio ancora, per aver tentato di proteggere un suo studente aggredito dai soliti squadristi pro-Pal. Questa è la fotografia di un’università che non garantisce più il diritto allo studio, ma la legge del branco. A Pisa, da mesi, il senato accademico ha preferito abdicare al proprio ruolo, deliberando l’11 luglio che ogni collaborazione con istituzioni israeliane dovrà essere “oggetto di attenta valutazione”. Formula ipocrita che equivale a una messa al bando preventiva. Il risultato è stato quello che tutti temevano: i campus invasi da bandiere palestinesi (dietro le quali si celano quelle verdi di Hamas) e occupazioni tollerate con colpevole complicità. Quando l’università non difende la neutralità della conoscenza, diventa terreno fertile per la violenza. Se Pisa rappresenta l’arroganza delle squadracce, Torino è la prova della viltà dei vertici accademici. Al Politecnico, il professor Pini Zorea, docente israeliano invitato come guest lecturer, ha pronunciato una frase semplice e inequivocabile: ha definito l’IDF «l’esercito più pulito al mondo». Apriti cielo. Non c’è stata nessuna aggressione fisica, non ce n’è stato bisogno: il rettore Stefano Corgnati ha immediatamente interrotto il corso, rescindendo ogni rapporto con il docente. Il tutto accompagnato da un comunicato ufficiale che sa di resa morale: il Politecnico «condanna quanto espresso dal docente». Tradotto: un’università italiana, invece di garantire libertà di parola a un ospite internazionale, lo caccia in tronco per aver espresso un’opinione sgradita. Il boicottaggio non è più una minaccia: è pratica corrente. A Pisa e a Torino si consuma lo stesso delitto accademico. L’idea di università come luogo di confronto, democrazia e libertà, è sostituita dall’idea di università come spazio di intimidazione, dove l’unico discorso ammesso è quello filo-palestinese, possibilmente radicalizzato, e ogni voce ebraica o filoisraeliana deve essere silenziata, con le botte o con la censura istituzionale. È questo che chiamiamo libertà accademica? È questa la cultura che vorremmo trasmettere agli studenti? Il ministro Anna Maria Bernini ha ragione a dire che «le università non sono zone franche». Ha ragione a dichiarare che il Mur si costituirà parte civile. Ma non basta. Non bastano i comunicati indignati, non bastano i richiami alla legalità: serve una svolta vera. I rettori devono essere messi di fronte alle proprie responsabilità, perché sono i primi garanti della sicurezza e della libertà di pensiero nei campus. E invece a Pisa hanno chiuso gli occhi, a Torino hanno scelto la strada della sottomissione. Due università che dovrebbero essere fiore all’occhiello del sistema italiano oggi sono la prova più lampante della sua decadenza morale. Il movimento pro-Pal non è un innocuo collettivo di studenti idealisti. È un coacervo che salda frange eversive, fondamentalismo islamico e complicità accademiche. La stessa regia che ha fatto interrompere la Vuelta de España per impedire la volata dei ciclisti israeliani, la stessa che a Parigi ha espulso studenti ebrei dalla chat della Sorbona. A Pisa e Torino si sperimenta un nuovo livello: la violenza fisica e la censura formale. Gli anni Settanta ci hanno insegnato dove portano le degenerazioni nate nei campus: alle Brigate Rosse. Chi non lo vede, oggi, è complice. Università di Pisa e Politecnico di Torino non possono più rifugiarsi dietro formule burocratiche o dietro l’alibi della “pluralità di opinioni”. Non si tratta di pluralismo, ma di persecuzione. Non si tratta di libertà di parola, ma della sua negazione. E quando un’accademia legittima la violenza o la censura, non sta educando cittadini liberi, ma apprendisti stregoni dell’odio. Per questo, da qui, rivolgiamo un appello netto: basta ambiguità. Basta boicottaggi mascherati. Basta con rettori che chinano la testa davanti alle minacce. Le università italiane non possono diventare incubatori di antisemitismo né luoghi in cui le squadracce si esercitano a colpire i più deboli. Oggi è un professore aggredito a Pisa, domani sarà uno studente, dopodomani chiunque osi dirsi amico di Israele. È così che inizia la barbarie.
(SETTEOTTOBRE, 17 settembre 2025)
Un rapporto delle Nazioni Unite ha concluso che Israele ha commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. Il Ministero degli Esteri ha denunciato il rapporto come «menzogne di Hamas riciclate» La Commissione internazionale indipendente d’inchiesta delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est e Israele, ha diffuso un rapporto che scuote il dibattito internazionale: secondo i tre relatori, vi sarebbero «fondati motivi» per ritenere che Israele abbia commesso atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza dal 7 ottobre 2023. L’organismo, istituito nel 2021 come sussidiario del Consiglio Onu per i diritti umani, è stato incaricato di indagare sulle presunte violazioni del diritto internazionale umanitario nella regione. Nell’ultima relazione, la Commissione sostiene che Israele avrebbe compiuto quattro atti vietati dalla Convenzione sul genocidio: uccisioni sistematiche, gravi danni fisici e mentali, inflizione di condizioni di vita intollerabili e misure tese a impedire nuove nascite. Per i commissari, tali atti sarebbero stati realizzati dalle autorità e dalle forze di sicurezza israeliane con l’«intento specifico» di annientare i palestinesi di Gaza. Le prove citate comprendono episodi di violenza sistematica e su larga scala, dalla distruzione di abitazioni e patrimonio culturale all’uso della carestia come strumento bellico, fino alla negazione dell’assistenza sanitaria e ad abusi sessuali e di genere.Il genocidio, definito dall’Onu «il crimine dei crimini», richiede di dimostrare non solo l’esistenza di violazioni gravi, ma soprattutto il dolo speciale: la volontà di eliminare un gruppo protetto. Secondo la Commissione, tale volontà si dedurrebbe «unicamente» dal comportamento delle autorità israeliane e dalle dichiarazioni pubbliche dei vertici dello Stato, compreso il Presidente, il Primo ministro e il Ministro della Difesa.
• Le accuse e il contesto legale Il rapporto arriva in un quadro internazionale già segnato da tensioni legali e diplomatiche. Nel dicembre 2023 il Sudafrica aveva portato Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, accusandolo di violare la Convenzione sul genocidio. La Corte ha concesso misure provvisorie, mentre Amnesty International e l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio hanno sostenuto le accuse in rapporti successivi. Ad agosto 2025, anche l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio ha adottato una risoluzione che definisce le operazioni israeliane a Gaza come genocidio a tutti gli effetti. E solo un mese dopo, la relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, ha invocato un intervento straordinario dell’Assemblea Generale, parlando di «carestia di massa» e «prove schiaccianti» di genocidio. Tuttavia, Albanese è stata a sua volta ampiamente criticata per dichiarazioni considerate antisemite e per un approccio ritenuto squilibrato a favore della causa palestinese. Un’accusa simile grava anche sui tre relatori della Commissione d’inchiesta – Navi Pillay, Chris Sidoti e Miloon Kothari – già contestati in passato per prese di posizione giudicate ostili allo Stato ebraico. Kothari, in particolare, è stato al centro di polemiche per aver parlato di «lobby ebraica» che controllerebbe i media internazionali, suscitando condanne ufficiali da parte di numerosi Paesi occidentali. Sidoti, dal canto suo, ha minimizzato le accuse di antisemitismo, definendole «come riso lanciato a un matrimonio». Dichiarazioni che, sommate alle prese di posizione di Albanese, sollevano seri interrogativi sulla credibilità e sull’imparzialità dei relatori chiamati a stilare un documento di tale portata.
• La dura replica di Israele Il Ministero degli Esteri israeliano ha reagito con estrema durezza. In un comunicato diffuso sui social ha bollato il documento come «falso rapporto della Commissione Pillay, Sidoti e Kothari», accusando i tre autori di «agire come rappresentanti di Hamas» e ricordando che le loro «orribili dichiarazioni sugli ebrei sono state condannate in tutto il mondo». Secondo Tel Aviv, «il rapporto si fonda interamente su menzogne di Hamas, riciclate e ripetute senza alcuna verifica indipendente». A sostegno, viene citato uno studio del BESA Center, think tank israeliano indipendente, che avrebbe «confutato ogni singola falsa affermazione riguardante il genocidio». Israele ha ribaltato l’accusa, sottolineando che il 7 ottobre 2023 Hamas ha compiuto un vero e proprio tentativo di genocidio «uccidendo 1.200 persone, violentando donne, bruciando famiglie vive e dichiarando l’intenzione di eliminare ogni ebreo». Inoltre, il governo israeliano ha fatto notare che i tre membri della Commissione si sono recentemente dimessi, definendo la circostanza «una conferma ulteriore dell’inconsistenza del loro lavoro» e chiedendo «l’immediata abolizione della Commissione stessa».
• Le implicazioni internazionali Il documento Onu non si limita a registrare presunte violazioni: chiede ad Israele di cessare immediatamente ogni azione definita «genocida», imporre un cessate il fuoco permanente e garantire accesso illimitato agli aiuti umanitari. Allo stesso tempo, invita gli altri Stati a sospendere la fornitura di armi e carburanti destinati all’aviazione militare israeliana, per non incorrere nel rischio di complicità. Una raccomandazione che ha diviso le cancellerie. L’Irlanda ha adottato misure concrete in linea con l’appello, mentre il Regno Unito ha rigettato le accuse dopo aver condotto una propria valutazione, come dichiarato dall’ex ministro degli Esteri David Lammy in una lettera al Parlamento.
• Un rapporto sotto accusa La questione, dunque, va ben oltre il piano giudiziario: rischia di trasformarsi in un nuovo terreno di scontro diplomatico e politico tra chi considera Israele responsabile di crimini internazionali e chi, al contrario, denuncia una campagna ostile orchestrata in sede Onu da figure giudicate non neutrali. Con il conflitto a Gaza ancora in corso, il rischio è che la contrapposizione si radicalizzi ulteriormente: da una parte l’accusa pesantissima di genocidio, dall’altra la difesa di Israele che punta il dito contro l’antisemitismo dei relatori e contro la strumentalizzazione politica delle Nazioni Unite. In questo contesto, il nodo centrale rimane proprio la credibilità dei relatori. Le polemiche passate di Albanese, Kothari e Sidoti pesano come macigni sulla percezione del loro lavoro: agli occhi di molte cancellerie occidentali, un rapporto firmato da figure già accusate di antisemitismo difficilmente potrà essere considerato neutrale.
80 anni fa, l'8 maggio 1945, con la fine della seconda guerra mondiale si concludeva la Shoah. 6 milioni di ebrei furono uccisi e la vita ebraica in Europa fu quasi spazzata via. Èun miracolo che i sopravvissuti abbiano trovato la forza di ricostruire la loro vita. Ma ancora oggi i loro discendenti soffrono per il trauma proveniente dall'esperienza dei campi di concentramento, dei ghetti e delle marce della morte. Da questa terribile esperienza è nato il grido: "Mai più!". Il 7 ottobre 2023, Hamas ha attaccato il sud di Israele e ha messo in atto il più grande pogrom contro gli ebrei dopo la Shoah. Da quello stesso giorno si è scatenato un vero e proprio diluvio di antisemitismo, che ancora oggi continua a scuotere il mondo intero con nuove ondate di odio contro Israele e il popolo ebraico. Molti discendenti di sopravvissuti alla Shoah nutrono la sensazione: "Potrebbe accadere di nuovo!"
Non resteremo in silenzio - e porteremo avanti l'eredità dei sopravvissuti alla Shoah, contro tutti gli appelli di smetterla!
Non resteremo in silenzio - sulla storia dell'antisemitismo nelle nostre città, chiese e famiglie!
Non resteremo in silenzio - riguardo all'antisemitismo moderno, che oggi assume la forma dell'antisionismo!
Non resteremo in silenzio - e staremo pubblicamente e in amicizia dalla parte dello Stato di Israele!
Cerimonia di riapertura della Sinagoga in Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco
La chiamavano in yiddish la Reichenbachschul. La sinagoga di Reichenbachstraße 27, nel cuore di Monaco, era nata per ospitarle: centinaia di famiglie ebraiche provenienti dall’Est Europa, fuggite a inizio Novecento da pogrom, repressioni e rivoluzioni. Era un tempio ampio e luminoso, ispirato alle idee essenziali del Bauhaus. Profanata e gravemente danneggiata da nazisti nella Notte dei cristalli del 1938, la Reichenbachschul fu ricostruita nel Dopoguerra per poi venire chiusa nel 2006, quando fu aperto il grande tempio Ohel Jakob. Dimenticata per anni, oggi, a quasi un secolo dalla sua inaugurazione, la sinagoga è tornata a vivere grazie al progetto di restauro di Rachel Salamander e Ron Jakubowicz, fondatori dell’associazione “Reichenbachstraße Synagoge”. «Spero vivamente che questa sinagoga diventi un luogo di casa per la vita ebraica in Germania, capace di irradiare in tutto il paese», ha dichiarato il cancelliere Friedrich Merz, presente alla cerimonia di riapertura. Per Salamander il progetto «restituisce piena dignità all’eredità dell’ebraismo di Monaco. È giunto il momento di lasciarci alle spalle l’atmosfera depressa e traumatizzata del Dopoguerra, di ridare voce a coloro che furono spinti fuori dalla storia con la loro sinagoga, di farli sentire di nuovo a casa. Questo significa guarire un pezzo di storia».
La Reichenbachschul, ha ricordato Charlotte Knobloch, presidente della Comunità ebraica di Monaco e dell’Alta Baviera, è «l’unica sinagoga cittadina sopravvissuta al nazismo: ferita, riutilizzata, deturpata, ma mai completamente distrutta». Dopo il 1945 furono i sopravvissuti alla Shoah a ripararla con mezzi di fortuna: il 20 maggio 1947 la riaprirono e la riconsacrarono, restituendole un ruolo centrale nella vita ebraica di Monaco. Per quasi sessant’anni la Reichenbachschul rimase il principale luogo di culto della città, fino al trasferimento delle funzioni religiose nella nuova sinagoga Ohel Jakob.
Il lungo lavoro di restauro, costato circa 14 milioni di euro, ha restituito all’edificio le linee originali concepite nel 1931 dall’architetto Gustav Meyerstein. Vecchie fotografie e disegni hanno guidato l’opera di recupero, dalle ampie vetrate ricostruite ai dettagli interni, come le panche di legno chiaro e le pareti dai colori sobri. Davanti all’Aron HaKodesh c’è ora un tessuto intrecciato dell’artista Bauhaus Gunta Stölzl, che richiama lo spirito modernista dell’edificio.
Per il ministro-presidente della Baviera Markus Söder, la sinagoga è «un gioiello» che finalmente «torna a splendere». Parole a cui ha fatto eco il sindaco di Monaco, Dieter Reiter, secondo cui la Reichenbachschul rappresenta «un simbolo potente di memoria e riconciliazione». Entrambi hanno sottolineato come la rinascita della sinagoga non sia solo un restauro architettonico, ma «un segno politico e civile di impegno contro ogni forma di antisemitismo». d.r.
Quello che sta accadendo fra Israele e Hamas ha un nome, un tremendo nome: guerra. Sta di fatto, però, che le parole, alla faccia della realtà dei fatti, l’hanno trasformata in un’altra cosa: un genocidio. Questa guerra, ormai, viene riassunta solo nel plurale di un nome comune di persona: bambini. Non esistono più né torti né ragioni, qualunque forma o tentativo di discernimento viene riassorbito nel plurale di questo sostantivo. Nell’opinione comune più diffusa in questa guerra le parti in causa sono: l’esercito di Israele, il carnefice, e i bambini palestinesi, le vittime. Anche il solo tentare un embrione di ragionamento è impossibile; il nemico vero, Hamas, quello contro cui Israele combatte sembra essere stato rimosso dalle menti avvezze ai social e alle piazze. I bambini palestinesi sono delle vittime, certo che lo sono, sempre è così nelle guerre, come in quella dell’Ucraina, quella dello Yemen, della Repubblica Democratica del Congo, dell’Etiopia, del Sudan e Sudan del Sud, del Mali, Burkina Faso, Niger e Somalia. Nello Yemen il conflitto, attivo dal 2015, ha causato una delle peggiori crisi umanitarie del mondo: 18 milioni di persone hanno bisogno di aiuto, di cui 11 milioni sono bambini. Nella Repubblica Democratica del Congo gli scontri tra esercito e gruppi armati continuano a causare sfollamenti di massa e insicurezza alimentare. Anche l’Etiopia, con la guerra nel Tigray e le tensioni in Oromia e Amhara, resta instabile. Il conflitto etiope da solo ha provocato oltre 100.000 morti.[1] Questo è solo un minuscolo elenco perché sembra che le guerre attualmente in atto nel mondo siano 56. Questo non significa che allora non ci si debba sdegnare per i bambini che muoiono a Gaza ma significa che lo stesso sdegno lo si dovrebbe avere per i bambini che muoiono in tutte le guerre, altrimenti viene il legittimo sospetto che si tratti di sdegno politicamente corretto; pietà ideologicamente ispirata; compassione di bandiera; commozione pilotata. Si parla solo di genocidio a Gaza e il “bello” è che questo termine si iniziò a sbandierarlo dopo soli 7 giorni dalla mattanza d’ebrei del 7 ottobre 2023. Si gridava già allora, nelle piazze, che si doveva fermare quell’assassino, criminale e terrorista di Netanyahu: “Sventolano i colori della Palestina in tutta Europa. Dopo le proteste di Roma e Berlino, sabato 14 ottobre anche a Londra migliaia di persone sono scese in piazza contro Israele mentre in Italia si manifesta a Milano, Bari e Torino in sostegno del popolo palestinese a una settimana dall’inizio dell’offensiva israeliana su Gaza, in risposta all’attacco di Hamas contro i civili nel sud del Paese del 7 ottobre2023.” La questione palestinese è ad alto contenuto politico, figlia del falso storico delle terre rubate agli arabi propinato a piene mani dall’URSS e, in Italia, dal PCI. I palestinesi sono i profughi più blasonati del mondo, con un’agenzia umanitaria, l’UNRWA, dedita solo a loro e che raccoglie fiumi di danaro dal 1949, anno in cui fu fondata dall’ONU. Dal 1967, dopo la guerra dei 6 giorni vinta da Israele, che l’aveva subita, la propaganda comunista riuscì a trasformare quei profughi in un popolo palestinese che, di fatto, non è mai esistito in quanto tale. Insomma: l’attuale guerra in Medioriente si presta ad essere utilizzata come carro armato politico nell’agguerrita scena politica italiana. Gli eterni antifascisti dell’opposizione usano i bambini di Gaza come argomento per screditare il governo “fascista” complice della strage. Non c’è manifestazione di piazza nella quale non si sventoli la bandiera palestinese, anche quando all’ordine del giorno vi sono questioni politico-sociali interne che nulla hanno a che fare con la politica estera. Questo perché la questione palestinese, per le ragioni suddette, è ormai un tutt’uno con la politica nazionale, vale a dire strumentale ad essa. I bambini di Gaza si spartiscono l’agenda politica italiana insieme allo sgombero del Leoncavallo, l’occupazione abusiva delle case, l’immigrazione incontrollata, anche dei clandestini, il caso Almasri, il caso Ramy, l’immaginario volo di Stato della Meloni con la figlia, le case per gli studenti ecc. I bambini di Gaza servono alle fauci della politica perché costituiscono un boccone appetitoso per la bocca del politicante “resistente/rivoluzionario” di turno. Il condivisibile pianto per i bimbi di Gaza deve diventare piagnisteo, nenia da prefiche ideologicamente interessate più che addolorate. Gli altri bambini, quelli delle guerre sopra dette, quelli non servono, i loro presunti carnefici non sono titolati come gli ebrei per essere odiati con costanza, dedizione e risonanza. La sinistra italiana non sembra avere niente da dire nemmeno per le migliaia di bambini cinesi che vengono sfruttati dai loro connazionali, proprio qui in Italia, facendoli lavorare anche di notte (alla faccia della nostra Costituzione) e di giorno dormono sui banchi di scuola. I bambini mandati a rubare dai Rom che vivono negli immensi campi nelle nostre città vanno bene, per non parlare delle borseggiatrici perennemente incinta che derubano vecchi e pendolari sui mezzi pubblici trasformando i feti che portano in grembo in uno scudo etico e giuridico: quelle sono sacre. Certo che ho pena per i bambini di Gaza, ne ho pena due volte: perché i loro aguzzini di Hamas, i responsabili di questa guerra, li mandano a combattere a 12 anni, non gli permettono di nascondersi nelle infinite gallerie quando Israele annuncia bombardamenti. Ne ho pena perché ogni ospedale o edificio civile è stato trasformato in un covo di terroristi e deposito di armi. Ne ho pena perché la politica, sinistra, di questa sgangherata Europa fa di loro il pietoso scudo umano nel cui nome si propaganda la nuova, rozza versione dell’antisemitismo: l’antisionismo. Così si alza il volume del doloroso pianto dei bimbi palestinesi affinché non si oda più quello, altrettanto doloroso, di altri bimbi: quelli ebrei morti il 7 ottobre 2023.
(Rights Reporter, 16 settembre 2025)
“La pace sarà possibile solo quando i palestinesi dimostreranno di amare i loro figli più di quanto odiano noi ebrei”.
I documenti del governo di Hamas rivelano l’uso da parte del gruppo terroristico degli ospedali di Gaza
di Ludovica Iacovacci
Sono emersi documenti del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas a Gaza, risalenti al 2020, che mostrano in dettaglio come l’organizzazione terroristica abbia a lungo sfruttato le strutture mediche nel territorio per scopi militari. Due documenti declassificati dall’IDF e recentemente portati all’attenzione del pubblico dall’organizzazione ONG Monitor filo-israeliana descrivono in particolare come Hamas abbia usato gli ospedali di Gaza per i propri scopi, anche per riparare e ospitare i suoi agenti e leader. L’uso degli ospedali da parte di Hamas è stato sempre più esaminato durante la guerra di Gaza, con Israele che affronta la condanna internazionale per le operazioni dentro e intorno agli ospedali. Hamas ha combattuto dall’interno degli ospedali e dai tunnel sotto gli ospedali durante tutta la guerra, e periodicamente ha nascosto alcuni degli ostaggi rapiti da Israele il 7 ottobre 2023, al loro interno. La legge internazionale generalmente vieta di prendere di mira gli ospedali in tempo di guerra, ma gli ospedali possono perdere questa protezione se vengono utilizzati per scopi militari. NGO Monitor ha sostenuto che i documenti ministeriali dimostrano la strategia deliberata di Hamas di “incorporare le sue infrastrutture militari, i suoi combattenti e la sua leadership all’interno di ospedali e strutture mediche a Gaza” e quindi “violando il diritto internazionale e mettendo in pericolo la vita dei civili”. In un documento del Ministero dell’Interno e della Sicurezza Nazionale di Hamas del 25 febbraio 2020, il Meccanismo di Sicurezza Interna di Gaza del ministero ha dichiarato che il Ministero della Salute di Gaza era una delle più grandi agenzie governative del territorio. “Queste strutture sanitarie sono un luogo di incontro per numerosi leader del movimento [Hamas] e del governo durante i periodi di escalation”, afferma il documento. Il documento conteneva anche informazioni che testimoniano la presenza delle forze terroristiche e paramilitari di Hamas. Nel documento è stato affermato che l’organizzazione Medici Senza Frontiere (MSF) Francia “ha scelto l’unica stanza nell’ospedale Abu Yousef El-Najar che ha un telefono fisso di comunicazione (sicura) che appartiene all’attività del positivo, in modo che MSF ci lavori separatamente”. Secondo la ONG Monitor, “Il positivo” è un termine noto per le Brigate Al-Qassam di Hamas, il nome delle forze terroristiche e paramilitari del gruppo terroristico. Un secondo documento, datato 17 marzo 2020, ha dettagliato le direttive di Hamas per limitare l’accesso al personale delle organizzazioni umanitarie straniere negli ospedali e nelle strutture mediche di Gaza per impedire loro di incontrare gli agenti di Hamas. “I documenti interni di Hamas esaminati in questo rapporto espongono una strategia sistematica di Hamas per militarizzare il sistema sanitario di Gaza, utilizzando ospedali e strutture mediche come estensioni del suo apparato militare e di sicurezza”, ha dichiarato NGO Monitor. “I centri medici a Gaza non sono solo spazi di trattamento, ma servono piuttosto come centri per la leadership di Hamas, punti di raccolta per gli agenti, zone sicure per i terroristi feriti e luoghi per infrastrutture di comunicazione sicure. “Questo accordo è fondamentalmente incoerente con il principio della neutralità medica a Gaza, trasformando gli spazi umanitari in strutture a duplice uso che servono sia a scopi medici che militari”.
“Al contrario di coloro che cercano di boicottare Israele e alimentare l’antisemitismo, scelgo di mettere in luce ciò che conta di più: gli ostaggi, il cui tempo sta per scadere. Dobbiamo concentrarci su di loro e riportarli a casa”. Queste le parole dell’influencer ebrea americana Emily Austin, presente alla 77esima edizione degli Emmy Awards, a Los Angeles.
Sul red carpet Austin ha sfilato indossando una collana con la Stella di David e mostrando la borsetta con il fiocco giallo, simbolo di solidarietà per gli ostaggi. “Questo red carpet potrebbe essere pensato per celebrare l’intrattenimento e la televisione. Per me è un palcoscenico per ricordare al mondo la loro storia” ha sottolineato l’influencer.
Di fatto, la nota passerella americana, oltre ad essere luogo di glamour nonché fulcro culturale e artistico, si è trasformata in un palco dove esprimere le proprie convinzioni politiche. Fra gli altri, l’attore spagnolo Javier Bardem ha sfilato con la kefiah al collo. Intervistato da ‘Variety’, Bardem, tra i promotori di Film Workers for Palestine, ha ribadito il suo sostegno al popolo palestinese. Ha inoltre parlato della Vuelta, la gara ciclistica di Spagna, elogiando i manifestanti propal che hanno bloccato il percorso.