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Notizie 16-31 luglio 2019


L'Iran non vuole la pace tra israeliani e palestinesi

"Progressi verso la pace fra israeliani e palestinesi sono il peggior incubo dell'Iran". Lo ha detto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l'inviato Usa in Medio Oriente Jason Greenblatt, aggiungendo che una delle maggiori sfide per un piano di pace è assicurarsi che l'Iran non lo faccia naufragare. Greenblatt si è detto convinto che sia i palestinesi che gli israeliani desiderano la fine di decenni di conflitto. "Negli ultimi due anni e mezzo - ha detto Greenblatt, citato da Fox News - ho incontrato tantissimi palestinesi comuni che vogliono una vita migliore. Non sto dicendo che non aspirino a molto di ciò che è stato loro promesso. Ma sono altrettanto desiderosi degli israeliani di poter vivere anzitutto una vita di soddisfazione, e credo che quando vedranno il piano capiranno quanti vantaggi ne possono ricavare. Lo stesso vale per la parte israeliana. Tutti vogliono soltanto vivere in modo tranquillo e sicuro, ma sono tutti frustrati e scettici".

(israele.net, 31 luglio 2019)


Bari, disegnano una svastica sulla scuola: consigliere Pd consegna il video ai vigili

di Silvia Dipinto

una svastica disegnata con la bomboletta spray sulla parete di una scuola. Un "atto vandalico inaccettabile", lo definisce il consigliere comunale del Pd, Michelangelo Cavone, che diffonde il video sui social network, dopo averlo consegnato alla polizia locale di Bari per le indagini. "Ecco cosa combinano dei ragazzini all'interno della scuola Fraccacreta a Palese - scrive il consigliere - Oltre ad aver imbrattato il muro di una struttura pubblica, hanno disegnato una svastica probabilmente ignorandone il significato. Spero che questi ragazzi possano capire l'errore che hanno commesso e vengano costretti a studiare la storia e a capire la tragedia che quel simbolo rappresenta. Impariamo ad amare il bene comune, lottiamo contro l'ignoranza e la cultura del degrado".

(la Repubblica, 30 luglio 2019)


Contro Israele si mettono d'accordo i cinesi, gli islamici e certi utili idioti occidentali

Il mondo islamico con l'aiuto di alcuni paesi europei condanna Gerusalemme all'Onu per il trattamento delle donne palestinesi e poi difende la Cina che "rieduca" i musulmani.

di Giulio Meotti

ROMA - Sette paesi europei hanno votato due risoluzioni dell'Onu che colpiscono duro Israele. Lo stato ebraico è l'unico paese condannato dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Francia, Olanda, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo e Malta si sono unite a Cina, Russia, Iran e Venezuela nel sostenere le risoluzioni che condannano Gerusalemme per violazioni dei diritti umani, fra cui l'accusa di essere un "ostacolo" alle donne palestinesi. Solo Canada e Stati Uniti contro. Nikki Haley, già ambasciatrice americana all'Onu, ha twittato: "Che beffa totale consentire ad Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Yemen di indicare Israele come violatore dei diritti. Imbarazzante". Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo. Compresa l'ipocrisia di paesi come l'Iran, che ha appena condannato a dieci anni di carcere le donne che condividono foto di se stesse senza velo.
   Se non fosse che le stesse Nazioni Unite nei giorni precedenti siano state al centro di un'altra iniziativa sui diritti umani, questa volta meritoria. 22 paesi hanno inviato una lettera di protesta contro la Cina "che rimarrà come documento ufficiale agli atti del Consiglio dei diritti umani". Vi si denuncia l'incarcerazione in campi di rieducazione di un milione di musulmani cinesi. Ma stavolta, il blocco dei paesi islamici ha fatto muro a favore di Pechino. In una contro-lettera firmata da 35 paesi (Corea del nord, Venezuela, Russia, Cuba, Bielorussia, Myanmar, Filippine, Siria, Pakistan, Oman, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Arabia Saudita e diversi paesi africani) si elogia la Cina per quei campi. Quasi la metà dei firmatari sono nazioni a maggioranza musulmana. Regimi che non hanno taciuto quando il Myanmar ha espulso i Rohingya, la sua minoranza musulmana, né quando l'Amministrazione Trump ha spostato l'ambasciata americana a Gerusalemme. Sulla Cina che perseguita i musulmani, non solo tacciono, ma la coprono. Tante le ragioni economiche dietro il voto islamico a favore di Pechino. La Cina è il principale partner commerciale dell'Arabia Saudita e la nuova Via della sete passa da tanti di quei paesi. La Cnn denuncia così il "mito della solidarietà musulmana",
   Il Consiglio dei diritti umani non ha ancora pubblicato un rapporto sui musulmani che la Cina sta tenendo in campi di internamento e il segretario generale, Antonio Guterres, è accusato dalle ong di tacere. Pechino nega, dice che quelle strutture servono per "uscire dalla povertà". Diciassette ong a febbraio avevano invitato l'Unhcr a inviare una missione conoscitiva nello Xinjiang cinese per indagare. Migliaia di musulmani uiguri trascorrono le giornate in programmi di indottrinamento, dove sono costretti ad ascoltare lezioni comuniste, a cantare inni che lodano il Partito e a scrivere saggi di "autocritica". Niente barbe, Corano, carne halal, preghiere alla Mecca, ma l'obbligo di "onorare" i banchetti organizzati per festeggiare l'''anno del maiale". "Chiunque sia infetto da un 'virus' ideologico deve essere inviato alle classi di trasformazione prima che insorga una malattia", recita un documento del Partito comunista cinese a Hotan.
   C'è questo. E poi c'è Israele, dove ci sono 400 moschee (73 solo a Gerusalemme, quintuplicato dal 1988), dove il 19,6 per cento dei cittadini sono musulmani (decuplicati dal 1948), dove trecento imam sono pagati dal governo israeliano, duemila musulmani servono nell'esercito israeliano e durante il Ramadan i dipendenti pubblici fanno festa. E' la famosa "apartheid israeliana" che mette d'accordo tutti, i sinceri democratici di Pechino, i loro soci in affari della umma islamica e certi utili idioti occidentali.
   
(Il Foglio, 31 luglio 2019)


A quattro anni "eroe" palestinese

Per i palestinesi è un nuovo caso di prepotenza da parte della polizia israeliana; per i funzionari di Tel Aviv, solo una furba manovra di propaganda. L'episodio inizia con un bambino di 4 anni che nel quartiere Issawieh di Gerusalemme est tira una pietra contro una jeep della polizia; rincorso, viene portato a casa. L'agente consegna al padre un ordine di convocazione per il giorno seguente. Si deve presentare lui, non il figlio. Invece il genitore si presenta con il figlio in braccio e seguito da decine di abitanti del quartiere. I titoli dei principali siti web palestinesi, rilanciati anche da emittenti arabe e da deputati arabi della Knesset, denunciano: "La polizia israeliana convoca un bambino di quattro anni!". La polizia israeliana ridimensiona la vicenda ma l'Olp pubblica un comunicato in cui accusa Israele di "seminare il terrore" fra i palestinesi.

(LaPresse, 31 luglio 2019)


Mostra sull'Italia ebraica agli Uffizi, la visita del Rabbino Capo di Roma

Riccardo Di Segni ha visitato l'esposizione accompagnato dal direttore Eike Schmidt

Il Rabbino Capo di Roma, Di Segni, in visita agli Uffizi
FIRENZE - Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni ha visitato la Galleria degli Uffizi a Firenze. La tappa principale del tour nel museo, è stata la mostra "Tutti i colori dell'Italia ebraica", rassegna accolta nell'aula Magliabechiana al piano terra della Galleria che racconta la storia degli ebrei italiani da una prospettiva inedita, quella dell'arte del tessuto, attraverso 140 opere tra arazzi, merletti, abiti, stoffe e addobbi.
A guidare il Rabbino tra i tesori dell'esposizione è stato lo stesso direttore Eike Schmidt, insieme ad una delle due curatrici della mostra, Dora Liscia Bemporad. Una curiosità: Schmidt e Di Segni si sono soffermati ad osservare ai raggi ultravioletti, con un'apposita strumentazione, un cartiglio istoriato del 18esimo secolo, per scoprire se, sotto le iscrizioni vi fossero altre scritte, diverse, poi cancellate. L'esame ha dato risposta affermativa: e così Schmidt ha annunciato che l'opera, al termine della mostra, sarà sottoposta ad ulteriori analisi all'Opificio delle Pietre Dure.

(FirenzeSettegiorni.it, 31 luglio 2019)


Israele: confiscate quasi quattromila armi nella prima metà dell'anno

GERUSALEMME - Quasi quattromila armi sono state confiscate in Israele nella prima metà del 2019. Lo ha annunciato la polizia dopo che ieri una sparatoria causata da una discussione su un posto auto ha provocato la morte di un uomo a Ramla, a sud-est di Tel Aviv. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post". In particolare, stando ai numeri forniti dalla polizia, nei primi sei mesi dell'anno in corso sono state sequestrate 3.661 armi da fuoco e sono stati arrestati 2.704 sospetti coinvolti in sparatorie, 1.862 dei quali provenienti dal nord di Israele. Altre 842 persone sono state arrestate per aver utilizzato armi da fuoco in aree residenziali. In totale vi sono state 528 incriminazioni. "Le operazioni di polizia sono avvenute in tutto il paese e sono il risultato di attività di qualità dell'intelligence", si legge in un comunicato. "Le attività - prosegue la polizia - non sono state condotte solo contro l'acquisto e la vendita illegale di armi, ma anche contro sospettati che hanno aperto il fuoco all'interno di città e villaggi". Secondo la polizia, la maggior parte delle operazioni si è concentrata sulla comunità araba, cui sono state sequestrate 341 pistole, 65 armi di grosso calibro, 256 fucili automatici, decine di dispositivi esplosivi, 123 granate e relative munizioni.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2019)


Caccia israeliani invisibili ai radar nei cieli iraniani: lo smacco che spaventa Teheran

di Michael Sfaradi

 
F35 Adir
La notizia ha il sapore dell'incredibile: caccia F35 Adir dell'aeronautica militare israeliana hanno sorvolato a più riprese l'Iran e per la precisione hanno volato nei cieli di Teheran, Karajrak, Isfahan, Shiraz e Bandar Abbas, senza che le difese aeree della Repubblica Islamica se ne siano accorte. Tutto questo è successo nel 2018 ma si è saputo solo nei giorni scorsi, quando dei funzionari iraniani lo hanno finalmente ammesso con alcuni giornalisti arabi che hanno riportato la notizia. Probabilmente la loro missione, oltre a testare l'efficienza difensiva iraniana, era riprendere immagini delle zone di interesse per lo Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane e prendere le misure in caso si dovesse poi procedere a dei bombardamenti di siti militari o nucleari. Per la difesa aerea della Repubblica Islamica è imbarazzante che i radar non abbiano rilevato nulla né in entrata né in uscita, compresi i modernissimi S-300 recentemente forniti dalla Russia. Che gli israeliani abbiano passeggiato indisturbati nei cieli iraniani si è scoperto solo dopo le indagini di una speciale commissione, che hanno poi portato alla defenestrazione del generale Farzad Ismaili allora comandante delle difese aeree del Paese.
   Questo episodio conferma ciò che gli esperti sapevano da tempo, e cioè che sistemi antiaerei evoluti come i Tor-M1 e gli S-300, di fabbricazione russa e in dotazione sia all'esercito siriano che a quello iraniano, sono permeabili dai nuovi caccia F35. C'è da sottolineare inoltre che una fra le ipotesi più accreditate è che gli ingegneri israeliani abbiano sviluppato e montato sugli aerei in dotazione all'aeronautica israeliana tecnologie in grado di ampliare l'invisibilità "stealth", già proprie dell'F35, riuscendo a renderli completamente invisibili. Si dice inoltre che gli aerei destinati a Israele già in fase di assemblaggio vengano modificati secondo le direttive della I.A.F. (Israel Air Force) per allungare il raggio d'azione. Non si tratterebbe comunque di una novità, anche in passato modifiche sostanziali su richiesta della I.A.F. sono state fatte sugli gli aerei di fabbricazione Usa destinati a Israele. Aerei che nelle loro sigle hanno sempre delle denominazioni particolari come fossero delle fuoriserie. Non è una novità, inoltre, che i piloti israeliani abbiano in dotazione l'avionica made in Israel, anche sugli F16 e gli F15 da anni spina dorsale della difesa aerea israeliana. Questa notizia, a livello di guerra psicologica, si abbatte su Teheran come una mannaia perché in caso di scontro aperto contro Usa e Gran Bretagna - le questioni del nucleare, delle petroliere e del libero passaggio nello stretto di Hormuz sono sempre aperte - Israele potrebbe condividere questo tipo di tecnologia con gli alleati.
   I sorvoli avrebbero interessato più missioni sia il nord che al sud dell'Iran. Come al solito Israele non conferma e non smentisce, ma se tutto fosse comprovato, la mappatura completa e dettagliata dei vari sistemi di difesa iraniani, avendoli fotografati non solo con droni o dai satelliti, ma anche con voli di caccia, potrebbe ora essere nelle mani dello Stato Maggiore israeliano che, come presumibile, può avere già pronti i piani di volo per l'azzeramento delle infrastrutture militari e dei centri di comando. L'ex generale israeliano Michael Herzog, in un suo rapporto, prevede in tempi brevi un attacco missilistico di Hezbollah dal Libano e dell'esercito iraniano dalla Siria. Con l'acuirsi delle tensioni delle ultime settimane i rapporti di intelligence danno questa possibilità sempre più concreta. Secondo la sua valutazione lo scontro interesserà il nord di Israele con il lancio di circa millecinquecento missili al giorno per diverse settimane, un quantitativo che porterebbe a saturazione le difese missilistiche dello Stato Ebraico e permetterebbe ai guerriglieri e ai pasdaran di colpire le città israeliane. Ma la notizia che i caccia israeliani possono entrare con facilità nei cieli iraniani e che anche le città iraniane si troverebbero in prima linea, non è un deterrente che si possa ignorare e rimette tutto in discussione. Gli ayatollah che pensavano di sentirsi al sicuro debbono ora ricredersi perché così come la situazione si è evoluta non sarà più possibile gestire la guerra contro Israele delegandola ad Hamas o a Hezbollah.

(Atlantico Quotidiano, 30 luglio 2019)


Intervista all'Ambasciatore d'Italia in Israele


(ANSA, 30 luglio 2019)


La fine della Scuola di gomme: è iniziato il conto alla rovescia

Riportiamo questo articolo, pubblicato domenica scorsa su "Avvenire", insieme alla risposta che Emanuel Segre Amar ha inviato al direttore dello stesso giornale e ci ha fatto pervenire per conoscenza, cosa di cui lo ringraziamo. NsI

di Riccardo Michelucci

GERUSALEMME - Stavolta sembra proprio che la "Scuola di gomme" di Khan al-Ahmar abbia i giorni contati. Entro la fine dell'anno la struttura dovrebbe essere infatti rasa al suolo insieme all'adiacente villaggio beduino palestinese, situato in una terra desertica, sulla strada che collega Gerusalemme al Mar Morto, vicino a Gerico in Cisgiordania. Alcuni mesi fa la Ong sionista Regavim ha presentato l'ennesima petizione all'Alta Corte israeliana chiedendo l'immediata demolizione dell'insediamento e nei giorni scorsi il primo ministro uscente Benjamin Netanyahu ha risposto che ciò avverrà «molto presto».
   A quanto pare non prima di dicembre, perché prima sarà necessario attendere le elezioni di settembre e la nascita del nuovo governo. Il comitato dei coloni sta però perdendo la pazienza di fronte a una vicenda che negli anni ha mobilitato i governi e le istituzioni internazionali. A pochi chilometri dal piccolo villaggio di Khan al Ahmar, in cima alla collina, sorge la grande colonia israeliana di Ma'ale Adummim che si estende in direzione di Gerico e vorrebbe espandersi fino all'autostrada cresciuta accanto ai pascoli beduini. Alcuni giorni fa, nelle strade abitate dai coloni, i membri di Regavim hanno appeso provocatoriamente decine di bandiere palestinesi sostenendo che il governo non fa abbastanza per tutelare i loro interessi.
   Nel villaggio beduino vivono attualmente circa duecento persone in tende e baracche prive di acqua e luce. La scuola fu realizzata nel 2009 con i fondi della cooperazione italiana, della Cei e della Ong Vento di Terra: per aggirare il divieto di costruire imposto da Israele nella cosiddetta "area C" della Cisgiordania, le pareti sono state fatte di pneumatici impilati uno sull' altro e intonacati con terreno argilloso.
   In questi giorni decine di bambini scorrazzano felici nel cortile e negli spazi esterni della scuola, dove fino alla fine di agosto saranno impegnati nei campi estivi con gli educatori e i volontari del villaggio. «Quando la scuola sarà demolita questi bambini perderanno l'unica possibilità di accedere all'istruzione di base», conferma il medico del villaggio.
   Il lungo contenzioso legale sembra però essere giunto ormai a una svolta decisiva e appare improbabile che il governo israeliano cambi idea. La comunità beduina di Khan al-Ahmar si trova infatti in un territorio di grande importanza strategica: per Israele il controllo dell'area è indispensabile per realizzare il piano di espansione coloniale "El", che intende collegare Gerusalemme e la valle del Giordano tagliando in due la Cisgiordania. Quando tale piano sarà ultimato, l'area della Cisgiordania che fa capo ai governatorati di Betlemme ed Hebron verrà definitivamente separata da quella di Nablus e Ramallah.

(Avvenire, 28 luglio 2019)


Egregio dottor Marco Tarquinio,
 
Il villaggio beduino Khan al Ahmar
la lettura dell'articolo pubblicato domenica 28.7 sul quotidiano da lei diretto mi spinge a scriverle con una lettera aperta sperando di attirare la sua attenzione più di quanto ottenuto con la mia precedente del 17 u.s. sull'antisemitismo riscontrato in un precedente articolo apparso sull'Avvenire e rimasta senza riscontro.
   Non voglio entrare nel merito delle questioni legali, già oggetto di dibattito in importanti siti attenti a quanto viene pubblicato sui quotidiani nazionali. Mi preme piuttosto attirare la sua attenzione sulle ragioni per le quali trovo l'articolo non degno di essere pubblicato su un giornale che rappresenta una proprietà tanto autorevole.
   La formazione scolastica di tutti i bambini e di tutti i giovani in Israele è sempre stata oggetto della massima attenzione da parte di tutti i governi che si sono succeduti a Gerusalemme. In particolare, e credo lei vorrà convenire con me, si è sempre cercato di assicurare una formazione scolastica, almeno quella di base, a dei bambini che, da millenni, ne erano tradizionalmente privi a causa del modo di vivere dei beduini (simile a quello dei nostri gitani, con in più l'inconveniente delle difficoltà procurate dal deserto). Non è un caso, forse, se oggi proprio giovani beduini occupano posti fondamentali nell'esercito israeliano al quale si iscrivono sempre più numerosi come volontari.
   A dimostrazione di ciò, a semplice titolo di esempio, le posso citare la città di Rahat (non lontana della più nota Sderot) dove sono state riunite diverse tribù di beduini in precedenza abitanti in catapecchie di metallo sparse nel deserto del Negev. Proprio il sindaco e, soprattutto, il veterinario capo di Rahat mi spiegarono recentemente che questo fu l'unico modo per portare a scuola questi bambini (prima c'erano scuolabus che li cercavano, spesso invano, nel deserto); e anche a Rahat questi beduini poterono mantenere le loro abitudini ancestrali, con le greggi in prossimità delle abitazioni, e rigorosamente suddivisi per scelta loro in tribù nei vari quartieri della cittadina giacché è proprio la tribù il collante principale di queste popolazioni).
   Mi sono dilungato su questi particolari per farle capire quanto lontano dalla realtà sia l'articolo di Riccardo Michelucci. Non sono i "coloni" che decidono alcunché in merito, ma la Corte Suprema (il cui presidente è, tra l'altro, un arabo). Non è l'espansione della città di Ma'ale Adummim che possa influire in queste decisioni legali, e non politiche ("a pochi chilometri", sottolinea Michelucci, ma tutto, in Israele, si trova a pochi chilometri). Vede, dottor Tarquinio, chiunque salga a Gerusalemme provenendo da Gerico non può non vedere queste "abitazioni di lamiera" dei beduini, indegne di un vivere civile.
   Sarebbe forse più opportuno per una testata come quella da lei diretta affrontare i problemi della formazione scolastica e delle condizioni di vita dei bambini dei nostri gitani, credo, piuttosto che criticare opportune azioni volte al miglioramento delle condizioni di vita di questi bambini spesso fieramente israeliani (ho potuto constatarlo coi miei occhi a Rahat).
   Stiano tranquilli i lettori di Avvenire: quei bambini non perderanno "l'unica possibilità di accedere alla formazione di base", ma al contrario avranno assicurato proprio quella formazione che il vivere sparpagliati nel deserto non permette loro.
   E nemmeno Betlemme e Hebron saranno "definitivamente separate" da Nablus e Ramallah.
Distinti saluti
Emanuel Segre Amar
Presidente Gruppo Sionistico Piemontese

(Notizie su Israele, 30 luglio 2019)


Ormai Israele è di destra. Ma quale?

di Vincenzo Pinto

Dal 20 luglio Benjamin Netanyahu è entrato ufficialmente nella storia quale premier israeliano più longevo. Ha superato un mostro sacro come Ben Gurion. Bibi sta per raggiungere i 4900 giorni di governo, ma non sa se potrà superare i 5000. Il motivo sono le elezioni anticipate che si terranno il 17 settembre, dato che il leader del Likud non è stato in grado di formare il suo quinto governo. Molti si chiedono se la vita politica di Netanyahu non sia ormai giunta al capolinea, visti anche i rischi di incriminazione per corruzione, frode e abuso d'ufficio. Sarà quindi la giustizia a "resistere, resistere, resistere" contro le ingerenze (se non l'indipendenza) della politica?
   Un confronto schietto fra il caso italiano e quello israeliano non sta in piedi, per tanti motivi. È vero che Israele è una democrazia parlamentare afflitta dai "mali" del sistema proporzionale (che antepone la rappresentatività alla governabilità), e difficilmente potrà intraprendere la via del maggioritario (quantomeno finché l'identità ebraica rimarrà al principio talmudico del Machloketh). Se tutti hanno ragione (cioè hanno le loro ragioni) e la sintesi non è "etica", eccoci di fronte al grande dilemma che Bibi e i suoi successori dovranno affrontare: riuscirà lo Stato di Israele a rimanere ebraico?
   La vita politica israeliana è ormai transitata a destra da almeno vent'anni. La sinistra è entrata irrimediabilmente in crisi perché incapace di farsi portatrice dei bisogni dei ceti popolari, trincerandosi dietro al motto dei "due Stati" o dello "Stato bi-nazionale". Ma la destra ha bisogno di capire dove vuole andare. Netanyahu appoggerà una linea laicista e realista oppure darà ai "religiosi" l'esenzione dalla leva militare? Scelta tutt'altro che facile, che riguarda non solo la formazione di un altro esecutivo a trazione conservatrice, ma soprattutto i modi in cui garantire sicurezza e prosperità allo Stato di Israele. Chi vuole la pace, deve prepararsi a una lunga e aspra discussione.

(Centro Studi Machiavelli, 29 luglio 2019)


Ayelet, la lady di ferro che sfida Netanyahu da destra

Nota per le posizioni dure, la ex ministra della Giustizia diventa leader dell'ala estrema

Le elezioni
Israele torna alle urne per la seconda volta quest'anno: ad aprile Netanyahu non è riuscito a formare il governo
I protagonisti
Le formazioni principali sono Likud e Blu-Bianco. I partiti arabi si presenteranno in un'unica lista
I temi
Messa da parte la questione palestinese, il voto si giocherà sul ruolo degli ultra ortodossi nella società

di Francesca Caferri

Ayelet Shaked
Può il capriccio di una donna cambiare il destino politico di un Paese? Può se la donna in questione si chiama Sara Netanyahu ed è l'influente moglie del primo ministro uscente e candidato da battere alle prossime elezioni politiche israeliane, a settembre. Il veto di Sara, scrive il quotidiano Haaretz, sarebbe stata la causa della porta sbattuta in faccia dal premier alla sua ex braccio destro ed ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nelle settimane scorse aveva a più riprese chiesto di essere ammessa nel Likud, il partito di Netanyahu: un "no" tanto fermo che ha spinto Shaked a cercare altri lidi e a diventare una spina nel fianco per il suo ex mentore.
   Shaked ha annunciato ieri che sarà lei a guidare "Destra Unita" la lista che unisce i partiti che si collocano alla destra del Likud che, secondo i sondaggi, alle urne conquisterà fra i 10 e i 12 seggi, diventando quindi fondamentale per la formazione del nuovo governo. Insieme a Shaked correranno alcuni dei big della destra israeliana: l'ex ministro dell'istruzione Naftali Bennett nonché due esponenti politici vicini al movimento dei coloni: Rafi Peretz e Bezalel Smotrich (rispettivamente n.2 e n.3 della nuova lista). La porta del movimento inoltre, ha spiegato la leader, resta aperta per Otzma Yehudit, il movimento radicale noto per le sue posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, a lungo considerato un impresentabile sulla scena politica israeliana.
   Per la ex ministra della Giustizia, 43 anni, considerata da Forbes Israel «la più influente donna israeliana» e da Haaretz «la politica israeliana destinata ad aver maggior successo dai tempi di Golda Meir» è un clamoroso ritorno in primo piano, dopo aver perso la sua poltrona a causa di dissapori con il premier. Shaked e i suoi infatti si preparano a dettare condizioni chiare a Netanyahu in cambio del loro appoggio: la leader della lista potrebbe anche diventare ministro degli Esteri.
   Un'ipotesi che fa tremare più di una cancelleria: nei suoi quattro anni da ministra infatti Shakel si è distinta per le posizioni durissime contro i palestinesi, per aver imposto alle Ong che operano in Israele regole di registrazione contestatissime e per aver collaborato alla stesura dei progetti di legge sulla limitazione dei poteri della Corte suprema e sul riconoscimento di Israele come Stato-nazione del popolo ebraico, che esclude la popolazione di origine araba da molti diritti riservati ai cittadini di religione ebraica.

(la Repubblica, 30 luglio 2019)


Giovani ebrei nella vecchia Europa

I dèmoni dell'antisemitismo colpiscono duro le nuove generazioni

L'ultimo rapporto dell'Unione europea sull'antisemitismo inizia con un avvertimento. "E' una lettura cupa", scrive Michael O'Flaherty, direttore dell'Agenzia dell'Unione europea per i diritti fondamentali, nella prefazione. Concentrandosi sugli ebrei più giovani, di età compresa tra 16 e 34 anni, il rapporto presenta le loro percezioni sull'entità dell'antisemitismo nei rispettivi paesi.
   Il rapporto sottolinea che "i giovani ebrei europei sono considerevolmente più esposti all'antisemitismo dei più anziani". Il 45 per cento di loro afferma di essere stato vittima di almeno un episodio antisemita nei 12 mesi precedenti il sondaggio. La sfiducia nei confronti delle autorità è fortissima e si riflette nell'80 per cento dei giovani ebrei che non hanno denunciato quegli episodi di aggressioni alle autorità. "L'antisemitismo è normalizzato in tutta l'Ue", ha concluso il rapporto. Un altro fattore che induce al pessimismo gli ebrei più giovani in Europa è il loro palpabile senso di vulnerabilità quando i sostenitori dell'antisemitismo sfruttano il conflitto arabo-israeliano per attaccare gli ebrei in Europa. Il 55 per cento ha preso in seria considerazione la migrazione negli ultimi dodici mesi. Non passa settimana senza che dall'Europa non arrivi un caso di antisemitismo. Simboli che scompaiono per "sicurezza" (l'ultima è la bandiera israeliana da Strasburgo), aggressioni per strada, ingiurie ai rabbini, storie di partenze, di scuole fortificate, di atmosfere d'assedio.
   Con l'antisemitismo che in varie forme continua a rigurgitare odio sul suolo europeo 75 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e l'Olocausto, quest'allarme dei giovani ebrei figli di un dio minore nella Vecchia Europa dovrebbe attirare e scatenare più delle nostre solite frasi di circostanza.

(Il Foglio, 30 luglio 2019)


Berna sospende gli aiuti alla UNRWA

Abusi e cattiva gestione. L'Agenzia è diretta dallo svizzero Pierre Krähenbühl, che non sarebbe esente da rimproveri.

La Svizzera ha sospeso i contributi destinati all'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi UNRWA, in seguito a un rapporto interno che accusa i vertici di abuso di autorità e cattiva gestione. La notizia, diffusa dalla radio-tv svizzera di lingua tedesca SRF, è stata confermata dal Dipartimento federale degli affari esteri DFAE. L'agenzia è diretta dallo svizzero Pierre Krähenbühl.
I fondi stanziati dalla Confederazione ammonterebbero a una ventina di milioni di franchi l'anno.
Dal rapporto, stilato da membri del comitato etico dell'Onu dopo un sopralluogo negli uffici di Amman e Gerusalemme, si parla di favoritismi, rappresaglie e discriminazioni a fini personali da parte di un piccolo gruppo di alti responsabili.

 Assunzioni e partenze
  Questo clima di lavoro avrebbe portato a diverse dimissioni. A giugno, una funzionaria che per anni aveva cercato di segnalare irregolarità gestionali era invece stata licenziata.
Il Commissario generale Pierre Krähenbühl avrebbe avuto una relazione amorosa con la sua principale consigliera, nominata nel 2015 dopo "un procedimento di selezione estremamente rapido".
Mentre una sua vice avrebbe fatto assumere il marito in una posizione ben remunerata. La donna sta per lasciare l'incarico "per motivi personali".
In un comunicato, oltre alla totale collaborazione all'inchiesta in corso e la disponibilità a mettere in atto le riforme necessarie, l'agenzia garantisce che la stragrande maggioranza dei collaboratori non è mai venuta meno al suo mandato di aiuto.
Da due anni, la UNRWA è confrontata con difficoltà finanziarie, dovute in particolare alla revoca dei finanziamenti del governo statunitense: 300 milioni di dollari annui.
Washington, in sintonia con Israele, si oppone al fatto che i rifugiati trasmettano questo statuto ai loro figli, ciò che non consente di ridurre il numero di beneficiari di aiuti. I palestinesi lo considerano una violazione dei loro diritti.
Fondata nel 1949, la UNRWA gestisce le scuole e fornisce aiuti vitali a oltre 5 milioni di profughi palestinesi in Giordania, Libano, Siria e nei Territori occupati.

(tvsvizzera.it, 30 luglio 2019)


Qualche informazione in più sugli F-35I israeliani che hanno violato i cieli iraniani

Lo avevamo anticipato più di un anno fa e oggi tutti ne parlano. Parliamo degli F-35I israeliani che hanno violato i cieli iraniani senza essere visti. Parliamo meglio di questi importantissimi mezzi a disposizione di Israele.

di Marco Loriga

 
F-35I in dotazione all'esercito israeliano
Come avevamo anticipato più di un anno fa con una Breaking News, oggi in molti parlano del sorvolo degli F-35I "Adir" sui cieli iraniani.
  Avendo anche già parlato dell'inadeguatezza o arretratezza delle forze armate iraniane che, come la Corea del Nord, si basa principalmente su tecnologia degli anni Settanta - con l'eccezione dei soli missili anti aerei S-300 e i semoventi anti-aerei Tor-M1 (SA-15 "Gauntlet" per la NATO) - non sorprende che gli "Adir" israeliani abbiano voluto umiliare l'Iran con questi sorvoli.
  Chi governa il paese islamico sapeva già prima dei media dello smacco subito, segno che Israele può colpire l'Iran in qualsiasi momento.
  Anche i moderni sistemi anti-aerei S-300 non hanno potuto nulla con il nuovo caccia e il blocco della fornitura di F-35A alla Turchia da parte americana ha avuto le sue buone motivazioni, visto la consegna degli S-400 a Erdogan.
  La missione in territorio nemico ha riguardato più sorvoli su basi militari (ad esempio Teheran ed Esfahan, dove oltre agli aeroporti civili sono presenti anche le basi militari) e possibili siti nucleari, di cui l'intelligence israeliana conosce molto bene.
  Si è trattato, oltre che testare le difese iraniane, probabilmente anche di tipiche missioni di ricognizione fotografica, queste ultime svolte da poco e per la prima volta anche dagli F-35B britannici in Iraq su obbiettivi di ISIS ancora presenti nel territorio.
  Mentre le consegne di F-35 per Israele proseguono dalla fine del 2016, già nel 2017 la Israeli Air Force, tramite il suo Flight Test Squadron, aveva condotto prove per ricevere la capacità iniziale operativa su sistemi avionici, armi e il rifornimento in volo tramite i vecchi e gloriosi Re'em dalla base di Tel-Nof.
  Nel Dicembre 2017 il 140th Squadron è stato dichiarato operativo. Un anno dopo i velivoli avevano già compiuto le prime missioni in Siria. Sempre nel 2018 uno o più F-35 israeliani sorvolavano la capitale del Libano Beirut.
  Una leggenda di guerra o fake news dice che nell'ottobre 2017 un F-35I era rientrato nella propria base danneggiato durante un'incursione in Siria. Quello stesso giorno F-15 ed F-16 israeliani colpivano obbiettivi in Siria con la risposta della contraerea mediante il lancio di S-200 ma senza successo. Il danneggiamento dell'F-35 era dovuto a un semplice impatto con volatili, cosa che accade anche per i jet di linea, soprattutto nelle fasi di decollo e atterraggio.
  Quest'anno invece sono stati protagonisti delle prime esercitazioni su larga scala: la prima insieme ai caccia della IAF della generazione precedente (F-15 e F-16) e successivamente con F-35 americani e britannici nella base RAF di base ad Akrotiri (Cipro).
  A breve è possibile che, durante l'esercitazione che si svolge ogni anno sulla base di Ovda nel Negev, si possano vedere gli F-35 con la Stella di David insieme a quelli della nostra Aeronautica Militare, già impiegati insieme agli F-16 "Barak" israeliani in un esercitazione in Grecia di questa primavera.
  Gli F-35I sono del tutto simili agli F-35A tranne che per alcuni sistemi interni elettronici e parte del software che al momento non si conoscono con precisione. Inoltre possono trasportare armi di fabbricazione israeliana e serbatoi esterni sganciabili in volo per allungare l'autonomia. E' possibile che il software possa essere sostituito in futuro con uno completamente israeliano.

(Rights Reporters, 30 luglio 2019)


F-35 israeliani hanno compiuto due raid aerei in Iraq

LONDRA - I cacciabombardieri stealth israeliani F-35 avrebbero condotto due raid aerei contro obiettivi collegati all'Iran vicino a Baghdad nel giro di dieci giorni: lo riferisce il quotidiano panarabo edito a Londra "Asharq al Awsat", citando fonti diplomatiche occidentali. Secondo il giornale di proprietà saudita, i velivoli israeliani sarebbero responsabili del misterioso bombardamento compiuto il 19 luglio scorso contro un deposito di razzi in una base delle milizie sciita a nord di Baghdad. Non solo: per "Asharq al Awsat" lo Stato ebraico sarebbe dietro un altro bombardamento effettuato domenica 28 luglio a Camp Ashraf, circa 40 chilometri a nord-est di Baghdad e a 80 chilometri dal confine iraniano. Israele non ha commentato la vicenda. Lo Stato ebraico conduce spesso attacchi in territorio siriano, colpendo le spedizioni di missili iraniani destinate al gruppo libanese Hezbollah. Israele non effettuava raid aerei in l'Iraq dal 1981.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2019)


Anima e politica

L'osmosi tra vita e lotta di piazza. Conversazione con Eshkol Nevo sul libro che ha ispirato Nanni Moretti

di Massimiliano Coccia

L'estate a Roma è sciatta, ma vive anche, a volte, di geometrie perfette, vestiti stirati e panorami indecenti, in righe ordinate e cerchi concentrici, gli stessi che Eshkol Nevo disegna su un tavolino di un hotel del centro per raccontare come nasce un suo libro. "Non parto mai da obiettivi importanti, da una agenda politica o da un tentativo di descrivere la società. Inizio i miei libri sempre da una nota personale, da una domanda personale che giace nel mio cuore mentre scrivo. E' come quando butti una pietra nell'acqua e comincia a produrre cerchi che si allargano all'infinito e quei cerchi nella mia scrittura sono le implicazioni che il personale raggiunge: la politica e il sociale". Stride col disordine di Roma la voce di Nevo. "Ho bisogno di avere qualcosa da dire e da chiedere sul tempo in cui viviamo, che sia nella società israeliana o in modo più universale nella vita contemporanea. In "Tre piani" (Neri Pozza, libro che ha ispirato il nuovo film di Nanni Moretti a cui sta lavorando in queste settimane, ndr), sentivo il bisogno di scrivere sul rapporto tra genitori e figli, sui lati oscuri di questa relazione e man mano sono arrivato a raccontare di come le manifestazioni di piazza influenzino le vite private e di come la politica possa cambiare le esistenze". Il tratto duplice della scrittura di Nevo si lega stretto alla sua la biografia: lo scrittore israeliano è nipote di Levi Eshkol, padre fondatore di Israele e primo ministro dal 1963 al 1969. Eshkol Nevo, cresciuto tra gli Stati Uniti e Israele, ha iniziato la carriera di pubblicitario e copy, carriera abbandonata per abbracciare il demone della scrittura e dell'insegnamento: questa frammentazione vocazionale si percepisce nella sua scrittura che non diventa mai uno sterile balzello identitario ma fa risuonare le storie, gli odori, i rumori di Gerusalemme, Tel Aviv e crea un tempo eterno e vibrante. "Sai - continua Nevo - c'è questo processo chimico che si chiama osmosi, che sarebbe la compenetrazione di elementi diversi che arrivano a formarne uno nuovo, che mi interessa molto. In modo particolare sono interessato a come il tempo che viviamo si fonde con le nostre vite. Alle volte non si sa con che cosa la tua anima entri in osmosi, perché si tratta di un processo silenzioso e delicato. Poi un giorno ti svegli e capisci di essere diventato tutt'uno con la politica, la lotta, con una persona che non avevi mai amato prima. Qualcosa intorno a te arriva e cambia per sempre la tua interiorità. Questa - dice sorridendo - è la parte bella della vita".
   E' l'apertura alle vite degli altri, alle case degli altri, alle storie degli altri a essere il centro narrativo di Nevo, che nei romanzi "Nostalgia" e "Tre piani" crea una narrazione depurata dalla retorica del multiculturalismo, dell'eterno conflitto, ma tratteggia un ritratto compiuto della società israeliana che nonostante tutto riesce a essere un terreno di mescolanza, di sentimenti che sfuggono alle solite geometrie.
   Nevo per raccontare questa miscellanea mette in campo la sua esperienza di docente e racconta che "nella società israeliana ci sono diverse tribù e me le ritrovo in genere sedute insieme nella stessa classe. Alla prima lezione, vedi che si esaminano a vicenda con molto sospetto, poi come un miracolo arriva la letteratura che ha il potere di colmare questa differenza: ti fa capire l'altro attraverso un libro o scrivendo con l'altro nello stesso gruppo. Sono un convinto sostenitore della capacità di cambiare questo tipo di animosità e intolleranza. Sembra molto difficile, ma non lo è. Almeno nella società israeliana, molto rapidamente un gruppo di estranei dove senti l'animosità nell'aria diventa un gruppo capace di costruire qualcosa insieme".
   Mentre la conversazione sta arrivando al termine Nevo sorride davanti alle mie richieste di un giudizio sulla politica israeliana. Sembra perplesso ma poi rovescia il paradigma e afferma che per lui "questo non è il tempo della paura, occorre parlare chiaro, molti intellettuali israeliani in questo periodo si autocensurano, diventano sempre più attenti a quello che dicono, perché non vogliono essere attaccati o accusati di non essere abbastanza patriottici. Invece ritengo che la democrazia in Israele è sofferente, così come in Italia. E proprio perché lo dichiaro con forza mi sento patriottico."

(Il Foglio, 30 luglio 2019)


Calunnie della propaganda araba sull'insegnamento nelle scuole israeliane

Una montagna di falsità, compreso qualche classico cliché antisemita

Un sedicente "studio" condotto da Emirates News, e ripreso dalla stampa ebraica, sostiene che le scuole israeliane insegnano agli scolari ad assassinare gli arabi e a non dialogare mai con la controparte. Secondo il rapporto, sin dall'inizio ai bambini israeliani "viene insegnata l'arte della guerra, inculcando sentimenti di nazionalismo e odio verso gli arabi allo scopo di alimentare rancore contro gli arabi, in modo che le mani non tremeranno quando si premerà il pulsante sul drone". Secondo Emirates News, ai bambini israeliani viene anche detto che il Talmud insegna che "chiunque uccida un musulmano o un cristiano o un pagano viene ricompensato con l'eternità in paradiso". Il rapporto sostiene che a scuola gli scolari israeliani apprendono che gli arabi sono "arretrati e in decadenza". L'articolo afferma inoltre: "Merita ricordare che nelle scuole è proibito pronunciare la parola arabo, che deve essere sostituita con minaccia demografica"....

(israele.net, 30 luglio 2019)


Attacco alla sinagoga di Miami, ferito un uomo

di Redazione

Un uomo è stato ferito nell'attacco alla sinagoga Young Israel a Miami. Il 58enne stava per entrare nel tempio ebraico quando è stato raggiunto da colpi di arma da fuoco, provenienti da un'automobile in movimento.
Provvidenziale l'intervento di un volontario di Hatzolah, un'organizzazione medica d'emergenza che serve le comunità ebraiche sparse nel mondo, il quale ha prestato il suo aiuto all'uomo ferito, che successivamente è stato ricoverato in ospedale: le sue condizioni sono stabili.
Al momento tutte le piste sono aperte. Come riporta il Miami Herald, si sta indagando in tutte le direzioni, senza escludere quella che porta al reato di odio.
Mai come in questo caso la cautela non è mai troppa. Da una parte la matrice dell'episodio potrebbe esser legata alla vita privata della vittima, dall'altra potrebbe rientrare in quella spirale di antisemitismo che sta avvolgendo gli Stati Uniti.
Quanto accaduto a Miami, infatti, riporta la mente agli attentati antisemiti avvenuti in territorio americano negli ultimi mesi:
  • Nell'ottobre 2018, 11 persone hanno perso la vita in un attentato alla sinagoga Tree of life di Pittsburgh;
  • Nell'aprile scorso, 3 persone sono state uccise in un attentato a una sinagoga a Poway, a San Diego.
Il vicepresidente del World Zionist Organization, Yaakov Hagoel, ha fatto un appello per mettere fine a questi episodi che coinvolgono gli ebrei americani:
"Invito le autorità statunitensi a porre fine all'ondata di attentati terroristici antisemiti perpetrati contro gli ebrei negli Stati Uniti. È tempo che gli ebrei possano vivere la loro vita come qualsiasi altro cittadino".
Come scritto sopra, allo stato attuale c'è molta cautela attorno alla matrice dell'episodio. Le prove in mano alle forze dell'ordine non sono sufficienti per indirizzare con chiarezza le indagini.

(Progetto Dreyfus, 29 luglio 2019)



Teheran vuole riaprire il reattore di Arak. Erdogan minaccia chi sta con Israele

Mentre l'Iran si appresta a riaprire il reattore di Arak, Erdogan minaccia chiunque stia con Israele.

di Sarah G. Frankl

L'Iran minaccia di riaprire il reattore di Arak se l'Unione Europea non garantirà gli interessi iraniani.
La "minaccia" è arrivata ieri durante una riunione tra i cinque paesi che ancora non sono usciti dall'accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e una delegazione iraniana guidata dal capo negoziatore di Teheran, Abbas Araqchi.
Il reattore di Arak non è però un reattore qualsiasi. Ad Arak infatti non si arricchisce l'uranio ma si produce acqua pesante per la produzione di plutonio. Non si tratta quindi di un impianto che possa in qualche modo passare per una struttura civile o per uso non militare.
La "linea dura" di Teheran trova l'appoggio aperto della Russia. Il vice ministro degli esteri di Mosca, Sergei Ryabkov, ha dichiarato che mentre i Paesi europei pensano che l'Iran debba tornare al progetto originale senza porre condizioni, la Russia ritiene che questo sia "altamente improbabile" in quanto i Paesi EU non danno sufficienti garanzie per l'aggiramento delle sanzioni americane.
«Alcuni Paesi pensano che l'Iran debba tornare all'accordo originale» ha detto Sergei Ryabkov «ma allo stato attuale mi sembra altamente improbabile».
Il reattore di Arak era stato costruito dalla Cina e dalla Gran Bretagna. Dopo l'accordo sul nucleare il suo nocciolo e le parti importanti vennero coperte da una colata di cemento. Fonti iraniane (non confermate) affermano che la ricostruzione sarebbe già iniziata.

 Erdogan: «Chiunque sta dalla parte di Israele sta contro di noi»
  Ma la Russia e la Cina non sono gli unici alleati su cui l'Iran può contare. Un altro importante attore regionale, la Turchia, sta sempre più prendendo posizioni vicine a Teheran anche contro Israele.
Parlando ad una riunione del suo partito, il dittatore turco Recep Tayyip Erdogan, ha detto che «chiunque sta dalla parte di Israele sta contro di noi».
Adirato per le recenti demolizioni di abitazioni arabe illegali ordinate dalle autorità israeliane, il dittatore turco ha detto che «non si può rimanere indifferenti di fronte al terrorismo di stato israeliano» e che occorre fare subito qualcosa.

 Il monito di Netanyahu
  Collaudato positivamente il nuovo sistema antimissile Arrow-3 il Premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha lanciato un durissimo monito all'Iran avvertendo che adesso Israele ha tutte le capacità difensive contro i missili balistici iraniani e che «farà di tutto per impedire a Teheran di dotarsi di armi chimiche».
Non è un caso che dopo oltre un anno è tornata a circolare la notizia che gli F-35 israeliani avevano sorvolato l'Iran senza essere minimamente individuati. Un modo per dire che Israele può colpire l'Iran quando e come vuole.

(Rights Reporters, 29 luglio 2019)


L'Iran alza la voce: "missione navale europea nel Golfo è provocatoria"

di Debora Gandini

Cresce la tensione nel Golfo Persico. Ad innalzare i toni la dichiarazione dell'Iran che ha definito "provocatoria" la proposta britannica per una missione navale a guida europea per scortare petroliere. Una richiesta arrivata dall'ex cancelliere britannico dopo che l'Iran aveva sequestrato una nave cisterna con una bandiera del Regno Unito nello stretto di Hormuz.
Per il portavoce del governo iraniano Ali Rabiei. si tratta di un atto di "pirateria marittima" il sequestro della nave Grace I, carica di greggio iraniano, attuato dalla Marina britannica a Gibilterra. "Londra e Washington vogliono solo portare la loro flotta da guerra, ha sottolineato Ali Rabiei, senza pensare che queste azioni trasmetteranno solo un "messaggio ostile" , alimentando le tensioni regionali.

(euronews, 29 luglio 2019)


Israele pagherà chi sposta l'ambasciata a Gerusalemme

Offerta di 12 milioni di euro

Un anno dopo l'inaugurazione della nuova ambasciata degli Stati Uniti, finora a Gerusalemme se ne è trasferita solo un'altra: quella del Guatemala. In Israele c'è un senso di delusione e il ministro degli esteri, Israel Katz, del Likud, ha dunque deciso di dare impulso al trasloco da Tel Aviv di altre rappresentanze diplomatiche. Se necessario, ha anticipato oggi il quotidiano Israel haYom, Israele contribuirà anche, sostanziosamente, alle spese. Non c'è niente che esprima meglio il nostro ritorno a Sion ed il successo del sionismo - ha spiegato Katz - del rafforzamento a Gerusalemme della sovranità di Israele e del popolo ebraico». Katz chiederà quindi al governo di approvare per i Paesi che trasferiscano a Gerusalemme la propria sede diplomatica un pacchetto di aiuti del valore di 50 milioni di shekel, oltre 12 milioni di euro. Con essi sarà possibile acquisire i terreni, adibire gli edifici necessari, regolare i rapporti col municipio. Nell'ultimo anno diversi Paesi hanno evocato la possibilità di aprire ambasciate a Gerusalemme, ma poi per ragioni diverse a partire dall'opposizione del mondo arabo, secondo il quale in assenza di un accordo che metta fine al conflitto israelo-palestinese il trasferimento delle sedi diplomatiche è incompatibile con la formula dei due stati, le iniziative per ora non sono mai andate in porto.

(Il Messaggero, 29 luglio 2019)


Il petek

di Daniela Fubini

Agosto alle porte e le meduse cominciano a recedere dalle nostre coste, e questa è una buona notizia. Un'altra buona notizia è il fatto che tempo un paio di giorni le aggregazioni elettorali devono essere completate, e i politici la smetteranno di passare da un partito all'altro, e di formare nuovi partiti, micro e macro, in vista delle elezioni del 17 settembre. E finalmente si saprà con una certa sicurezza a quale lista di candidati corrisponde ciascun "petek", il proverbiale foglietto di carta con lettere dell'alfabeto ebraico stampate a caratteri cubitali che la Start Up Nation continua ad usare come metodo non proprio ultratecnologico per esprimere il voto al seggio. In Israele, quando si entra a votare non si trovano display elettronici e neanche i chilometri quadri di carta da ripiegare certosinamente dopo aver apposto croci o scritto nomi di candidati per esprimere preferenze: qui tutto deve essere immediato, semplice e comprensibile anche a chi non sa la lingua e non conosce i nomi dei candidati o come si scrivono in ebraico. Si vota un partito e basta, e con un atto semplicissimo. Nel seggio si trova dietro ogni paravento una scatola azzurra bassa con spazi rettangolari che la fanno sembrare una scatola di cioccolatini di quelle in cui ad ogni riquadro corrisponde un gusto diverso, modello Forrest Gump. Negli spazi però invece di cioccolatini ci sono molto meno appetibili pile di foglietti bianchi con stampate le sigle dei partiti. Ogni riquadro una pila, ogni pila un partito. Il cittadino prende un foglietto e uno solo, lo mette in una busta, mette la busta nello scatolone di cartone e ha finito di fare il suo dovere civico. Nei seggi tutto è molto calmo e silenzioso e molto bianco e azzurro. Fuori, impazzano gli striscioni colorati, i simboli dei partiti, i capannelli, i volantini e perfino sostenitori di partiti che ti mettono in mano il loro "petek" nella speranza che sarà quello che metterai nella busta. E il 17 settembre, con agosto di mezzo, per molti partiti neonati la distribuzione del petek davanti ai seggi potrebbe essere il modo più sicuro per ricordare ai votanti la loro esistenza.

(moked, 29 luglio 2019)


Le ultime grandi speranze della sinistra israeliana

 
Orly Levy-Abekasis
La vittoria o una debacle difficile da gestire. Sembrano essere queste le prospettive della sinistra israeliana in vista delle prossime, decisive, elezioni politiche, il 17 settembre Lo racconta bene Tabletmag.com in un articolo che fotografa puntualmente lo stato delle cose.
"Amir Peretz", scrive Tabletmag "non è solo un ottimista: pensa di essere un mago". Secondo quanto riportato dall'articolo che abbiamo scelto, Peretz ritiene che il suo nuovo alleato, Orly Levy-Abekasis, sia decisivo per catturare il centro della politica israeliana e far spostare i voti da destra a sinistra.
Il 18 luglio, l'ex ministro della Difesa e attuale leader del partito laburista Peretz ha scosso la scena politica israeliana annunciando una corsa congiunta con il partito Gesher guidato da Orly Levy-Abekasis. Gesher ha condotto una campagna incentrata su temi molto concreti per affrontare le questioni sociali legate alla vita reale. Come la salute e l'assistenza sanitaria. Tuttavia Gesher non è riuscito a superare la soglia elettorale del 3,25% alle elezioni di aprile, convincendo solo 75.000 elettori.
Peretz e Levy-Abekasis sono due leader Mizrahi: uno nato in Marocco, l'altra da padre marocchino. Provengono dalla periferia geografica e sociale di Israele, Sderot e Beit Shean, e si stanno concentrando su questioni sociali sorvolando educatamente sul passato di Levy-Abekasis nel partito nazionalista (e probabilmente anti-arabo) di Avigdor Liberman, scrive Tabletmag.com.
La speranza che li tiene uniti è riuscire a strappare voti alla destra, ma se il progetto dovesse fallire, le conseguenze per il Labour Party potrebbero essere serie. Molto serie…

(JoiMag, 29 luglio 2019)


L'interprete di Harry Potter piange per l'antisemitismo che segnò la vita del bisnonno

di Michael Soncin

Daniel Radcliffe, l'attore divenuto celebre in tutto il mondo per aver interpretato il personaggio di Harry Potter, è scoppiato in lacrime durante le riprese della Bbc, nella serie "Who Do You Think You Are?", leggendo la nota suicida del suo bisnonno, che potrebbe aver scritto dopo essere stato oggetto di un pregiudizio antisemita da parte della polizia britannica, con l'accusa di aver falsificato la rapina avvenuta nella sua gioielleria.
   "Radcliffe - scrive Hannah Brown del Jerusalem Post - che è ebreo dalla parte di sua madre, ha letto l'appunto nella trasmissione, esaminando come il suo bisnonno Samuel Gershon, un uomo d'affari ebreo di 42 anni, ha trascorso anni a costruire la gioielleria di famiglia a Londra, per perdere tutto in una rapina nel 1936". "Il programma ha scoperto prove, che i detective erano riluttanti a indagare sulla rapina, trovando un rapporto della polizia che diceva "Gli ebrei sono così spesso responsabili del crollo dei loro locali commerciali".
Radcliffe, che discende da immigrati russi e tedeschi, ha dichiarato: "C'è molto da approfondire in quella frase, è molto scioccante vedere come l'essere ebreo sia una prova in sé".
   L'episodio è stato trasmesso il 22 Luglio dalla tv inglese, un giorno prima del trentesimo compleanno, del mago più famoso del mondo; i cui poteri però, non potranno mai curare le gravi ferite causate dall'antisemitismo durante il secondo conflitto mondiale. Sarà forse un fortuito e piacevole caso che i dolciumi, dalle caramelle tutti i gusti più una alle ciocco-rane, disponibili anche sul mercato italiano, ispirati alla famosissima saga della scrittrice J.K. Rowling - quest'ultima pronunciatasi più volte sull'antisemitismo del Labour di Corbyn - abbiano la certificazione kosher? Buono a sapersi.

(Bet Magazine Mosaico, 29 luglio 2019)


La presidente della Croazia in visita in Israele

La presidente della Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic avvia oggi una visita ufficiale in Israele, nel corso della quale incontrerà l'omologo Reuven Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu, il presidente del parlamento Yuli-Yoel Edelstein e il ministro degli Esteri Israel Katz. La cooperazione in campo economico e nel settore della difesa e della sicurezza saranno i temi centrali della visita, secondo quanto riportato dalla stampa di Zagabria. Quella che inizia oggi sarà la prima visita di un capo dello Stato croato in Israele, a dimostrazione del costante rafforzamento dei rapporti tra i due paesi negli ultimi anni. Il presidente israeliano Rivlin ha effettuato invece una visita in Croazia un anno fa, mentre la stessa Grabar-Kitarovic ha incontrato il premier Netanyahu a Gerusalemme nel 2015 ma non nel quadro di una visita bilaterale.

(Agenzia Nova, 28 luglio 2019)



Israele: al via la campagna elettorale tra noia e rissosità

di Ugo Volli

Seguire la politica interna israeliana è un compito frustrante, soprattutto in periodi elettorali. Alle ultima consultazioni hanno ottenuto deputati una decina di liste diverse, molte delle quali composte di più partiti. Alcune altre hanno sfiorato il risultato. Questa molteplicità di soggetti politici è insieme la causa e l'effetto di una notevole rissosità, che rischia a ogni elezione di paralizzare il sistema politico israeliano, richiedendo trattative lunghe e tortuose per la formazione del governo. Dopo le ultime elezioni, per esempio il leader di Israel Beitenu, Liberman, che aveva già provocato la fine anticipata della legislatura precedente, ha impedito la formazione del nuovo governo presieduto da Netanuìyahu, che pure aveva promesso di sostenere durante la campagna elettorale e sostenuto durante le consultazioni del presidente della repubblica. Questa è la ragione delle nuove elezioni, che si svolgeranno a settembre. Insieme al sistema proporzionale puro in un collegio unico nazionale, che favorisce l'estrema frammentazione del quadro politico, il sistema elettorale israeliano ha il difetto di far scegliere ai partiti, per mezzo dell'ordine dei candidati, chi sarà eletto. Il risultato è che l'oggetto principale di attenzione è la composizione delle liste, su cui negoziano duramente i diversi gruppi che, sulla base di una certa omogeneità politica, cercano di unirsi per superare la soglia elettorale e avere più deputati. E' una fase molto noiosa, perché si discute su chi dovrà occupare la prima, o la terza, o la decima posizione in lista, e non dei problemi del paese. Ma in un panorama partitico così frastagliato le liste unitarie sono fondamentali, perché da esse dipende la possibilità di una rappresentanza parlamentare coerente all'orientamento dell'elettorato, che è maggioritariamente schierato per il centro destra. Al 1 agosto le liste devono essere presentate, e allora comincerà la campagna elettorale vera.

(Shalom, 28 luglio 2019)


Test segreti del missile israeliano Arrow-3 in Alaska

Il premier israeliano: "Ha intercettato con successo missili balistici oltre l'atmosfera. L'esecuzione è stata perfetta, i bersagli centrati in pieno". Adesso "possiamo avere il sopravvento sui nostri nemici, difenderci dall'Iran o da altri". Il presidente Usa: "Esempio senza precedenti di cooperazione"

 
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (D) e l'ambasciatore Usa in Israele David Friedman guardano il video del lancio del missile anti-balistico
Nelle ultime settimane Israele ha segretamente condotto in Alaska (Usa) tre test del missile 'Arrow-3', in cooperazione con le autorità statunitensi. "Quei test - ha rivelato oggi il premier Benyamin Netanyahu - sono riusciti oltre ogni immaginazione. Arrow-3 ha intercettato con pieno successo missili balistici oltre l'atmosfera, ad altitudini e a velocità senza precedenti. L'esecuzione è stata perfetta, i bersagli sono stati centrati in pieno".
   "Adesso - ha aggiunto Netanyahu - Israele dispone della capacità di agire contro missili balistici che fossero lanciati contro di noi dall'Iran o da altre località. Si tratta di un successo formidabile per la sicurezza di Israele". "Ora sappiano che avremo il sopravvento sui nostri nemici - ha concluso - sia nella difesa che nell'attacco".
   Anche il presidente Usa Donald Trump si è felicitato per il successo del test in Alaska. "Si tratta di una componente critica per la difesa anti-missilistica di Israele. Il risultato - ha aggiunto citato dall'ambasciatore Usa in Israele David Friedman - è stupefacente. Siamo molto fieri della nostra cooperazione con Israele, dei finanziamenti che abbiamo garantito, delle specializzazioni tecniche che abbiamo offerto e per aver messo a disposizione di questo test lo spazio aereo dell'Alaska". Friedman ha aggiunto che questo "è uno splendido esempio, senza precedenti, della nostra cooperazione".

(la Repubblica, 28 luglio 2019)


Israele, nella top 10 dell'innovazione

Un nuovo riconoscimento per la capacità israeliana di investire nel suo futuro è arrivato in questi giorni. Israele è infatti stato inserito per la prima volta nella top 10 del Global Innovation Index, un'indagine pubblicata dalla prestigiosa Cornell University assieme all'Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale che registra - attraverso diversi indicatori - il grado di innovazione dei diversi paesi del mondo.
   Un indicatore in cui Israele è particolarmente forte è la business sophistication (terza posizione a livello mondiale): questa mette in relazione la qualità delle reti commerciali complessive di un paese e la qualità delle operazioni e delle strategie delle singole imprese. Altri elementi importanti e in cui Israele è ai vertici sono: la cooperazione tra industria e istruzione superiore (secondo posto), gli investimenti stranieri in R&S (terzo posto) e la partecipazione delle donne alla forza lavoro altamente qualificata (terzo posto). Il paese mantiene la prima posizione, spiega il report, in una serie di indicatori importanti, come l'esportazione di servizi nel settore Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione; il recruiting di talenti per l'impresa; la creazione di applicazioni mobili.
   In questa classifica in cui l'Italia si trova al 30esimo posto, vengono elencati anche i punti di debolezza d'Israele, tra cui la carenza di grandi infrastrutture e di investimenti governativi per studente (56o posto). E riguardo all'educazione, si sottolineano i risultati non eccezionali dei giovani israeliani nel test Pisa (Programma per la valutazione internazionale dello studente). Su questo punto si è aperto un confronto in Israele, con la preoccupazione di alcuni esperti per il livello del sistema educativo del paese. Tra i più allarmati, Dan Ben-David, professore di Economia all'Università di Tel Aviv e fondatore della Shoresh Institution for Socioeconomic Research. "Quando guardiamo al futuro di Israele, la metà dei bambini oggi riceve un'istruzione da terzo mondo. - la denuncia di Ben-David, intervistato dal Times Of Israele - I bambini Haredi [ultra-ortodossi], che non imparano materie fondamentali come la matematica, le scienze, la lettura e l'inglese, appartengono alle fasce di popolazione in più rapida crescita. È un dato insostenibile".
   Secondo Ben-David - autore di un'indagine pubblicata nel maggio scorso dal titolo "Due guerre e la demografia - Una visione a lungo termine delle recenti elezioni israeliane" - Israele deve fare maggiormente attenzione all'educazione, in particolare delle fasce considerate più deboli, se vuole rimanere tra i paesi più avanzati. "Ben-David - spiega il Times of Israel - cita ricerche che dimostrano come i bambini che non studiano materie fondamentali durante l'infanzia, come accade per la maggior parte dei bambini Haredi, molto difficilmente entreranno in professioni come la medicina, l'architettura o l'ingegneria, essenziali per l'economia moderna. Non che la situazione dei bambini israeliani non Haredi sia significativamente migliore.- continua il sito di informazione - I dati mostrano che le scuole israeliane sono tra le peggiori del mondo sviluppato. I risultati nelle materie curricolari fondamentali come la matematica, le scienze e la lettura collocano Israele al 24o posto su 25 paesi sviluppati (paesi Ocse), senza contare nemmeno gli Haredim, che non sostengono i test internazionali". Per mantenere quindi risultati eccellenti e rimanere ai primi posti nelle classifiche internazionali, spiega Ben-David, servono nuovi e ingenti investimenti sul settore scolastico.

(moked, 28 luglio 2019)


Esportazioni di gas israeliano in Egitto: inizio ufficiale a novembre

di Chiara Gentili

Israele ha annunciato che inizierà ad esportare gas naturale in Egitto entro novembre. È quanto ha riferito l'agenzia di stampa Reuters, riportando le dichiarazioni del ministro dell'Energia israeliano Yuval Steinitz.
   Le consegne segneranno l'inizio ufficiale di un accordo di esportazione, per un valore di 15 miliardi di dollari, tra la compagnia israeliana Delek Drilling e la sua controparte egiziana. Alcuni funzionari israeliani hanno descritto tale accordo come il più significativo tra i due Paesi da quando hanno normalizzato le loro relazioni, nel 1979. Noble Energy e il suo partner israeliano, Delek, insieme alla compagnia egiziana, East Gas, hanno acquistato il 39% di un oleodotto, precedentemente in disuso, che collega la città costiera israeliana di Ashkelon con la penisola del Sinai settentrionale. Il consorzio ha pagato 518 milioni di dollari per l'utilizzo del gasdotto dell'East Mediterranean Gas Company. L'infrastruttura, principalmente sottomarina, sarà utilizzata per trasportare il combustibile dai giacimenti Tamar e Leviatano, i più grandi della regione, verso l'Egitto, a partire dal 2019. Lo scambio è regolato da un accordo da 15 miliardi di dollari, della durata di 10 anni, firmato nel febbraio 2018, secondo quanto ha riferito Delek in una nota.
   Steinitz ha reso noto che i test sul gasdotto da Israele all'Egitto sono stati completati e ha chiarito che il gas verrà trasportato dai giacimenti israeliani offshore di Tamar e Leviatano fino alla rete nazionale egiziana. Le esportazioni israeliane in Egitto dovrebbero raggiungere i 7 miliardi di metri cubi all'anno in 10 anni e una parte di queste saranno destinate al mercato interno, l'altra alla riesportazione. L'Egitto intende diventare un centro fondamentale per il commercio e la distribuzione internazionale di gas. La posizione strategica sul Mediterraneo orientale va certamente a suo vantaggio.
   Sette ministri dell'Energia, provenienti da Israele, Egitto, Cipro, Grecia, Giordania, Italia e territori palestinesi occupati si sono incontrati al Cairo, a gennaio, per il lancio del Forum del gas nel Mediterraneo orientale. Uno degli impegni di questi Paesi è quello di portare un maggior quantitativo di gas naturale in Europa. La Turchia e il Libano, nonostante entrambi abbiano effettuato trivellazioni esplorative nel Mediterraneo orientale nel corso dello scorso anno, sono rimaste escluse dal forum. Le loro rivendicazioni sulle acque del Mediterraneo orientale sono state aspramente contestate: la Turchia da Cipro e il Libano da Israele.
   In precedenza, Israele faceva affidamento sull'Egitto per circa il 40% del suo fabbisogno di gas. Tuttavia, nel 2012 il Cairo ha bruscamente deciso di tagliare le forniture a Tel Aviv causando ingenti perdite per lo Stato di Israele. Per compensare i danni, la scorsa settimana l'Egitto ha annunciato che pagherà un risarcimento di 500 milioni di dollari alla società elettrica nazionale israeliana.
   Egitto e Giordania sono gli unici Paesi arabi che hanno riconosciuto ufficialmente lo Stato di Israele.

(Sicurezza Internazionale, 28 luglio 2019)

Troppo ebrei per essere arabi, troppo arabi per essere ebrei

Un saggio di Matti Friedman racconta la prima unità di spie fondata alla nascita cli Israele: quattro uomini relegati ai margini della società.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - I baffi che portavano non erano finti, li avevano lasciati crescere come i loro nonni e i loro padri. Parlavano l'arabo senza accento, lo avevano imparato in famiglia. Le prime spie di una nazione che ancora non esisteva erano chiamate mista'arvim (quelli che diventano come gli arabi). Sono i progenitori degli agenti israeliani - kefiah a coprire il volto, la maglietta fuori dai pantaloni a nascondere la pistola - che oggi s'infiltrano nei territori palestinesi e che sono i protagonisti della serie tv Fauda.
   Il libro di Friedman si concentra su 20 mesi (a partire dal gennaio 1948, quando sembrava che gli eserciti dei Paesi arabi avrebbero vinto la guerra per impedire la nascita dello Stato ebraico) e su 4 uomini, i primi a formare l'unità speciale. Ebrei arrivati dalla Siria o dallo Yemen, uno di loro nato nella Palestina sotto mandato britannico, erano guardati con sospetto anche dai commilitoni, che a volte non nascondevano il razzismo: la loro squadra fu all'inizio chiamata con il termine dispregiativo la Sezione Nera (per poi cambiarlo in Alba) e a questi agenti non era permesso dormire nei kibbutz, che facevano da basi militari, perché le «donne non corressero pericoli».
   Così Friedman usa la storia degli 007 senza licenza (né diploma liceale) anche per ricordare il trattamento riservato ai mizrahim, ebrei nati nelle nazioni arabe, da parte dei pionieri arrivati dall'Europa (i «bianchi», allora il 90% della popolazione), una situazione che non sarebbe migliorata neppure quando cominciarono a immigrare in massa.
Gli episodi spionistici non hanno la sofisticazione dei marchingegni a disposizione di James Bond, piuttosto l'ingenuità e improvvisazione di chi l'agente segreto non l'aveva mai fatto: denominare con il termine poco criptico i Cedri - come l'albero simbolo del Libano - la cellula trasferita in segreto a Beirut o i tentativi di ammazzare con i capperi un predicatore musulmano. I messaggi venivano trasmessi a una casella postale di Haifa senza sotterfugi. Friedman affronta anche il dilemma della doppia identità sempre presente per chi deve operare sotto copertura, ancora più intricato per il gruppo: «Pretendevano davvero di essere arabi o pretendevano di essere non arabi che pretendevano di essere arabi?». Trascurati ai margini della società che si stava formando, vengono trascinati al centro degli eventi, un conflitto in cui avrebbero potuto perdere tutto, anche la possibilità di tornare, seppure in una bara: «Israele non era stata fondata, se fossero scomparsi, nessuno avrebbe potuto trovarli, forse neanche andare a cercarli».

(Corriere della Sera, 28 luglio 2019)


Il punto di vista ebraico della nostra cultura

Judaica, l' Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo. Compie 40 anni il sodalizio che ha dato all'ebraismo della Penisola nuova linfa di studi

di Giulio Busi

Pensate a tipi come Matusalemme, con i suoi novecentosessananove anni. Oppure, ricordatevi del detto rabbinico, secondo cui un giorno del Santo, sia Egli benedetto, equivale a mille anni sulla terra. Del resto, una simile dilatazione temporale la troviamo anche nel Nuovo Testamento, nella Seconda lettera di Pietro, ove si legge: «Ma quest'unica cosa non sia nascosta a voi, carissimi: che un giorno presso il Signore è come mille anni e mille anni come un giorno». L'ebraismo dura da millenni, e può ben dire di abbracciare entro i suoi confini un tempo a tratti remotissimo, eppure sempre ripercorso, ricordato, riattivato nella memoria collettiva. Per chi sia abituato a confrontarsi con questa cultura, pochi decenni possono apparire quasi insignificanti. Eppure, i quarant'anni dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG) sono una ricorrenza significativa. I tredici docenti universitari, che si riunirono nel 1979 davanti a un notaio di Bologna per dar vita all'Associazione, sarebbero stati felici di sapere che il loro campo di studi, allora così specialistico, avrebbe catturato, nei lustri successivi, l'attenzione e l'energia della società italiana. Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, il trauma delle persecuzioni e delle deportazioni era ancora ben vivo. La tradizione di studiosi ebrei, che avevano caratterizzato lo studio del giudaismo nel nostro Paese fino al 1938, era stata forzatamente interrotta. Emigrati parecchi ricercatori, come il grande Umberto Cassuto. Depauperato, o disperso, il patrimonio librario e archivistico delle Comunità ebraiche. Degradate, o abbandonate non poche sinagoghe. A occuparsi di ebraismo, nell'accademia italiana erano davvero in pochi, per lo più provenienti da studi teologici e biblici, e di formazione cristiana. Ci volle la determinazione di Paolo Sacchi, professore di Filologia biblica all'Università di Torino, e del gruppo di filologi e storici che si raccolsero attorno a lui, per capire che l'ebraismo aveva, nella nostra Penisola, bisogno di nuova linfa di studi e di rinnovate energie. L'AISG, nata in sordina e quasi per scommessa, si è progressivamente affermata come un luogo d'incontro e di collaborazione, senza barriere confessionali, nel nome della ricerca scientifica. Il legame con l'Università, strettissimo all'inizio, è rimasto.
   Ma si è anche intensificato quello con le istituzioni ebraiche, comunitarie e di ricerca, rifiorite anch'esse in attività e incisività, e con la società civile. È stata questa una scelta volontaria e, allo stesso tempo, una necessità di sopravvivenza. In quarant'anni, l'Università italiana è riuscita a sostenere e ad assorbire solo una piccola parte delle energie e delle curiosità che s'indirizzavano all'ebraismo. Storia locale, studi linguistici, mistica, letteratura in lingua ebraica e nei vari idiomi della diaspora, storia economica, arte, non c'è campo del sapere in cui il "taglio ebraico" non sia importante, spesso essenziale. I risultati parlano in modo eloquente: gli studi ebraici, in Italia, sono all'avanguardia a livello internazionale. Questi successi si devono solo in parte al supporto pubblico. Piuttosto, l'eccellenza è il frutto d'impegno personale, d'idealismi, di dedizione disinteressata, dell'arte di fare con il poco (o nulla) che c'è, ovviando con l'intelligenza e con moltissimo lavoro. Sono decine i ricercatori italiani di temi ebraici sparsi per il mondo, e ancora più numerosi quelli che in Italia lavorano per pura passione, senza supporto accademico o solo con sostegni minimi. La maggior parte di loro si sono formati anche attraverso le decine di convegni organizzati dall'AISG o hanno scritto su «Materia giudaica», la rivista dell'Associazione, diretta, nell'ultimo ventennio, dall'infaticabile Mauro Perani. In tempi di disimpegno pubblico, quando le strutture "pesanti" stentano a offrire prospettive e adeguata capienza, un'associazione culturale, povera di mezzi ma flessibile nelle strategie e non burocratizzata, può, almeno in piccola parte, limitare i danni, e offrire spazi di dialogo. Per chi investa la propria vita nello studio, a dispetto di qualsiasi considerazione di convenienza economica e sociale, la possibilità di trovare compagni di viaggio, con le stesse utopie e lo stesso amore per la precisione e la verità scientifica, è una ricompensa e una gioia. Mille associazioni non fanno certo, da sole, una nazione culturalmente all'avanguardia. Ma aiutano la società a restare civile e vitale. Altri quarant'anni per AISG? Perché non altri novecentosessanta, così da completare un giorno di lassù? Matusalemme è avvertito.

(Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2019)


«Cattivissima Perele sei così affascinante! »

È la protagonista de «La moglie del rabbino» di Chaim Grade, tra i massimi narratori yiddish del Novecento. Scaricata da un fidanzato e costretta a nozze di ripiego, insegue una vendetta implacabile e infelice.

di Alessandro Piperno

Ah, le donne cattive! Come resistere al loro fascino? E non contentiamoci di megere di quarta categoria, mezze tacche spregevoli e triviali; sono ben altre le donne cattive di cui siamo in cerca: dignitarie votate all'intrigo, volubili manipolatrici, piccole ipocrite piene di tatto la cui grazia taciturna cela riserve inesauribili di fiele e risentimento. Eccole qui, le lunatiche dagli occhi biliosi, in preda a frequenti capogiri e ad altrettanto miracolosi rinvenimenti. Tocca a loro, dame circospette ma prive di misericordia, ossessionate dal prestigio sociale e dalla vendetta, occupare lo scranno più alto nel magico regno della narrativa borghese.
   A ben pensarci, non solo borghese, tenuto conto che dietro c'è sempre Lady Macbeth, la regale signora cui dobbiamo il vademecum della donna cattiva così ben sintetizzato dal celebre adagio: Look like the innocent flower, but be the serpent under 't!. Fingiti il fiore innocente, ma sii il serpente che sotto vi si nasconde.
   È sempre bello trovarne una, di donna cattiva, dove proprio non saresti andato a cercarla, sotto un rigoglioso cespuglio calpestato dalla furia omicida della storia. E proprio lì che l'ho scovata - nella fiorente dinamica comunità ebraico-ortodossa di Grodno/Horodne (Europa Orientale), all'inizio del secolo scorso - alle prese con beghe che dire profane è dire poco.
   Il suo nome è Perele ed è la contegnosa protagonista de La moglie del rabbino di Chaim Grade, tra i massimi narratori yiddish del Novecento.
   Con questo romanzo, pubblicato all'inizio degli anni Settanta, Grade, lituano di nascita, newyorchese d'adozione, sopravvissuto alla sua famiglia interamente sterminata dai nazisti, evoca il mondo perduto; e lo fa spietatamente, con sfacciata verve realistica e satirica, insomma per dirla con Anna Linda Callow (autrice dell'incantevole traduzione) senza alcun «romanticismo nostalgico».
   A offrire lo scenario storico-ideologico-dottrinario ci pensa l'atavica controversia del cassidismo orientale, con i sionisti da un lato e dall'altro i loro pugnaci avversari. Ma per l'appunto è uno sfondo - se non proprio un pretesto - su cui brilla, giganteggia e intriga lei, Perele: figlia di un famoso rabbino e fidanzata per qualche tempo (prima di essere scaricata) con Moshe Mordechai, il talmudista più geniale della sua generazione. Per mettere su famiglia, l'ambiziosa Perele ha dovuto ripiegare su Uri Zvi Kenigserg, onesto rabbino di provincia la cui vita precipita quando la volitiva consorte, espletati i doveri coniugali e materni, lo elegge a strumento della sua vendetta.
   Eh sì, perché da brava donna cattiva Perele non dimentica. Per questo non ha mai smaltito, fino a farne un'ossessione, ciò che considera l'oltraggio originario: essere mollata a pochi centimetri dall'altare da un futuro grand'uomo, con l'umiliazione supplementare di doverlo cedere a una donnetta priva di tempra e ambizioni. Naturalmente non si sente in alcun modo responsabile dell'affronto subito. È tipico delle donne cattive non assumersi le proprie responsabilità e incolpare gli altri. Non ce n'è una che non sia convinta di poter contare su un credito illimitato nei confronti della sorte e della vita. Che non sia cocciutamente persuasa di meritare un risarcimento. E che, in nome di tale sacrosanto indennizzo, non si riconosca il diritto di agire nel modo più risoluto e spregevole.
   Perele non fa eccezione. Incline all'auto-indulgenza, ama celebrarsi: «C'erano forse altre mogli più dedite al proprio marito di lei? Aveva sempre trepidato per lui ancor più che per i figli. Lo sapeva molto bene, meglio un marito di paglia che figli d'oro». Resta comunque il fatto che per lei sono tutti colpevoli, a cominciare dal padre. «Cercò qualcuno a cui imputare la sua amarezza e alla fine decise che era tutta colpa del suo defunto padre. Fin da bambina gli aveva sentito dire che il mondo era diviso in due: da una parte il popolino e dall'altra gli studiosi. E questi ultimi erano divisi in tre categorie: gli studiosi ordinari, i dotti e i grandissimi. Niente lo entusiasmava più di quando poteva dire di qualcuno: «Un gaòn! Un genio!», E così era cresciuta nella convinzione e il desiderio di meritare come sposo un uomo del genere. Perfino ora che era nonna e Rabbi Moshe Mordechai ormai nell'altro mondo non poteva dimenticare che avrebbe dovuto essere suo marito, ma invece non lo era stato».
   La rabbia di Perele non si esaurisce certo in questa specie di sdegno postumo. Lei ne ha per tutti. A cominciare dal povero marito, reo di non essere ciò che non è, e quindi di essere ciò che è: un riservato studioso senza grilli per la testa, o per usare il gergo della stessa Perele: tutt'al più un dotto, niente di più.
   Le donne cattive sono forze della natura, come tali inarginabili, imprevedibili, spaventosamente incomprensibili. E Rabbi Kenigserg è il primo a farne le spese: la moglie, con le sue smanie, i suoi progetti, i lunghi silenzi spezzati da inconsulte reprimende, gli sfugge come un'anguilla. «Non conosceva neanche un passo dell'intero Talmud così intricato e pieno di contraddizioni come le parole e gli atti della sua valorosa consorte».
   Del resto, tutti provano a ribellarsi ai machiavellici piani della nostra perfida eroina: anzitutto la figlia che sin da piccola non le ha mai obbedito, peccato che Perele la consideri una massaia indolente trascurata; eppoi i due figli maschi apparentemente risolti che la madre ritiene volgari bottegai, filistei senza nerbo e rigore. Nessuno può niente contro i suoi giudizi sommari. Le donne cattive sono implacabili. Ed è proprio l'implacabilità a renderle così infelici e insoddisfatte. Sarà per questo che godono della nostra comprensione inconsulta, della nostra filiale, amorevole dedizione. Sarà per questo che non possiamo farne a meno.

CHAIM GRADE

Lo scrittore Chaim Grade (Vilnius, Lituania. 1910 - New York, 1982) è considerato uno dei più grandi scrittori yiddish del XX secolo. Nato in una famiglia ortodossa. scelse poi una visione più laica dell'ebraismo dedicandosi prima alla poesia e in seguito alla narrativa. Perse tutta la famiglia nella Shoah, a cui scampò rifugiandosi in Unione Sovietica nel momento in cui i nazisti nel giugno del 1941 marciarono su Vilnius. Alla fine della guerra si stabilì per un breve periodo in Polonia e in Francia, prima di trasferirsi nel 1948 a New York, dove si risposò (la prima moglie e la figlia furono uccise dai nazisti) con lnna Hecker (che tradusse in inglese alcuni suoi lavori) e continuò a scrivere poesie, romanzi e racconti in yiddish. Elie Wiesel (1928-2016) lo considerava «tra i più grandi, se non il più grande romanziere yiddish», anche se in Italia Grade risulta essere ancora un autore poco noto. Ha raccontato in versi e in prosa. la sua Vilnius con richiami alla tradizione religiosa, agli scontri tra gli innovatori e i tradizionalisti.


  (Corriere della Sera, 28 luglio 2019)



«Lascia che i morti seppelliscano i loro morti»

Or avvenne che mentre camminavano per la via, un tale gli disse: Io ti seguirò dovunque tu andrai. E Gesù gli rispose: Le volpi hanno delle tane e gli uccelli del cielo dei nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo.
E ad un altro disse: Seguimi. Ed egli rispose: Permettimi prima d'andare a seppellire mio padre. Ma Gesù gli disse: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu va' ad annunziare il regno di Dio.
E un altro ancora gli disse: Ti seguirò, Signore, ma permettimi prima d'accomiatarmi da quelli di casa mia. Ma Gesù gli disse: Nessuno che abbia messo la mano all'aratro e poi riguardi indietro, è adatto al regno di Dio.

Dal Vangelo di Luca, cap. 9

 


Iran testa missili balistici Shahab-3. "Sono in grado di colpire Israele"

di Caterina Galloni

ROMA - Nel mezzo di tensioni altissime tra Teheran e l'Occidente, l'Iran nei giorni scorsi avrebbe testato Shahab-3, un missile balistico a medio raggio: a riferirlo è la corrispondente della CNN al Pentagono.
   "Mercoledì notte l'Iran ha testato un missile balistico a medio raggio che ha percorso mille chilometri", ha twittato la Starr, citando un ufficiale americano coperto da anonimato. Secondo la fonte, "il missile Shabaab-3 non rappresenta una minaccia per la navigazione o le basi americane".
   Shahab-3 è operativo nell'arsenale iraniano dal 2003 e si basa su un design nordcoreano - il Nodong-1 - e le varianti del missile base possono viaggiare fino a 1.200 miglia, il che non è sufficiente a raggiungere l'Europa occidentale ma è in grado di colpire la maggior parte del Medio Oriente, incluso Israele e, secondo gli esperti, trasportano una testata nucleare.
   Il test sembra sia stato progettato per migliorare la "portata e la precisione" dei missili balistici dell'Iran ma è in un momento in cui le tensioni nel Golfo Persico sono altissime a causa del sequestro della petroliera britannica da parte di Teheran e l'abbattimento di un drone americano.
   Gli Stati Uniti sostengono di aver abbattuto due droni iraniani, Teheran ha negato e il presidente Donald Trump è stato sul punto di lanciare degli attacchi aerei poi annullati all'ultimo minuto.
Il nuovo primo ministro britannico Boris Johnson ha ordinato che una nave da guerra della Royal Navy scorti le navi cisterna battenti bandiera britannica attraverso lo stretto di Hormuz: un ribaltamento di quanto affermato dalla dimissionaria Theresa May, ovvero che mancavano le risorse per proteggere le navi.
   La Stena Impero, contrassegnata dall'Unione Jack, è stata sorvegliata da HMS Montrose mentre si trovava nelle pericolose acque dello Stretto di Hormuz. Un portavoce del governo britannico ha dichiarato che tutte le navi battenti bandiera britannica saranno protette purché "venga dato sufficiente preavviso al loro passaggio".
   Oltre a HMS Montrose, nel Golfo la Marina invierà il cacciatorpediniere HMS Duncan. La decisione è successiva a quanto riportato dai media iraniani che hanno deriso Johnson bollandolo come "maggiordomo di Trump" e riferito che il suo mandato a Downing Street sarebbe stato di breve durata.

(blitz quotidiano, 27 luglio 2019)



Israele ha sorvolato Teheran con gli F-35 e fa uscire la notizia-messaggio

L'ayatollah licenzia il capo dell'Aeronautica militare dell'Iran e l'esercito israeliano adesso si aspetta "1.500 missili al giorno per molti giorni"


di Daniele Raineri

 
Il generale iraniano Farzad Ismaili
ROMA - Lo stato di Israele intensifica i raid militari e assume una postura aggressiva in preparazione di una possibile guerra nel settore nord - quindi lungo il confine con Libano e Siria e contro l'Iran. All'inizio di luglio il giornale kuwaitiano al Jarida ha pubblicato uno scoop sulla cacciata da parte dell'ayatollah Ali Khamenei del capo dell'Aeronautica militare dell'Iran, Farzad Ismaili, che ne era il comandante dal 2010, Ismaili aveva tentato di nascondere al regime che nel marzo 2018 alcuni caccia F-35 israeliani modello "Adir" sono entrati nello spazio aereo iraniano, hanno sorvolato la capitale Teheran e altre città, incluso il porto di Bandar Abbas che è all'altro capo del paese, hanno preso immagini delle installazioni militari e sono usciti senza essere scoperti grazie alla tecnologia "stealth" che li rende invisibili ai radar. La fine di Ismaili è arrivata grazie a un'indagine dell'intelligence iraniana, scrive al Jarida - che secondo molti osservatori funziona da megafono per informazioni passate da Israele. In questo caso il messaggio fatto uscire su al Jarida sarebbe la ripetizione del messaggio dissuasorio dato di recente dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, da un podio montato su una pista in una base militare con alle spalle un caccia F -35: "Israele può raggiungere l'Iran, l'Iran non può raggiungere Israele". Il caccia F -35" Adir" è stato modificato secondo alcune richieste degli israeliani per allungare il suo raggio d'azione e può arrivare in Iran e tornare senza fare rifornimento. A metà giugno per la prima volta Israele ha usato i caccia F-35 Adir in una esercitazione complessa assieme a molti altri velivoli nei cieli di Cipro - che però abbiamo visto arrivare dopo il loro uso in missioni reali. Pochi giorni dopo ha partecipato sempre con i caccia F-35 a una esercitazione tripartita con americani e inglesi nei cieli del Mediterraneo. Domenica scorsa il ministro per la Cooperazione regionale di Israele, Tzachi Hanegbi, ha detto che "da due anni Israele è l'unico paese che sta uccidendo iraniani" - si riferiva alle centinaia di azioni militari più o meno clandestine in Siria che tutti attribuiscono alle forze militari israeliane. Di nuovo, sembra un messaggio di minaccia per dissuadere in modo preventivo. Due giorni fa Israele ha colpito alcune postazioni in territorio siriano usate dall'Iran vicino alle alture del Golan - e fra le vittime ci sono anche sei militari iraniani, secondo fonti locali che è difficile confermare oppure smentire. Sono operazioni militari sempre più frequenti in quell'area da quando due anni fa il regime siriano ha preso di nuovo il controllo della fascia al confine fra i due paesi. All'inizio della settimana un reclutatore locale di Hezbollah, il gruppo armato libanese che considera l'Iran come un grande sponsor, è morto in un'esplosione non meglio descritta in un villaggio vicino al confine. Hezbollah sa di essere sotto osservazione e usa molto i combattenti del posto per attirare meno l'attenzione, secondo le dichiarazioni israeliane-che non sono mai legate a un episodio specifico, ma sono sempre fatte circolare come analisi generiche perché queste missioni non sono rivendicate.
   Venerdì 19 luglio un bombardamento aereo non rivendicato da nessuno ha colpito una base di milizie filoiraniane a nord di Baghdad, in Iraq. E’ possibile che nella base ci fossero militari iraniani e che fosse usata - come le basi in Siria - per scopi che non c'entrano nulla con l'Iraq. L'ultima volta che Israele ha fatto un raid aereo in Iraq risale al 1981, quando gli aerei distrussero un reattore atomico in costruzione con la collaborazione della Francia. Due giorni fa l'ex generale israeliano Michael Herzog ha presentato un rapporto che descrive come sarà la prossima guerra contro Hezbollah e l'Iran nel settore nord, "Millecinquecento missili al giorno, per molte settimane. Molti riusciranno a saturare e quindi a superare le capacità di difesa missilistiche di Israele”.

(Il Foglio, 27 luglio 2019)



Qualcosa non torna nella strategia di Trump in Medio Oriente

Israele doveva essere il primo beneficiario della strategia di Trump in Medio Oriente e invece manca poco che ne diventi la prima vittima.

di Franco Londei

C'è qualcosa che non torna nella strategia di Trump in Medio Oriente. Quasi nulla sta andando come il Presidente americano aveva previsto.

 L'Iran non cede
  Le sanzioni economiche imposte a Teheran dal presidente americano non stanno avendo l'impatto immaginato mentre gli iraniani non sembrano affatto intimoriti dalle sin qui vuote minacce americane di un intervento militare. Anzi, il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC), l'apparato più pericoloso, ne sembra uscire rafforzato.
La Cina e la Russia hanno ormai apertamente respinto le sanzioni americane all'Iran. Mosca e Pechino non solo si sono offerte per l'acquisto di petrolio iraniano ma hanno offerto a Teheran diverse "scappatoie" per aggirare anche le sanzioni economiche.
Scrive Elijah J. Magnier: «l'Iran negli ultimi mesi ha meticolosamente selezionato i suoi passi politici e gli obiettivi militari, sia nel Golfo che nell'arena internazionale. Il suo ritiro parziale e graduale - tattico ma lecito - dal Piano d'azione congiunto globale (JCPOA), noto come accordo sul nucleare iraniano, sta seguendo un percorso determinato. Il suo chiaro obiettivo è quello di mettere all'angolo il presidente degli Stati Uniti e i suoi alleati europei, e in effetti l'Iran sembra puntare a un ritiro definitivo dal JCPOA».
Questo atteggiamento iraniano mette praticamente fuori gioco la strategia di Trump volta a costringere Teheran, attraverso le sanzioni, a tornare al tavolo delle trattative per rinegoziare il JCPOA.
Non solo, gli iraniani sfidano senza timore e apertamente le minacce militari americane mettendo a rischio la navigazione nel Golfo Persico.
Nelle ultime settimane hanno sabotato quattro petroliere nel porto emiratino di al-Fujairah, attaccato con droni le stazioni di pompaggio della saudita Aramco, danneggiato una petroliera giapponese, preso in ostaggio una petroliera britannica e in mezzo a tutto questo hanno anche abbattuto un drone americano.
Nel frattempo hanno continuato la loro strategia di accerchiamento di Israele, hanno concluso un accordo con Hamas, rafforzato enormemente Hezbollah e le altre milizie sciite in Siria e in Iraq creando "l'asse della resistenza".
Non sembrano affatto intimoriti dalle minacce americane, anzi, alzano continuamente l'asticella della sfida mentre Trump non va oltre qualche Twitt di minaccia.

 Conflitto israelo-palestinese: il "piano del secolo" nemmeno partirà
  Brutte notizie anche sul versante della soluzione del conflitto israelo-palestinese. Il cosiddetto "piano del secolo" è destinato a non partire o comunque a non funzionare. Fino ad oggi l'unico risultato raggiunto su quel versante è stato l'indebolimento della Autorità Palestinese al quale però è seguito un rafforzamento di Hamas e della Jihad Islamica anche in Giudea e Samaria oltre che a Gaza. E non è un buon risultato.
Israele doveva essere il primo beneficiario della strategia di Trump in Medio Oriente e invece manca poco che ne diventi la prima vittima.
Secondo Pepe Escobar, analista brasiliano che scrive per le maggiori testate russe, quella del Presidente Trump è «follia geopolitica». Secondo il giornalista brasiliano prestato ai russi «l'incapacità di Trump di fronte a un avversario così determinato come l'Iran appare evidente in ogni più piccolo frangente».
Escobar è notoriamente un critico di Trump, le sue analisi sono sempre di parte (russa), ma questa volta non ha tutti i torti. La politica di Trump in Medio Oriente non solo non sta dando i frutti sperati, ma rischia di mettere in gravissima difficoltà Israele sia dal lato del conflitto israelo-palestinese che da quello, ben più pericoloso, del conflitto con l'Iran e i suoi proxi.
Grazie alle decisioni prese all'inizio del suo mandato, prima tra tutti il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme, e a quelle relative alla Autorità Palestinese, Trump ha potuto guadagnare molto credito all'interno della Stato Ebraico, ma tutto sommato sono piccole cose rispetto allo scenario che si sta delineando.
Si ha l'impressione che una volta fallita la tattica delle pressioni finanziarie (o comunque resa inefficace dalle contromisure) il Presidente americano navighi a vista dove invece ci sarebbe bisogno di un piano ben articolato.
Speriamo che alla Casa Bianca abbiano dei piani alternativi perché in questo momento a pagare gli errori di valutazione di Trump in Medio Oriente è Israele, sempre più al centro del mirino degli Ayatollah.

(Rights Reporters, 27 luglio 2019)


«Troppo rischioso». Vietato ai tifosi israeliani l'uso della bandiera

L'ordinanza del prefetto per una partita a Strasburgo

di Stefano Montefiori

PARIGI - La partita è finita 3 a 1 per lo Strasbourg, che giovedì prossimo a Haifa difenderà il risultato per qualificarsi al turno successivo di Europa League. Quel che è più interessante è successo però prima dell'incontro, quando è scoppiato un incidente diplomatico tra Francia e Israele.
   La prefettura del Bas-Rhin ha ricordato che tra i tifosi delle due squadre c'erano elementi violenti e che alcuni «sono politicizzati o identificati come all'origine di manifestazioni di antisemitismo». E quindi, come tutelare l'ordine pubblico? Come proteggere i tifosi israeliani da possibili aggressioni antisemite? Vietando loro l'accesso a gran parte del centro di Strasburgo, e proibendo la bandiera israeliana.
   «Giovedì 25 luglio 2019 è proibito dalle 10 alle 24 - si legge nell'ordinanza firmata dal direttore di gabinetto della prefettura, Dominique Schuffenecker - a qualsiasi tifoso del Maccabi Haifa FC, o a chiunque si comporti come tale, di circolare o stazionare sulla via pubblica nelle zone della Stazione centrale, Grande-ile, place du Corbeau , nei dintorni dello stadio Meinau, e all'interno dello stadio tranne nel settore riservato ai tifosi in trasferta».
Sono proibiti petardi e fumogeni ma anche «le bandiere nazionali senza rapporto con la competizione sportiva», e nello stadio il numero di tifosi israeliani «è limitato a 600» (anche se avevano comprato il biglietto ed erano arrivati in Francia in mille).
   Strasburgo è sede di una delle più antiche e numerose comunità ebraiche di Francia, ma anche di movimenti di estrema destra come il Bastion Social che ha stretti legami con il gruppo di hooligans Strasbourg Offender. Solo che invece di tenere sotto controllo e all'occorrenza reprimere questi ultimi, la prefettura ha scelto di limitare la libertà delle vittime potenziali. Un atteggiamento simile a quello del commissario tedesco contro l'antisemitismo, Felix Klein, che nel maggio scorso in Germania ha sconsigliato agli ebrei di portare la kippah.
   «Siamo molto sorpresi da questa decisione - ha reagito il responsabile della comunicazione del Maccabi Haifa -. Quando i tifosi francesi verranno in Israele dedicheremo un'attenzione particolare al fatto che possano spostarsi liberamente mostrando i colori del loro club e del loro Paese».
   Poi è intervenuta l'ambasciatrice di Israele in Francia, Aliza Bin-Noun: «Fìnché la reazione all'odio sarà la paura, noi non saremo sicuri. Le manifestazioni che invocano il boicottaggio di Israele sono consentite in nome della libertà di espressione, ma le autorità proibiscono ai tifosi del Maccabi Haifa FC di sventolare la nostra bandiera nazionale per la partita a Strasburgo. Due pesi e due misure, inaccettabile». Poco prima dell'inizio della partita, quando ormai il danno era compiuto, la prefettura ha ritirato l'ordinanza.



 ANTISEMITISMO E DIVIETI
«Evitate la kippah». Bufera in Germania

A maggio il commissario del governo tedesco per il contrasto all'antisemitismo, Felix Klein, aveva consigliato agli ebrei di non indossare la kippah in pubblico per evitare «danni potenziali». Ci fu una grande polemica e l'indignazione di Israele.
Inter- Tottenham e la Stella di David

Nel 2010 il Tottenham, squadra di origine ebraica di Londra, chiese ai propri tifosi di «non mostrare bandiere con la Stella di David» nella partita di Champions League contro l'Inter a Milano, «su invito della questura», Ma la Digos smentì di averle vietate.
Maccabi in Francia. Niente vessilli

L'ultimo caso in Francia, dove il 25 luglio si è giocata la partita di Europa League tra lo Strasbourg e il Maccabi Haifa (israeliano), ai cui tifosi è stato vietato dalla prefettura di mostrare «bandiere nazionali senza rapporto con la competizione».

(Corriere della Sera, 27 luglio 2019)


Luoghi sacri dei musulmani. A Gerusalemme l'America vuole un ruolo per l'Arabia

Sarebbe parte del piano di pace far passare la Spianata delle Moschee dal controllo della Giordania a quello di Riad. L'opposizione dell'Anp.

di Rolla Scolari

Interferire nello status quo che regola da quasi un secolo la gestione dei luoghi sacri musulmani di Gerusalemme potrebbe avere ripercussioni sugli equilibri e disequilibri della regione. Per ora si tratta soltanto di indiscrezioni, sufficienti però ad aumentare le tensioni di un conflitto decennale. Sono infatti mesi che sia la stampa israeliana sia quella araba raccontano di come l'annunciato piano di pace dell'Amministrazione Trump - quello cui lavorano il genero del presidente Jared Kushner e il mediatore per il Medio Oriente della Casa Bianca Jason Greenblatt - ipotizzerebbe l'introduzione di un ruolo dell'Arabia Saudita nella custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme e della Spianata delle Moschee: al Haram al Sharif, il terzo luogo sacro per importanza nell'Islam dopo Mecca e Medina, e Monte del Tempio per gli ebrei. Le speculazioni sono state rafforzate dalle parole pronunciate alle Nazioni Unite pochi giorni fa dallo stesso Greenblatt, che ha evocato «soluzioni creative» per Gerusalemme in un momento in cui ogni dialogo è bloccato. Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha minacciato giovedì di sospendere gli accordi sottoscritti con Israele e annunciato la creazione di un apposito comitato per rendere effettiva la decisione. È accaduto in seguito alla demolizione da parte di Israele di abitazioni palestinesi a Gerusalemme est. Il leader dell' Anp, inoltre, ha detto che i palestinesi non accetteranno l'«accordo del secolo», come è stato definito da Trump il misterioso piano di pace, che toccherebbe anche le simmetrie religiose della Città Santa.
   Lo status quo sui luoghi sacri così come lo conosciamo oggi mette in equilibrio attraverso la tutela giordana i sentimenti non soltanto di israeliani e palestinesi. A rafforzare l'ipotesi di un possibile ruolo saudita ci sono lo stretto rapporto tra l'Amministrazione Trump e Riad e la relazione personale tra Kushner e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Eppure, come ricorda il quotidiano israeliano Haaretz, mettere in forse la tutela che la Giordania ha sui luoghi sacri (musulmani e cristiani) di Gerusalemme dal 1924 - dal 1948 al 1967 Amman ha inoltre controllato la Cisgiordania, Gerusalemme est e la città vecchia - implicherebbe una rottura dei termini del Trattato di pace del 1994 tra Israele e il regno di re Abdullah II.
   Per gli osservatori una trasformazione degli antichi equilibri potrebbe avere ripercussioni rischiose sulla regione e nel mondo arabo quanto il riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele.
   L'idea riaccende antiche tensioni e ne innesca di nuove. Se la monarchia giordana vede da decenni nelle donazioni saudite verso i luoghi sacri un tentativo di «internazionalizzazione» della gestione di Gerusalemme, che indebolirebbe il prestigioso ruolo di Amman, il precedente storico non manca. Fu infatti proprio la casa dei Saud a strappare alla dinastia hashemita degli avi di re Abdullah II il controllo della Mecca. Oggi, il sovrano giordano, confrontato a una crisi economica, alla gestione dei rifugiati siriani, al malcontento sociale dipende suo malgrado da aiuti economici di Riad. E ora teme di perdere influenza proprio a causa di Riad. Non mancano altri rivali: oltre all'Arabia anche Turchia e Marocco ambiscono da sempre a un ruolo a Gerusalemme.
   
(La Stampa, 27 luglio 2019)


Memorie della cucina ebraico- romanesca

In occasione della giornata mondiale dell'alimentazione del 1993 il ministero per i beni culturali e ambientali ha pubblicato tre poderosi volumi che raccolgono, sotto il titolo "Le cucine della memoria", testimonianze bibliografiche e iconografiche dei cibi tradizionali italiani tratte da biblioteche pubbliche e istituzioni statali.
  La discoteca di stato ha contribuito con la registrazione di una intervista ad Emanuele Pacifici condotta da Alberto Mondadori e redatta da Biancamaria Zaccheo dal titolo Tradizioni della cucina ebraica romana del portico d'Ottavia.
  Il portico d'Ottavia fa parte del ghetto e era la sede del mercato del pesce, certamente pittoresco ma sporco e maleodorante specie se il pesce non veniva dalla vicina costa laziale, ma addirittura dall'Olanda. Al di là del fascino evocativo della conversazione tra l' intervistatore Emanuele Pacifici, padrone di casa, e Giacomo ed Enrica Moscati presenti in quella occasione. Il testo è molto singolare, perché dispensa interessanti informazioni sulle abitudini alimentari e le tradizioni gastronomiche degli ebrei romani che vuol dire dei romani stessi di fine Ottocento e talvolta del primo novecento. Emanuele Pacifici figlio del Rabbino Capo di Genova è nato nel 1931 e conserva pertanto buona memoria delle tradizioni della famiglia e del ghetto.
  La redattrice ha lasciato intatto il testo registrato così da dare l'impressione di ascoltare l'intervista in diretta. Per il taglio tipicamente romanesco della conversazione sembra di leggere la sceneggiatura di una commedia all'italiana, quando ci godevamo le interpretazioni di Fabrizi, di Sordi, di Manfredi.
La ricchezza del testo permette di estrapolare informazioni riguardanti cibi e piatti in gran parte scomparsi e in parte sconosciuti anche agli stessi ebrei giovani, ma in parte ancora oggi usuali.

 I piatti poveri della cucina ebraico-romanesca
  Esordisce Pacifici ricordando che la cucina ebraico-romanesca è basata molto su piatti poveri perché c'è il retroterra di tutti gli anni in cui la gente è stata chiusa nel ghetto e quindi ha dovuto scervellarsi per tirar fuori un piatto da cose poverissime, come le uova o la testa di pesci, che gli ebrei cercavano nei rifiuti dei grandi alberghi con la scusa che li avrebbero dati da mangiare al gatto.
  Ecco una sorta di antologia gastronomica che potrà interessare non soltanto i romani, e che rappresenta una chiave di lettura della storia moderna.
  Le ricette variano a seconda della tradizione gastronomica delle singole famiglie.
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    Aliciotti: una lasagna fatta alternando uno strato di indivia e uno di alici spinate fresche cotte al forno con molto olio
    Aliciotti: una lasagna fatta alternando uno strato di indivia e uno di alici spinate fresche cotte al forno con molto olio.
  • Baccalà: il baccalà era considerato il pollo delle tavole più ricche e veniva mangiato dai cattolici il venerdì che è il giorno del digiuno e per questo probabilmente comprato dagli ebrei poveri a poco prezzo.
  • Bottarga: è incredibile sapere che veniva preparata con le uova degli storioni che numerosissimi arrivavano fino a Roma risalendo il Tevere.
  • Boccette: polpette piccole di carne cotte in brodo con rape e riso, esclusiva di alcune famiglie.
  • Brodo con il cappone: si consuma per rialimentarsi dopo il giorno di digiuno del kippur perché più nutriente. Sembra che in passato anche il cappone venisse tenuto a digiuno prima di essere mattato.
  • Cassola: è un dolce di ricotta fritta o cotta al forno consumato anche in mezzo al pane come pietanza.
  • Carcioncini: equivalenti ai nostri tortellini o agnolotti con il ripieno di carne.
  • Collo ripieno: ovvero il collo della gallina riempito di carne macinata.
  • Lingua salmistrata col pistacchio da afferrare come un salame.
  • Corbanpesac: il sacrificio della Pasqua per mangiare lo zampetto d'agnello consentito solo ai Romani dal 70 dopo Cristo per far fronte alla carestia di quei tempi. In realtà gli ebrei di oggi non lo mangiano assolutamente pur mettendolo a tavola; lo zampetto viene mangiato con il Carose (haroset): una sorta di marmellata fatta di fichi, noci, datteri, olive, erbe amare. Altri oggi mettono colorazione simile al fango con il quale gli ebrei impastavano i mattoni in Egitto. Sul piatto compare anche l'uovo sodo, la lattuga, il sedano oppure aceto e azzime e ogni cibo è accompagnato da una preghiera.
  • Concia: le zucchine marinate.
  • Coratella: interiora dell'abbacchio rappresentate soprattutto da fegato e polmone oggi infiocchettate dai carciofi cotte in padella con sale e pepe.
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    Coppiette: carne della coda di pezza trattata con sale e pepe ed essiccata al sole d'estate da mangiare con le forbici, in commercio ancora oggi non solo a Roma.
    Coppiette
    : carne della coda di pezza trattata con sale e pepe ed essiccata al sole d'estate da mangiare con le forbici, in commercio ancora oggi non solo a Roma. In Toscana le chiamano "il melino".
  • Goletta: pezzo della testa del pesce usato per fare il brodo in cui cuocere gli avanzi degli spaghetti venduti a minor prezzo perché spezzati.
  • Ova e latte: uova e fegatini di pesce raccolti tra i rifiuti cotti con aceto!
  • Pastinache: la pastina è una pianta delle ombrellifere con una lunga radice carnosa e mangereccia che si trova nel terreno scavato a 70 cm di profondità sugli arenili del Tevere. Può essere condita con pomodoro o fritta, comunque molto apprezzata perché si riteneva che contenesse anche un tranquillante. Quello che era considerato un piatto quotidiano prelibato oggi non lo mangia più nessuno ed è praticamente sconosciuto.
  • Pezzetti fritti: un cibo di strada oggi noto come fritto vegetariano a base di broccolo, zucca gialla, patata, cipolla e la pastinaca. Spesso questo fritto veniva consumato nei mesi freddi al mattino sulla pizza bianca. Altri cibi di strada erano il carciofo in un calderone di rami insieme alle patate e alle castagne, i ceci fritti saltati in padella con olio, sale e pepe ed infine pizza ricotta e fichi per colazione al mattino.
  • Salami di manzo e d'oca: i primi fatti a mano nel retro bottega del forno, quelli d'oca provenienti dal ghetto di Venezia o da Ferrara. Evidente che la carne di manzo e d'oca veniva utilizzata al posto del maiale proibito.
  • Stracotto: fatto da alcuni con ogni tipo di carne da altri con i graffi ovvero con l'interno della guancia del bue lavorato e spellato e venduto a prezzi accessibili.
  • Tasca: un pezzo di carne di vitella da aprire come una saccoccia da farcire di carne tritata.
  • Tortiglioni: gli avanzi della carne lessati con molta cipolla e ridotti a crema da mettere dentro la pasta sfoglia come un raviolo da friggere nell'olio. In alcune famiglie si prepara la carne macinata e saltata in padella. Sembra che questo piatto venga preparato ancora oggi anche se la cottura avviene al forno.
  • Triglie con pinoli e Passerini: cioè uvetta passa al forno come piatto tradizionale del kippur.
  • Torselli: piedi di indivia fatti al forno o in padella, si mangiano al pasto che precede la festa del kippur.
 Da piatto dei poveri a menù ricercato
  Alcuni piatti della cucina povera sono entrati a far parte oggi della gastronomia ricercata e sono presenti nella cucina quotidiana casalinga o nei menù dei comuni ristoranti romani. Basta pensare alla coratella, ai filetti di baccalà fritti, al fritto vegetariano, ai carciofi alla giudia, alla tasca, alle zucchine marinate.
Non è difficile immaginare come la cucina ebraica abbia influenzato quella romana Cristiana o viceversa. Crescenzo del Monte (1868 - 1935) è un ebreo romano autore di numerose poesie che descrivono la vita del ghetto nel quale lui stesso ha vissuto. Il suo intento era quello di complementare il monumento belliano al popolo di Roma con l'ascolto degli ebrei costretti a vivere nel ghetto. Su 400 sonetti sono pochi quelli dedicati all'argomento alimentazione, forse a causa dei vincoli posti dalla religione. Alcuni fanno riferimento a pietanze tipiche della cucina ebraica ignorate dalla cucina Cristiana (la pizza giudaica, il pane azzimo, il salame di manzo, la ricetta della maionese, la carne casher) altri alle ricorrenze e a qualche personaggio curioso.

(Mondo, 27 luglio 2019)


Abu Mazen, sospesi gli accordi con Israele

Dopo la demolizione di edifici palestinesi a sud di Gerusalemme

L'autorità nazionale palestinese (Anp) ha deciso in principio di sospendere tutti gli accordi sottoscritti con Israele. Un apposito comitato sarà costituito per dare concretezza alla decisione. Lo ha reso noto il presidente dell'Anp Abu Mazen in una seduta urgente della leadership palestinese convocata dopo la demolizione da parte di Israele di edifici situati a sud di Gerusalemme, in aeree della autonomia palestinese. "Non ci piegheremo di fronte alle imposizioni israeliane e alla politica del fatto compiuto - ha detto Abu Mazen. - Non ci piegheremo alla forza bruta, in modo particolare a Gerusalemme". "Le nostre mani - ha assicurato - restano tese come in passato, al fine di conseguire una pace giusta, generale e durevole. Ma ciò non significa - ha aggiunto - che accettiamo lo status quo, che ci arrendiamo alle decisioni dell'occupazione. Non siamo disposti a convivere con la occupazione né accetteremo l' 'Accordo del secolo'. La Palestina e Gerusalemme non sono in vendita".

(ANSA, 26 luglio 2019)


Israele, l’oasi che non conosce la recessione

Negli ultimi cinque anni la sua crescita media annua è stata superiore al 3%.

di Marco Frojo

MILANO - Penalizzato dal punto di vista territoriale, Israele ha per forza di cose puntato sulla tecnologia e lo ha fatto con successo. Negli ultimi cinque anni la sua crescita media annua è stata superiore al 3% e la sua economia è solida, nonostante disponga di un territorio piccolo - è poco più grande della Puglia - con scarse risorse idriche e minerarie e in perenne conflitto con gli Stati confinanti. Nel 2018 il Pil ha fatto registrare un progresso del 3,3%, in lieve flessione rispetto al 3,5% del 2017 e al 4% del 2016. L’ultimo dato negativo risale al 2002 ed era comunque stato di lieve entità (-0,2%), mentre dal 2004 al 2011 lo sviluppo ha toccato quasi il 5% annuo. Il tasso di disoccupazione è molto basso, essendo arrivato quasi al 4%, così come resta contenuta l’inflazione, che si mantiene sotto il punto percentuale. Mostrano una grande solidità anche i conti pubblici: il debito è inferiore al 60% del prodotto interno lordo, un valore che fa fatica a rispettare anche la virtuosa Germania.
   La vera forza di Israele, però, è il suo alto tasso di innovazione. Nel Bloomberg innovation index occupa la quinta posizione a livello mondiale, in netto miglioramento rispetto al decimo del 2018, dietro a Corea del Sud, Germania, Finlandia e Svizzera (l’Italia si deve accontentare del 24mo posto). Tuttavia, se si va a guardare le singole categorie, Israele è l’unico Paese ad aver superato Seul per quanto riguarda gli investimenti in ricerca e sviluppo, che sono stati pari al 4,3% del Pil. Questo dato permette a Israele di essere il primo Paese al mondo per numero di start-up per abitante e il secondo per investimenti di capitale di rischio pro-capite (293 dollari), mentre in termini assoluti, è il terzo per numero di aziende quotate al Nasdaq (83), dopo Usa e Cina.
   Sempre in relazione al Bloomberg innovation index, i progressi maggiori Israele li ha fatti nella produzione di brevetti, passando dal 19mo posto del 2018 al quarto del 2019. Inoltre è al quinto posto per numero di aziende high-tech aventi sede dentro i suoi confini.
   Lo Stato ebraico ha, inoltre, un’elevata apertura internazionale e il settore high tech sta trainando positivamente sia le esportazioni di beni che di servizi. Nel 2017 le esportazioni sono aumentate del 3,5% a 41,2 miliardi di euro e le importazioni dell’8% a 55,3 miliardi di euro. I principali settori di esportazione sono stati i servizi finanziari e quelli legati alle tecnologie dell’informazione e comunicazione. Un fattore che continua a indebolire la competitività dei prodotti israeliani è l’apprezzamento della sua valuta, lo Shekel, che certifica però anche la forza dell’economia israeliana. L’Unione Europea rimane il primo partner commerciale, nonostante negli ultimi anni il trend degli scambi commerciali tra il Vecchio Continente e Israele sia stato altalenante (nel 2017 le esportazioni israeliane verso l’Unione Europea hanno subito un calo per il secondo anno consecutivo). Come in ogni economia complessa non mancano ovviamente gli aspetti critici, che sono stati elencati da Karnit Flug, che fino al novembre scorso è stata il governatore della Banca di Israele: bassi livelli di competitività e produttività, in particolare nel settore agroalimentare, della vendita al dettaglio e dei servizi bancari, un’elevata burocratizzazione e un livello delle infrastrutture insufficiente rispetto agli standard dei Paesi Ocse.
   A questo proposito il governo di Gerusalemme si è già impegnato a portare avanti da alcuni anni alcune riforme con l’obiettivo di liberalizzare il mercato per renderlo più competitivo, riducendo la burocrazia (ad esempio nel settore bancario) e promuovendo grandi investimenti nelle infrastrutture del Paese, in particolare nel settore trasporti, energia (elettricità e gas naturale).

(The MediTelegraph, 26 luglio 2019)


Ricercatori israeliani sviluppano un gilet vibrante per comunicare con i cani

 
Un nuovo gruppo di ricerca interdisciplinare presso l'Università Ben-Gurion del Negev (BGU) in Israele ha sviluppato un modo completamente nuovo di addestrare i cani usando le vibrazioni legate al tatto.
Il team ha sviluppato un gilet in mesh modificato, che incorpora la tecnologia tattile, adatto per essere indossato dai cani. Il gilet include quattro piccoli motori vibranti indolori che funzionano tramite telecomando.

 Yoav Golan ha sviluppato la tecnologia
  Yoav Golan, l'autore principale dello studio e dottorando in ingegneria meccanica alla Ben Gurion University, spiega a Nocamels che un cane che indossa il gilet imparerà "ad associare vibrazioni diverse a comandi diversi. Una vibrazione farà girare il cane, mentre un'altra lo farà venire da te".
Golan ha affermato che lo studio, dal titolo "A Vibrotactile Vest for Remote Human-Dog Communication", è il primo ad esplorare la tecnologia tattile e i comandi dei cani. I risultati sono stati presentati alla World Haptics Conference il 12 luglio a Tokyo, in Giappone, una conferenza internazionale che tratta i principali risultati scientifici, gli sviluppi tecnologici, gli algoritmi e le applicazioni nel settore.
In queste situazioni la comunicazione non vocale è vantaggiosa e persino preferita.
"Oggi la comunicazione con i cani che svolgono determinati lavori, che vanno dalla ricerca al salvataggio, è ancora prevalentemente visiva e uditiva", scrive il team nello studio.
Questa tecnologia, sostiene il team, può anche aiutare a "riconnettersi con animali domestici in fuga, a far comunicare con i cani persone con problemi di linguaggio e persino a comunicare con cani sordi".
La maglia tattile è una scelta ideale quando non è possibile la comunicazione vocale, ad esempio in un ambiente rumoroso, con un cane sordo o con un proprietario o gestore di un cane che ha una disabilità del linguaggio.
In questi scenari, l'uso del giubbotto tattico è molto più facile che battere le mani quando si ha bisogno di avvisare il tuo cane.
Il gilet è stato già testato sul cane di Golan, un mix di Labrador e German Shepard chiamato Tai.

 L'obiettivo futuro
  In futuro lo studio, sostengono i ricercatori israeliani, metterà alla prova la tecnologia del giubbotto tattico su diverse razze, età ed esperienza di addestramento di cani e integrerà dispositivi più avanzati nella ricerca e nel salvataggio.

(SiliconWadi, 26 luglio 2019)


Qualcuno ha la minima idea di quello che sta succedendo tra Iran e Israele?

Qualcuno in occidente ha la minima idea della potenza di fuoco che si sta addensando attorno allo Stato Ebraico?

di Paola P. Goldberger

La guerra tra Iran e Israele è già in corso, lo è da diversi mesi, solo che incredibilmente in occidente non se ne parla.
Gli esperti definirebbero questo conflitto come una "guerra a bassa intensità", in realtà non lo è più da un po'. Sarebbe più corretto parlare di "prima fase" di un conflitto ampiamente annunciato.
Da un lato abbiamo l'Iran che sta cercando in tutti i modi di posizionare le sue pedine sullo scacchiere per poter poi attaccare direttamente lo Stato Ebraico.
Dall'altro abbiamo Israele che, al contrario, sta cercando in ogni modo possibile di impedire a Teheran di posizionare quelle pedine "mangiandone" una alla volta.

 Un attacco in Iraq di cui si è parlato poco
  Non ho usato a caso l'esempio degli scacchi. Quella in corso è veramente una partita a scacchi dove ambo i giocatori cercano di anticipare le mosse dell'avversario.
Per esempio, la settimana scorsa l'esercito iracheno ha denunciato un attacco aereo contro la base militare irachena di Al-Shuhada.
Secondo i rapporti un drone avrebbe colpito la base irachena ma data in gestione al gruppo sciita Hashd al-Shaabi (Forza di mobilitazione popolare irachena), legato all'Iran.
In quell'attacco, nel quale sono morti diversi miliziani tra i quali anche membri di Hezbollah e del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC), sarebbe stati distrutti decine di missili iraniani trasportati in Iraq all'interno di camion per la consegna di viveri.
Tra i missili distrutti ci sarebbero stati vettori balistici di tipo Zelzal, Fateh-110 e Zolfaqar, in particolare questi ultimi in grado di colpire da quella posizione sia Riad che Tel Aviv.
L'intelligence israeliana stava denunciando da mesi che gli iraniani stavano rifornendo di missili balistici le milizie sciite irachene, ma nessuno fino ad ora si era mosso.
Gli iracheni hanno prima sostenuto che il drone fosse americano, ipotesi smentita categoricamente da Washington. Poi hanno accusato Israele che come sempre non ha né confermato né smentito.

 Una scacchiera che prende tutto il Medio Oriente
  Con molta probabilità l'attacco alla base irachena di Al-Shuhada è stato portato proprio da Israele a dimostrazione del fatto che lo Stato Ebraico sta cercando in ogni modo di contrastare il posizionamento iraniano in ogni parte del Medio Oriente e non solo in Siria.
L'attacco alla base irachena di Al-Shuhada dimostra anche che la scacchiera dove Iran e Israele stanno giocando la loro "partita" è molto più grande di quello che si pensi e prende praticamente tutto il Medio Oriente.

 Perché l'Iran tace sugli attacchi nonostante le vittime iraniane?
  Eppure l'Iran tace sugli attacchi israeliani contro le sue basi, l'ultimo (devastante) solo pochi giorni fa sulle aree siriane di Tel Haraa e Quneitra.
Secondo fonti siriane nell'ultimo attacco in Siria sarebbero morte nove persone di cui sette iraniani membri delle IRGC. Eppure da Teheran neppure un fiato. Come mai?
La risposta sta proprio in quella "partita a scacchi" che Teheran e Gerusalemme stanno giocando. Una reazione iraniana equivarrebbe ad una ammissione del fatto che l'Iran sta lentamente ma inesorabilmente cercando di prendere Israele in un morsa mortale.
Non è un segreto per nessuno, ma fino a quando non se ne parla l'occidente continua bellamente a far finta di nulla. Una reazione, anche solo verbale, da parte di Teheran vorrebbe dire portare alla luce la trama iraniana e non è questo il momento.

 Le pedine iraniane sono quasi tutte al loro posto
  Solo che il tempo sta scadendo. Le pedine iraniane sono quasi tutte al loro posto. L'ultima (Hamas) si è appena dichiarata apertamente come la «prima linea di difesa iraniana».
Hezbollah sta radunando le sue forze lungo il confine con Israele, sia dalla parte libanese che da quella siriana.
Hamas ha fatto trapelare di avere oltre 5.000 missili, Hezbollah ne ha oltre 150.000. Impossibile sapere quanti ne hanno le milizie sciite in Siria (Brigata di liberazione del Golan) e in Iraq (Hashd al-Shaabi).
Teheran, dopo aver sacrificato diverse pedine (e anche qualche pezzo più importante) cerca lo scacco matto.
Ora, con un quadro del genere, c'è qualcuno in grado di spiegarmi perché intorno a questa pericolosissima partita a scacchi tutto tace?
Credete veramente che le tensioni nel Golfo Persico, sulle quali invece c'è tantissima attenzione mediatica, siano veramente "il problema"?
Qualcuno in occidente ha la minima idea della potenza di fuoco che si sta addensando attorno allo Stato Ebraico?

(Rights Reporters, 26 luglio 2019)


Il commiato dell'Ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs

Un'occasione per ribadire il potenziale delle relazioni con Israele

di Barbara Pontecorvo

 
Ofer Sachs e Barbara Pontecorvo
Termina il mandato dell'Ambasciatore di Israele in Italia S.E. Ofer Sachs e viene naturale fare il punto sulle relazioni, anche all'esito delle attività dell'Ambasciata, tra i due Paesi.
   Nonostante si tratti di uno Stato di piccole dimensioni, Israele ha dimostrato ancora di avere la capacità di crescere velocemente (l'Ufficio Centrale di Statistica ha dovuto rivedere al rialzo i dati di crescita del PIL nella prima metà del 2018 dal 4,1% al 4,2%) e di generare grandi opportunità.
   Un numero crescente di investitori ha maturato la convinzione che lo stato dell'economia israeliana possa essere valutato indipendentemente dalle alterne preoccupazioni legate alla stabilità geopolitica regionale.
   Come sappiamo, tra Italia e Israele vige un accordo di libero scambio, che comporta l'esenzione tariffaria per prodotti agricoli ed industriali, la libertà movimento di capitali, la liberalizzazione settori turismo e trasporti e vige una convenzione per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio e per prevenire le evasioni fiscali.
   I due Paesi sono alleati strategici e complementari.
   L'Italia ha grande interesse ad esser presente in un Paese che ha una così importante proiezione internazionale e Israele considera l'Italia uno sbocco naturale sui mercati europei. Per queste ragioni, anche nell'ultimo anno l'interscambio tra i due Paesi ha avuto una crescita del 4% circa, con un saldo sempre positivo in favore dell'Italia, che le ha permesso di confermarsi tra i principali partner commerciali d'Israele, terzo fornitore a livello europeo.
   Il settore dell'industria in Israele non è molto sviluppato e la sinergia con le capaci industrie italiane può essere un'opportunità per realizzare il passaggio dalla fase della ricerca e del brevetto a quella della realizzazione e successiva commercializzazione di prodotti finiti.
   I rapporti bilaterali sono stati rafforzati anche grazie all'intensificarsi di iniziative volte alla cooperazione scientifica, tecnologica e finanziaria (nate soprattutto dall'Accordo Intergovernativo di Cooperazione Industriale Tecnologica e Scientifica entrato in vigore nel 2002), settori in cui l'Ambasciatore Sachs ha dato un inestimabile contributo.
   L'Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e quella israeliana (ISA), hanno consolidato i loro rapporti di collaborazione, grazie alle possibilità di lavorare nel grande progetto "Galileo" che rende l'Italia un partner di primo piano in questo settore.
   Altro settore di cooperazione è quello dell'intelligenza artificiale, nelle aree della finanza, dei trasporti e robotica e della salute e medicina. Qui le competenze italiane possono essere opportunamente valorizzate, sia da un punto scientifico, che industriale.
   Opportunità particolarmente interessanti per le imprese italiane possono scaturire dai nuovi progetti infrastrutturali (nel settore ferroviario, settore portuale, delle metropolitane e treni leggeri), che sono in corso di realizzazione o stanno per essere avviati e di cui vengono forniti dettagli attraverso il circuito "ExTender".
   Fonti ministeriali israeliane segnalano un piano di investimenti per circa 140 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali entro il 2020.
   Vanno sicuramente menzionate nel contesto infrastrutturale anche le recenti scoperte di tre grandi giacimenti marini nel nord del paese. Si stima che si possano trovare nuovi giacimenti, per oltre 3,500 miliardi di metri cubi di gas naturale, che potrebbero trasformare Israele in uno dei principali esportatori di gas naturale al mondo, al pari della Russia, del Qatar e della Norvegia.
   Le opportunità di collaborazione tra Italia e Israele sono ancora destinate a crescere.

(Affaritaliani.it, 26 luglio 2019)


Barak lancia la grande coalizione anti-Netanyahu

di Fiammetta Martegani

«A 77 anni non ho più niente da perdere. Posso solo fare il mio dovere: far tornare Israele un Paese democratico». Con queste parole, Ehud Barak ha chiuso mercoledì sera, a Savyon, sobborgo di Tel Aviv, l'incontro pubblico con oltre 400 sostenitori del suo nuovo partito. «Ora devo andare a lavorare - si è congedato -. Ci aspetta una lunga nottata». Dopo settimane di negoziazioni, la notte tra mercoledì e giovedì si è conclusa con la nascita ufficiale di Campo democratico: una maxi -coalizione tra Israele democratica, la lista lanciata dall'ex premier, e il partito Meretz, il cui leader, Nitzan Horowitz, sarà il numero uno della nuova formazione, affiancato dalla giovane laburista Stav Shafir. Al gruppo potrebbe unirsi anche l'ex ministra degli Esteri, Tzipi Livni.
   Per ora, l'unico a non voler aderire alla coalizione è Amir Peretz, leader dei laburisti, nonostante, secondo i sondaggi, l'85 per cento del suo elettorato creda che il blocco unico rappresenti, come ha detto Barak, «l'unica possibilità per passare la soglia elettorale e porre fine ai 10 anni di malgoverno Netanyahu». Sarà comunque complesso, su entrambi i fronti, destra e sinistra, riuscire a mettere assieme i 61 seggi (su 120), necessari a governare. È proprio su questo ostacolo che ha inciampato, lo scorso 29 maggio, il premier Benjamin Netanyahu, costretto poi a sciogliere il governo neoeletto dopo il voto del 9 aprile. Un sondaggio condotto da Walla, il principale portale di informazione in Israele, conferma che il quadro politico resta frastagliato esattamente come allora. Con il Likud di Netanyahu e il partito Blu-Bianco dell' ex generale Benny Gantz alla pari con 29 seggi, le liste ortodosse con 15, l'estrema destra e le liste arabe con 12 seggi entrambe, mentre 10 per Israel Beiteinu, il partito della destra nazionista di Avigdor Lieberman, che avrà il ruolo dell'ago della bilancia nella corsa alle urne del prossimo 17 settembre.
   Quanto alla sinistra, se si unissero anche il resto dei laburisti, si potrebbero raggiungere 13 seggi. Peretz ha tempo fino al primo di agosto per decidere e dalla sua scelta dipendono anche le sorti del Partito laburista che, a questo turno, rischia, per la prima volta in 70 anni dalla fondazione dello Stato di Israele, di non passare la soglia di sbarramento.

(Avvenire, 26 luglio 2019)


Iran: test per missili balistici ad ampio raggio

di Piera Laurenza

Media occidentali hanno riferito, il 25 luglio, che l'Iran ha condotto test per missili balistici con raggio pari a 1000 km.
   Nello specifico, un missile è stato lanciato dalla costa meridionale dell'Iran. La notizia è partita da fonti del Pentagono statunitense, le quali hanno altresì affermato che tale test non rappresenta una minaccia per le basi o per le navi degli Stati Uniti. Tuttavia, si pensa che l'Iran abbia iniziato i test missilistici già dalla giornata di mercoledì 24 luglio. L'obiettivo di Teheran è migliorare la portata e la precisione del proprio sistema di armi.
   In tale contesto, da un lato il segretario di Stato della Casa Bianca, Mike Pompeo, ha dichiarato, in un'intervista, che è pronto a recarsi in Iran, se necessario, per avviare colloqui in un clima di crescente tensione tra Washington e Teheran. Pompeo ha altresì chiesto all'Iran di interrompere i propri lanci missilistici ed i relativi test. Dall'altro lato, il consigliere militare del leader iraniano, Ali Khamenei, il 24 luglio, ha affermato che l'Iran non negozierà con gli USA, in nessun caso, mostrando un inasprimento della posizione iraniana all'interno della crisi. Teheran ha poi dichiarato che non è obbligato a porre fine ai propri test missilistici ma non ha alcun interesse nello sviluppare armi nucleari.
   Funzionari statunitensi stanno monitorando la situazione. Inoltre, l'amministrazione del presidente della Casa Bianca, Donald Trump, ha avviato un programma segreto per eseguire operazioni di sabotaggio contro i missili iraniani. Funzionari statunitensi hanno descritto il programma come parte di una campagna allargata da parte degli Stati Uniti per minare le capacità dell'Iran e isolarlo.
   A partire dall'8 maggio 2018, data in cui Trump ha deciso di ritirarsi dall'accordo sul nucleare, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), le relazioni bilaterali tra Iran e Stati Uniti sono peggiorate, a causa della re-imposizione delle sanzioni contro Teheran. Il lancio di missili non è tra i divieti dell'accordo sul nucleare iraniano del 2015 ed è uno dei punti di disaccordo del presidente della Casa Bianca. Tuttavia, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite afferma che l'Iran è invitato a non intraprendere alcuna attività legata a missili balistici.
   Ad un anno di distanza dall'uscita dal patto, l'8 maggio 2019, Washington ha schierato la portaerei Abraham Lincoln e una task force di cacciabombardieri nei mari del Medio Oriente, con il fine di dimostrare la propria forza nel caso di eventuali attacchi dalla controparte iraniana. Teheran, per tutta risposta, ha dichiarato di non voler più rispettare le limitazioni sull'arricchimento dell'uranio e ha descritto la presenza americana un bersaglio da colpire.
   Le tensioni nel Golfo sono state ulteriormente alimentate nelle ultime settimane. Il 19 luglio, il Regno Unito ha reso noto che l'Iran ha confiscato 2 petroliere britanniche nel Golfo e ha intimato a Teheran di restituirle immediatamente o di affrontare le conseguenze di tale mossa. L'11 luglio scorso, un portavoce del governo britannico ha riportato che tre navi iraniane hanno cercato di ostacolare la nave britannica Heritage, situata nello Stretto di Hormuz.
   Il 4 luglio scorso, la petroliera iraniana Grace 1 è stata bloccata dalla polizia locale e dall'agenzia doganale di Gibilterra, sostenute da un distaccamento della Marina britannica. In una dichiarazione, il governo locale aveva dichiarato di avere ragionevoli motivi per credere che la nave stesse trasportando un carico di petrolio greggio verso la raffineria di Banyas, in Siria. L'accusa è di aver violato, con il trasferimento di petrolio in Siria, le sanzioni imposte dall'Unione Europea.
   Il Regno Unito non ha introdotto alcuna politica contro l'Iran ma Teheran considera la mossa britannica un tentativo di sostegno al presidente della Casa Bianca. Quest'ultimo, il 2 maggio, ha annunciato che gli Stati Uniti non avrebbero più concesso esenzioni dalle sanzioni agli ultimi 8 compratori di petrolio rimasti alla Repubblica Islamica, con l'aspettativa che le esportazioni iraniane si sarebbero ridotte a zero nel breve periodo.

(Sicurezza Internazionale, 26 luglio 2019)


Il cinico utilizzo dei bambini fatto da Hamas, nelle parole di un giornalista palestinese

Testimonianze e immagini in un nuovo documentario

In un nuovo documentario pubblicato da TPS (Tazpit Press Service), un giornalista palestinese descrive in dettaglio come gli operativi di Hamas mettono in pericolo i bambini palestinesi di Gaza spingendoli negli scontri in prima linea ai confini con Israele.
"Ho visto con i miei occhi quelli di Hamas entrare nelle case dei poveri a Gaza - dice il giornalista, il cui volto è offuscato e la voce distorta per motivi di sicurezza - a portare aiuti materiali e soldi e chiedere alla gente di radunarsi in luoghi specifici a Gaza, per poi caricare i bambini sugli autobus e portarli al confine. La cosa si ripete in modo esagerato. Usano soprattutto bambini sotto i 12 anni. Ho visto capi di Hamas portarsi le sedie e starsene a un chilometro dalla barriera di confine, seduti a guardare la gente che moriva. Portano i bambini nei campi da gioco e li fanno giocare - continua il giornalista palestinese - poi li spingono a fare tutto il possibile per avvicinarsi alla barriera. L'obiettivo è influenzare l'opinione pubblica generale, che crede che i bambini vengano tenuti al sicuro. Quelli di Hamas sfruttano questo fatto per sostenere che Israele uccide i bambini. E quando Hamas aumenta lo sforzo di sfruttare i bambini? Quando si avvicina il momento dei pagamenti mensili di Al-Amedi [inviato del Qatar]. Questo è ciò che succede veramente"....

(israele.net, 26 luglio 2019)


Stati Uniti - La Camera condanna il boicottaggio di Israele

La Camera degli Stati Uniti ha approvato una misura che condanna qualsiasi iniziativa di boicottaggio economico nei confronti di Israele. Il provvedimento è stato adottato con una maggioranza schiacciante: 398 voti favorevoli e solo 17 contrari.
La decisione dei deputati Usa è arrivata dopo mesi di tensioni create da Rashida Tlaib e Ilhan Omar, neo parlamentari democratiche musulmane, finite al centro delle polemiche per le loro idee contrarie allo Stato d'Israele.
Le due politiche hanno espresso tutta la propria contrarietà per un provvedimento che secondo loro viola il principio di libertà di parola e il diritto di partecipare a boicottaggi per la difesa dei diritti umani e civili.
Il presidente della Commissione Esteri e deputato democratico di New York Eliot Engel ha risposto a Rashida Tlaib e Ilhan Omar:
"Volete criticare quel governo? È vostro diritto. Volete smettere di compare prodotti di un certo paese? anche questo è vostro diritto. Ma partecipare ad uno sforzo internazionale che mina la legittimità di Israele e affossa la possibilità di una soluzione con due stati non è la stessa cosa che esercitare i diritti del Primo emendamento. È una frode. È odio contro Israele e gli ebrei".
La deputata di origine palestinese Tlaib ha parlato in aula di "attacco alla libertà di parola e al diritto di boicottare le politiche razziste del governo e dello stato d'Israele" e assieme a Omar e al deputato democratico John Lewis, ha presentato una mozione che sostiene come i cittadini statunitensi abbiano:
"Il diritto di partecipare ai boicottaggi in sostegno dei diritti civili sia in patria che all'estero".
Il testo non ha riscosso molto successo, a differenza del provvedimento preso dalla Camera americana che condanna apertamente il boicottaggio economico dello Stato ebraico.

(Progetto Dreyfus, 26 luglio 2019)


«Israele è un richiamo per le industrie straniere. Manca solo l'Italia»

L'intervista. Il nostro ambasciatore a Tel Aviv: «Oggi l'unica è Enel»

Piccolo e competitivo
«È il primo Paese al mondo per la ricerca e l'innovazione»
Investitori
«Negli anni sono arrivate aziende da Cina, Usa, Giappone e Corea»
Opportunità
«Sfruttiamo il fatto di essere la seconda forza manifatturiera»

di Francesca Musacchio

 
Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano in Israele
«L'Italia non ha un mercato di innovazione così ricco e dinamico più vicino di Israele. Quindi bisogna approfittarne». Ne è convinto l'ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti che, parlando con Il Tempo in occasione della XIII Conferenza degli Ambasciatori e delle Ambasciatrici in corso a Roma, invita le grandi aziende italiane a confrontarsi con un paese che ha fatto della ricerca e dell'innovazione tecnologica un punto di forza tanto da essere definito «startup natìon». I numeri della crescita, infatti, sono quelli che fanno la differenza.

- Israele è tra i paesi che cresce di più e che investe in ricerca.
  «Israele oggi cresce al 3,3%, ha 6mila startup, investe il 4,3% del Pil in ricerca e sviluppo. è il primo paese al mondo per investimenti procapite con 674 dollari a persona e nel 2018 sono stati investiti in startup innovative 6 miliardi di dollari. Da questo punto di vista Israele è uno dei primi paesi, piccolo per quanto sia, ma è uno dei primi paesi al mondo sia come crescita che come investimenti su ricerca e innovazione e come risultati di innovazione».

- Cosa può significare questo per l'Italia?
  «Uno dei temi veramente importanti guardando Israele è il valore della nostra collaborazione scientifica e industriale bilaterale in termini di priorità per rafforzare le nostre capacità tecnologiche e di innovazione. Questo credo che sia uno degli aspetti in questo momento più interessanti. In questa lunga amicizia che dura da 70 anni, e che durerà ancora, oggi ci troviamo in un momento in cui, per le caratteristiche italiane, e magari se vogliamo anche per le deficienze italiane, e per le caratteristiche di Israele, siamo di fronte ad una finestra di opportunità che può essere colta con un beneficio reciproco. Questo ecosistema così dinamico, così ricco, ha determinato la presenza in Israele di 350 multinazionali straniere che sono impegnate a fare attività di ricerca e sviluppo. A parte le grandi aziende americane che sono lì da sempre, sono arrivate negli anni multinazionali dall'Europa, dalla Cina, dal Giappone, dalla Corea del Sud. Ma non è un quadro statico perché Israele è in continuo movimento e anche questa etichetta di "startup-nation" sta cambiando».

- In che modo?
  «Israele sta cercando progressivamente di industrializzarsi. Chiaramente questo
processo di passaggio per aiutare le imprese a rafforzarsi e crescere, gli israeliani lo fanno con l'aiuto dell'industria straniera. Le capacità che non hanno le devono prendere in qualche modo da chi ce l'ha e si rivolgono ovviamente alle grandi industrie straniere, in primis gli americani. In questo percorso che Israele sta compiendo, l'opportunità che l'Italia diventi un partner privilegiato è dietro l'angolo perché noi siamo comunque la secondo potenza manifatturiera in Europa, la settima al mondo, e quindi proprio in una logica win-win di interesse reciproco possiamo rappresentare un sistema complementare rispetto a Israele. L'interesse israeliano è acquisire competenze da multinazionali straniere e noi possiamo offrire tantissime competenze. Le nostre aziende sicuramente possono andare in Israele e presentarsi come partner ideale. A loro volta possono sfruttare tutto il sistema di crescita tecnologica che Israele offre. E per gli israeliani il sistema italiano è l'altra faccia della medaglia».

- Esistono aziende italiane che lavorano in Israele?
  «Sono poche. Tra le aziende presenti al momento per fare ricerca e sviluppo oggi c'è Enel, e lì ci fermiamo perché poi le altre grandi, tipo Leonardo, Telecom o Snam, ci sono in altri formati».

- Perché?
  «È una domanda che ha un insieme di risposte. Dal mio punto di vista, però, nessuna tiene veramente perché se fossero vere tutte le cose che si mettono in fila (il Paese è piccolo, la lingua è complicata, la situazione politica è complicata, se faccio business con gli israeliani perdo business con gli arabi), potremmo fare una lunga catena. Però nessuna di queste ragioni è valida perché altrimenti non ci sarebbero 350 multinazionali straniere. I problemi di questo tipo di valutazìone, di vantaggio o svantaggio aziendale, esistono per tutti. Allora perché altre aziende sono presenti e noi non ci siamo?».

- Se questa è l'analisi e abbiamo questa finestra di opportunità cosa possiamo fare?
  «Dobbiamo ricordare dove siamo e qual è il nostro rapporto con Israele. In Europa siamo forse il paese che va più d'accordo, abbiamo relazioni diplomatiche ottime, collaborazioni di carattere commerciale sempre in espansione e il turismo è diventato una grandissima voce. Tra Italia e Israele ci sono tutti i presupposti per avere un rapporto economico molto robusto. Dobbiamo avere il coraggio di fissare obiettivi politici grandi. Spingere le nostre grandi aziende ad avere un impegno maggiore nei confronti di Israele. E quello che hanno fatto i giapponesi tre anni fa andando in Israele con 100 imprenditori al seguito. I tedeschi sono presenti con 20 aziende, noi ne abbiamo due. Le nostre multinazionali che fanno ricerca devono trovare una loro collocazione in questo mercato. Quello che va valutato è anche il recupero di innovazione e tecnologia che noi possiamo ottenere sfruttando le startup israeliane perché Enel lo dimostra in un anno e mezzo di presenza. Il vertice bilaterale tra Italia e Israele, che si terrà a fine anno, potrebbe essere il momento per fissare un obiettivo. I presupposti ci sono tutti».

(Il Tempo, 25 luglio 2019)


Lo storico israeliano cede all'autocensura per non irritare Putin. «Mi adatto agli usi»

Harari sotto accusa: parla di post-verità ma la esercita. Lo storico si è difeso dicendo che preferisce apportare delle modifiche a un saggio piuttosto che non venga pubblicato.

GERUSALEMME - I suoi libri sono stati letti, consigliati, regalati da (tra gli altri) Barack Obama, Bill Gates, Mark Zuckerberg. Sono stati tradotti in 45 lingue e hanno venduto 20 milioni di copie. Un successo globale immerso in quella globalizzazione che Yuval Noah Harari non smette di esaltare. Senza perdere di vista i mercati nazionali con le loro sensibilità, a volte Paesi dove i censori sono suscettibili.
   Così il saggista israeliano più conosciuto al mondo sembra aver creato un nuovo motto, oltre a nuove teorie: pensa globale, adatta locale. Se ne sono accorti i giornalisti del sito russo The Insider che hanno messo a confronto l'edizione stampata in caratteri cirillici con quella inglese del suo «21 lezioni per il XXI secolo» (pubblicato in Italia da Bompiani).
   La versione per la Russia è stata ripulita delle parti che potevano irritare il presidente Vladimir Putin. Spiegando le «circostanze particolari» che hanno facilitato l'«occupazione» della Crimea scrive: «Circostanze che difficilmente si possono ripetere altrove. Quando la Russia ha cercato di ripetere il suo successo in altre parti dell'Ucraina ha incontrato un'opposizione più dura, e la guerra nell'Ucraina orientale si è impantanata in uno stallo improduttivo». Per i lettori russi è stata eliminata la parte più critica dell'analisi e sparisce anche la parola «occupazione».
   Più avanti lo storico che insegna all'Università ebraica di Gerusalemme affronta il tema per lui centrale della «post -verità». Nella versione internazionale, quella da considerare l'originale, l'esempio portato è di nuovo Putin e la propaganda spacciata dal Cremlino: «Mentre proferivano queste spiegazioni alquanto pretestuose, Putin e i suoi sottoposti sapevano perfettamente che stavano mentendo». A Mosca il libro non menziona lo Zar e punta su un altro bersaglio: Donald Trump e «i 6 mila falsi proclami» del presidente americano.
   Harari ha risposto con una lettera inviata al settimanale Newsweek, che ha ripreso la polemica negli Stati Uniti. Spiega di aver sempre autorizzato e qualche volta riscritto di persona gli adattamenti dei suoi libri per rispettare le diversità religiose, culturali, politiche: «Quando temo che trattare un tema porti a bandire quel saggio, sono pronto a intervenire sul testo. Questi cambiamenti non devono però alterare le mie idee. È quello che è successo con l'esempio dell'invasione dell'Ucraina per illustrare l'uso della disinformazione: mi sono rifiutato di presentare una versione degli eventi più vicina a quella ufficiale di Putin». Aggiunge: «Voglio essere letto dal più alto numero di persone possibile perché la risposta alle sfide del XXI secolo è la cooperazione globale. Non per soldi, certi mercati non sono particolarmente lucrativi».
   Come gli fa notare Leonid Bershidsky sul Moscow Times, «fa molto post-verità spiegare a chi è sottomesso a una dittatura la post-verità usando solo esempi da altre nazioni».
   E ad Harari - che nelle interviste ripete quanto l'omosessualità gli abbia insegnato a non prendere le opinioni per garantite - ricorda il film «Rocketman»: è stato distribuito in Russia dopo aver tagliato le scene di baci tra uomini. Elton John (è la sua kolossal-biografia) si è infuriato, la casa hollywoodiana Paramount si è giustificata: «Dobbiamo rispettare le tipicità locali».
   
(Corriere della Sera, 25 luglio 2019)


«Parla globale, mentisci locale». Post-verità = menzogna globalizzata.

YUVAL NOAH HARARI
Uno a cui l'omosessualità "ha insegnato" molto e la pratica della meditazione Vipassana "ha trasformato la vita".
Yuval Noah Harari (Kiryat Ata, 24 febbraio 1976) è uno storico, saggista e professore universitario israeliano. Nel 2012 è stato membro della Giovane Accademia israeliana delle scienze, insegna all'Università Ebraica di Gerusalemme ed è noto soprattutto per aver pubblicato nel 2014 il best seller Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità.
Omosessuale, Harari vive con suo marito Itzik Yahav - al quale ha dedicato 21 lezioni per il XXI secolo - presso la moshav Mesilat Zion, vicino a Gerusalemme. È un vegano e pratica la meditazione Vipassana, che ha iniziato mentre studiava a Oxford e che, come ha affermato, ha "trasformato la mia vita". Ha dedicato Homo Deus al suo maestro nella meditazione, S. N. Goenka, scrivendo: "To my teacher, S. N. Goenka, who lovingly taught me important things".
(da Vikipedia)



Ebraico, solo ebraico, nient'altro che l'ebraico

La rinascita della lingua ebraica è uno dei più grandi miracoli che ha accompagnato la costituzione dello Stato d'Israele. L’articolo dai noi riportato pochi giorni fa su questo argomento, tratto dal libro "Dio ha scelto Israele", ha destato un certo interesse. Aggiungiamo allora, sempre dallo stesso libro, un altro brano sulla vita di Eliezer Ben Yehuda.

 
Eliezer Ben Yehuda
Una caratteristica del movimento sionista è che per ogni nuovo bisogno si è sempre presentata, al momento opportuno, la persona adatta allo scopo. Per quel che riguarda la lingua, si presentò sulla scena un ebreo di gracile costituzione, nato e cresciuto a Luzki, un piccolo paesino della lontana Lituania. Si chiamava Eliezer Perelman, ma in seguito si cercò un cognome più apertamente ebraico, e adesso è noto al mondo come Eliezer Ben Yehuda (1858-1922).
All'età di diciassette anni Eliezer fu come sopraffatto da una "rivelazione" che determinò il corso della sua vita.
    "E' come se i cieli si fossero improvvisamente aperti: una vivida luce incandescente balenò davanti ai miei occhi e una potente voce interiore risuonò nelle mie orecchie: la rinascita di Israele sul suo antico suolo".
La visione continuò ad accompagnarlo, e più tardi scrisse:
    "Più cresceva in me l'ideale nazionalistico, più capivo l'importanza per una nazione di avere una lingua comune".
Si delineò così quello che divenne lo scopo della sua vita: 'Yisrael be'artzo uvilshono', la rinascita della nazione di Israele sulla sua propria terra e con la sua propria lingua. E questo circa vent'anni prima che Theodor Herzl scrivesse il suo famoso libro "Lo Stato ebraico".
A Parigi, dove Eliezer era andato per compiere i suoi studi universitari e nello stesso tempo cercare contatti utili per il suo progetto, sembrava che tutto dovesse naufragare sul nascere a causa della sua salute. Alla fidanzata che era rimasta in Lituania scrisse:
    "Cara Deborah,
    devo dirti che ho visto il dottor Necker e che la sua diagnosi non è incoraggiante. Dice che ho la tubercolosi; che i miei polmoni sono malamente intaccati e mi ha ordinato di sospendere immediatamente i miei studi. Mi ha raccomandato il clima di Algeri.
    Il responso mi ha spaventato moltissimo perché ho l'impressione che non mi resti molto tempo da vivere. [...] Ho lavorato sodo, imparando tutto quello di cui avevo bisogno, ma a che servirà se dovrò morire prima di poterlo mettere in opera?
    Mi sento come un condannato a morte e vorrei tanto trovare il modo di dire le mie ultime parole. Perciò sto lavorando giorno e notte, senza dormire, per fissare sulla carta le ragioni dell'importanza, per il mondo ebraico, di infiammarsi all'idea del ritorno alla terra dei nostri Padri e di lavorare per la libertà alla quale abbiamo diritto.
    Ho deciso che per riavere la nostra terra e la nostra vita politica è necessario avere una lingua comune che ci unisca. Questa lingua è l'ebraico, ma non l'ebraico dei rabbini e degli studiosi. Dobbiamo avere una lingua che ci permetta di svolgere tutte le attività umane. Non sarà facile resuscitare una lingua morta!
    Il tempo è breve; l'opera da compiere così grande.
    Eliezer".
Ben Yehuda morì quarant'anni dopo, nel 1922, e il 29 novembre di quello stesso anno le Autorità Britanniche riconobbero l'ebraico come lingua ufficiale degli ebrei di Palestina. Questo perché l'ebraico era ormai la lingua effettivamente parlata dagli ebrei su quella terra e insegnata nelle loro scuole.
Il progetto giunse a compimento. Ma di chi era il progetto?
[...]
A morire di tubercolosi però non fu Ben Yehuda, ma sua moglie, quando aveva solo trentasette anni. In dieci anni di matrimonio avevano avuto cinque figli. Pochi mesi dopo la morte di Deborah morirono, uno dopo l'altro, tre dei cinque figli di Eliezer. Una maledizione sembrava essersi abbattuta su quella casa.
Qualche tempo dopo Eliezer ricevette una lettera da Pola, la sorella di Deborah, che in quel tempo studiava Scienze Naturali nella sezione femminile dell'Università di Mosca. La ragazza gli comunicava di voler cambiare il suo nome in uno più ebraico e gli chiedeva il suo consiglio. Entusiasta di questo interesse per la lingua dei padri, Eliezer scelse per lei il nome "Hemda", che significa "mia adorata". Il significato della scelta si chiarì in una seconda lettera, in cui le proponeva di diventare la signora Ben Yehuda. Pola, ormai diventata Hemda, accettò immediatamente.
Quando la voce dell'imminente matrimonio si sparse a Gerusalemme, sorsero subito i mormorii. Il direttore dell'ospedale Rothschild, dottor Schwartz, ricordò agli amici dello sposo che Ben Yehuda era tubercoloso, che Deborah aveva contratto la malattia da lui e che a Eliezer stesso rimanevano pochi anni di vita. Hemda aveva vent'anni, e non si doveva permettere che un'altra vita, specialmente così giovane, fosse rovinata. Uno stretto amico di famiglia si prese l'incarico di comunicare a Eliezer, con discrezione, le considerazioni del dottor Schwartz.
Ben Yehuda scrisse allora una lettera alla fidanzata comunicandole i dubbi del medico. Disse che non era giusto che lei sacrificasse la sua vita per lui e per i suoi bambini. Poteva quindi considerarsi libera dall'impegno preso. I suoi figli sarebbero cresciuti come gli altri orfani.
Dopo qualche settimana arrivò la risposta della giovane Hemda. Era piena di frasi affettuose e rassicuranti. A un certo punto diceva:
    "Ti prego di ringraziare il dottor Schwartz per il particolare interesse che ha per la mia salute. Digli che mi ha commossa profondamente. Digli anche che io vengo da te o per molti anni, o per un mese o anche soltanto per un giorno. Comunque sia, tu ed io vivremo insieme il tempo che ci è ancora concesso".
Dopo questo scambio di lettere la coscienza di tutti fu tranquillizzata e il matrimonio avvenne. Hemda fu per Eliezer un vero "aiuto convenevole", un sostegno eccezionale sotto tutti gli aspetti: affettivo, culturale, relazionale. Per ammissione esplicita del marito, senza di lei Ben Yehuda non avrebbe mai potuto svolgere il compito a cui si era sentito chiamato.
Una volta sposati, il problema dell'ebraico si pose naturalmente anche per Hemda, e in questo caso il risultato fu ancora più strabiliante. Quando la giovane ventenne arrivò in Israele parlava correntemente russo e francese, ma conosceva a malapena l'alfabeto ebraico. Doveva occuparsi dei bambini lasciati dalla sorella morta e con loro doveva parlare soltanto ebraico. Cominciò a studiarlo, ma nonostante l'aiuto del marito faceva una grande fatica, perché le sembrava che lo spirito semitico non sarebbe mai riuscito a vincere la slava che era in lei. Ma sapeva di non poter deflettere e andò avanti.
Dopo tre mesi riuscì a fare il primo discorsetto al marito interamente in ebraico. Dopo sei mesi si presentò a Eliezer e gli comunicò solennemente, in una lingua ebraica quasi perfetta, che da quel momento avrebbe parlato sempre ed esclusivamente ebraico, non solo con lui, ma con tutti. Si arrivò al punto che in qualche occasione ricorse ad un interprete per comunicare in ebraico con persone che parlavano francese o yiddish, anche se avrebbe potuto benissimo tenere da sola la conversazione usando direttamente una di quelle lingue.
Dopo qualche tempo la gente si meravigliava di come sapeva parlare bene l'ebraico, e si chiedeva se era proprio vero che lo avesse imparato da così poco tempo.

 La fabbrica delle parole
  Naturalmente, se in casa si doveva parlare soltanto ebraico, bisognava avere a disposizione tutte le parole necessarie. Ma molto spesso queste non c'erano. Che nomi si dovevano usare per nominare in ebraico oggetti come bambola, gelato, bicicletta, fazzoletto, frittata e moltissimi altri ancora? Ricorrere ad altre lingue era interdetto. Questo costrinse Ben Yehuda a cercare, e in molti casi a inventare, parole nuove, ma aventi una salda matrice ebraica. Diventò quindi uno studioso appassionato e instancabile della lingua dei padri e di quelle vicine. Andava a caccia di parole come un cercatore d'oro va in cerca di pepite, e quando ne aveva trovata o inventata una adatta la metteva in circolazione attraverso i familiari o attraverso il giornale su cui scriveva.
    "Il suo settimanale era il principale mezzo di presentazione. Ogni settimana parole nuove erano introdotte in articoli riguardanti l'agricoltura, la letteratura, l'educazione e le arti, e nell'angolo dei bambini.
    Immediatamente diventavano oggetto di tempestosi dibattiti. I critici facevano riferimento, con sarcasmo, a 'la fabbrica di parole' di Ben Yehuda. I suoi amici la chiamavano 'il suo laboratorio linguistico'.
    Ogni parola, appena usciva dalla 'fabbrica' veniva passata a Hemda e ai ragazzi con l'incarico di farla lavorare. Ciò significava inserirla generosamente nelle loro conversazioni e, se qualcuno avesse chiesto spiegazioni, dovevano darle.
    'L'esercito', come veniva chiamata la famiglia, era spesso il fattore decisivo perché la parola venisse accettata o no.
    C'erano in Palestina anche quelli che gareggiavano fra loro per riuscire ad avere parole nuove, appena uscite, usandole per primi, proprio come una donna a Parigi o a New York cerca di essere la prima a portare un cappello o un vestito all'ultima moda. Vi era una buona dose di snobismo nell'essere i primi ad usare le parole più nuove".
Quando, dopo alcuni anni, il suo progetto linguistico cominciò ad attecchire tra gli ebrei del paese, le persone che volevano parlare ebraico andavano a "ordinargli" le parole come da un fornitore.
    "'Come si dice contagocce?', chiedeva un medico.
    'Qual è l'espressione corrispondente a manganello del poliziotto?'
    'L'ufficio postale, Eliezer, ha mandato un uomo a chiedere se hai una parola per ...'
    Più di una notte trascorse nella ricerca delle parole richieste".
Un giorno un ricco ebreo di Londra venne a sapere del lavoro di Ben Yehuda e del suo bisogno di soldi per portarlo avanti. Essendo una persona molto sportiva, scrisse che avrebbe contribuito con un assegno sostanzioso se Ben Yehuda gli avesse telegrafato subito un nome ebraico per "sport". Eliezer però rispose che la parola non era pronta; e alla moglie spazientita che lo invitava a inventarne una lì per lì rispose che non aveva ancora fatto ricerche sufficientemente approfondite in quel settore. E il generoso sostegno finanziario sfumò.
Molti anni dopo la parola ebraica per "sport" fu trovata, e la famiglia di Ben Yehuda la chiamò sempre "la parola più cara della nostra lingua".
Ad illustrare la dedizione che le due donne di Eliezer ebbero per il loro stravagante marito può servire un episodio avvenuto con la prima moglie.
    "Da poco sposa, passeggiava con il marito nei boschi. Sedettero su un tronco per riposare: era fresco e piacevole all'ombra degli alberi, e Deborah era d'umore romantico. Ad un tratto vide uno scorpione e balzando in piedi gridò in ebraico:
    - 'Aiuto, Eliezer! Uno scorpione (akreb)!'
    Ben Yehuda non corse subito in suo aiuto, ma con tono di rimprovero, come un maestro verso uno scolaro che sbaglia, disse:
    - 'Deborah, quante volte devo dirti che scorpione in ebraico si dice "akrab" e non "akreb"!'"
(Da “Dio ha scelto Israele”)


Gli errori di valutazione di Obama sull'Iran vengono al pettine

Dopo anni i nodi degli errori di valutazione di Obama vengono al pettine e sarà difficilissimo districarli

di Maurizia De Groot Vos

Quando l'ex presidente americano, Barack Obama, annunciò di aver raggiunto un accordo con l'Iran sul suo programma nucleare (JCPOA) il mondo si divise in due.
   Da un lato c'erano gli ottimisti (non propriamente disinteressati) che plaudivano a quell'accordo, dall'altro c'era invece chi vedeva nel JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) non solo un errore sulla questione propriamente legata al nucleare iraniano, ma anche a quella legata al finanziamento del terrorismo islamico da parte degli iraniani che proprio grazie al JCPOA erano tornati in possesso di enormi quantità di denaro con il quale avrebbero potuto finanziare i numerosi proxi regionali.
   Lasciando stare per un attimo il discorso legato al programma nucleare e alle numerose lacune all'interno di quell'accordo, quello che oggi appare in tutta la sua evidenza è che Obama sottovalutò moltissimo gli "effetti secondari" dell'accordo sul nucleare iraniano.
   Uno di questi è proprio l'enorme mole di denaro iraniano liberato da quell'accordo, miliardi di dollari che hanno permesso a Teheran di finanziare con una certa facilità il potenziamento dei suoi proxy tra i quali Hezbollah in Libano, la Jihad Islamica a Gaza e i ribelli Houthi in Yemen.
   Il risultato di quell'errore di valutazione lo vediamo oggi con la nascita del cosiddetto "asse della resistenza" il quale anche grazie all'adesione di Hamas (in barba a chi diceva che essendo sunniti i terroristi di Gaza non si sarebbero mai alleati all'Iran) ha permesso a Teheran di "accerchiare" Israele e quindi di minacciare un conflitto regionale nel caso di un attacco americano all'Iran.
   Giusto per essere chiari, non credo che un conflitto tra Israele e Iran (attraverso i suoi proxy) sia evitabile, temo anzi che sia molto più vicino di quanto si pensi e che più si rimanda la soluzione del problema, più gli iraniani e i suoi proxi si rafforzeranno e si attesteranno nelle loro posizioni.
   Però è impossibile non pensare ai motivi che hanno portato a questa situazione ormai irreversibile nonostante il repentino cambio di politica impresso da Donald Trump.
   L'errore di base fatto da Obama è stato quello di sottovalutare le vere intenzioni iraniane. E non sto parlando delle ambizioni nucleari, non proprio semplici da implementare, quanto piuttosto di quelle relative agli equilibri regionali.
   Con l'enorme flusso di denaro tornato nelle casse di Teheran a seguito del JCPOA l'Iran ha costruito (o potenziato) una vera e propria potenza militare "alternativa" al suo esercito, da usare a suo piacimento. Ha implementato un programma missilistico che oggi gli ha permesso di mettere sotto tiro ogni metro quadrato di Israele (o nel caso degli Houthi buona parte dell'Arabia Saudita).
   Parliamo di una forza militare che ha il doppio scopo di fungere da "forza offensiva" e da "forza di deterrenza".
   Barack Obama e gli altri fautori dell'accordo sul nucleare iraniano hanno probabilmente ritenuto che tutto questo fosse un "rischio accettabile" pur di rallentare il programma nucleare di Teheran, ma i fatti dimostrano che proprio grazie a questa sottovalutazione del rischio oggi l'Iran risulti quasi inattaccabile senza scatenare una serie di gravi conseguenze in tutta la regione e anche nel resto del mondo.
   Paradossalmente oggi l'Iran è molto più pericoloso di quanto non lo fosse prima del JCPOA, ma non per il suo programma nucleare quanto piuttosto perché ha creato una situazione tale che gli permette di limitare al massimo il rischio di essere attaccato senza che vi siano conseguenze globali.

(Rights Reporters, 25 luglio 2019)


Combattente ISIS arabo-israeliano elogia Israele, sostenendo che Assad è peggio

Durante l'intervista, il giornalista della BBC Firas Kilani chiede al terrorista perché ha scelto di combattere con l'ISIS in Siria come palestinese.
Il terrorista risponde che Israele non commette i crimini del governo siriano, sostenendo che quest'ultimo violenta e umilia le donne.
Quindi elogia Israele come uno stato democratico che ha trattato gli arabi da pari a pari, esprimendo ulteriormente il suo desiderio di tornare lì.

(l'AntiDiplomatico, 25 luglio 2019)


E Hamas propone a Israele uno scambio di prigionieri

L'ala militare di Hamas è tornata a proporre ieri ad Israele uno scambio di prigionieri, ma ha avvertito che questa potrebbe anche essere l'ultima occasione per un accordo. "C'è una rara opportunità per uno scambio di prigionieri" ha affermato Abu Obeida, il portavoce delle Brigate Ezzedin al-Kassam, braccio armato di Hamas.

Secondo i media, la milizia detiene i resti di due militari caduti in combattimento nel 2014 fa e due civili entrati spontaneamente nella Striscia.
L'intervento di Abu Obeida è giunto poche ore dopo che il funzionario di Israele incaricato delle trattative, Yaron Blum, ha dato una rara intervista alla radio pubblica.
Blum ha confermato che Israele dialoga indirettamente con Hamas, mediante Paesi terzi fra cui l'Egitto. Ha anche condizionato una piena normalizzazione con la striscia di Gaza al recupero degli israeliani (vivi o morti) che sono nelle mani di Hamas. Israele, ha ribadito, si rifiuta però di liberare "centinaia di terroristi", come avvenne nel 2011 per il rilascio del caporale Ghilad Shalit.

(ANSAmed, 24 luglio 2019)


La "morte lenta" dei palestinesi in Libano

In qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.

di Khaled Abu Toameh*

 
Burj Barajneh, un campo profughi palestinese situato in Libano e amministrato dall'UNRWA
Khaled Abu Toameh
più di centomila palestinesi cisgiordani sono autorizzati a lavorare in Israele, secondo fonti palestinesi e israeliane. Inoltre, le fonti riferiscono che migliaia di palestinesi entrano ogni giorno in Israele senza permessi.
   Il 15 luglio, il numero dei lavoratori palestinesi che sono entrati in Israele, secondo il ministero della Difesa israeliano, ammontava a più di 80 mila.
   La scorsa settimana, nell'ambito dei tentativi di raggiungere un accordo di tregua tra Israele e Hamas, secondo quanto riportato, Israele avrebbe deciso di incrementare il numero dei commercianti e degli imprenditori palestinesi della Striscia di Gaza autorizzati a entrare in Israele, portandolo da 3.500 a 5.000.
   I media riferiscono che l'ultimo gesto israeliano è stato il risultato di tentativi compiuti dall'Egitto e dalle Nazioni Unite di impedire un confronto militare a tutto campo tra Israele e Hamas.
   Mentre Israele aumenta costantemente il numero dei permessi di lavoro per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il Libano, al contrario, ha avviato un giro di vite senza precedenti sui lavoratori stranieri irregolari, compresi i palestinesi, innescando così un'ondata di proteste tra i palestinesi residenti lì.
   Le autorità libanesi affermano che la repressione nei confronti dei lavoratori stranieri illegali è rivolta principalmente contro i siriani fuggiti in Libano dopo l'inizio della guerra civile in Siria, nel 2011. Nell'ambito di questa campagna contro i lavoratori irregolari, molte imprese sono state chiuse e molti lavoratori palestinesi e siriani sono stati licenziati.
   Il ministro libanese del Lavoro Kamil Abu Sulieman ha smentito le accuse secondo cui la campagna sarebbe stata organizzata come una "cospirazione" contro i 450 mila palestinesi presenti nel suo paese. "Il piano per contrastare il lavoro nero è stato realizzato diversi mesi fa e non riguarda i palestinesi", ha dichiarato Abu Sulieman. "In Libano, esiste una legge sul lavoro, e noi dobbiamo decidere di applicarla. Abbiamo dato un preavviso di sei mesi a tutti i lavoratori e alle imprese irregolari per chiedere i permessi necessari".
   Il ministro libanese ha ammesso, tuttavia, che a seguito della campagna contro i lavoratori illegali, alcune attività palestinesi sono state chiuse.
   I palestinesi hanno respinto le affermazioni del ministro. Hanno invece avviato una serie di proteste in diverse parti del Libano contro il giro di vite nei confronti dei lavoratori stranieri irregolari. I manifestanti hanno bruciato pneumatici all'ingresso di un certo numero di campi profughi, e alcuni funzionari e fazioni palestinesi, stigmatizzando la campagna, hanno chiesto alle autorità libanesi di sospendere le misure prese contro gli imprenditori e i lavoratori palestinesi.
   "I provvedimenti libanesi danneggiano i palestinesi", ha dichiarato Ali Faisal, membro del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDLP). Faisal ha esortato le autorità libanesi a revocare le loro misure contro i palestinesi e ha rilevato che il contributo palestinese alla crescita economica è stimato all'11 per cento. Il funzionario del FDLP ha altresì osservato che, "con vari pretesti", ai palestinesi che vivono in Libano è stato legalmente precluso di svolgere diverse professioni.
   La legge libanese limita le capacità dei palestinesi di svolgere diverse professioni, tra cui quelle di medico, avvocato e ingegnere, e impedisce loro di ricevere prestazioni sociali. Nel 2001, il parlamento libanese ha approvato inoltre una legge che vieta ai palestinesi di acquisire giuridicamente proprietà immobiliari.
   Secondo quanto riportato nei media arabi, le proteste palestinesi potrebbero segnare l'inizio di una "Intifada" [sollevazione] palestinese contro il Libano. I media affermano che ad ogni modo i palestinesi hanno difficoltà a ottenere permessi di lavoro dalle autorità libanesi.
   "Il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è molto alto", ha detto l'imprenditore palestinese Ziad Aref. "Abbiamo il diritto di adoperarci per risolvere questo problema. La nuova campagna delle autorità libanesi lascerà senza lavoro migliaia di palestinesi e aggraverà la crisi finanziaria".
   Secondo Aref, il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è stimato al 56 per cento. Aref ha inoltre ammonito i leader palestinesi per non essersi occupati delle difficoltà dei lavoratori e degli imprenditori palestinesi presenti in Libano.
   I leader palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Libano dicono di essere quotidianamente in contatto con le autorità palestinesi, nel tentativo di porre fine alla repressione perpetrata contro i lavoratori palestinesi.
   Azzam al-Ahmed, un alto funzionario dell'OLP che è responsabile del "portfolio palestinese" in Libano, ha espresso profonda preoccupazione per la campagna libanese contro i lavoratori stranieri irregolari. Ha asserito di aver contattato diversi funzionari libanesi per ammonirli di non ledere alcun palestinese.
   Hamas, da parte sua, ha accusato le autorità libanesi di esercitare una politica di "morte lenta" contro i palestinesi in Libano. Hamas ha detto in una dichiarazione che la campagna libanese contro i lavoratori e le imprese irregolari sembra far parte di una "cospirazione per liquidare i diritti dei profughi palestinesi. Non accetteremo alcuna minaccia alla vita e al futuro dei profughi palestinesi in Libano e contrasteremo la politica della morte lenta".
   Le misure prese dalle autorità nei confronti dei palestinesi evidenziano ancora una volta le discriminazioni subite dai palestinesi in questo paese arabo. "I palestinesi in Libano", secondo un report del 2017 dell'Associated Press, "sono vittime di discriminazioni in quasi ogni ambito della vita quotidiana. (...) Molti vivono in insediamenti riconosciuti ufficialmente come campi profughi, ma meglio descritti come veri e propri ghetti circondati da posti di blocco e, in alcuni casi, cinti da muri e da filo spinato".
   "La discriminazione e l'emarginazione subita [dai palestinesi] sono aggravate dalle restrizioni cui devono far fronte nel mercato del lavoro e che contribuiscono a creare livelli elevati di disoccupazione, bassi salari e pessime condizioni di lavoro", secondo un rapporto delle Nazioni Unite. "Fino al 2005, ai palestinesi erano state precluse più di 70 professioni - e ancora oggi ne sono loro vietate una ventina. La povertà risultante è esacerbata dalle restrizioni imposte al loro accesso all'istruzione pubblica e ai servizi sociali".
   Eppure, in qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.
   È ora che i gruppi pro-palestinesi presenti nei campus universitari di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Australia organizzino una "settimana dell'apartheid araba" anziché accusare Israele di "discriminare" i palestinesi. È anche tempo che i media internazionali prendano atto che le misure antipalestinesi sono state adottate dal Libano in un momento in cui Israele incrementa il numero dei palestinesi autorizzati a entrare in Israele per lavoro.
   Chi risponderà alle seguenti domande: Perché le Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali restano in silenzio quando i palestinesi vengono cacciati dal lavoro in un paese arabo, mentre più di centomila palestinesi entrano quotidianamente in Israele per lavoro? Assisteremo a una riunione di emergenza della Lega Araba o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per denunciare l'apartheid libanese e il razzismo? Oppure sono troppo impegnati a redigere risoluzioni di condanna nei confronti di Israele, che ha aperto le sue porte ai lavoratori palestinesi?

* Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 24 luglio 2019 - trad. Angelita La Spada)



Festival della Cucina Kosher in Calabria: la lectio del Rabbino Maggiore Piperno

Una vera e propria lectio sul simbolismo delle pietanze della tradizione ebraica e delle festività.

Rav Umberto Piperno
E' quella che ha tenuto nella sala capitolare del Chiostro di San Domenico, il Rabbino Maggiore Umberto Piperno, referente della Comunità Ebraica di Merano e Rabbino della Sinagoga Bet Shalom di Roma, intervenuto anche alla giornata conclusiva del Festival della Cucina Kosher in Calabria. La manifestazione è stata promossa dall'Associazione di promozione culturale "Kosmoikìa", di cui è Presidente Maria Francesca Amantea, in collaborazione con la Maccaroni chef Academy, e con il patrocinio della Regione Calabria, dell'Assessorato alla crescita economica urbana e attività economiche e produttive di Palazzo dei Bruzi, guidato da Loredana Pastore, dell'Accademia Internazionale Dieta Mediterranea di Nicotera e dell'Accademia Internazionale del Cedro.
  Prima del suo intervento, il Rabbino Maggiore Umberto Piperno, accompagnato dalla signora Amalia Kramer, ha passato in rassegna le materie prime e tutti gli utensili da cucina impiegati nella preparazione dei piatti della tradizione ebraica, a cura degli chef della "Maccaroni Chef Academy" di Corrado Rossi, coadiuvati dai ragazzi dell'Associazione "Gli altri siamo noi". Un controllo di qualità ritenuto fondamentale, considerata la ritualità seguita nella realizzazione dei piatti, sotto il profilo squisitamente alimentare, finalizzato ad esaltare i valori nutrizionali e i benefici di un'alimentazione c.d. "pura" che nella due giorni del Festival è stata messa a confronto con la dieta mediterranea.

 Focus sulla cucina Kosher
  Obiettivo del Festival era, infatti, quello di aprire un focus sulle tradizioni ebraiche in materia gastronomica e su principi, tecniche e modalità di esecuzione dei piatti della cucina Kosher, senza disdegnare accostamenti e similitudini con la cucina calabrese e locale, nella quale, pur non abbondando regole religiose di stretta osservanza come quella kosher, sono comunque presenti, soprattutto nella tavola imbandita delle festività, rimandi al simbolismo.

 Pastore: «Felici di aver ospitato il primo Festival»
  "Siamo molto soddisfatti di aver ospitato a Cosenza il primo Festival della cucina Kosher in Calabria - ha commentato l'Assessore alle attività economiche e produttive Loredana Pastore. Un'iniziativa - ha aggiunto - che ci ha consentito di entrare in connessione con la cultura e con i rituali a tavola del popolo ebraico, sulla scorta delle tracce della presenza di una comunità radicata storicamente in diverse aree della Calabria ed anche a Cosenza dove, nel centro storico, era anticamente presente un quartiere ebraico, il Cafarone. Sono certa che quella di quest'anno è stata la prima edizione di una serie di lunghe e importanti forme di collaborazione che il Comune di Cosenza continuerà a sviluppare, come è già accaduto in altre occasioni, con la comunità ebraica".
  Di particolare spessore la lectio del Rabbino Maggiore Piperno che ha abbracciato diversi aspetti del simbolismo che pervade la cultura del cibo nella tavola kosher: dalla santificazione del vino, "una necessità - ha detto - di santificare l'operato dell'uomo attraverso un alimento che ha bisogno di tempo", all'importanza dello shabat, del sabato, giorno della settimana nel quale "la donna ebrea riposa e a tavola compaiono i cibi cotti prima e conservati sotto il camino". Il Rabbino Maggiore Piperno, con la sua grande capacità affabulatoria, ha gettato anche uno sguardo sull'oggi, esortando a "staccare il telefonino per 25 ore e a riprendersi il proprio tempo, decidendo di ridiventarne padroni, mostrando la capacità di ritrovare se stessi, assaporando la libertà da una vera e propria forma di schiavitù".

 Il pesce tra gli elementi della cucina ebraica
  Tra gli elementi fondamentali della cucina ebraica il Rabbino Piperno ha indicato anche il pesce: quelli di fiume che si rifanno alla corrente che risale ad Aschenez, pronipote di Noè, presente nella zona grecanica della Calabria, e quelli di mare che vengono impiegati nella cucina giudaico-romana, come gli aliciotti con l'indivia, la cui caratteristica è che possono essere consumati anche a distanza di ore dalla loro preparazione. E le citazioni storiche si sprecano, fino a risalire al 1650 quando gli ebrei del ghetto di Venezia tenevano un'oca sul terrazzo pronta per la macellazione e dalla quale si ricavavano oltre che il prosciutto anche i salumi. Con il Doge compiacente e che non si opponeva all'allevamento delle oche da parte degli ebrei perché costava poco. Nel racconto del Rabbino Maggiore ha trovato spazio anche il parallelismo tra la tradizione della cucina kosher e quella calabrese, soprattutto con riferimento ai dolci. Un chiarissimo indizio di presenza ebraica è rintracciabile nei dolci al miele di Soriano Calabro, i cosìddetti mostaccioli, che fanno bella mostra di sé anche nella millenaria Fiera di San Giuseppe di Cosenza. Dolci che richiamerebbero la durezza del pericolo di uno sterminio e la dolcezza del mettersi in salvo. E chi ci avrebbe mai pensato se questa riflessione non l'avesse stimolata il Festival della cucina Kosher?

(Cosenzachannel, 24 luglio 2019)


Venezia e Israele insieme per la cyber sicurezza delle aziende

Nella sede di Confindustria di Venezia, alla presenza dell'ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs, è stato siglato un accordo tra le aziende venete per garantire la sicurezza digitale.

In uno scenario sociale, economico e tecnologico sensibilmente mutato, la prevenzione del rischio informatico è strategica per le imprese. Il presidente di Confindustria Venezia Rovigo Vincenzo Marinese ha incontrato oggi nella sede dell'associazione a Marghera l'ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs. Al centro della visita, le nuove frontiere della cyber sicurezza, le soluzioni innovative proposte dalle tecnologie israeliane e le opportunità di collaborazione con le aziende venete nell'ambito della trasformazione digitale.

 Sicurezza digitale: numero di attacchi in crescita nel 2018
  Secondo il Rapporto 2019 sulla Sicurezza ICT in Italia del Clusit (Associazione Italiana per la Sicurezza Informatica), il trend individuato dal 2011 a oggi non lascia dubbi: nel 2018 gli attacchi con impatto significativo sono aumentati, a livello globale, del 38%. Più di quattro al giorno, considerando solo quelli gravi e conosciuti, causati principalmente dal cybercrime e finalizzati, per il 79%, ad ottenere denaro o sottrarre dati per monetizzare le informazioni. Preoccupante anche l'aumento dei casi di spionaggio cyber (+57%) a testimonianza di un crescente interesse dei criminali per queste attività. Solo nel 2018 risultano raccolti e analizzati nel Rapporto 1.552 attacchi gravi (+ 37,7% rispetto all'anno precedente), con una media di 129 attacchi gravi al mese (rispetto ad una media di 94 al mese nel 2017 e di 88 su 8 anni).

(Venezia Today, 24 luglio 2019)


Siria, raid di Israele nel sud del Paese

Gli obiettivi nella zona dove secondo gli 007 occidentali si trovano le milizie sostenute dall'Iran.

La tv di Stato siriana Ikhbariyah dà notizia di un raid di Israele nel sud del Paese, nella zona dove secondo gli 007 occidentali si trovano le milizie sostenute dall'Iran. Non sono stati divulgati dettagli sull'attacco ma solo che ha riguardato Tel Haraa.
Nei mesi scorsi sono stati centinaia gli attacchi contro installazioni e convogli iraniani in Siria.
Obiettivo dei raid israeliani, "Forza Qods", l'unità delle Guardie della Rivoluzione iraniane che da anni è stata inviata in Siria per combattere al fianco del governo di Bashar Assad.
Per mesi gli israeliani hanno colpito in segreto i convogli dei pasdaran iraniani che trasportavano armi o missili, destinati magari agli Hezbollah in Libano, oltre che a difendere le postazioni iraniane e siriane nella Siria stessa.
Ma da qualche mese Israele ha spinto sempre più in avanti la sua sfida per convincere gli iraniani che la loro presenza militare in Siria è inaccettabile per lo stato ebraico.

(la Repubblica, 24 luglio 2019)



Cosa sta succedendo davvero tra Iran e Stati Uniti?

Uno scontro interno al paese mediorientale ha aumentato la debolezza del regime di Teheran. Ora è difficile prevedere quanto possa durare il fragile equilibrio del Golfo Persico

di Vittorio Da Rold

 
Il regime degli ayatollah a Teheran, che ha appena festeggiato i 40 anni al potere dopo la cacciata dello scià filo-occidentale Reza Palhavi, è in grave difficoltà stretto nella morsa delle sanzioni americane che impediscono la vendita del petrolio, la maggior fonte di incassi per lo stato.
   Che il regime iraniano sia sempre più disperato lo prova la notizia di colloqui segreti in corso in Norvegia tra rappresentati del governo iraniano e quattro partiti curdi; trattative così serie e articolate al punto che i curdi hanno chiesto che a capo della delegazione iraniana fosse designato l'esperto diplomatico Mohammad Kazem Sajjadpour, ex ambasciatore del paese alle Nazioni Unite.
   La mossa dovrebbe servire per evitare, in caso di conflitto con gli Usa, di dover affrontare una quinta colonna interna di oppositori, come avvenne nell'Iraq di Saddam Hussein. Immediatamente sui social network si sono scatenate, da parte curda, aspre critiche a questi incontri segreti chiedendo, invece, il riconoscimento della fine delle politiche di repressione contro il Kurdistan iracheno.
   Mohammad Khaki, un giornalista curdo basato a Londra, si è dichiarato invece più ottimista. Egli ritiene che le discussioni in corso in Norvegia segnalino un'ammissione di fallimento: "La Repubblica islamica iraniana si trova in una posizione molto fragile a causa dell'escalation del blocco economico, dell'accresciuto malcontento e delle crescenti proteste e scioperi da parte di persone di tutte le classi sociali e minoranze nazionali e religiose".
   Non solo, ci sono altri segnali di cedimento del regime. Anche l'ex presidente iraniano, Mohamed Ahmadinejad, un falco della politica estera senza compromessi, ha chiesto di aprire trattative dirette tra Teheran e Washington in una intervista concessa al New York Times - un fatto di per sé già sorprendente.

 Il quadro generale
  La notizia dei colloqui segreti tra Teheran e curdi e la richiesta di Ahmadinejad di aprire trattative dirette tra Teheran e Washington si inserisce in un quadro complesso di scontro tra Usa e Iran su petroliere in transito nel Golfo persico, droni Usa (forse) abbattuti dai Pasdaran e da ultimo, in queste ore, arresti di presunte spie della Cia a Teheran.
   Il presidente Donald Trump vuole usare l'Iran in chiave di politica interna in vista della corsa alla Casa Bianca nel novembre del 2020. e dimostrare di aver fatto"la cosa giusta a stracciare un anno fa il trattato anti-nucleare firmato con il paese mediorientale nel 2015, alla fine dell'era Obama.
   Trump vuole prendere le distanze politiche dal presidente che l'aveva sottoscritto e vuole attrarre a sé la Gran Bretagna di Boris Johnson con cui ha un feeling particolare, allontanando la possibilità che l'Europa possa sfidare le sanzioni economiche americane nell'acquisto del petrolio. Finora nessuna società europea ha osato sfidare Washington, perché rischierebbe di perdere l'accesso al maggiore mercato finanziario del mondo, quello americano.
   Per questo il presidente americano usa l'arma delle sanzioni contro Teheran - mezzi che stanno letteralmente strangolando l'economia iraniana come testimoniano le stime del Fondo monetario internazionale, che prevedono un calo del 3,9% nel 2018 e del 6% nel 2019 con la moneta locale, il rial, che ha perso il 60% del suo valore, l'inflazione che corre al 37% annuo mentre i prezzi di generi alimentari e medicine sono saliti rispettivamente del 40% e 60%. Una situazione esplosiva per qualsiasi governo.
   Washington inoltre è preoccupata non solo del possibile armamento nucleare di Teheran, ma anche dei progressi nel campo dei droni dove l'Iran sta diventando una superpotenza. Teheran costruisce droni e li vende ai suoi alleati nella regione usandoli contro i suoi nemici in Iraq, Israele e Arabia Saudita.
   Un pericolo sempre maggiore. Non a caso l'Arabia Saudita ha accettato di accogliere 500 militari Usa sul proprio territorio a Riad in funzione difensiva. Washington vuole applicare la massima pressione sul regime per costringerlo alle trattative in posizione di debolezza.
   A Teheran i pasdaran, che erano stati emarginati con l'accordo del 2015, ora cercano ad ogni costo provocazioni pericolose con l'occidente, sia sequestrando la petroliera britannica nel Golfo come ritorsione del sequestro di una petroliera iraniana a Gibilterra sospettata di contrabbando con la Siria, sia abbattendo il drone americano sul Golfo Persico, sia infine dando notizia, forse vecchia di mesi, della scoperta di una presunta rete di spie della Cia in Iran.
   La fazione moderata, quella del presidente Rohani, per ora ha dalla sua parte la Guida suprema Khamenei, ma nessuno osa far previsioni su quanto possa durare questo fragile equilibrio nel Golfo Persico dove transita il 30% del greggio mondiale. Di sicuro c'è solo che la crisi economica sta erodendo la stabilità del regime iraniano, sempre più sotto assedio.

(Wired.it, 24 luglio 2019)


Le infermiere israeliane: la nostra situazione è insopportabile

Le infermiere di Israele sono in sciopero per le cattive condizioni di lavoro e perché il governo ha in programma di ridurre i loro salari fino al 20%.

di| David Lazarus

 
"Le nostre condizioni di lavoro sono impossibili e ora vogliono ridurre i nostri stipendi del 20 percento? Abbiamo lasciato l'ospedale", ha detto a "Israel heute" l'infermiera Madlena Ashtrum, che lavora all'ospedale Shmuel Harofe.
   In tutto il paese, migliaia di infermiere hanno lasciato ospedali e cliniche per protestare contro le cattive condizioni di lavoro e la decisione del vice ministro della sanità Ya'akov Litzman, del Partito della Torah Unito, di ridurre drasticamente i salari delle infermiere.
   "Molte di noi lavorano già 12 ore al giorno e guadagnano a malapena lo stipendio minimo", ha detto Ashtrum a "Israel Heute". Ashtrum afferma che il suo stipendio base è di 5.000 shekel al mese ($ 1.300) e ha bisogno di fare turni durante le vacanze e a Shabbat per sbarcare il lunario. La decisione del Ministero della Sanità di ridurre il loro salario del 20 percento le renderà impossibile di continuare il suo lavoro, anche se ha lavorato come infermiera per più di 25 anni.
   "Siamo esauste" si lamenta Ashtrum. "Lavoriamo in vacanza e a Shabbat in condizioni terribili solo per guadagnare il nostro salario minimo", ha detto. "Il ministro Litzman deve venire a vedere i pazienti che dormono nei corridoi, le infermiere che fanno gli straordinari a causa della mancanza di personale e di un ambiente di lavoro sporco perché non ci sono abbastanza detergenti in servizio", ha detto.
   "Le cattive condizioni di lavoro e l'alto numero di pazienti significa che i pazienti non sono adeguatamente curati", ha detto Ashtrum. "Non possiamo continuare così", ha detto. In una dichiarazione, le infermiere hanno scritto: "Il Ministero della sanità e delle finanze è direttamente responsabile delle insopportabili file di attesa nell'assistenza sanitaria. Queste file pesano gravemente sulle infermiere e compromettono la loro capacità di trattare i pazienti in modo sicuro e appropriato ".
   Tuttavia, i servizi di emergenza, comprese le operazioni, e altri servizi importanti, continueranno ad essere disponibili durante lo sciopero. La fine dello sciopero però non sembra essere in vista poiché il Ministero della Salute intende portare in giudizio le infermiere. Una dichiarazione del ministero afferma: "I funzionari statali si sono incontrati oggi con la National Nurses Association per prevenire danni arrecati ai pazienti a seguito dello sciopero previsto. Sfortunatamente, i colloqui non hanno avuto luogo e lo Stato domani si rivolgerà al tribunale del lavoro".
   Stando alle dichiarazioni dell'infermiera Ashtrum e considerata la gravità dello sciopero, che ha riunito infermiere provenienti da ospedali e cliniche in tutto il paese, sembra chiaro che le infermiere non torneranno al lavoro fino a quando il Ministero della Salute non abrogherà i tagli salariali previsti e le condizioni di lavoro delle infermiere non miglioreranno.

(“Israel heute”, 23 luglio 2019 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Netanyahu: la regione cederebbe al radicalismo islamico senza la presenza di Israele

GERUSALEMME - Senza Israele l'intero Medio Oriente cederebbe alle forze del radicalismo islamico - sia sciita, guidato dall'Iran, sia sunnita, capeggiato dallo Stato islamico. Lo ha detto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, durante l'incontro con il segretario all'Energia degli Stati Uniti, Rick Perry, secondo un comunicato stampa dell'esecutivo di Gerusalemme. Nella regione del Medio Oriente, "Israele è un potere insostituibile" perché se non ci fosse stato lo Stato ebraico "la regione sarebbe crollata", ha aggiunto Netanyahu. Nel suo intervento, Netanyahu ha citato l'incontro con una delegazione di giornalisti arabi. "Ad eccezione di uno, nessuno dei paesi da cui provengono ha relazioni formali con noi", ha affermato, "Molti nei paesi arabi vogliono la pace con Israele, la normalizzazione con Israele, vogliono venire in Israele".

(Agenzia Nova, 23 luglio 2019)


Ahmadinejad vuole incontrare Trump. Una pessima idea

di Tiziana Ciavardini

In questo momento tra accuse e smentite, tra petroliere sequestrate e rilasciate, droni abbattuti e tornati alla base, in cui si cerca attraverso la diplomazia di trovare un accordo tra Teheran e gli Stati Uniti ecco arrivare l'ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad pronto a parlare direttamente con il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
  Devo dire che questa notizia mi ha fatto sorridere perché chi ha conosciuto Ahmadinejad sa che è una persona sulla quale non si può fare affidamento. Un personaggio ambiguo, buffo, interessato più all'escatologia che non alla politica. L'ho incontrato anni fa nel suo ufficio a Valenjak, a Nord di Teheran, abbiamo parlato, anche se in realtà mi aveva promesso che mi avrebbe detto qualcosa in più sul suo pensiero riguardo all'Olocausto, e mi disse che la stampa aveva frainteso il suo pensiero e voleva chiarire. Ahmadinejad in passato aveva più volte definito l'Olocausto una leggenda, una menzogna e aveva più volte dichiarato di cancellare Israele dalle carte geografiche. Secondo l'ex presidente lo sterminio degli ebrei sarebbe un'invenzione creata dal regime più criminale della storia, il regime sionista, con lo scopo di suscitare in tutto il mondo compassione per il popolo ebraico.
  In quell'occasione mi disse che non poteva rilasciare interviste, iniziò però a parlare e io iniziai a scrivere sul mio taccuino, subito dopo mi disse che non si sentiva pronto e avrebbe dovuto trovare le parole giuste per spiegare bene il suo punto di vista sul negazionismo. Gli dissi che ero a sua disposizione e che in qualunque momento avesse voluto avrebbe potuto chiamarmi per intervistarlo. Non mi ha mai più chiamata, ma la cosa più triste è che non ha mai smentito le sue gravissime affermazioni.
  Ora questa sua voglia di 'negoziare' con gli Stati Uniti, non sorprende davvero perché siamo abituati ormai alle sue manie di protagonismo. In realtà a lui dell'interesse del Paese iraniano, dell'economia, dei poveri, delle fazioni interne e dei problemi internazionali interessa poco, voleva semplicemente far sapere al resto del mondo che 'lui' ancora esiste. Ogni tanto esce allo scoperto. Dopo i due mandati dal 2005 al 2013 come presidente, che sono stati a mio avviso gli anni più bui che la Repubblica Islamica Iraniana abbia vissuto dalla Rivoluzione a oggi, Ahmadinejad ancora pensa di avere qualche potere in Iran, quando in realtà quel potere lo ha disintegrato negli anni di presidenza.
  Nel 2017 gli era stato consigliato dalla Guida Suprema di non candidarsi alle elezioni presidenziali e se in un primo momento aveva deciso di non farlo dichiarando "non ho intenzione di correre per la presidenza", successivamente dopo essersi rimangiato le sue stesse parole nel giorno della registrazione dei candidati al Ministero degli Interni venne dato l'annuncio della sua candidatura. Le elezioni vennero poi vinte dall'attuale presidente Hassan Rohuani e di Ahmadinejad non si seppe più nulla. Ogni tanto lo ritroviamo su Twitter molto attivo nel postare commenti contro l'attuale governo iraniano, puntualmente però l'ex Presidente viene preso di mira dagli iraniani stessi che gli ricordano gli anni di terrore del suo mandato. Ora sorge un dubbio legato proprio alle prossime elezioni presidenziali iraniane del 2021. Potrebbe darsi che con questo 'falso' avvicinamento agli Stati Uniti voglia far credere alla popolazione di avere a cuore il destino di 80 milioni di abitanti sperando di ottenere consensi in vista di una sua possibile candidatura? È plausibile che dopo la politica fallimentare dei due mandati del moderato Hassan Rohuani il prossimo presidente iraniano possa essere un conservatore? Perché non pensare proprio a lui? La sua politica che poi gli conferì la vittoria come presidente era basata sul populismo. Ahmadinejad era quell'uomo semplice, religioso ma con abiti comuni, che andava nei villaggi sperduti iraniani a chiedere voti promettendo sussidi e condizioni economiche migliori per tutta la popolazione. Ha vinto il suo primo mandato perché ha ottenuto i voti del popolo più debole e perché l'Iran voleva nuovamente dare la sua connotazione dominatrice dopo gli anni di aperture del Presidente Khatami.
  Il secondo mandato non sappiamo come lo abbia vinto ma di certo non troppo onestamente viste le proteste di massa confluite poi nell'Onda Verde, il movimento di dissenso popolare che venne represso con la forza la violenza e la morte. Mahmoud Ahmadinejad a mio avviso non è degno di sedersi ad alcun tavolo, né in Iran né tanto meno come portavoce del popolo iraniano. Un uomo che nega l'Olocausto e mette in dubbio la Shoah non ha alcun credibilità in alcun luogo del mondo. Fu proprio lui a indire una conferenza nel 2006 a Teheran sul Negazionismo, conferenza si dice, a confronto tra studiosi ma è sufficiente leggere le relazioni presentate a quel seminario per rendersi conto che non vi era un contraddittorio. Per comprendere a fondo la sua figura e per confermare i tratti della follia di quest'uomo è sempre utile ricordare che Ahmadinejad è convinto di essere il 'prescelto' per compiere una missione assegnatagli da Dio. Il suo compito infatti è quello di preparare il ritorno del Mahdi, il Dodicesimo Imam, scomparso misteriosamente nell'874 e che, secondo la dottrina sciita, è solo nascosto e non morto.

(il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2019)



L'ammissione di Jeremy Corbyn: "Abbiamo un problema di antisemitismo"

Finalmente anche Jeremy Corbyn, tra i principali artefici di questa deriva, sembra essersene accorto: nel Labour inglese c'è un problema accentuato di antisemitismo. "Le prove sono sotto gli occhi di tutti. I peggiori casi di antisemitismo nel nostro partito hanno incluso negazione della Shoah, stereotipizzazione di figure ebraiche legate al mondo della finanza, teorie della cospirazione che incolpano Israele per l'11 settembre o la famiglia Rothschild per ogni guerra. Si è arrivati persino a sostenere che Hitler è stato frainteso" ha scritto il leader laburista in un messaggio inviato ai membri del partito.
   Messaggio che è coinciso con il lancio di un mini sito web che ha come obiettivo proprio una corretta informazione sul mondo ebraico e la lotta a un pregiudizio evidentemente più diffuso del previsto. "No Place for anti-Semitism", il nome di questo spazio virtuale e della campagna. Vi si sostiene: "L'antisemitismo non ha spazio nel nostro partito. L'odio nei confronti del popolo ebraico non ha spazio nella società inglese". Il Labour, si annuncia, produrrà materiale didattico apposito. E lo farà nella consapevolezza "che l'odio antiebraico sta risollevando la testa in molte parti del mondo, e il Labour non ne è immune".
   Propositi sicuramente encomiabili, ma che appaiono a molti tardivi. Non si contano infatti ormai le defezioni interne al partito per via delle posizioni estreme assunte in questi anni da Corbyn e da altri esponenti della leadership laburista. "Il Labour divorato dai veleni dell'antisemitismo": questo il titolo del nostro approfondimento di venerdì 12 luglio, in cui si ripercorrevano le tappe salienti di questa deriva e le responsabilità di chi sta guidando lo storico partito della sinistra inglese in questa fase di particolare criticità e complessità per il Paese ("Brexit entro ottobre" ha oggi promesso Boris Johnson, nuovo leader dei conservatori, che domani si insedierà a Downing Street).
   A spiccare la presa di posizione del rabbino capo d'Inghilterra, Ephraim Mirvis, che in un documentario della BBC di recente messa in onda ha affermato: "Per più di tre anni, la comunità ebraica e gli attivisti antirazzisti di ogni provenienza hanno implorato la leadership del Partito laburista di adottare un approccio di tolleranza zero nei confronti dell'antisemitismo. Durante questo periodo si è detto molto, ma si è fatto poco". Sulla stessa lunghezza d'onda il The Jewish Chronicle, organo informativo degli ebrei inglesi, che recentemente ha scritto: "Un partito seriamente intenzionato a combattere l'antisemitismo, sarebbe lieto di ricevere aiuto. Un partito che dovesse scegliere di rimanere antisemita lascerebbe gli antisemiti al loro posto e attaccherebbe chi cerca di affrontarli. In altre parole, si comporterebbe esattamente come si è comportato il partito laburista".
   Adesso finalmente qualcosa sembra essersi mosso. Ma probabilmente, almeno per questo Labour a trazione Corbyn, ricucire la ferita sarà impossibile.

(moked, 23 luglio 2019)


Energia: Israele e Stati Uniti rafforzeranno la loro cooperazione strategica

GERUSALEMME - Israele e Stati Uniti espanderanno la loro collaborazione strategica nei progetti energetici. E' quanto emerso al termine dell'incontro fra il segretario di Stato Usa all'Energia, Rick Perry, e il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, secondo una nota diffusa dall'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. "Per decenni, i legami energetici tra le nostre grandi nazioni si sono rafforzati, incrementando una relazione energetica sempre più stretta focalizzata sull'utilizzo di tecnologie e risorse di energia pulita per migliorare la sicurezza, pace e prosperità e quella dei nostri partner", si legge. Perry e Steinitz hanno elogiato i "significativi progressi" compiuti nel settore dell'energia e hanno concordato di "concludere qualsiasi altro accordo necessario a realizzare la visione comune per una cooperazione energetica rafforzata tra Stati Uniti e Israele". Le parti hanno discusso della promozione della sicurezza energetica attraverso la collaborazione in materia di sicurezza informatica, condivisione delle informazioni e addestramento. Inoltre, Perry e Steinitz hanno parlato dell'apertura di mercato e del miglioramento degli investimenti per lo sviluppo del settore del gas nel Mediterraneo orientale. I ministri hanno affrontato il tema dell'individuazione dei prossimi passi della cooperazione nel Centro per l'energia Israele-Stati Uniti e del programma Bird. Gli incontri di Perry a Gerusalemme con Steinitz e con il primo ministro, Benjamin Netanyahu, giungono a due giorni dalla seconda ministeriale dell'East Mediterranean Gas forum, che si terrà al Cairo il 25 luglio.

(Agenzia Nova, 24 luglio 2019)


XX Giornata della cultura ebraica, appuntamento il 15 settembre

 
ROMA - Torna domenica 15 settembre 2019 la Giornata Europea della Cultura Ebraica, la manifestazione, che invita a conoscere e approfondire storia, cultura e tradizioni dell'ebraismo, tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti, incontri d'autore, spettacoli teatrali, degustazioni kasher ed eventi per i più piccoli.
  All'evento, giunto quest'anno alla ventesima edizione, partecipano trentaquattro Paesi europei. Coordinato e promosso nel nostro Paese dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, l'appuntamento è cresciuto esponenzialmente negli anni, arrivando a contare oggi l'adesione di ben ottantotto località in Italia, distribuite in quindici regioni, da nord, a sud alle isole. "Città capofila", il luogo dove si inaugurerà ufficialmente la manifestazione dando il simbolico "via" agli eventi in tutto il Paese, sarà quest'anno Parma, dove risiede una comunità ebraica le cui origini risalgono al XIV secolo, e dove avrà luogo un nutrito calendario di eventi. Proprio a Parma, presso la Biblioteca Palatina, è conservata una delle più importanti collezioni a livello mondiale di antichi manoscritti e libri a stampa ebraici: dalle Bibbie miniate ai testi e commentari rabbinici, dai trattati di filosofia a quelli di medicina, oltre milleseicento opere, le più interessanti delle quali saranno esposte al pubblico in occasione della Giornata. Nelle iniziative parmensi sarà coinvolta anche la vicina Soragna, dove è presente il Museo ebraico "Fausto Levi", un piccolo, suggestivo gioiello tra gli itinerari ebraici di questa parte d'Italia.
  Il titolo di quest'anno, "I sogni, una scala verso il cielo", riecheggia un famoso episodio della Genesi che ha per protagonista il patriarca Giacobbe. Al tema dei sogni, intesi come sostanza onirica ma anche come speranza e costruzione del domani, saranno ispirate le centinaia di iniziative che saranno organizzate in Italia. L'argomento si presta a molte letture da un punto di vista ebraico, a partire dagli episodi onirici presenti nella Torah e nel Talmud, passando per la mistica ebraica, per la psicoanalisi di Sigmund Freud e fino al sogno millenario del popolo ebraico, quello di una patria, concretizzatosi nel 1948 con la fondazione dello stato d'Israele. La Giornata Europea della Cultura Ebraica gode del Patrocinio del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e dell'Associazione Nazionale Comuni Italiani. E' inoltre riconosciuta dal Consiglio d'Europa. A livello europeo, la manifestazione è coordinata dall'AEPJ.

(ANSAmed, 23 luglio 2019)


A Bruxelles può prendere la parola un membro del gruppo terrorista Fplp

L'Unione Europea ha permesso a Khaled Barakat, noto membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), di parlare al Parlamento europeo a Bruxelles nonostante il fatto che l'Fplp sia stato designato gruppo terrorista dalla stessa Unione Europea, oltre che da Usa, Canada, Giappone, Australia e Israele.
   Barakat, membro dell'Fplp e della ong pro-BDS Samidoun, legata all'Fplp, ha parlato questo mese al Parlamento europeo su invito del neo-eletto eurodeputato spagnolo Manu Pineda, a sua volta un attivista BDS che nell'aprile 2013 pubblicò da Gaza su Facebook una foto insieme a terroristi Fplp con armi e volto coperto. Pineda è anche membro fondatore dell'associazione Unadikum, che afferma di battersi per i diritti umani ma sostiene la lotta violenta, e nel novembre 2012 ha incontrato il capo di Hamas Ismail Haniyeh pubblicando una foto insieme a lui, e nel 2015 ha commemorato sul proprio account Instagram l'ex segretario generale del Fplp, Abu Ali Mustafa, accusato d'essere la mente di una decina di attentati con autobomba in Israele tra il 2000 e il 2001.
   Durante un incontro nel 2016 in Sudafrica citato da giornali palestinesi, Barakat dichiarò che l'obiettivo della ong pro-BDS Samidoun è "rovesciare il progetto del movimento sionista e costruire una Palestina su tutto il territorio nazionale".

(israele.net, 23 luglio 2019)


Il sequestro della petroliera Stena Impero. Una precisa strategia iraniana

Blitz delle forze speciali iraniane sulla petroliera britannica Stena
Stretto di Hormuz, la petroliera Stena Impero battente bandiera britannica naviga verso la sua destinazione in Arabia Saudita in acque internazionali seguendo la rotta standard in ingresso al Golfo. Una flottiglia di navi dei Guardiani della Rivoluzione la accerchia e le ordina di dirigersi a nord verso le acque interne iraniane. La petroliera cerca di fuggire virando a sud, nessuna nave militare britannica in grado di difenderla è nel raggio utile per soccorrerla, così come invece successo dieci giorni prima con un'altra petroliera che batteva la bandiera di Sua Maestà.
   Visto che la Stena Impero non si dirigeva verso nord, un elicottero ha trasportato sul ponte della nave una squadra d'assalto delle Guardie della Rivoluzione che armi in pugno hanno abbordato la petroliera e ne hanno preso il controllo.
   Quasi simultaneamente un'altra petroliera appartenente a un armatore scozzese, ma battente bandiera della Liberia, viene sequestrata da un'altra squadra delle Guardie della Rivoluzione 40 miglia più ad ovest rispetto alla posizione della Stena Impero. I fatti innescano una reazione immediata della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, che minacciano immediate ritorsioni, si riunisce in emergenza il governo britannico e aerei americani sorvolano l'area per evitare nuovi sequestri. Quando la tensione raggiunge l'apice gli iraniani liberano la seconda petroliera, allentando la tensione e di fatto evitando una immediata reazione dei britannici.
   Il sequestro è avvenuto nell'imminenza della chiusura dei mercati finanziari e in una settimana nella quale è atteso il nuovo premier britannico che prenderà il posto della May.
   Dopo la cattura della nave fonti iraniane hanno affermato che la petroliera non aveva risposto ad una richiesta di soccorso, il fermo della nave era quindi conseguente a questo atto.
   Abbiamo quindi assistito ad una astuta strategia pensata per poter mettere in atto i progetti di ritorsione degli Ayatollah in risposta al sequestro della petroliera Grace1 a Gibilterra, limitando la possibilità che la Gran Bretagna risponda direttamente e militarmente a questo atto ostile di Teheran.
   L'Iran pondera attentamente ogni mossa, calcolando il rischio di ogni azione senza esporsi mai in maniera diretta alla rappresaglia britannica o americana, ma restando pronto in caso di conflitto o di attacco straniero.
   E' evidente che Teheran non teme sanzioni o altri mezzi di pressione economica o politica ma cerca di evitare in ogni modo uno scontro militare con le potenze occidentali. Da qui si desume che nei fatti l'unico vero mezzo che ha l'occidente per fermare l'espansionismo iraniano sia un colpo militare diretto, limitato ed estremamente potente che possa far riflettere chi controlla il potere a Teheran sul fatto che l'occidente, così come anche la Russia, ha ancora la capacità di utilizzare lo strumento militare, solo questo potrà far tornare al tavolo delle trattative l'Iran degli Ayatollah.
   Ma in questo caso è possibile che ci sia un prezzo da pagare per una simile azione, un prezzo non solo militare nella regione, ma il ritorno del terrorismo in Europa e negli Stati Uniti, un terrorismo che da sempre è stata l'arma di ricatto dei regimi e dei fondamentalismi.

(GeoPoliticalCenter, 22 luglio 2019)



L'Iran e le variabili per una terza crisi del petrolio

Il rialzo del greggio è moderato e fa buon gioco a tutti gli esportatori. Ma l'escalation nel Golfo anche con Israele e Arabia Saudita, la Brexit in arrivo e l'azione di Trump sono una miscela esplosiva.

di Barbara Ciolli

 
Tra i primi effetti della guerra delle petroliere nel Golfo persico si notano le fibrillazioni del prezzo del petrolio, e non poteva essere altrimenti. Nel 1979, quando lo scià Reza Pahlavi protetto dagli americani fu costretto a fuggire e in Iran atterrò Ruhollah Khomeini, scoppiò la seconda crisi del petrolio. La prima era esplosa nel 1973, per la guerra improvvisa dello Yom Kippur tra Israele e gli arabi guidati dall'Egitto. In entrambi gli choc, l'impennata del prezzo a barile bloccò gli approvvigionamenti di greggio da parte degli importatori che erano soprattutto occidentali. Nel primo caso per un boicottaggio ad arte del cartello arabo dell'Opec, nel secondo per il crollo di produzione durante la rivoluzione iraniana. La guerra tra Stati Uniti e Iran che può deflagrare per le scintille a ripetizione nello Stretto di Hormuz, coinvolgerebbe Israele e la cordata araba dei sauditi. Cioè gli scontri tra potenze del 1973 e quelli del 1979 messe insieme.

 La volatilità delle quotazioni
  Il conflitto viene prospettato anche dal Pentagono come «più lungo che in Vietnam», disastroso perché pressoché impossibile da vincere. Tant'è che dal 19 luglio, cioè prima del sequestro dei pasdaran iraniani della petroliera britannica Stena Impero nello Stretto di Hormuz, il prezzo a barile del greggio è salito di circa 2% in due giorni. Israele ha rafforzato l'allerta sulle sua navi nella zona. L'Arabia Saudita, in un gesto di moderazione, è arrivata a rilasciare una petroliera iraniana bloccata a Gedda da più di due mesi, per raffreddare il clima. Già la settimana precedente le quotazioni erano salite del 4% per altre frizioni tra l'Iran, gli Stati Uniti e il Regno Unito, dopo il sequestro delle forze speciali britanniche della petroliera iraniana Grace 1 al largo di Gibilterra. Giocare al rialzo giova innanzitutto alla Repubblica islamica che dal maggio 2019 è ripiombata sotto l'embargo totale dell'export del petrolio, imposto da Donald Trump come strategia della massima tensione.

 La massima pressione dell'Iran
  Bloccare lo stretto di Hormuz, controllato in uscita dall'Iran, dove passa un terzo dell'export totale via mare di petrolio (dall'Iraq, dal Kuwait e dalle petromonarchie del Golfo), è viceversa la massima pressione che l'Iran può esercitare in risposta alla tenaglia di Trump e dei nemici sauditi. È il mezzo più pesante, e ormai la sola arma di ricatto che gli rimane. Non a caso, anche durante il muro contro muro tra la presidenza di Mahmoud Ahmadinejad e quella di Barack Obama, tra il 2009 e il 2012 si susseguivano le schermaglie nel Golfo. Anche allora la Repubblica islamica era stretta in un embargo totale - anche dell'Ue -, non aveva nulla da perdere, a fronte di un loro export già bloccato del greggio, a bloccarlo agli altri. Anzi le lobby interne (vicine ai pasdaran e agli ultraconservatori di Ahmadinejad), che controllano ancora la rete di molti servizi e infrastrutture dell'Iran e soffiano sul fuoco, avevano tutto da guadagnare dal rialzo del prezzo del poco petrolio venduto.
Quel che spaventa gli analisti del mercato è che il gioco col fuoco sul petrolio sfugga di mano ai manovratori.
 Il rialzo giova ai produttori
  È la solita storia delle sanzioni, che non danneggiano ma arricchiscono sempre i regimi, tra le oligarchie dove si concentrano i profitti. A scapito delle popolazioni, come per le crisi petrolifere, anche occidentali. Se controllata, una quotazione del Wti (il benchmark del greggio del Texas) sopra i 60 dollari a barile, e del Brent (del greggio del Mare del Nord) sopra i 70 può solo portare profitti alla rete dell'Opec, e più in generale a tutti i grandi produttori ed esportatori dell'olio nero. Non a caso, il calo del prezzo del petrolio in questi anni a fasi alterne sotto i 50 (Wti) e i 60 (Brent) dollari a barile, soprattutto per il surplus, aveva spinto tutti i produttori (l'alleanza del cosiddetto Opec+) ad accordarsi per ridurre la produzione e smaltire le scorte accumulate. Aumentando i margini di profitto. Quel che spaventa gli analisti del mercato è che il gioco col fuoco sfugga di mano ai manovratori. Per le escalation continue nel Golfo - e la loro imprevedibilità per tutti - e altre turbolenze il rialzo potrebbe farsi rapido ed estremo.

 May sui carboni ardenti
  Da Bank of America Merrill Lynch la percezione è che si stia sottostimando una volatilità delle quotazioni destinata ad aumentare, e tale da spingere nei prossimi mesi - al ribasso o al rialzo - il prezzo del petrolio a livelli fuori dal mercato. Tra le tensioni internazionali, oltre alle fortissime frizioni militari in Medio Oriente con le potenze occidentali, pesano anche le incertezze sulla guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina e le ripercussioni della Brexit. Non aiuta per esempio che in queste ore, Oltremanica, la premier uscente Theresa May sia sui carboni ardenti. Riunita con il comitato di emergenza britannico, per decidere come muoversi sulla Steno Impero bloccata nel porto di Bandar Abbas e pronta, nelle prossime ore, a cedere gli incarichi di capo del governo e del partito. Le votazioni tra i tory si sono chiuse il 22 luglio. Mentre dal weekend altri due suoi ministri (Finanze e per l'Europa) si sono dimessi dal governo, per la guerra interna per la poltrona di premier e la leadership dei conservatori.

 La variabile brexit sul greggio
  Ufficialmente la marina britannica motiva il blitz alla Grace 1 in acque internazionali per una violazione dell'Iran delle sanzioni Ue che proibiscono a tutti la vendita di petrolio e di fare affari con il regime siriano. Ma Bashar al Assad è da sempre regolarmente armato e finanziato dalla Repubblica islamica. La verità è che il Regno Unito è tra due fuochi: non può sempre dire di no alle richieste statunitensi sull'Iran, per quanto abbia sfiorato da poco il gelo diplomatico con Trump; né - finché c'è May - vuole allontanarsi dalla linea europea di stare nell'accordo nucleare con l'Iran. Londra è l'anello debole, politicamente è addirittura più instabile di Teheran. Ma con Boris Johnson nuovo premier e capo dei tory il nuovo governo britannico si allineerebbe a Trump, e le provocazioni all'Iran aumenterebbero. L'ex sindaco della capitale è il favorito, è questione di ore. Questa e altre miscele esplosive come il blocco di Hormuz per Neil Wilson, capo analista di mercato di Markets.com, possono «far alzare di molto il petrolio».

(Lettera43, 23 luglio 2019)


Per fare spazio al Muro Israele abbatte case arabe

L'esercito israeliano ha demolito abitazioni palestinesi a Wadi al Hummus. All'alba di ieri centinaia di agenti e soldati hanno proceduto a isolare la zona per cominciare le operazioni di demolizione di 10 edifici contenenti 70 appartamenti, di cui molti ancora in costruzione, situati vicino al muro di separazione tra Israele e Cisgiordania, a sud di Gerusalemme. La maggioranza degli edifici si trova nelle aree A e B della Cisgiordania che ricade sotto la giurisdizione dell'Anp in base agli accordi di OsIo; due edifici invece sono nell'area C sulla quale gli israeliani hanno il pieno controllo, eccetto che sui civili palestinesi. Il presidente dell'Anp, Abu Mazen, si è appellato alla comunità internazionale chiedendo di «intervenire immediatamente per fermare questa aggressione contro il popolo palestinese». Lo Stato ebraico sostiene che le demolizioni sono essenziali per la sua sicurezza perché i palazzi sono troppo vicini al Muro.

(Libero, 23 luglio 2019)


Delegazione di Hamas a Teheran: «siamo la prima linea di difesa dell'Iran»

Confermato che Hamas è ormai sotto completo controllo iraniano

Da diversi giorni una delegazione di Hamas, il gruppo terrorista islamico che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza, si trova a Teheran per colloqui con i leader iraniani.
La TV di stato iraniana ha riportato oggi alcuni dettagli dell'incontro avuto dalla delegazioni dei terroristi con la Guida Suprema iraniana, l'Ayatollah Ali Khamenei.
Il vice capo di Hamas, Saleh al-Arouri, che guida la delegazione terrorista, ha ribadito il ringraziamento per l'aiuto dato da Teheran ad Hamas nella guerra a Israele.
Alla fine dell'incontro, intervistato dalla TV di stato iraniana, Saleh al-Arouri ha detto che «Hamas è la prima linea di difesa dell'Iran» confermando quindi l'alleanza strategica tra i terroristi islamici palestinesi e il regime iraniano.
La guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha ribadito che l'Iran sosterrà Hamas finanziariamente e con la fornitura di missili.
«Diversi anni fa i palestinesi combattevano Israele usando le pietre, ora grazie all'Iran hanno razzi di precisione» ha detto Khamanei.
Non è chiaro cosa abbiano promesso gli iraniani ad Hamas. Consistenti aiuti finanziari sono poco probabili. L'Iran sotto sanzioni ha problemi per sostenere anche il suo alleato storico nella regione, Hezbollah.
Di sicuro, come si teme a Gerusalemme, avranno promesso missili e armi così che Hamas sia in grado di aprire un eventuale fronte a sud nel caso di conflitto con Israele.
«Grazie all'Iran oggi Hamas è in grado di tenere sotto tiro l'intero territorio israeliano» ha detto Hazem Qassem, portavoce della delegazione terrorista.

(Rights Reporters, 23 luglio 2019)


Festa di primavera. Consolato di Svizzera a Milano

Discorso tenuto il 23 maggio dal Console generale Félix Baumann in occasione dell'inaugurazione della mostra "The Last Swiss Holocaust Survivors" presso il Memoriale della Shoah a Milano.

 
Giorgia Würth
Martedì 21 maggio il Consolato generale a Milano ha organizzato una festa di primavera a cui sono stati invitati le cittadine e i cittadini svizzeri dai 90 anni in su residenti a Milano e provincia.
   Per tutto il pomeriggio la sala dei ricevimenti del Consolato - addobbata per l'occasione con decorazioni dai colori vivaci - ha riecheggiato le risa e le allegre chiacchiere degli oltre quaranta ospiti.
   A dispetto della loro età anagrafica, i presenti hanno dimostrato uno spiccato spirito festaiolo e, infrangendo per una volta la dieta, hanno assaporato delle torte deliziose accompagnate da un buon vino. Inoltre, l'evento è stato ravvivato dalla presenza dell'eclettica artista Giorgia Würth che si è intrattenuta amichevolmente con i convenuti ed ha raccolto con una serie di interviste le testimonianze di vita di quanti volessero raccontare la propria.
   Il Consolato generale ringrazia sentitamente tutti coloro che partecipando hanno contribuito al successo di questa festa e confida fin d'ora di poterli nuovamente incontrare in occasioni future.
    «Buonasera a tutti,
       per cominciare vorrei ringraziare il Presidente Roberto Jarach, Marco Vigevani e Talia Bidussa e il Memoriale della Shoah per l'ospitalità e la preziosa collaborazione nell'organizzazione di questa mostra fotografica. Poi Anita Winter, Presidente della fondazione Gamaraal all'origine dell'iniziativa, e un saluto particolare a Fishel Rabinowitz, che - ci onora della sua presenza, La mostra fotografica "The Last Swiss Holocaust Survivors" che si inaugura stasera è un progetto itinerante sostenuto dal DFAE e già esposto in altri sedi come Washington, New York presso l'ONU, Berlino e Tel Aviv. Perché la Svizzera ha sostenuto questa mostra? Torniamo indietro di qualche anno. Nel 2000 a Stoccolma è stata istituita l'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA): che ha per compito di promuovere la ricerca storica e l'insegnamento sul tema dell'Olocausto e di perpetuare la memoria delle vittime con commemorazioni e memoriali tra i suoi 32 Stati membri. Nel 2017 la Svizzera ha presieduto per la prima volta questa organizzazione, organizzando due assemblee plenarie e si è proposta di perpetuare la memoria delle vittime mettendo l'accento in particolare anche sulla tematica dell'insegnamento e dell'apprendimento con una conferenza tenutasi a Losanna. II DFAE ha sostenuto inoltre vari altri progetti, uno dei quali appunto è la mostra che vedremo stasera.
       Ouando la fondazione Gamaraal ci ha contattato per proporci la possibilità di portare la mostra anche in Italia, abbiamo colto subito questa occasione. L'idea era di organizzare la presentazione nel 2018, anno in cui l'Italia ha ripreso la Presidenza dell'IHRA dopo Svizzera.
       Milano è senza dubbio la città adatta per ospitare questa iniziativa. In effetti, la Lombardia e la Svizzera, in particolare il Canton Ticino, dato la loro vicinanza, da sempre condividono una lingua, una cultura e, in parte, una storia comune. Numerosi sono i legami non solo a livello degli Stati e delle istituzioni, ma soprattutto anche a livello umano tra i cittadini di entrambi i Paesi. Questi rapporti hanno da sempre conosciuto alti e bassi, come è normale tra vicini. Così è anche stato durante la Seconda Guerra Mondiale.
       Prima ancora che terra d'asilo, la Svizzera costituì per gli italiani travolti dalla guerra fascista quasi un miraggio, in particolare dopo l'8 settembre del 43. Molti rifugiati che furono costretti a lasciare l'Italia furono accolti in Svizzera. Quest'ultima rappresentò in quel periodo per molti una terra d'asilo, numerosi furono gli svizzeri che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei nel periodo della guerra. Allo stesso tempo furono anche commessi degli errori. Come sappiamo la Svizzera ha svolto negli anni '90 un grande lavoro di inchiesta e di ricerca sul proprio ruolo durante il secondo conflitto mondiale istituendo la Commissione indipendente di esperti Svizzera - Seconda Guerra Mondiale presieduta dal Prof. Jean-François Bergier del Politecnico di Zurigo.
       Diventa sempre più importante l'accesso alla memoria e alle testimonianze dei sopravvissuti. Dobbiamo quindi fare tesoro di chi può raccontare in prima persona la propria storia. Le loro testimonianze sono elementi centrali negli sforzi per tenere vive le atrocità dell'Olocausto e aumentare la consapevolezza delle conseguenze del razzismo, della discriminazione e dell'antisemitismo. Tutti noi dovremmo essere responsabili e ricordare attivamente e onorare con dignità le vittime dell'Olocausto. Molti giovani pensano che la caduta del muro di Berlino e la guerra nell'ex-Jugoslavia sono eventi lontani da loro in quanto appartengono alla generazione dei loro genitori e che non sono più rilevanti per il presente. Per i giovani di oggi, quanto distanti devono essere la Seconda Guerra Mondiale e le decine di milioni di persone che sono state massacrate? Come possono capire che la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo è stata adottata dopo il conflitto in. modo da servire come una bussola per le democrazie? L'Olocausto infatti minacciò la fondazione stessa della civilizzazione nel cuore dell'Europa, il continente che si considerava il più avanzato del pianeta.
       Credo sia giusto partire da questa osservazione quando ci guardiamo intorno a noi oggi - anche se ovviamente non mi permetterei mai di paragonare l'Olocausto a qualsiasi altro avvenimento. Oggi di nuovo, per molti l'Europa rappresenta una terra d'asilo, e allo stesso tempo il nostro continente fa fatica a trovare una politica adeguata all'accoglienza e molti cittadini impauriti dei rapidi cambiamenti nel mondo cercano rifugio in discorsi politici populisti di diversi orientamenti.
       Signore e signori, mi fermo qui. Sono molto onorato di essere stasera in questo luogo simbolo per combattere l'indifferenza e l'oblio. Ringrazio ancora una volta tutti coloro che banno reso possibile questa iniziativa preziosa.»
(Gazzetta Svizzera, no 7, luglio 2019)


Da Roma a Tel Aviv, le periferie in mostra a Gerusalemme negli scatti di Dario Sanchez

 
Duemilatrecento kilometri dividono Roma da Tel Aviv, unite dal fotografo Dario Sanchez in un'esposizione fotografica dal titolo Suburbia, che inaugurerà il 23 luglio alla Gallery Café Sira e sarà stabile fino al 2 settembre.
   E' particolare lo spazio scelto da Sanchez, una galleria d'arte ubicata nella zona nuova della città storica a Gerusalemme Ovest e dove ad esporre sono in egual misura, sia gli artisti israeliani che quelli palestinesi. Ed è proprio nei locali neutri della Gallery che saranno esposte le foto di Dario, uno sguardo attento alle zone periferiche delle due città, dalle capitoline Sacco Pastore, Vigne Nuove, San Basilio, Tiburtino III, fino a luoghi come Tel Aviv, Arad e Rishon Le Zion per Gerusalemme. "Sto compiendo una riflessione sulla separazione tra centro e periferia, sempre più netta, non importa in quale parte del mondo ci troviamo", afferma il fotografo che ha allestito la mostra come vera testimonianza e risultato della globalizzazione e che identifica in quelle zone il dormitorio della classe media, protesa verso un'inesorabile proletarizzazione, dove vivono i lavoratori che (ironia della sorte) giornalmente danno energia al centro foraggiandolo con la loro manovalanza.
   L'esposizione mostra i luoghi periferici delle due città esposti in parallelo, ma sprovvisti di didascalia che geolocalizzi la foto, per far si che il fruitore si lasci guidare dal fotografo senza alcun riferimento culturale, sociale o di luogo. Perché in fondo la periferia è un non-luogo, frutto avvelenato del capitalismo e trasposizione della modernità in tutta la sua decadenza. Quasi a voler dire "Tutto il mondo è centro o periferia" afferma il fotografo.
   Un'idea nata anni alcuni anni fa, quando Dario Sanchez da Montesacro vola a Tel Aviv, città che sceglie per vivere e lavorare e da cui si è distaccato per il tempo necessario a compiere l'indagine di ricerca nei quartieri romani da lui vissuti in giovinezza. "La periferia israeliana è più curata della nostra. Anche la gente ha meno titubanza e più fiducia. Ho trovato più difficoltà nello scattare a Roma che a Tel Aviv", conclude Sanchez parlando della sua mostra.

(Il Messaggero, 22 luglio 2019)


In Europa avanza l'antisemitismo di sinistra

di Massimiliano Panarari

Lo spirito dei tempi volge sempre di più all'odio, in Europa e in America. E in un periodo di intolleranza crescente e di identitarismi che stigmatizzano il diverso non poteva non ritornare l'allarme sull'antisemitismo. Con una peculiarità inquietante: accanto al dilagare del populismo di estrema destra e dei neofascismi non si è ancora rimarginata la ferita dell'antisemitismo di sinistra. Anzi, si moltiplicano indizi che vanno in una direzione preoccupante. Come evidenzia la lettera di denuncia sottoscritta da numerosi componenti della Camera dei Lord e parlamentari del Labour Party sui frequenti rigurgiti antisemiti nel partito sotto la guida di Jeremy Corbyn. Come ribadiscono alcune ricerche recenti del Kantor Center for the Study of Contemporary European Jewry dell'Università di Tel Aviv e dell'ufficio di Bruxelles dell'European Union for Progressive Judaism, dove viene segnalato come l'antisionismo costituisca il paravento dietro il quale una certa sinistra occulta pulsioni antisemite. E, ancora, come mostra la demonizzazione di George Soros in vari ambienti dell'ultrasinistra.
   L'escalation dell'avversione per gli ebrei è anche un indicatore di un più generale clima d'opinione di fastidio verso il pluralismo e le minoranze, e aderisce perfettamente alla logica (narrativa e mediale) della creazione del nemico che costituisce un pilastro della propaganda populsovranista. Proprio per questo il riaffacciarsi di una «questione ebraica» in seno all'universo progressista appare una spia grave. E, dunque, un problema da affrontare una volta per tutte per definire con precisione, in questi tempi confusi, il proprio campo politico e culturale. Le radici di questo antisemitismo goscista, come noto, sono di lunga durata, e vanno dall'antico retaggio cristiano del deicidio sino, nella modernità, alla supposta equazione tra finanza, «speculazione» ed ebraismo. E, all'indomani della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e, poi, dei processi di decolonizzazione, si è aggiunto anche il filone antisionista del terzomondismo, spesso alimentato dall'Urss erede di quella Russia zarista dove l'antisemitismo era diffusissimo (e la cui polizia segreta aveva fabbricato il falso storico dei Protocolli dei savi anziani di Sion).
   Ultimamente, la retorica giudeofobica ha rispolverato il trasversalismo, mettendo insieme il radicalismo di destra, l'islamismo e l'estrema sinistra antagonista, e potendo contare sulla viralità del web, fertile terreno di coltura per cospirazionismi e complottismi di ogni genere. Ecco perché, nell'epoca attuale colma di suprematismi razzisti, la credibilità della sinistra passa ancor più fortemente per il rigetto di ogni lascito di un passato antiebraico.
   Nella battaglia culturale con i nazionalpopulismi che hanno riesumato un'altra presunta equivalenza (quella tra l'ebraismo e il cosmopolitismo «senza radici») una sinistra moderna deve rivendicare con ancora più decisione i valori illuministici, il liberalismo e i diritti degli individui e di coloro che non appartengono alla «maggioranza». E dovrebbe quindi separare integralmente, senza residue ambiguità, la propria strada da qualunque reminiscenza mascherata di antisemitismo, che - come avviene in certe frange del Partito laburista inglese - si ammanta di radicalismo antimercato e antieuropeista. Un buon modo anche per onorare l'appena scomparsa (e importante filosofa antitotalitaria di origini ebraiche) Agnes Heller.

(La Stampa, 22 luglio 2019)


Tra gli ortodossi d'Israele che ora dettano legge. E il Mossad li vuole 007

Abito nero, rituali, sussidi: gli ultrareligiosi saranno presto il 30% della popolazione Sempre più decisivi in politica, ma invisi ai laici: così cambiano il volto del Paese.

di Davide Lerner

 
BNEI BRAK (Israele) - «Tel Aviv è a dieci minuti da qui ma non ci metto piede, per carità, là le donne vanno in giro mezze nude. Chi si espone a quel mondo lì poi torna in yeshivà e non capisce più niente degli studi religiosi» dice Elad Kuper, ultraortodosso israeliano di 27 anni, passeggiando nell'enclave haredi di Bnei Brak.
   Kuper abita con la moglie e i suoi primi tre figli (la media per gli ultraortodossi è di circa sette) in una stanza e mezza affittata in uno stabile sgangherato e circondato di spazzatura, vicino alla sovraffollata arteria di "Rabbi Akiva". Vive del sussidio della yeshivà, la scuola religiosa, che ammonta a 2.000 shekel al mese (490 euro), in buona parte prelevati direttamente dalle casse dello stato. Studia di notte - «solo col buio si raggiunge la massima concentrazione secondo l'importante rabbino Shimon Bar Yochai» - e durante il giorno aiuta un vecchio per raggranellare qualche altro shekel.
   Ma nella comunità ultraortodossa sono piuttosto le mogli che, non "obbligate" a studiare le scritture ininterrottamente, sono autorizzate a fare qualche lavoro: in molte, come la ventiquattrenne Avìgaìl, moglie di Kuper, fanno le maestre a scuola o negli asili part-time. Agli sforzi del governo per cerare di spingere più ultraortodossi a integrarsi nella società "mondana" si è di recente aggiunto niente meno che il Mossad, l'agenzia di intelligence israeliana. «Abbiamo cominciato ad assumere personale ultraortodosso dopo lunghi percorsi propedeutici specializzati», ha detto il direttore del Mossad Yossi Cohen all'inizio del mese, citando una collaborazione con la ong Pardes che si pone l'obiettivo di conciliare la vita religiosa degli haredim con quella lavorativa, finanche nel settore della difesa.
   Kuperè un caso particolare nella comunità ultraortodossa: è un hoser leteshuva' (colui che ritorna alla chiamata), cioè ha vissuto da laico fino a circa vent'anni, compreso il servizio militare, prima di scegliere il lungo cappotto nero e il cappello a larghe tese dei religiosi.
   Ma per i suoi figli la strada è segnata. Kuper scandisce: «Dai 3 ai 13 anni talmud torah, poi yeshivà fino al matrimonio, che verrà organizzato da un "shachdan" o agente matrimoniale e approvato dai genitori, poi continueranno a studiare al kollel, la scuola religiosa per uomini sposati. Qui le vite sono semplici, è tutto pre-ordinato: non bisogna mai prendere decisioni», dice. «Ovviamente useranno cellulari kasher, che possono fare solo telefonate. E quando a 18 anni arriverà lo "zav rishon", la chiamata dall'esercito, ci faremo dare un certificato d'esenzione dalla yeshìvà», spiega.
   Proprio sul risentimento verso i super-religiosi, visti come parassiti che eludono il servizio militare e vivono di sussidi statali da molti israeliani, si sono incagliati i negoziati per formare il quinto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ed è probabile che la stessa impasse si riproponga dopo le nuove elezioni del prossimo settembre: Avigdor Lieberman, che ha impugnato la causa dei laici, ha già detto che non farà sconti per andare in coalizione coi religiosi. E, secondo recenti sondaggi della televisione israeliana, senza Lieberman Netanyahu, ancora una volta, non sarà in grado di formare un governo.
   Secondo l'Ocse, entro pochi decenni la componente haredi della società israeliana (attualmente circa un milione) potrebbe raggiungere il 30 per cento della popolazione, con gravi conseguenze su economia e politica del Paese. «È fondamentale che vengano rivisti i curriculum delle scuole haredi inserendo materie più classiche, dalla matematica alle scienze all'inglese, se si vuole favorire la loro integrazione nel mercato del lavoro», ha detto Peter Jarrett dell'Ocse al giornale economico israeliano The Marker. «È una battaglia contro il tempo», ha aggiunto.
   C'è anche chi, come il noto scrittore israeliano Yuval Noah Harari, autore del bestseller "Sapiens," interpreta la questione degli ultra-ortodossi in chiave positiva. In un mondo in cui l'automazione rendesse i mestieri dell'uomo sempre meno utili, teorizza nel suo ultimo libro "21 lezioni per il XXI secolo" (Bompiani editore), le persone godranno di un reddito di cittadinanza e dovranno realizzarsi facendo a meno del lavoro. Ecco allora che gli ultraortodossi, secondo diverse ricerche appagati da una vita fatta di soli rituali, sarebbero un'avanguardia da imitare invece che una zavorra di cui disfarsi, relegandola al passato remoto. Ma, per ora, la preoccupazione principale in Israele rimane quella di come favorire una loro integrazione alla luce del crescente peso demografico ed elettorale.
   Al contrario della minoranza araba, anch'essa poco emancipata nella società israeliana, le autorità religiose haredi mandano i propri discepoli a votare come soldati. «Sappiamo che avere peso politico conta parecchio, anche se la nostra società vive separata», spiega Kuper. Per misurare il peso politico degli ultraortodossi basta prendere in mano le prime pagine goliardicamente distopiche dei giornali "haredì" all'alba dell'ultima consultazione elettorale: "Matrimoni civili in arrivo," "Trasporti pubblici di Shabbat (sabato) nella maggior parte delle città del Paese," e ancora "Coscrizione obbligatoria per tutti". Nessuno di questi scenari, con 16 deputati ultra-ortodossi alla Knesset, si possono realizzare.

(la Repubblica, 22 luglio 2019)


Londra impotente. Israele: siamo i soli a uccidere iraniani

Gli inglesi: capacità di intervento limitate. Bloccati account Twitter

di Roberto Fabbri

Londra abbaia la sua frustrazione all'indirizzo di Teheran dopo il sequestro avvenuto sabato nello stretto di Hormuz della petroliera Stena Impero, battente bandiera britannica. Abbaia ma non morde, e questo semplicemente perché non è in grado di farlo: denti per azzannare i pasdaran iraniani che hanno compiuto un'azione militare palesemente illegale gliene sono rimasti troppo pochi. Lo ha detto chiaramente il ministro della Difesa Tobias Ellwood: non è vero, ha risposto a chi accusava la Marina britannica di inadeguata protezione, che siamo stati colti di sorpresa, semmai si tratta di un problema di capacità di intervento limitate. «La nostra Royal Navy - ha ammesso il ministro - è troppo piccola per gestire i nostri interessi in tutto il mondo. Se questo è ciò che vogliamo fare in futuro, allora il prossimo premier dovrà riconoscerlo - ha aggiunto -: se vogliamo continuare a giocare un ruolo sulla scena internazionale dobbiamo investire di più nella nostra difesa».
   Ellwood ha toccato il tasto dolente. Lo conferma il fatto che il suo collega degli Esteri Jeremy Hunt continua a parlare genericamente di «una serie di opzioni da valutare» per reagire a quella che è una mossa volutamente provocatoria seguita al fermo a Gibilterra della petroliera iraniana Grace 1, avvenuto quindici giorni fa perché la nave era sospettata di trasportare greggio in Siria in violazione delle sanzioni applicate dall'Unione Europea. In pratica, l'Iran ha risposto a quello che ha definito «un atto di pirateria» con un altro atto di pirateria (la Stena Impero navigava nelle acque territoriali dell'Oman e non stava violando alcuna norma) e ha messo impietosamente a nudo l'incapacità di Londra di reagire adeguatamente. Hunt ha accennato all'ipotesi di imporre sanzioni britanniche a carico di Teheran, ha fatto sfoggio di parole grosse come «gravi conseguenze» e «robusta reazione», ma poi ha dovuto chiarire che l'uso della forza non è previsto e che la priorità del suo governo è quella di «trovare un modo per disinnescare la situazione».
   A Teheran se la ridono. Le uniche sanzioni arrivate sono quelle di Twitter, che ha bloccato alcuni account di media statali iraniani. E mentre viene assicurato che i 23 uomini dell'equipaggio sequestrato sono in buona salute «in un angolo sicuro del porto di Bandar Abbas» e che il loro rilascio dipenderà dalla loro collaborazione, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif si è cavato la soddisfazione di suggerire a Londra «prudenza e lungimiranza», evitando di farsi attirare nel complotto che a suo avviso il consigliere di Trump John Bolton avrebbe in mente per scatenare «la guerra del secolo».
   Da Israele invece arriva indirettamente a Londra un altro consiglio. Rispondendo a un giornalista che gli chiedeva cosa succederebbe «al nostro piccolo Paese» se fosse coinvolto in un conflitto con l'Iran, un ministro del governo Netanyahu ha detto che «siamo l'unico Paese che da due anni uccide iraniani. Li attacchiamo in Siria centinaia di volte, e la loro reazione è sempre molto limitata. E non perché non ne abbiano la capacità, ma perché sanno che Israele fa sul serio».

(il Giornale, 22 luglio 2019)



La campionessa che scatena gli integralisti in Medio Oriente

Musulmana, campionessa di salto in alto, gareggia per lo Stato ebraico

Scrive il Jerusalem Post (10/7)

Hanin Nasser
Noi condanniamo il fatto che lei rappresenti l'entità sionista [sic] che ha sradicato il nostro popolo e che venga usata come una foglia di fico per coprire il razzismo e i crimini di Israele", hanno scritto quelli di Hirak Haifa in un recente post sui social network. Il riferimento è a una campionessa arabo-israeliana di atletica leggera, Hanin Nasser. Il gruppo ha anche inviato alla giovane sportiva una lettera personale ammonendola di ritirarsi dalla competizione, che si svolgerà in Svezia dall'11 al 14 luglio. "Siamo scioccati per il fatto che vai a rappresentare l'occupazione [cioè Israele]", si legge nella lettera citata dalla Jewish Press, che continua accusando Nasser di "saltare sulle ferite della nostra nazione palestinese". Anche la campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele ha chiesto il ritiro di Nasser dall'imminente competizione internazionale. Hanin Nasser, 22 anni, israeliana musulmana originaria di Arrabe, in Bassa Galilea, ha vinto poche settimane fa il campionato Maccabi nel salto in alto, stabilendo un record personale di m 1,79, il nono punteggio più alto nella storia d'Israele. In risposta alle prese di posizione ostili, in una dichiarazione l'Associazione israeliana di atletica ha ribadito che nello sport "non c'è spazio per la politica. Lo sport è una piattaforma per unire le persone. Noi siamo orgogliosi di Hanin". Dal canto suo, il gruppo Together-Vouch for Each Other (Insieme-Garantirsi a vicenda), composto da giovani israeliani musulmani cristiani e drusi, ha lanciato una rapida campagna di selfie con cartelli e scritte di sostegno e incoraggiamento a Hanin Nasser. "Noi siamo la maggioranza assennata che è con te - scrive il gruppo - Tu ci riempi di orgoglio, ci ispiri e sei di modello per tutti noi, come donna giovane e innovatrice che rappresenta lo Stato d'Israele e la società araba con grande rispetto. Il tuo successo come campionessa israeliana di salto in alto è il successo dell'intera comunità araba. I tuoi successi personali spingono l'intera comunità araba verso l'ideale di vivere insieme come parte integrante di questo paese". Im Tirtzu, l'organizzazione ebraica sionista che ha rivelato il post di Hirak Haifa, ha aggiunto il proprio messaggio di incoraggiamento. "Auguriamo a Hanin buona fortuna e speriamo che continui a battere record, realizzando i suoi sogni attraverso l'atletica - ha dichiarato Tom Nisani, coordinatore nazionale degli attivisti di Im Tirtzu - Hanin Nasser rappresenta la speranza di costruire un ponte di coesistenza e di vera integrazione tra tutti i settori della società israeliana".

(Il Foglio, 22 luglio 2019)


Il destino del Libano appeso agli eventi del Golfo. E l'Europa ancora tace

Una cordiale e amichevole chiacchierata con un funzionario libanese ci rende chiaro come il destino del Libano sia veramente appeso a un filo e, soprattutto, a quello che avverrà nel Golfo Persico.

di Sarah G. Frankl

Il destino del Libano appeso agli eventi del Golfo. È questo che emerge da una serie di rapporti giornalistici e soprattutto della intelligence israeliana.
«Il Libano è ostaggio di Hezbollah e dell'Iran» ci dice una funzionario libanese che vuole rimanere anonimo.
«I leader del Partito di Dio non fanno mistero che se dovesse scoppiare una guerra nel Golfo tra Iran e Stati Uniti non esiteranno un attimo ad obbedire agli ordini di Teheran e attaccheranno Israele» continua il funzionario.
«Lo dicono così apertamente che il fatto è sconvolgente perché questo vorrebbe dire trascinare il Libano in una guerra che sarà devastante per il Paese».
Poi aggiunge: «la maggioranza dei libanesi non vuole una guerra con Israele per conto dell'Iran, la giudica un suicidio e soprattutto non è disposta a sacrificare il Paese per fare un favore agli Ayatollah» conclude.

 Questa volta spareremo il primo colpo
  Purtroppo i timori del funzionario libanese sono più che giustificati. In una intervista al quotidiano Daily Beast alcuni ufficiali di Hezbollah hanno ammesso che il Partito di Dio si sta organizzando per un attacco a Israele nel caso da Teheran lo richiedessero. «Questa volta spareremo il primo colpo» ha detto un ufficiale di Hezbollah al quotidiano americano.
L'intelligence israeliana conferma che i miliziani di Hezbollah si stanno posizionando lungo il confine tra Libano e Israele e sulle Alture del Golan nonostante qualche giorno fa avevano fatto intendere che stavano abbandonando la Siria.
Sono decine e decine i depositi di armi e missili individuati dalla intelligence israeliana nel sud del Libano dove, per altro, è ancora in piedi l'inutile missione di UNIFIL che in caso di guerra rischia di trasformarsi in uno scudo umano per i terroristi. Tra questi depositi vi sono moltissime abitazioni civili e persino scuole.

 Lo strano silenzio europeo
  Quello che stupisce il funzionario libanese non è solo la franchezza con la quale Hezbollah ammette di essere pronto a dare il via alla guerra se richiesto da Teheran, è rimasto stupito dall'indifferenza dell'Europa di fronte a un rischio così grave per il Libano.
«Qualche giorno fa funzionari libanesi e israeliani si sono incontrati, con la mediazione europea, per stabilire i confini marittimi tra i due Paesi» ci dice il funzionario libanese. «Eppure, sebbene ne avessero la possibilità, da Bruxelles non è stata spesa nemmeno una parola sul gravissimo rischio che incombe sul Libano, come se le parole di Hezbollah non fossero mai state pronunciate».
«Se fosse davvero Hezbollah a sparare il primo colpo contro Israele gli israeliani avrebbero tutte le ragioni di reagire attaccando il Libano» continua il funzionario. «Eppure questo non sembra impensierire gli europei, molto più attenti a non rovinare il business con l'Iran che al destino del Libano».
«Mi aspettavo qualcosa dagli europei, magari un dura presa di posizione contro Hezbollah che rischia di trascinare il Libano in una guerra devastante che ci metterebbe in ginocchio. Invece niente, come se fosse tutto uno scherzo».
E noi aggiungiamo che oltre al silenzio europeo c'è anche quello di UNIFIL (e quindi dell'ONU) a destare stupore.
Eppure UNIFIL è nel sud del Libano proprio per evitare una guerra tra Israele ed Hezbollah, o almeno così dovrebbe essere, anche se sappiamo che è proprio grazie alla presenza di UNIFIL che il Partito di Dio ha potuto riarmarsi pesantemente.
«Il destino del Libano dipende da quello che succederà a migliaia di chilometri, nelle acque del Golfo Persico» dice ancora il funzionario libanese.
«Questo è frustrante perché ci fa rendere conto della nostra impotenza, ci fa rendere conto che noi non possiamo fare nulla per incidere sul futuro del nostro Paese».

(Rights Reporters, 22 luglio 2019)


Ecco come il troppo gas delle riserve è un problema per Israele

Israele ha cominciato a convertire molte delle proprie centrali elettriche a gas naturale per approfittare delle vaste riserve scoperte al largo delle relative spiagge ma ora c'è un problema di sovrapproduzione

di Alessandro Sperandio

 
Per decenni, Israele è stato un paese affamato di energia, circondato da vicini ostili e ricchi di petrolio. Ora, invece, ha un problema diverso. Grazie alle importanti scoperte offshore degli ultimi dieci anni, il paese ha più gas di quanto possa usare o esportare facilmente.

 Il problema della tempistica e del mercato interno
  Come riporta il corrispondente Clifford Krauss su Independent, "avere abbondanza di gas non è un peso e offre un'alternativa più pulita e di lunga durata alle fonti energetiche israeliane. Ma presenta delle sfide per un paese che vuole trarre benefici geopolitici ed economici compresa la costruzione di migliori relazioni con i suoi vicini e con l'Europa". Parte del problema è la tempistica. Proprio mentre Israele si prepara a produrre ed esportare grandi quantità di gas, Stati Uniti, Australia, Qatar e Russia stanno inondando il mercato con gas a basso costo. L'altro aspetto, prosegue Krauss "è la matematica: gli 8,5 milioni e mezzo di persone di Israele utilizzano, in un anno, meno dell'1% del gas trovato nelle acque del paese". E infatti, ha sottolineato il ministro dell'energia Yuval Steinitz "abbiamo un'eccedenza di gas. Le acque israeliane nuotano nel gas, e quello che abbiamo scoperto è solo l'inizio"".

 Israele sta pensando di convertire il paese a gas
  Noble Energy, una società con sede a Houston che ha fatto la sua prima scoperta del gas in Israele nel 1999, ha trovato più di 30 trilioni di metri cubi di gas al largo delle coste del paese nell'ultimo decennio. Secondo alcuni esperti, le nuove scoperte potrebbero raddoppiare la cifra. Il risultato di questa abbondanza è che Israele sta gradualmente eliminando il diesel e l'elettricità generata tramite carbone, sostituendola per lo più con la generazione a gas e un po' di energia solare. Il gabinetto del primo ministro Benjamin Netanyahu sta considerando la possibilità di vietare l'importazione di auto a benzina e diesel a partire dal 2030 e di passare gradualmente a veicoli alimentati a gas naturale compresso o elettricità.

 In aumento anche l'export
  Israele sta inoltre incrementando le esportazioni verso paesi vicini come la Giordania e l'Egitto. Si prevede persino di fornire gas a una centrale elettrica in Cisgiordania per i clienti palestinesi. Tuttavia, questi sforzi non faranno che intaccare le riserve del paese. "Vogliamo esportare", dice Jacob Nagel, l'ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale di Israele. "La domanda è: quanto costerà? È possibile? Quanto tempo ci vorrà?", scrive l'Independent.

 Il gas sta già aiutando a migliorare la qualita' dell'aria
  "Per decenni, Israele è dipesa dalla Russia e da altri paesi per l'approvvigionamento di combustibile, mentre le sue industrie e le sue case si sono affidate a centrali elettriche a carbone e a petrolio che hanno ricoperto le città di smog. Il passaggio al gas ha aiutato a purificare l'aria in città come Tel Aviv e Haifa - ha evidenziato Krauss nell'articolo -. La più grande centrale a carbone di Israele - a Hadera, una città costiera - sarà convertita nei prossimi tre anni, riducendo il consumo nazionale di carbone del 30%. I funzionari dicono che si aspettano di eliminare l'uso del carbone entro undici anni. A Hadera, i miglioramenti sono già evidenti dopo la sostituzione del petrolio in una parte dell'impianto e l'installazione di uno scrubber, un dispositivo di pulizia dei gas di scarico. La spiaggia non è più ricoperta di catrame nero appiccicoso e non c'è più una sfumatura giallastra all'orizzonte".

 La concorrenza con il solare
  I funzionari israeliani riconoscono che il gas sarà in concorrenza con l'energia solare. Ma sostengono che l'abbondante fornitura di energia elettrica da centrali a gas incoraggerà l'uso di veicoli elettrici, riducendo l'inquinamento. "Le auto elettriche sono un grande mercato per l'elettricità, quindi, alla fine, un grande mercato anche per il gas", ha detto Ofer Bloch, il presidente dell'ente pubblico energetico Israel Electric. Il governo israeliano si è impegnato con l'accordo di Parigi sul clima ed è vicino ad ottenere il 10% della sua elettricità da fonti rinnovabili entro il prossimo anno. Ma gli ambientalisti ritengono che il paese potrebbe fare di meglio.

 Il campo Leviathan presto collegato alla terraferma
  Il campo Leviathan, il più grande di Israele, sarà collegato alla terraferma tramite gasdotto entro la fine dell'anno, e questo dovrebbe accelerare l'utilizzo di gas nei trasporti. Quindici camion della spazzatura di Haifa funzionano a gas naturale compresso. Il paese ha comprato 59 autobus di questo tipo dalla Cina e ne ha ordinati un altro centinaio circa. Ma poiché ha una piccola base industriale e il suo uso residenziale di gas è limitato a causa degli inverni miti, Israele ha bisogno di esportare di più per sfruttare la sua abbondanza energetica. E qui sorgono dei problemi.

 Gli ostacoli all'export
  L'anno scorso, Noble e l'azienda israeliana Delek Drilling hanno firmato un accordo decennale per la fornitura di gas in Egitto tramite gasdotto a partire dalla fine di quest'anno. Una parte di quel combustibile potrebbe essere poi riesportata da due terminali egiziani. I dirigenti del settore energetico dicono di essere ottimisti sul fatto che l'aumento della popolazione egiziana, ora di 100 milioni di persone, ne farà un grande mercato e che il gas possa avvicinare i due paesi. L'importanza del mercato egiziano è stata sottolineata da un viaggio al Cairo a gennaio di Steinitz, la prima visita ufficiale di un ministro israeliano dopo i disordini del 2011 che hanno scosso il mondo arabo. Lui e i rappresentanti di altri cinque paesi del Mediterraneo e dell'Autorità Palestinese si sono incontrati per formare un'associazione per coordinare la regolamentazione dei gasdotti e del commercio. Tuttavia, i funzionari riconoscono che fare affari con l'Egitto è rischioso. Un gasdotto tra i paesi è stato sabotato nel 2012.

 Eastmed e gli altri sbocchi commerciali
  Israele potrebbe cercare di vendere gas anche in Asia, dove la domanda è in crescita, ma l'opposizione pubblica ha bloccato i piani per un terminale di esportazione sulla piccola e densamente popolata costa. Questo lascia i gasdotti come la migliore opzione. I politici israeliani hanno a lungo favorito la proposta di costruire un gasdotto verso l'Europa attraverso la Turchia. Ma le relazioni con il presidente Recep Tayyip Erdogan sono peggiorate negli ultimi anni. La proposta più ambiziosa è quella di costruire il gasdotto più lungo e profondo del mondo, fino all'Italia attraverso Cipro e la Grecia. Questo progetto - chiamato EastMed - ha il sostegno dell'Unione Europea, di Cipro e della Grecia, ma gli investitori sono riluttanti a investire i 7-8 miliardi richiesti per la sua realizzazione.

(Energia Oltre, 22 luglio 2019)



Basket - FIBA U20 Europei: Israele Campione d'Europa! Avdija domina la Spagna

Grandissima prestazione del talento del Maccabi, leader indiscusso di questo Israele. I padroni di casa, con un ultimo quarto devastante, vincono in finale sulla Spagna.

 
Deni Avdija Israele Basket
I padroni di casa dell'Israele contro una delle squadre più solide dell'intera competizione, quella Spagna che vuole zittire il pubblico di Tel Aviv. Questa è l'atteso capitolo finale degli Europei U20, svoltasi in Israele questa settimana.

Quintetto Israele: Kravitz, Madar, Avdija, Suss, Avivi.
Quintetto Spagna: Alocen, Busquets-Costa, Martinez-Costa, Ehigitor, Gonzales.

Tanto equilibrio nella prima metà di partita. Gli israeliani partono bene, guidati dalla loro stella Avdija, talento già pronto per i grandi palcoscenici. Ottimo apporto anche di Madar, eccellente regista di un positivo Israele. La Spagna è una grandissima squadra e regge alla pressione di una finale giocata nella bolgia ospite di Tel Aviv. Il talento, neo sposo del Real Madrid, Carlos Alocen fatica a vedere la via del canestro, ma è ben aiutato da un ottimo gioco di squadra. Gonzales e Calabria i migliori per la Spagna che chiude all'intervallo in perfetta parità sul 42-42. Il terzo quarto vede alzarsi tremendamente a livello qualitativo. La Spagna gioca bene ma Israele di più e prova a spingere sull'acceleratore, sospinta dal caldissimo pubblico di Tel Aviv. L'ultimo quarto è un vero e proprio terremoto per la Spagna. Israele viaggia a mille all'ora, in particolare Avdija. Il giovane fenomeno del Maccabi Tel Aviv e Madar, superbo in regia questa sera, sono i protagonisti indiscussi di un ultimo quarto pazzesco dei padroni di casa. Nulla da fare per la Spagna che crolla oltre la doppia cifra di svantaggio. A nulla vale il tentativo disperato nel finale, sfruttando un Israele già con la testa ai festeggiamenti.
Grandissima vittoria per Israele, che sospinta da un caldissimo pubblico, trionfa in questa interessantissima competizione.

ISRAELE - SPAGNA 92-84 (24-24, 18-18, 24-17, 26-25)
Israele: Avdija 23 (5 rimbalzi, 7 assist), Madar 17 (8 assist), Porat 11.
Spagna: Gonzalez 14, Calabria 13, Puerto 13.

(Basketinside, 21 luglio 2019)


In arrivo in Israele una delegazione di giornalisti arabi

Vengono anche da Iraq e Arabia Saudita. Lo Stato ebraico: «Permetterà loro di toccare con mano la società israeliana»

Una delegazione di sei blogger e di esponenti di media del mondo arabo arriverà in Israele nei prossimi giorni su invito del ministero degli esteri, in un nuovo gesto di distensione fra lo Stato ebraico ed alcuni Paesi vicini.
Secondo un comunicato del ministero degli esteri, nella delegazione sono inclusi per la prima volta anche cittadini dell'Iraq e dell'Arabia Saudita, Paesi che non mantengono relazioni diplomatiche con Israele.
A Gerusalemme i giornalisti arabi visiteranno il museo della Shoah Yad Vashem, la Knesset (parlamento) ed i Luoghi santi. Gli ospiti si recheranno inoltre a Haifa, Nazareth e Tel Aviv. Scopo dell'iniziativa, spiega il ministero, è di «consentire loro di osservare e di toccare con mano la società israeliana in tutte le sue diversità».

(tio.ch, 21 luglio 2019)


Netanyahu batte tutti i record da premier. Meglio di Ben Gurion: 13 anni al potere

Ma sulla sua strada prima del voto di settembre le accuse di corruzione

di Chiara Clausi

Statua dorata di Netanyahu
BEIRUT - Benjamin Netanyahu batte tutti i record e diventa il primo ministro israeliano più longevo della storia dello Stato ebraico. È stato al potere più di giganti come Golda Meir e Ben Gurion, il padre della patria che finora deteneva il primato. Adesso con 4873 giorni King Bibi l'ha sorpassato. Ha ricoperto il ruolo per 13 anni e 127 giorni. Quasi il 19% dell'intera storia di Israele. Netanyahu ha ottenuto il suo quinto incarico dopo il voto del 9 aprile, ma ora il 17 settembre si terranno nuove elezioni perché non è riuscito a formare un nuovo esecutivo. Netanyahu ha vinto la sue prime elezioni nel 1996. Allora il capo del Likud, ora 69enne, era diventato il più giovane primo ministro israeliano all'età di 46 anni. È anche il primo leader nato dopo la creazione dello stato nel 1948.
   Ben Gurion e Netanyahu hanno avuto due stili di leadership opposti. Ben Gurion era un capo duro, pragmatico, socialista, che amava uno stile di vita frugale e spartano. Netanyahu anche egli duro e pragmatico, ma anche fieramente capitalista e amante della bella vita. Come leader del partito di destra Likud, Netanyahu ha abbracciato una posizione intransigente nel processo di pace israelo-palestinese. È un grande oppositore della formula terra in cambio di pace. E ha dichiarato in più occasioni che non ci saranno più evacuazioni di coloni.
   I suoi sostenitori ritengono che Israele sotto la sua leadership non è mai stato più ricco, più sicuro e più accettato a livello globale, anche tra i leader degli stati arabi. Netanyahu secondo questi ha iniettato una dose di realismo nel dibattito sul come risolvere il conflitto con i palestinesi ed è stato decisivo nell'impedire all'Iran di fabbricarsi la bomba nucleare. I critici affermano invece che ha sprecato delle opportunità per raggiungere un accordo con i palestinesi, ha creato delle spaccature nella società israeliana e ha incoraggiato l'ascesa dell'estrema destra nel Paese.
   Ma ora ad intralciare la strada di Bibi pesano tre accuse di corruzione che potrebbero incrinare il suo potere incontrastato. Un caso riguarda le accuse di aver ricevuto doni, tra cui sigari e champagne da miliardari, in cambio di favori. È anche accusato di avere agevolato l'azionista del gigante delle telecomunicazioni Bezeq, Shaul Elovitch, e le sue imprese in cambio di una copertura favorevole sul suo sito Walla. E l'altra indagine verte sui contatti con l'editore del quotidiano Yediot Ahronot per una copertura informativa favorevole in cambio di norme che avrebbero limitato la diffusione del giornale rivale Yisrael Hayom. Netanyahu ha negato tutte le accuse, e le ha bollate come una caccia alle streghe orchestrata dai media.
   Ma il suo declino non è così ineluttabile. «Ha convinto molti elettori che è insostituibile», puntualizza Gideon Rahat, professore di scienze politiche all'Università ebraica di Gerusalemme. «Ha un grande talento nel non lasciare crescere nessuno sfidante all'interno del suo gruppo», continua Rahat.
   Ma il segreto della sua longevità è anche di non aver intrapreso grandi campagne militari. Queste avrebbero provocato un gran numero di vittime israeliane. Come è avvenuto con la guerra del Libano del 2006 guidata dal suo predecessore Ehud Olmert. Nonostante la sua retorica, Netanyahu è stato moderato nell'uso della forza militare, anche contro i gruppi jihadisti a Gaza. E ha sempre posto la sicurezza all'apice della sua agenda politica. Nel 2011 ha rilasciato più di 1.000 terroristi palestinesi in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit. Un vero successo politico.

(il Giornale, 21 luglio 2019)


"Non permetteremo che l'imperialismo di USA e Israele ci minacci"

L'ha detto il rappresentante degli ebrei al parlamento iraniano.

 
Siamak Moreh Sedgh saluta Sayyed Hassan Khomeini, nipote dell'Ayatollah Ruhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica dell'Iran
"Non accetteremo mai che gli Stati Uniti impongano le loro norme ambivalenti usate in vari campi: politico, culturale ed etico. Né consentiremo che i nostri interessi nazionali siano colpiti dall'imperialismo statunitense e dal sionismo in modo da minacciare la nostra sicurezza economica", ha affermato il rappresentante degli ebrei nel parlamento iraniano, Siamak Moreh Sedgh.
   Secondo lui, qualsiasi attacco alla sicurezza economica dell'Iran metterebbe a repentaglio gli interessi economici di tutte le parti interessate, nonché degli alleati degli Stati Uniti e del regime sionista.
   "Questa non è solo la reazione ufficiale del governo iraniano; ma piuttosto, tutte le nazioni amanti della libertà nella regione e tutti i combattenti e quelli che appartengono al fronte di resistenza difenderanno con forza gli interessi nazionali dell'Iran, che è il leader dell'asse della Resistenza, ovunque sono minacciati", ha detto.
   Il parlamentare ebreo ha sottolineato che il popolo iraniano ha già dimostrato più volte di essere disposto a sacrificarsi per difendere gli interessi nazionali del paese.
   Ha poi concluso: "Ma l'imperialismo americano che sta internazionalizzando questo affare, deve sapere che tutti i partigiani della libertà e della Resistenza nel mondo, in concerto con il Leader della rivoluzione islamica, faranno il loro possibile e non permetterà ai nemici, compresi l'imperialismo e il sionismo, di mettere in pericolo gli interessi nazionali e gli obiettivi rivoluzionari del paese."

(l'AntiDiplomatico, 21 luglio 2019)



Si direbbe che gli ebrei in Iran sono sono tra i più accesi nazionalisti e antisionisti. Stanno proprio così le cose?


Agnes Heller, una vita contro i totalitarismi

La filosofa ungherese è morta nel lago Balaton mentre nuotava, a novant'anni, a causa di un arresto cardiaco. Tentò di sottrarre il socialismo alle sue derive

di Simone Paliaga

Agnes Heller
Dal marxismo eretico al liberalismo pluralista. Tra questi due poli si è consumato il cammino di pensiero della filosofa ungherese Agnes Heller spentasi due giorni fa, novantenne, mentre nuotava nelle acque del lago Balaton. Lucida e sulle barricate fino all'ultimo giorno, la sua lunga vita le ha consentito di attraversare larga parte del Novecento e le prime e incerte propaggini del seguito, oggi ancora indefinito, della Guerra Fredda. Nata il 12 maggio del 1929 a Budapest da una famiglia di origini ebraiche, Agnes Heller sfugge per poco alla Shoah, di cui invece cade vittima parte della sua famiglia ad eccezione della madre. Alla fine del conflitto inizia a studiare fisica e chimica ma, nel 1947, una conferenza del filosofo marxista e dirigente del Partito comunista ungherese, Cyòrgy Lukacs, la seduce al punto da abbandonare gli studi intrapresi e abbracciare la filosofia sulla scia del suo maestro, divenendone assistente nel 1955.
  Con la pubblicazione di L'uomo del Rinascimento nel 1967, scritto dopo un viaggio in Italia, si consuma la svolta e il progressivo tentativo di sottrarre il socialismo alla deriva totalitaria che continuerà con la Sociologia della vita quotidiana (1970) e La teoria dei bisogni in Marx(1974). «Nelle vie, nelle chiese, nelle case, nei palazzi di Firenze - scrive Heller in Morale e rivoluzione del 1979 - ho incontrato un sogno, o meglio, ho incontrato il mio sogno di un mondo adeguato all'uomo». Nel Rinascimento italiano la pensatrice magiara vede un mondo in cui l' affermazione della pluralità di idee e la tensione verso la libertà era di casa. E penserà di ritrovare lo stesso clima, dopo la delusione per il fallimentare esito del governo da Janos Kadar, al di qua della Cortina di ferro. Prima l'invasione sovietica di Budapest nel 1956, che aveva visto Lukacs al fianco di Imre Nagy, poi i cingolati di Mosca a Praga nel 1968 portano Heller ad affilare la riflessione sul fallimento dei totalitarismi e al ripudio del materialismo dialettico. All'origine dei fallimentari progetti totalitari starebbe, secondo Heller, lo svuotamento della sfera politica di ogni tensione verso l'uomo. Protesi verso presunti ideali, i totalitarismi impediscono di cogliere l'uomo nella concretezza e nella caducità dei suoi bisogni e desideri. La sempre maggiore apertura verso il liberalismo e il pluralismo e la morte di Lukacs nel 1971 rendono la Scuola di Budapest, composta, tra gli altri, anche dal marito Ferenc Fehér, da Gyòrgy Markus e Mihalyvajda, sempre più esposta agli attacchi del regime. Accusata nel 1973 dalla commissione di inchiesta del partito comunista di revisionismo e deviazionismo, Agnes Heller subisce una serie di provvedimenti culminati nella espulsione dall'università e nella proibizione di pubblicare e di recarsi all'estero. Per sottrarsi ai soprusi, nel 1977, Heller fugge in Occidente dove viene accolta a braccia aperte. Diventa ben presto docente di sociologia all'Università di La Trobe a Melbourne, in Australia, ma si tratta solo di un breve intermezzo. Già l'anno successivo le viene assegnata la Chair of Philosophy, già occupata in precedenza da Hannah Arendt, della New School for Social Research di New York, un incarico che svolse dal 1978 al 1983. Le sue nuove posizioni filosofiche critiche del materialismo dialettico e in particolare la sua teoria del bisogno radicale offrono una lettura umanista del marxismo in sintonia con le esigenze espresse dalla contestazione nata dal Sessantotto. L'attenzione alla "vita quotidiana" e alla sfera dei "bisogni radicali", che consentono all'uomo di trascendere la realtà esistente, diventa il fulcro dei suoi nuovi interessi che convoglieranno nei suoi libri più noti Teoria dei sentimenti, La filosofia radicale, Il potere della vergogna, Una teoria della storia (Castelvecchi), Oltre la giustizia e Etica generale (Il Mulino).
  La scelta di abbandonare definitivamente il marxismo, dopo gli anni Ottanta, non significa per Heller adottare una svolta pragmatica e materialistica. Nell'ultima stagione del suo pensiero la filosofa ungherese intende rilanciare l'antico spazio politico dell'agorà dopo la scossa dei totalitarismi e i guasti del liberalismo proprio per salvare quest'ultimo. Tessuto dall'impegno collettivo e dalla pratica della giustizia, nello spazio pubblico ricostruito trova espressione il carattere originario della vita umana. È la riscoperta del nucleo etico della vita umana a segnare a fondo, fin dalla stagione marxiana, quando parlava di «essenza generica» dell'uomo, il pensiero della filosofa ungherese. Per essere una «buona persona» bisogna «essere per l'altro», e non semplicemente «essere con l'altro». Questa assunzione consente a Heller di tracciare una visione della società che procede oltre l'individualismo e il relativismo etico attuale.
  Nel 2001, l'11 settembre, Agnes Heller si trova proprio a New York benché, dopo il crollo del Muro di Berlino, avesse ripreso a frequentare l'Ungheria dove rientrerà definitivamente nel 2009. Dall'attentato alle Torri Gemelle deriverà un testo, non tradotto in Italia, 911.Modernity and terror che porterà la filosofa magiara ad assumere posizioni poco allineate col pacifismo non apprezzate dalla sinistra liberal che invece ben l'aveva accolta in fuga dal comunismo. La critica al terrorismo islamico paragonato al nazionalsocialismo e il sostegno, poi ritrattato, alla guerra in Iraq del 2003 le alieneranno non poco le simpatie di molti suoi sostenitori. Ferma era in Heller la convinzione che il terrorismo fosse la nuova forma di totalitarismo e che per combatterlo sarebbe stato necessario promuovere una coalizione che comprendesse anche suoi nemici come Bashar al-Assad e Vladimir Putin e per intraprendere azioni non certo pacifiste. Discutendo dello "Stato islamico", Agnes Heller non esita a dichiarare che «non si può più rispondere al problema del male solo con Hannah Arendt». Non meno accesa la sua polemica contro il presidente ungherese Victor Orban e i populisti europei accusati di mettere a repentaglio il sistema politico liberale che in quanto «depositario della democrazia», fosse «in sé un valore». Complessa e, forse, contraddittoria la vita Agnes Heller mal si presta a un cammeo. Di certo il cammino di pensiero e le sue battaglie, giuste o sbagliate che fossero, le ha condotte sulla propria pelle. Fino alla bracciata finale.

(Avvenire, 21 luglio 2019)



Un nuovo cielo e una nuova terra

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».
E colui che siede sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». Poi mi disse: «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veritiere», e aggiunse: «E' compiuto. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell'acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose, io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio. Ma per i codardi, gl'increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda».

Dal libro dell’Apocalisse, cap. 21

 


Hamas coscientemente neutrale nel conflitto siriano

Il movimento islamista palestinese Hamas è interessato alla "ripresa di una Siria forte" e manterrà la sua linea che persegue la non ingerenza nel conflitto interno in questo Paese.
   Lo ha dichiarato il suo leader Ismail Haniyeh.
   Le relazioni con la Siria, peggiorate dall'inizio della guerra civile, sono recentemente diventate un argomento frequente nei discorsi dei leader di Hamas, che si esprimono a favore della riappacificazione con Damasco, tuttavia ammettono che al momento la normalizzazione non si è ancora concretizzata.
"Non siamo intervenuti prima nel conflitto interno siriano e non interverremo in futuro. Auspichiamo la ripresa di una Siria forte e una sua ricostruzione", ha dichiarato Haniyeh, alla guida dell'ufficio politico del movimento.
All'inizio di questa settimana il membro del politburo di Hamas Mousa Abu Marzook, ha dichiarato a Sputnik che il movimento non ha ancora rapporti con Damasco e non ha rappresentanze in Siria.
Nei territori palestinesi Hamas controlla la Striscia di Gaza da 12 anni, mentre in Cisgiordania si oppone al movimento di Fatah al potere.

(Sputnik Italia, 20 luglio 2019)


Cosa si nasconde dietro al sequestro della petroliera britannica

Sale la tensione nello stretto di Hormuz tra la Repubblica islamica e gli Stati Uniti. La petroliera britannica era diretta verso l'Arabia Saudita ma dietro questo sequestro c'è molto altro

di Michael Sfaradi

 
La condizione necessaria e sufficiente per avere una veduta d'insieme del Medio Oriente è: non guardare e valutare le notizie prese singolarmente ma nel loro insieme. Si può obbiettare che questa è una regola generale che vale un po' per tutto, ed è vero, ma in Medio Oriente, viste le sue caratteristiche e i popoli che lo abitano, questo principio vale di più. Per avere un quadro d'insieme che ci ricordi come siamo arrivati alla situazione attuale è necessario ricordare che fra giugno e luglio diverse petroliere battenti bandiere europee, e una anche saudita, che navigavano o stazionavano nel Golfo Persino sono state oggetto di sabotaggio. Ci sono state, infatti, esplosioni probabilmente causate da mine magnetiche e in alcuni casi ci sono stati degli incendi a bordo.
  Il sospetto che dietro questi eventi ci fosse stata Repubblica Islamica è ancora valido anche se non ancora provato. A seguire c'è stato il fermo a Gibilterra, da parte della Marina Britannica, della petroliera iraniana Grace1, perché trasportava petrolio destinato a paesi sotto embargo, Libia o più probabilmente Siria. Nonostante ci sia stata nei giorni scorsi una lunga telefonata tra il Ministro degli Esteri iraniano e il suo omologo britannico, al fine di sbloccare la situazione, la Corte Suprema della Rocca ha allungato il periodo di fermo della nave da due settimane a un mese. Anche qui il sospetto che nella petroliera oltre al petrolio ci sia dell'altro, e molto ben nascosto al punto che serve più tempo per un'ispezione capillare, nasce spontaneo. Sospetto che viene rinforzato dalle decisioni prese a Teheran che, pur di far riprendere il mare alla Grace 1, non ha esitato a giocare d'azzardo e con il fuoco mettendo in atto quelle minacce che nessuno prendeva seriamente.
  Qualche giorno fa i Pasdaran, con l'accusa che trasportasse petrolio di contrabbando, hanno bloccato e dirottato su un porto iraniano la piccola petroliera Mt Riah battente bandiera degli Emirati Arabi Uniti, ma visto che questa prima mossa non aveva avuto grande spazio sui media occidentali e non avevano causato reazioni da parte degli U.S.A., si è pensato al salto di qualità ed ecco che i Guardiani della Rivoluzione Khomeinista hanno abbordato e sequestrato la petroliera Stena Impero, di trentamila tonnellate di stazza, che navigava nello stretto di Hormuz battendo la Union Jack. Il sequestro della Stena Impero ha immediatamente alzato il livello di guardia, la storia insegna che toccare le navi di Sua Maestà Britannica è sempre un atto ad altissimo rischio.
  Mentre il Pentagono sta trasferendo in queste ore truppe di terra in Arabia Saudita nell'ambito di un'operazione militare denominata "Guardian", che ha come obiettivo il rafforzamento del monitoraggio e della sicurezza delle vie navigabili in Medio Oriente al fine di garantire un passaggio sicuro e ridurre le tensioni del Golfo, Francia e Germania cercano di far ragionare Teheran prima che dalle parole, e anche dagli insulti, si passi alle vie di fatto. Che non si rischi una guerra di grandi proporzioni per una questione di principio lo sanno anche a Teheran, per cui è giusto chiedersi: cosa nasconde la pancia della Grace1 ancora alla fonda davanti a Gibilterra? Se il rischio vale la candela probabilmente qualcosa di grosso.
  Da una settimana circola la voce che i servizi di intelligence israeliani abbiano identificato l'ingegnere che modifica e migliora i missili di Hezbollah rendendoli più precisi e più letali, e come hanno riportato anche dal telegiornale i24 news si tratta di Majed Naveed, 54 anni, ingegnere del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRCG), responsabile dell'ammodernamento dei missili di Hezbollah in Libano. Majed Naveed dirige tre siti a Beirut, due nel sud del Libano e uno nella valle della Bekaa, centro questo dove gli ingegneri iraniani stanno convertendo i vecchi missili balistici di Hezbollah in razzi di precisione. Inutile dire che dal momento della sua identificazione certa per il Mossad Majed Naveed è un 'dead man walking', un uomo morto che cammina. Domenica 14 luglio scorso sono atterrati in Israele due nuovissimi caccia F35A che erano decollati dal Texas con la scorta di un aereo da rifornimento DC-10o della USAF che li ha riforniti in volo durante la traversata dell'Atlantico, poi, a distanza di cinque giorni, venerdì 19 luglio all'alba, come ha riportato anche Al Arabiya, un arsenale di missili balistici iraniani è stato distrutto in un sito nell'Iraq occidentale da due aerei sconosciuti.
  Alcune fonti riportano che contenesse oltre ventimila pezzi di razzi terra-terra a medio e lungo raggio. Durante il bombardamento ci sono state una decina di vittime tra le Guardie della Rivoluzione e guerriglieri Hezbollah libanesi. La notizia non ha avuto vasto eco, è oggettivamente difficile spiegare come mai ci fosse un sito iraniano di queste proporzioni a nord di Bagdad in Iraq e a cosa servisse se non in previsione di un bombardamento massiccio verso Israele da parte di Hamas e Hezbollah, gli alleati naturali dell'Iran. Questo, probabilmente, per allargare il conflitto, in un'ottica del tanto peggio tanto meglio, nel caso in cui sullo stretto di Hormuz si passasse alle vie di fatto. Come scrivevo all'inizio le notizie sono tante e importanti, e considerando che i protagonisti sono sempre con gli stessi è giusto ipotizzare che ci sia una linea rossa che le colleghi anche se accadono a migliaia di chilometri di distanza una dall'altra.

(nicolaporro.it, 21 luglio 2019)


Azienda israeliana afferma di poter bypassare la sicurezza di iCloud

Nso Group, azienda che vende software-spia e malware ad agenzie governative e forze dell'ordine, afferma di essere in grado di bypassare meccanismi di protezione dei server cloud di Apple, Google, Microsoft, Facebook e Amazon.

 
NSO Group, azienda israeliana che in precedenza si è fatta notare come responsabile della violazione di Whatsapp, "bucato" a suo tempo grazie ad una vulnerabilità nelle chiamate vocali, pubblicizza di essere in grado di ottenere accesso a dati di qualunque tipo sui servizi cloud offerti da Apple, Google, Microsoft e altri ancora, usando un malware di sua creazione denominato "Pegasus".
   Nso Group lavora su incarico dei servizi segreti di vari paesi, anche arabi, che mirano, tra le altre cose, a sorvegliare attivisti dei diritti umani, dissidenti, giornalisti e oppositori politici vari.
   Ai suoi clienti, NSO ha comunicato che il malware Pegasus sarebbe in grado di estrapolare ancora più dati di prima su qualunque individuo. Oltre alle informazioni presenti sugli smartphone-target, la compagnia israeliana, complice anche dell'immunità di cui gode, afferma di essere in grado di ottenere segretamente tutte le "informazioni" che una persona memorizza su server di Apple, Google, Microsoft, Facebook e Amazon.
   Il Financial Times riferisce che le informazioni in questione includono messaggi e foto, ma anche dati che permettono di ottenere l'intera cronologia della localizzazione telefonica. NSO Group afferma di avere sviluppato il suo software esclusivamente per uso governativo e di non fornire o commercializzare sistemi di hacking o funzionalità per la raccolta di massa dei dati ad applicazioni cloud, servizi o infrastrutture".
   Il gruppo sostiene di contribuire alla lotta al terrorismo e al crimine organizzato ma, riferisce sempre il Financial Times, spesso il malware che ha creato è stato individuato su dispositivi di giornalisti e attivisti per i diritti umani. Nella documentazione fornita prima della vendita, NSO evidenzia la possibilità di ottenere completo accesso ai dati di una persona senza richieste relative alla verifica in due fattori o generare mail con messaggi che allertano il proprietario del dispositivo-target.
   Il malware in questione deve essere in qualche modo installato sul computer della "vittima", ottenendo in qualche modo quelli che in gergo si chiamano permessi di root. Se si ottengono questi permessi, non c'è sistema di sicurezza che tenga ed è possibile ottenere accesso a qualunque funzione o aspetto del sistema, inclusi gli accessi ai servizi di cloud storage.
   NSO Group pubblicizza il suo sistema come in grado di funzionare anche con gli ultimi iPhone e dispositivi Android ma non è chiaro in che modo il malware possa essere installato, in particolare su iPhone. Apple ha riposto ai redattori del Financial Times, spiegando che iOS è la piattaforma più sicura al mondo. Precedenti versioni di Pegasus sia per iOS, sia per macOS, sono state già bloccate automaticamente da Apple in passato con specifici update.
   "Benché possano esistere alcuni costosi strumenti per effettuare attacchi mirati su un numero molto modesto di dispositivi", spiega Apple, "non riteniamo questi strumenti utili per attacchi generalizzati contro i consumatori". Sulla falsariga le dichiarazioni di un portavoce di Microsoft che ha riferito di meccanismi di protezione "in continua evoluzione"; anche Amazon riferisce di stare indagando.
   Della Nso Group si sa che è stata fondata nel 2010, ha sede a Herzliya a nord di Tel Aviv e ha circa 500 dipendenti. Qualche anno fa è stata acquisita dalla società statunitense Francisco Partners Management. I suoi fondatori - Niv Carmi, Omri Lavie, and Shalev Hulio - sono a quanto pare ex membri dell'Unità 8200, il reparto informatico delle forze armate israeliane incaricato di sorvegliare elettronicamente «ogni aspetto della vita palestinese».

(macitynet.it, 19 luglio 2019)



Al Complesso di San Domenico due giornate dedicate alla cucina ebraica

Due giornate dedicate alla cucina Kosher in Calabria, prima edizione di un festival sul tema.

COSENZA - Sarà il Complesso di San Domenico ad ospitare, il 22 e 23 luglio, la rievocazione della tradizione culinaria ebraica a confronto con la cucina Mediterranea. Nell'occasione professionisti e cultori della materia relazioneranno sui valori nutrizionali e sui benefici di una cucina "pura". Saranno realizzati piatti e ricette tradizionali delle festività ebraiche utilizzando prodotti " certificati" così come vuole la cucina kosher. Un'area verrà inoltre dedicata al "Degustando Kosher" a cura della Maccaroni Chef Academy. Showcooking e laboratori di cucina arricchiranno i pomeriggi all'insegna del gusto e della tradizione sapientemente valorizzata da un esperto di cucina kosher insieme ai ragazzi dell'Associazione "Gli altri siamo noi".
L'Associazione Kosmoikia - che organizza l'evento, in collaborazione con la Maccarroni chef Academy e con il patrocinio della Regione Calabria, del Comune di Cosenza, dell'Accademia Internazionale Dieta Mediterranea di Nicotera e dell'Accademia Internazionale del Cedro - considerata la presenza del popolo ebraico in Calabria, attraverso il "Festival della cucina kosher in Calabria" vuole approfondire gli aspetti della cultura ebraica legati al cibo e alla tavola.

(Cosenzachannel.it, 20 luglio 2019)


Netanyahu entra nella storia: premier più longevo del paese

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, entra nella storia diventando il capo dell'esecutivo più longevo dello Stato ebraico, superando David Ben Gurion, il padre fondatore del paese che il 14 maggio 1948 firmò la dichiarazione d'indipendenza, proclamando la fondazione dello Stato. Netanyahu è stato primo ministro dal 18 giugno 1996 al 6 luglio 1999 e dal 31 marzo 2009 a oggi, totalizzando 4.876 giorni in carica, circa 13 anni. Ben Gurion si era fermato a 4.875 giorni alla guida dell'esecutivo di Israele. Secondo l'Israel Democracy Institute, Netanyahu è al terzo posto dei leader in carica più longevi dei paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dopo il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2019)


Dror Eydar sostituisce Ofer Sachs

"Rappresentare Israele a Roma è un sogno che viene da lontano"

 
                                             Dror Eydar                                                                                      Ofer Sachs
"Ringrazio il presidente Mattarella - ha detto Dror Eydar - e il governo italiano per aver confermato la mia nomina e spero di giustificare la fiducia che è stata riposta in me. E, naturalmente, ringrazio il primo ministro Benjamin Netanyahu, per aver creduto in me." E' stata ufficializzata in questi giorni la nomina di Dror Eydar come nuovo ambasciatore israeliano a Roma. Eydar sostituisce Ofer Sachs ed il suo incarico comincerà a settembre.
   Dror Eydar è giornalista, (è editorialista di Israel Hayom sin dalla nascita del giornale nel 2007) ed anche ricercatore di storia e letteratura, con questo incarico vede coronare un sogno di lunga data. " Il privilegio di rappresentare lo Stato di Israele a Roma - ha avuto occasione di dire- con tutto il bagaglio diplomatico, nazionale e religioso che lega i due popoli e che risale a migliaia di anni fa, assume un significato speciale. Come ho fatto come giornalista e in altre posizioni in Israele e in tutto il mondo, cercherò di dedicare tutte le mie energie e conoscenze per rappresentare Israele fedelmente e con coraggio".
   "Uno dei modelli con cui sono cresciuto fin da bambino è il rabbino Yaakov Herzog, un intellettuale acuto e coraggioso che ha rappresentato Israele a livello internazionale in vari ruoli. Ho ricevuto in regalo il suo libro "Un popolo che abita da solo" quando ho finito la scuola media a Kfar Saba. Da allora, ho letto il libro più volte e l'ho usato spesso. Ringrazio il Primo ministro per avermi dato l'opportunità di seguire le sue orme".

(Italia Israele Today, 20 luglio 2019)


L'alleanza tra sinistra e islam che sfocia nell'antisemitismo

Così dietro l'immigrazione incontrollata e la difesa dei palestinesi si nasconde l'odio contro gli ebrei.

di Fiamma Nirenstein

L'antisemitismo diventa ancor più pericoloso quando molte acque afferiscono alla sua corrente. Così è oggi. Si può dire che l'antisemitismo contemporaneo sia un «coacervo intersezionale», come si dice oggi, alla rovescia... Ma poiché esiste lo Stato d'Israele, esso può essere fermato.
   Lo dico in maniera chiara: finché si permetterà all'antisemitismo di travestirsi, non ci sarà alcuna strategia adeguata per batterlo. Per esempio, ho trovato del tutto insufficiente la comparazione - per altro scelta dalla prestigiosa firma del presidente dell'«European Jewish Congress» Moshe Kantor - fra la pericolosità dell'aggressione del «Nordic Resistence Movement», un gruppo neonazista pure molto violento e feroce, agli ebrei di Umera nel 2016, con lo svuotamento imposto agli ebrei di Malmö dall'odio della comunità musulmana antisemita. La fuga da Malmö, dove la presenza islamica è diventata devastante, è specialmente significativa se si considera che l'anno scorso la Svezia ha sperimentato il più alto numero di morti violente: 306. La maggior parte degli attacchi sono avvenuti per mezzo di Kalashnikov, un'arma classica del conflitto israeliano-palestinese, in aeree «vulnerabili» abitate soprattutto da immigrati non occidentali. La polizia parla nei suoi rapporti di «presenza» di simpatizzanti di gruppi terroristi... Malmö, città da cui sta svanendo la comunità ebraica, soffre la presenza di un estremismo diffuso, tanto che il Comune ha stampato delle «guidelines» per i suoi impiegati e li invita fra l'altro a fare attenzione prima di lasciare un edificio «per evitare di finire in una situazione indesiderata». Il rischio più comune è quello dei continui incendi e distruzioni vandaliche: insomma la presenza islamica crea, e non solo a Malmö, una vera e propria «situazione di guerra», come la definiscono molti autorevoli commentatori.
   La violenza importata dall'immigrazione islamica incontrollata o mal controllata si è trasformata in antisemitismo: ma nessuno ha voglia di dirlo, per paura di essere accusato di islamofobia. Ne sa qualcosa l'ex presidente dell'Unione Europea Romano Prodi che nel 2003 nascose un'inchiesta che provava la presenza di diffusi sentimenti antisemiti presso i musulmani in Europa.
   L'antisemitismo svedese è un caso di studio molto speciale, in cui si trovano esaltati tutti gli elementi dell'antisemitismo europeo di oggi. C'è, in primis, un sottofondo di antico antisemitismo cristiano, un antico fantasma utilizzabile al bisogno. È l'antisemitismo light: a volte lo vediamo nello sciocco snobismo dell'upper class, altre volte invece è plebeo e demenziale negli stadi. In secondo luogo esiste una minoranza, residuo del passato, di idioti marciatori all'ombra di una svastica di suprematisti privi di riferimenti politici e culturali che non siano miserie razziste o memorie ipernazionaliste con le loro icone. E poi - terzo elemento - ecco la grande immigrazione islamica, il fenomeno contemporaneo per eccellenza, quello che fa tremare il mondo occidentale e arriva con un carico di antisemitismo pressoché invincibile, che parte dall'educazione dei bambini, come scrive Ayaan Hirsi Ali, che «imparano da piccoli che gli ebrei sono figli di scimmie e maiali», «disumani uccisori di palestinesi». Nella Carta di Hamas si dice chiaramente: «Le pietre e gli alberi diranno O Abdullah, c'è un ebreo qui nascosto, vieni e uccidilo». Nell'antisemitismo islamico si trova il nocciolo più duro dell'antisemitismo israelofobico, condito da incitamento e caricature ripugnanti.
   Infine c'è la maggiore di tutte le macchine da guerra antisemite, che ora viene chiamata in un modo e ora in un altro, che si basa sull'immensa costruzione della cultura contemporanea di Sinistra, coi suoi film, i suoi libri, le case editrici e i centri di cultura. Alla base c'è la storia europea vista attraverso il messaggio sovietico che in piena Guerra Fredda amava accusare gli Usa e i suoi alleati di essere colonialisti e guerrafondai. Israele, e quindi gli ebrei, diventano nemici dei drappelli per la pace, antimperialisti, contro il nazionalismo, che manifestano per l'uguaglianza, la libertà d'opinione, il femminismo, la difesa dei gay ... Che peccato, tante belle battaglie insozzate dal comune odio antisemita.
   Torniamo in Svezia. Io stessa, quando guidavo la Commissione esteri del Parlamento italiano, nel luglio 2009, poco dopo che il giornale Aftonbladet aveva pubblicato un lungo articolo in cui spiegava che i soldati israeliani uccidono i giovani palestinesi per rubargli gli organi e poi farne commercio, mi sono sentita rispondere dal presidente della riunione delle Commissioni esteri europee, il ministro degli esteri svedese Carl Bildt, che «non esiste nessun antisemitismo in Svezia». Gli avevo chiesto che cosa intendesse fare per bloccarne l'evidente ondata. La sua risposta fu: «nulla». Perché il problema, secondo lui, non esisteva.
   E in effetti è difficile estrapolare l'antisemitismo dal mainstream contemporaneo. Si tratta di rivoluzionare l'intera costruzione ideologica dell'Occidente post bellico, che oggi marcia nel segno di un evidente antisemitismo. La confusione, dovuta anche alla faciloneria ideologica delle classi dirigenti con cui si è affrontato il problema dello Stato-Nazione (come se si potesse cancellare con un colpo di spugna ciò che ha volto, confini, lingua, identità, cibo, famiglia...), dei confini, delle minoranze, dell'immigrazione, della condizione della donna, si è trasformata in quella famosa «intersezionalità» per cui chi si batte per la libertà della condizione omosessuale, alla fine arriva, secondo l'ideologia dei «diritti umani», a essere anti israeliano. Israele è uno dei Paesi più gay friendly del mondo. Eppure lo si dipinge sempre come se usasse le sue leggi e i suoi costumi a favore dei gay come una bandiera di «pinkwashing». Perché la vera natura dello Stato degli ebrei deve essere quella oppressiva e quindi anti-gay, come è anti-palestinese.
   I mille affluenti ideologici del liberalismo conducono a una quantità di altre stravaganze anti-israeliane, fra cui considerare Israele un Paese genocida (mentre la popolazione palestinese, prima di Israele un popolo alquanto volatile, adesso raddoppia, triplica, quadruplica...). O di essere un Paese in cui vige l'apartheid, o antidemocratico. Tutte accuse che i fatti smentiscono. Basta una passeggiata in un Mall, o in un ospedale, o alla Knesset. Ma tant'è: Bildt quando diceva che in Svezia non esiste l'antisemitismo voleva dire che se c'era una vibrante critica allo Stato d'Israele, se persino lo si criminalizza, ciò è giustificato dalle azioni perverse che quello Stato, sin dalla sua nascita, compie contro i palestinesi. Israele, per così dire, è la somma perfetta dell'«intersezionalità rovesciata»: ovvero chiunque al fondo abbia il germe del trimillenario malanno che affligge l'umanità, può trovarne il germe in tutte le possibili lotte per i diritti umani.
   Imbarazzante? Dovrebbe esserlo, in un mondo che solo 70 anni fa ha perpetrato l'Olocausto. E invece ogni organizzazione, anche quelle che come l'Unesco dovrebbero dedicarsi a preservare la bellezza del mondo, ha nell'ispirazione internazionalista il paravento per l'avversione agli ebrei. Quando scrivevo in anni molto lontani il mio primo libro sulle donne comuniste, restavo attonita scoprendo che sin dal loro inizio le prime riunioni internazionali femministe, sempre sotto l'egida dell'Urss, mettevano in relazione la rivoluzione sociale necessaria in Sud America con i movimenti femminili, mentre però l'assemblea votava l'espulsione delle donne israeliane dal loro consesso.
   La Sinistra mondiale ha adottato sempre di più questo modello per cui un oppressore o presunto tale è il coacervo di tutti i mali, dall'odio anti-omosessuale allo sfruttamento economico. Israele incarna la connessione del tema dell'identità col potere, e da qui a farne l'assassino di bambini palestinesi il passo è breve. La cosiddetta «Grande marcia del ritorno» dei palestinesi di Hamas, un'organizzazione terrorista che uccide, quella sì, donne e bambini innocenti e teorizza l'antisemitismo, è considerata spesso simile alle manifestazioni dei neri d'America, alle masse di immigrati disperati, tutti perseguitati dai privilegiati, dai potenti. I missili e gli attentati di Hamas, i palloni incendiari, sono considerati epifenomeni non collegati alla natura terrorista di Hamas che domina la Striscia di Gaza.
   Così gli ebrei sono tornati nell'empireo degli sfruttatori e dei mostri dopo le sofferenze della Shoah. La battaglia contro l'antisemitismo deve partire dal difendere Israele dalle accuse di genocidio, colonialismo, apartheid, ossia le bandiere del nuovo antisemitismo. Gli ebrei sono i nazisti moderni, e quindi non si meritano di esistere, tanto meno come Stato nazione, di per sé un'identità che incarna il potere, la prepotenza, l'espulsione dei miseri. Se chiedessimo a Jeremy Corbyn, il leader del partito laburista britannico, perché è antisemita, risponderà che i suoi migliori amici sono ebrei, e che è semplicemente contro l'oppressione che Israele infligge ai palestinesi. Se gli si chiedesse perché tuttavia è amico di Hamas, la risposta invocherà i valori della resistenza contro l'oppressione. Questa è la bandiera europea dell'antisemitismo odierno, qui si combatte la battaglia. E di nuovo il centro è Israele, attaccato sì, ma forte: lo Stato degli ebrei oggi esiste per difenderli in tutto il mondo. Ed è solo rafforzandolo ulteriormente che si batte l'antisemitismo.

(il Giornale, 20 luglio 2019)


«... lo Stato degli ebrei oggi esiste per difenderli in tutto il mondo. Ed è solo rafforzandolo ulteriormente che si batte l'antisemitismo». Ma non è rendendolo «uno dei Paesi più gay friendly del mondo» che si rafforza Israele, questo è sicuro. M.C.


Laici-religiosi, dove tende Israele

Israeliani: da giovani più religiosi, col tempo più laici. La ricerca di Sergio Della Pergola e Ariela Keyser.

 
 
"In Israele si registra un trend generale per cui ogni generazione nasce più religiosa della precedente. A questo si affiancano due altre tendenze: un certo spostamento interno alla società verso i due poli opposti, più religiosi e meno religiosi, e allo stesso tempo un cambiamento del grado di religiosità in base all'età. Questo a dire che la società israeliana è in continuo divenire, è molto fluida e rappresenta una realtà interessante da studiare e allo stesso tempo complessa da inquadrare in schemi rigidi". Così il demografo israeliano Sergio Della Pergola, un punto di riferimento quando si tratta di fotografare i cambiamenti interni alla popolazione israeliana e l'evoluzione degli orientamenti al suo interno. Tra questi significativo il recente studio curato dal docente dell'Università Ebraica di Gerusalemme assieme ad Ariela Keysar del Trinity College, dedicato alle "Dimensioni demografiche e religiose dell'identificazione ebraica negli Stati Uniti e in Israele: i Millenials in prospettiva generazionale", una ricerca comparativa sul mondo ebraico israeliano e americano basata su un'indagine del 2015 del Pew Research Center.
  Rispetto a Israele, come osservava lo stesso Della Pergola su queste pagine: "Nei 24 anni trascorsi dal 1991, subito dopo l'arrivo della grande massa di immigrati dall'Unione Sovietica, fino al 2015 la percentuale di coloro che affermano di osservare tutti o grande parte dei precetti religiosi è passata dal 38% al 39%, coloro che dicono di non osservarne nessuno sono aumentati dal 20% al 26%, e quelli che dicono di osservarne una parte sono diminuiti dal 41% al 34%. Dunque si sono rafforzati gli estremi e si è indebolito il gruppo di mezzo, anche se la totale assenza di osservanza tradizionale è in realtà molto inferiore. Basti pensare che secondo l'ultima rilevazione, fra coloro che si autodefiniscono come secolari, 87% partecipano al Seder di Pesach, 53% accendono i lumi alla vigilia del Sabato per lo meno occasionalmente, 40% frequentano una sinagoga di tanto in tanto, 33% mantengono la casa casher, 30 digiunano l'intero giorno di Kippur, il 18% credono in Dio assolutamente e un altro 38% credono, ma con minore certezza".
  Il report - che fa una comparazione tra Millenias americani e israeliani - prende in considerazione i diversi gradi di religiosità interni alla società israeliana che possono essere suddivisi in Haredim (molto religiosi), Datim (religiosi), Masortim (tradizionali) e Hilonim (laici).
  Quello che emerge dal lavoro di comparazione di Della Pergola e Keysar, che mette a confronto Millenials israeliani e americani, è un dato in controtendenza con il resto del mondo: un ritorno dei giovani ebrei a forme più religiose di ebraismo a cui si affianca "una riconfigurazione del popolo ebraico come più strettamente sovrapposto alla religione e una crescente convinzione che l'essenza principale dell'ebraismo sia la religione e non le sue alternative più laiche", scrivono i due studiosi nelle conclusioni. Questa tendenza a una maggiore religiosità dei giovani è compensata da una progressiva secolarizzazione nel corso del tempo. "C'è un certo equilibrio e non ci sono cambiamenti drammatici all'interno della società israeliana a differenza di quanto pensano alcuni - afferma Della Pergola - È vero però che i due estremi (più religiosi e più hiloni) mantengono la propria posizione meglio che non il centro". Ovvero vi è quanto già richiamato, uno spostamento verso i poli che produce una maggiore divisione, segnata ancor di più da un sistema educativo diviso in quattro compartimenti: hiloni, religioso-nazionale, haredi, arabo. "Dal punto di vista del pluralismo culturale è positivo ma dall'altro lato si riproduce all'infinito una divisione interna della società. E la politica non ha interesse a portare correzioni, anzi il suo agire è deleterio perché finanzia nei singoli gruppi di interesse. E su questo punto non sono ottimista, non credo cambierà in futuro".

(Pagine Ebraiche, luglio 2019)



Il 20 luglio di von Stauffenberg

L'attentato del 1944. Fa ancora discutere la figura dell'ufficiale della Wehrmacht che cercò di assassinare Hitler.

La destra tedesca vuole appropriarsene come motivo per attaccare la Merkel La stragrande maggioranza dei vertici militari tedeschi rimase fedele al nazismo

di Gianenrico Rusconi

Il 20 luglio 1944 - settantacinque anni fa - fallì l'attentato a Hitler, ideato e condotto da Claus von Stauffenberg, colonnello dello stato maggiore tedesco. All'annuncio della morte del dittatore, sarebbe dovuto seguire un colpo di stato a Berlino. Ma il fallimento dell'attentato portò non solo all' uccisione di von Stauffenberg e degli altri congiurati da parte degli hitleriani ma allo scatenamento di una sanguinosa repressioni di centinaia di sospettati. L'operazione culminò con una mobilitazione di consenso al regime. Impressionante fu il sostegno praticamente unanime della classe militare mentre la stragrande maggioranza della popolazione considerò l'attentato un «tradimento» verso il popolo tedesco.
   Dopo la fine della guerra, la figura di von Stauffenberg fu ignorata o guardata con estremo sospetto. Soltanto nel 1954 il presidente dello Stato, Theodor Heuss, affermò che «la vergogna che Hitler aveva gettato su noi tedeschi fu cancellata dal sangue» dei protagonisti del 20 luglio. Ma ci vollero ancora molti anni perché von Stauffenberg fosse riconosciuto nei suoi meriti, e soltanto con la fine degli anni sessanta e gli anni settanta diventò un modello etico-politico e un «eroe». Almeno nella cultura politica dominante.
   Ma la sua personalità politica rimane tutt'oggi motivo di dibattito e controversie, a proposito delle sue intenzioni politiche e prospettive istituzionali. Von Stauffenberg non era un «democratico» nel significato che noi diamo a questo concetto e lui stesso oggi si sentirebbe estraneo al sistema dei partiti esistente. La sua era una visione nazional-conservatrice, certamente priva di tratti dittatoriali, ma organicista non pluralista, e non esente da elementi autoritari (quantomeno nella fase di passaggio dal nazionasocialismo al nuovo regime). Insomma, nella sua impostazione etico-politica sono difficilmente riconoscibili i tratti che portano alla democrazia costituzionale di oggi. La «resistenza» antinazista di questo tipo era motivata innanzitutto dalla visione cristiana della dignità dell'uomo, della giustizia e libertà della persona da ogni violenza politica e costrizione sociale. L'azione di rivolta che ne seguiva - sino all'estremo della soppressione fisica del dittatore (idea per altro non condivisa da tutti) - nasceva dalla constatazione che il regime nazista era (o era diventato) l'opposto di tutti questi valori.
   Quello di von Stauffenberg è stato dunque essenzialmente un gesto morale , un «atto etico»? Non è esattamente così. Ma prima di capire la sua qualità politica, che va collocata nel suo contesto storico, dobbiamo prendere atto di un altro fatto di attualità, solo apparentemente paradossale. In realtà inquietante. Esponenti di spicco della nuova destra tedesca antisistema - Alternative fùr Deutschland - fanno di von Stauffenberg un loro modello di riferimento. «Gli uomini del 20 luglio hanno dato un esempio di ethos dell'ufficiale patriota. Il limite dell'obbedienza è stato raggiunto quando la guida dello Stato agisce in modo criminale - leggiamo sulla autorevole rivista della nuova destra Junge Freiheit - Anche grazie all'atto di von Stauffenberg noi tedeschi oggi possiamo andare a testa alta». La tesi è esplicita : quando il governo agisce in modo sbagliato (addirittura criminale) , la disobbedienza è un dovere. Facendo di von Stauffenberg un eroe della disobbedienza tedesca , la nuova destra mira ad appropriarsi del concetto di «resistenza», che diventa così uno slogan urlato nelle piazze contro il governo e contro il sistema politico.
   Un abuso così clamoroso della figura di von Stauffenberg discende ovviamente dalla assurda equiparazione fatta dalla AfD del sistema nazionalsocialista con il «sistema dei partiti» attuale. Ma questa assurdità riporta al discorso fatto sopra sui limiti intrinseci della «resistenza antihitleriana» del gruppo attorno a von Stauffenberg. A questo punto occorre però ricordare che, con tutti i suoi limiti, questo gruppo si è differenziato decisamente dalla stragrande maggioranza dei vertici militari rimasti fedeli al nazionalsocialismo, nonostante fossero a conoscenza dei crimini commessi durante la guerra di sterminio, condotta con l'invasione dell'Unione sovietica. Nonostante vedessero con i loro occhi che la guerra sconfinava nel genocidio, nella soppressione indiscriminata della popolazione civile, perdendo così ogni legittimità morale e politica. Eppure occorre attendere gli anni Novanta perché venisse definitivamente smentito il mito delle SS criminali e della Wehrmacht che combatteva duramente ma correttamente.
   A questo proposito proprio von Stauffenberg, che inizialmente aveva salutato e sostenuto il nazionalsocialismo, aveva constatato che la guerra condotta da Hitler non era affatto la versione più radicale della guerra nazional-imperiale «tradizionale» tipica delle grandi potenze, ma una guerra razziale di annientamento. I vertici militari, nonostante qualche cauto dissenso di alcuni, non si sono opposti.
   Che l'attentato del 20 luglio fosse il segnale e la prova della ostilità dei vertici militari era una ossessione personale di Hitler che non aveva riscontro nel loro atteggiamento effettivo, presentato come esclusivo impegno totale dei soldati tedeschi. Da qui il tragico equivoco di combattere sino all'ultimo per la salvezza della Germania a fianco del nazionalsocialismo anziché capire che la salvezza della Germania dipendeva proprio dalla scomparsa e dal rifiuto dell'hitlerismo. In questa ottica l'azione di von Stauffenberg non è stato semplicemente un nobile «gesto etico, ma un atto politico.

(La Stampa, 20 luglio 2019)


A Kaunas (Lituania) nella sinagoga corale sopravvissuta alla Shoah

di Fabrizio Tenerelli

 
  La Sinagoga corale di Kaunas   
Le Repubbliche Baltiche sono state caratterizzate da una duplice invasione: quella dei nazisti e quella dei sovietici. Per quanto riguarda gli ebrei, lo leggete qui sotto, la popolazione è crollata in maniera vertiginosa e di tutte le sinagoghe che c'erano un tempo, ne sono rimaste davvero poche. Oggi vi parlo della Sinagoga corale di Kaunas, che ho avuto modo di visitare.
   Prima della Shoah a Kaunas, in Lituania, c'erano più di 35 sinagoghe e case di preghiera. Il numero così alto può essere facilmente spiegato dal fatto che, ad esempio, nel 1897, a Kaunas vivevano più di 25mila ebrei, vale a dire il 35% della popolazione totale (71mila circa). Nel 2011, pensate un po', a Kaunas vivono circa 300 ebrei. In questo breve reportage vi parlo e mi mostro qualche foto della sinagoga corale (E. Ožeškienės st. 13), l'unica attualmente funzionante a Kaunas. La costruzione della sinagoga fu finanziata, nel 1871, da un mercante locale della prima gilda, Lewin Boruch Minkowski (una strada di Aleksotas prende il nome dai suoi due figli, Oskar Minkowski e Hermann Minkowski).
   L'edificio in stile barocco revival fu completato nel 1872. L'altare della sinagoga è, come sostengono numerosi visitatori, uno dei più belli dell'intero mondo ebraico. Un monumento ai circa 50.000 bambini Litvak uccisi durante l'Olocausto si trova sul retro dell'edificio. È possibile visitare un'esposizione di ritratti di rabbini al secondo piano della sinagoga. I concerti sono a volte tenuti anche nella sinagoga.

(Vivi Israele, 19 luglio 2019)



Pasdaran iraniani sequestrano una petroliera britannica nello stretto di Hormuz

Trump ha parlato di Iran al telefono con l'omologo francese Macron e ha avvertito Teheran di non fare 'nulla di stupido' o 'pagherà un prezzo che nessun altro ha mai pagato' . L'Iran aumenta l'arricchimento, gli Usa verso nuove sanzioni. La Gran Bretagna blocca una petroliera, l'Iran ne chiede la "liberazione immediata" Alta tensione Usa Iran. Teheran replica alle sanzioni di Trump: "Chiusa per sempre la via diplomatica".

Schizza alle stelle la tensione nel Golfo. I Pasdaran iraniani hanno annunciato in serata di aver sequestrato una petroliera britannica con 23 persone a bordo nello Stretto di Hormuz. La 'guerra delle petroliere' rischia di precipitare in un conflitto più esteso, con il presidente americano Trump che ha parlato di Iran al telefono con l'omologo francese Macron e ha avvertito Teheran di non fare 'nulla di stupido' o 'pagherà un prezzo che nessun altro ha mai pagato'.

 L'annuncio dei Pasdaran
  I Guardiani della Rivoluzione iraniani, i pasdaran, hanno comunicato di aver fermato una petroliera britannica nello Stretto di Hormuz, perché avrebbe violato le leggi internazionali. La Stena Bulk, proprietaria della nave, e l'armatore hanno spiegato che la petroliera è stata catturata da "piccole imbarcazioni e da un elicottero" intorno alle 15, ora di Greenwich (le 19.30 in Iran), dopodiché ha fatto rotta verso le coste iraniane. A bordo ci sono 23 persone, tutti membri dell'equipaggio. Lo Stretto di Hormuz è diventato il teatro delle tensioni con l'Iran, con una serie di incidenti nelle ultime settimane; lo stretto divide la Penisola Arabica dalle coste iraniane e il Golfo Persico dal Golfo dell'Oman. E' uno dei tratti di mare più importanti del mondo per il trasporto del petrolio. Le relazioni tra l'Iran da una parte e Usa e Gran Bretagna dall'altra si sono deteriorate in modo marcato nelle ultime settimane. All'inizio di luglio la Gran Bretagna aveva catturato una petroliera iraniana, accusandola di violare le sanzioni contro la Siria.

(RaiNews, 19 luglio 2019)


Netanyahu: la comunità internazionale agisca contro Iran e Hezbollah

E' giunto il momento che la comunità internazionale comprenda la gravità del pericolo posto dall'Iran e dal movimento sciita libanese Hezbollah ed esca allo scoperto contro di loro. Lo ha detto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in occasione di una commemorazione per i caduti della Seconda guerra del Libano (12 luglio-14 agosto 2006) che si è tenuta presso il Monte Herzl, a Gerusalemme. In merito alla "minaccia islamista", Netanyahu ha aggiunto: "Stiamo lavorando senza tregua per ostacolare gli sforzi dell'Iran per far arrivare fondi e armi a Hezbollah. E' chiaro a tutti che senza l'ossigeno iraniano, Hezbollah non può sopravvivere a lungo". Secondo il premier, "non appena le impalcature iraniane saranno rimosse", Hezbollah "collasserà". "La lotta contro l'aggressione iraniana non è soltanto nostra, deve essere la lotta di tutto il mondo", ha proseguito, ricordando che "per molti anni" Israele "è rimasto da solo di fronte all'aggressione iraniana".
   A tal proposito, il capo dell'esecutivo di Gerusalemme ha ricordato che in Siria Israele ha agito in modo autonomo per impedire alle forze iraniane di stabilire una presenza. "Non permetteremo un secondo Libano in Siria", ha proseguito. Inoltre, lo Stato ebraico "non garantirà alcuna immunità a chi lancia missili, anche se provengono da aree densamente popolate", riferendosi a Libano e Striscia di Gaza. Nel suo discorso, Netanyahu si è scagliato contro il governo di Beirut che "non esprime alcuna opposizione nei confronti di Hezbollah" e per questo motivo sarà ritenuto responsabile di una eventuale aggressione. "Se costretti a intraprendere una nuova guerra, agiremo con forza", ha concluso.

(Agenzia Nova, 19 luglio 2019)


Conclusa la visita della delegazione pugliese in Israele

Emiliano: "Nuove opportunità di scambi commerciali e culturali che possono favorire lavoro e investimenti".

Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano conclude la missione della delegazione pugliese in Israele con queste parole :
    "Si chiude oggi una missione importantissima, che si è occupata dei grandi progressi tecnologici che Israele ha fatto nella gestione dei rifiuti, nell'utilizzo dell'acqua e nel riutilizzo dei reflui depurati, in materia di aerospazio, nell'agricoltura di precisione, nella produzione di cibo in luoghi con scarsità d'acqua che hanno bisogno di essere tutelati dal punto di vista ambientale.
    La Puglia e Israele si somigliano molto, sono terre che hanno saputo superare la scarsità: dell'acqua e delle risorse naturali, che hanno saputo trasformare un territorio ostile in un luogo straordinario.
    Israele è in questo momento una delle potenze economiche più importanti del Mediterraneo e del Medio Oriente, quindi un partner importante.
    Noi abbiamo portato la nostra amicizia, il nostro desiderio di pace, la nostra volontà di costruire con lo Stato di Israele le migliori condizioni per una pacifica convivenza ma soprattutto per uno sviluppo economico.
    Sono milioni i turisti israeliani che potenzialmente potrebbero venire a trovarci e quindi noi ci auguriamo che questi intensi scambi commerciali, culturali, gli studi reciproci nelle università, possano unire i nostri territori e costruire una prospettiva di lavoro per i nostri giovani.
    Il distretto aerospaziale di Grottaglie, e in particolare Taranto, ha già relazioni importanti: l'ambasciatore d'Israele è venuto a trovarci ed è stato uno dei promotori, assieme all'ambasciatore italiano qui a Tel Aviv, di questa visita importantissima.
    Ringrazio quindi sua eccellenza Ofer Sachs, Ambasciatore dello Stato d'Israele in Italia con il quale abbiamo ideato questa missione e dato vita a questa proficua collaborazione istituzionale.
    E ringrazio l'Ambasciatore d'Italia in Israele, Gianluigi Benedetti, e il Console generale d'Italia a Gerusalemme, Fabio Sokolowicz. per il prezioso supporto: un grazie sentito a tutti i diplomatici dei due Paesi che ci hanno supportato negli incontri avuti in questi giorni".
L'Ambasciatore d'Israele in Italia Ofer Sachs, commenta così la visita in Israele del presidente della Regione Puglia Michele Emiliano:
    "La visita del presidente della Regione Puglia in Israele è volta a rafforzare ulteriormente i forti legami economici ed accademici esistenti tra Israele e Puglia. La regione governata da Michele Emiliano è certamente una delle realtà più importanti e in crescita in Italia, all'avanguardia in molti settori, tra tutti quello aerospaziale e agricolo. Facendo seguito alla mia visita al Politecnico di Bari e all'aeroporto di Taranto-Grottaglie dello scorso febbraio, l'importante delegazione organizzata dal dipartimento affari economici dell'Ambasciata d'Israele a Roma e dal console onorario di Israele in Puglia Luigi De Santis, in stretto coordinamento con gli uffici della regione e dell'Ambasciata d'Italia in Israele, dimostra l'impegno e il desiderio comune di progredire in questa importante cooperazione istituzionale nel campo della ricerca e dell'innovazione tecnologica."
"Volge al termine un'impegnativa e importante missione della Regione Puglia qui in Israele - dichiara poi Luigi De Santis, console onorario di Israele -. È una missione che continua il percorso in stretta collaborazione con l'ambasciata d'Israele in Italia e con il nostro ambasciatore Ofer Sachs per creare opportunità di cooperazione concreta. Abbiamo visitato importanti realtà imprenditoriali e istituzionali israeliane per far crescere la nostra Regione, farla crescere con dei partner affidabili e innovativi quali sono i partner israeliani. Continueremo su questo percorso, certi che potranno esserci dei risultati concreti già nei prossimi mesi".
  Da lunedì ad oggi la delegazione pugliese ha incontrato i vertici delle più importanti istituzioni e imprese dei settori Water management, Waste management, Space Technologies applied to agriculture and Remote control/automated monitoring, per costruire collaborazioni e promuovere nuovi investimenti.
  Emiliano ha anche incontrato oggi a Tel Aviv Ami Katz, direttore del Museo Eretz Israel, con Fiammetta Martegani, curatrice della Mostra "Dalla terra ferma alla terra promessa". Gli scambi culturali e la promozione turistica rientrano tra gli obiettivi della missione istituzionale che la Regione Puglia sta realizzando in Israele.

(Regione Puglia, 19 luglio 2019)


L'IDF, esercito israeliano, esercito degli ebrei

di Silvia Gambino*

 
Il 9 luglio 2014, mentre Israele si preparava a un'operazione militare di terra dentro la Striscia di Gaza, gli ufficiali della Brigata Givati ricevettero una lettera dal loro comandante, il colonnello Ofer Winter. Il suo contenuto fortemente religioso, più simile a una preghiera che all'esortazione di un capo militare che agisce in rappresentanza dello Stato, suscitò molto dibattito riguardo la sua appropriatezza e il suo significato, in luce della mai risolta, delicatissima dinamica di Israele tra "Stato ebraico" e "Stato democratico". L'analisi del professor Mordechai Kremnitzer per conto di The Israel Democracy Institute, sul contenuto e le implicazioni della lettera - tra "religiosizzazione" dell'esercito e politicizzazione della religione - è una perfetta introduzione al tema di questo articolo.
  L'esercito israeliano è laico o religioso? Come per molto altro riguardante Israele, la domanda è mal posta, non si può scegliere una definizione ed escludere l'altra. Certamente le Forze di Difesa Israeliane servono in nome dello Stato e dei suoi interessi, non di un'autorità religiosa; tutti i cittadini, ebrei e non - chi per obbligo di legge, chi per scelta volontaria - possono entrare a farne parte e anche farvi carriera. Definire l'IDF come esercito religioso sarebbe quindi falso, ma non meno fuorviante, per la comprensione della realtà israeliana, sarebbe ignorare il ruolo della religione al suo interno, trascurare l'intrico di dinamiche per mezzo delle quali società, religione e politica tra le file dei soldati si incontrano, si parlano, si scontrano. A partire dalla cerimonia che si tiene a conclusione della tironut, l'addestramento delle reclute, in cui ogni nuovo soldato, sulla Bibbia che appositamente per l'occasione ha ricevuto dal Rabbinato militare, giura fedeltà allo Stato. O del rivoluzionario cambiamento di cui è stato dato annuncio soltanto due settimane fa, frutto di una petizione inviata alla Corte Suprema dal "Gruppo Huddush per la libertà di religione e l'uguaglianza": per la prima volta dal 1948, l'IDF dovrà implementare misure per consentire lo svolgimento di funerali militari non ortodossi (tenuti da rabbini conservative e reform) e laici.

 Il Rabbinato militare
  Il Rabbinato militare e l'IDF nascono insieme nel 1948. Il Rabbino capo militare, la più alta autorità religiosa dell'esercito, è nominato dal Capo di stato maggiore. Per legge, un rappresentante del rabbinato deve essere presente presso ogni unità, con il compito di prendersi carico, leggiamo sulla pagina dedicata del sito dell'IDF, "di tutti gli aspetti religiosi in conformità con i bisogni e le tradizioni dei soldati". Continuando a leggere, vediamo come questa del rabbino militare sia tutt'altro che una figura marginale. Le sue numerose responsabilità (perciò anche lo spiegarsi della sua autorità) comprendono: la gestione delle questioni familiari e personali dei soldati in servizio (matrimoni, divorzi, conversioni, sepolture…), il controllo sulla kasherut e l'osservanza dello Shabbat, l'organizzazione di cerimonie, gruppi di studio di Torah, luoghi di preghiera, e così via. Si tratta, spiega Eliav Rodman su My Jewish Learning, di assicurare l'inclusione dei soldati osservanti, conciliare il dovere di rispettare le norme dell'ebraismo con il dovere di servire lo Stato, creando così dei ponti - e non delle fratture - tra l'essere ebrei ed essere cittadini. I soldati religiosi possono essere inseriti in programmi speciali, che combinano l'addestramento militare con lo studio in yeshivah; hanno diritto al tempo per le tre preghiere quotidiane e all'osservanza dello Shabbat, seppur ogni situazione debba essere valutata alla luce del principio del piquah nefesh, la salvaguardia della vita; possono richiedere e ottenere deroghe vestimentarie, come la barba per gli uomini, in osservanza del divieto di radersi e la gonna per le donne, in osservanza del divieto di indossare abiti maschili (sulla crescita della presenza di donne religiose nell'IDF, si veda Ruth Eglash sul Washington Post). Sempre sulla pagina dell'IDF dedicata alla presentazione del Rabbinato militare, una frase in particolare può dirci qualcosa sul dialogo tra religione e società che si sviluppa nell'esercito: "Il fatto che le mense militari siano kasher diminuisce le visibili differenze tra soldati religiosi e laici e promuove tra loro un senso di unità".

 Soldati religiosi e soldati laici
  Ma in base a quali parametri si stabilisce se un soldato è religioso o laico? Si segnalano dei casi, scrive Michael Bachner su The Times of Israel, in cui la non chiarezza della definizione ha condotto a situazioni particolari. Abbiamo ad esempio un soldato della brigata Golani, condannato a venti giorni di prigione come punizione al rifiuto di obbedire all'obbligo di radersi: per motivi che non si conoscono, la sua richiesta di essere inquadrato come religioso e quindi di essere esentato da questo obbligo era stata rigettata. Si conoscono invece i motivi di un caso simile avvenuto nella stessa brigata: il rigetto della dispensa a radersi su base religiosa e la conseguente punizione per non obbedienza sono giunti questa volta dopo che il soldato in questione, interrogato dal rabbino della propria unità, non ha saputo rispondere riguardo la porzione di Torah prevista per lo Shabbat in arrivo. Alle dichiarazioni dell'avvocato Yael Tothani in relazione ai due casi ("Questo è illegale: un test ridicolo non può determinare se uno è religioso oppure no"), l'esercito ha risposto che la preparazione religiosa dei due soldati era stata più volte esaminata dai rabbini delle rispettive unità e che la decisione di negare l'inquadramento nella categoria religiosa era stata presa solo alla luce del loro responso.

 Israeliani, cittadini, ebrei: il programma Nativ
  L'ambito in cui forse il dialogo nell'esercito tra religione e società israeliana si esprime in maniera più significativa è il programma Nativ, che unisce il servizio militare a un percorso di conversione all'ebraismo - con sessioni di studio, seminari, attività per le festività e per Shabbat - al completamento del quale si compare, per una valutazione sulla propria preparazione e motivazione, davanti a un Beth Din. Yoav Zitun e Yehuda Shohat riportano su Ynet News che il numero di soldati convertiti ogni anno dal programma Nativ - la cui chiusura per problemi di budget lo scorso anno è stata scongiurata in extremis da un intervento del governo - è di circa 1500. Se da una parte esso rappresenta un'opportunità per tutti quei cittadini o nuovi immigrati di identità ebraica (soprattutto dai Paesi dell'ex Unione Sovietica) ma non halachicamente ebrei, con i suoi parametri chiari e facilitanti rispetto alla tortuosità di un percorso di conversione individuale, dall'altro la sua gestione da parte dell'IDF pone molti spunti di dibattito.
  L'esercito infatti, continuano i giornalisti, è stato a più riprese criticato da gruppi di advocacy perché farebbe pressione sui suoi soldati non ebrei affinché assistano al seminario di presentazione del programma. Una lettera del 2017 scritta dall'Associazione per i Diritti Civili in Israele usa parole molto forti: "Si tratta di una violazione della privacy che calpesta la libertà di religione e di coscienza di queste persone e invia loro un messaggio umiliante e degradante: che sono cittadini di serie B e soldati inferiori". E che porrebbe problemi anche dal punto di vista halachico, in quanto il ghiur non è valido se la persona non lo compie nella completa libertà di scelta.
  Ma l'IDF respinge le accuse: "Agiamo con le migliori intenzioni, nessuna volontà di imporre ai soldati una scelta religiosa. Il programma Nativ nasce con l'obiettivo di rafforzare il senso di appartenenza dei nuovi immigrati e dei loro figli. Ognuno è libero di cominciarlo e anche di abbandonarlo a metà. Facciamo solo informazione sul seminario di presentazione e richiediamo a tutti di parteciparvi, per assicurare che non succeda che persone potenzialmente interessate rimangano all'oscuro di questa opportunità".
* Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l'International School dell'Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d'anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell'educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.

(JoiMag, 19 luglio 2019)


Una startup israeliana crea la prima bistecca artificiale

La carne viene sintetizzata in laboratorio: ridurre gli allevamenti intensivi e l'inquinamento

E' la prima bistecca del tutto artificiale. L'hanno sintetizzata in un laboratorio ma, assicura chi l'ha assaggiata, il sapore e l'odore sono gli stessi di quella reale. La carne viene ricavata dalle cellule estratte dalle mucche e, come dichiarato dall'azienda che la produce, la sua realizzazione non prevede l'utilizzo di antibiotici né il macello di alcun animale. L'autrice di questa invenzione è la start-up israeliana Aleph Farms che punta a un prodotto mai visto sul mercato. Altro obiettivo dell'azienda è anche contrastare l'allevamento intensivo come causa maggiore di inquinamento al mondo. La bistecca dovrebbe entrare nei supermercati di Stati Uniti, Europa occidentale e Asia a partire dal 2021.

(TGCOM24, 19 luglio 2019)


Israele. 50o! Caldo record, è il picco più alto mai registrato: situazione in peggioramento

Cambiamenti climatici e caldo record.

La giornata di ieri è stata la più calda mai registrata dalla nascita dello stato d'Israele nel 1948. Lo ha confermato oggi il servizio meteo israeliano. Il record è stato raggiunto sulle rive del mar Morto, vicino al sito biblico di Sodoma, dove la temperatura ha raggiunto 49,9 gradi. Ma anche nelle più fresche zone di pianura sulle rive del Mediterraneo la giornata è stata da bollino rosso, con picchi di 42 gradi. Le alte temperature hanno provocato incendi in diverse parti del paese, con alcuni feriti.
   Circa 200 abitazioni sono state evacuate a causa delle fiamme. Il caldo era particolarmente secco, con un tasso di umidità fra il 10 e il 25%, particolarmente basso rispetto alla media di questo periodo dell'anno. Nel suo avviso, il servizio meteo ha sottolineato l'effetto del cambiamento climatico. «Per quanto sia difficile attribuire un singolo evento al cambiamento climatico - si legge - secondo le stime il riscaldamento globale continuerà.
   Ci dobbiamo quindi aspettare un aumento delle ondate di caldo estremo e un'alta probabilità di nuovi record nelle alte temperature». Va comunque notato che il record di ieri fu superato nel giugno 1942, quando la temperatura nella località di Tirat Zvi, nella valle di Beit Shèan, raggiunse i 54 gradi. Ma allora lo stato d'Israele non esisteva.

(Caffeina Magazine, 19 luglio 2019)


Germania, alti funzionari delle ambasciate accusati di antisemitismo

Colpevoli di antisemitismo, a detta della stampa di Berlino, sarebbero persino diplomatici teutonici di lungo corso.

di Gerry Freda

Uno scandalo antisemitismo si è di recente abbattuto sulle istituzioni tedesche, in particolare sul ministero degli Esteri di Berlino.
   La rete diplomatico-consolare della Germania è stata infatti accusata dalla stampa teutonica di essere affetta dalla presenza di funzionari "ostili a Israele" e addirittura "sostenitori della distruzione dello Stato ebraico". Tali opinioni sarebbero state esternate dai soggetti in questione mediante i canali social di diverse ambasciate del Paese Ue.
   Secondo un'inchiesta condotta dal quotidiano Bild, le pagine Facebook e gli account Twitter ufficiali di numerose sedi diplomatiche di Berlino sparse per il mondo si sarebbero appunto riempite, negli ultimi mesi, di post estremamente violenti all'indirizzo delle politiche attuate dal governo di Gerusalemme nonché di commenti palesemente espressivi di antisemitismo. Gli autori dei messaggi incriminati sarebbero alti funzionari delle stesse ambasciate tedesche, persino alcuni con alle spalle "anni e anni di pubblico servizio".
   Tra i diplomatici di lungo corso coinvolti nello scandalo vi sarebbe infatti, sostiene Bild, Christian Clages, attuale ambasciatore teutonico a Ramallah, presso l'Autorità nazionale palestinese. Costui avrebbe infatti pubblicato, sull'account Twitter di tale rappresentanza di Berlino in Medio Oriente, delle dichiarazioni in cui l'esecutivo di Gerusalemme verrebbe dipinto come una "compagine nazista". Egli avrebbe inoltre, utilizzando la pagina Facebook ufficiale della stessa istituzione, messo dei "like" a dei video inneggianti alla "cancellazione dello Stato ebraico" e celebrativi delle operazioni terroristiche condotte da Hamas contro soldati e civili israeliani. Gli apprezzamenti digitali di Clages sarebbero stati manifestati anche verso un filmato in cui David Duke, suprematista bianco americano, sfoggia il suo antisemitismo invocando lo "sterminio degli israeliti".
   Finora, Bild ha biasimato pubblicamente soltanto il rappresentante del governo Merkel a Ramallah, ma lo stesso quotidiano sostiene che tanti altri insospettabili funzionari del ministero degli Esteri, ancora coperti da anonimato, esternerebbero quotidianamente sulle pagine social di ambasciate e consolati teutonici il proprio odio verso l'entità sionista.
   Il capo della diplomazia tedesca, il socialdemocratico Heiko Maas, ha subito reagito all'inchiesta sull'antisemitismo nelle istituzioni nazionali promettendo l'avvio di un'indagine interna volta ad accertare le responsabilità evidenziate dalla testata in questione. Egli ha poi tuonato: "In Germania non c'è posto per nessuna forma di intolleranza. Se un funzionario pubblico si abbassa a lanciare accuse becere e inquietanti contro il popolo ebraico, è giusto che paghi duramente, in quanto è in gioco la credibilità della nostra democrazia, nata dalla lotta al nazismo".

(il Giornale, 19 luglio 2019)


Come Putin usa i droni comprati in Israele per aiutare Assad (ed Hezbollah)

The Intercept svela al pubblico quello che in molti in Israele sapevano già, cioè che la Russia usa i droni acquistati da Israele per garantire la sicurezza di Assad. La domanda è se Putin ha condiviso con Assad ed Hezbollah solo le informazioni raccolte o anche la tecnologia israeliana

Fidarsi di Putin è un po' come fidarsi di Belzebù e pensare di poterla passare liscia. Deve essere questo quello che pensano in queste ore a Gerusalemme dopo che una inchiesta di The Intercept ha svelato come il drone proveniente dalla Siria e abbattuto nel luglio 2018 sui cieli del Golan da un missile Patriot avesse al suo interno tecnologia israeliana.
Secondo quanto svelato dal noto sito web di notizie finanziato da Pierre Omidyar, fondatore di Ebay, gli israeliani sarebbero rimasti letteralmente di stucco quando analizzando il drone abbattuto sul Golan avrebbero scoperto che sotto le scritte in cirillico sulla carlinga, il piccolo aereo senza pilota aveva al suo interno tecnologia israeliana.
Come era possibile una cosa del genere? Come poteva essere che Assad disponesse di droni con tecnologia israeliana?
È lo stesso giornale americano a ricostruire la storia che, detta molto in breve, ci riporta alla guerra russo-georgiana del 2008.
In quella occasione i russi si infuriarono per il fatto che i georgiani avessero a disposizione alcuni droni israeliani e minacciarono di consegnare i loro missili S-300 all'Iran come ritorsione. L'empasse venne risolto con una negoziazione. I russi avrebbero ritardato la consegna di S-300 all'Iran in cambio dell'acquisto di alcuni droni israeliani.
Ora quei droni acquistati da Mosca, ribattezzati Forpost, sono schierati in Siria non solo per difendere Assad ma anche per consentirgli di spiare le attività israeliane. La tecnologia israeliana a disposizione di un nemico di Israele come la Siria e probabilmente anche di Hezbollah e dell'Iran. Non proprio un grande affare considerando che la Russia gli S-300 all'Iran li ha consegnati comunque.
La Russia nega di aver consegnato uno o più droni acquistati in Israele alla Siria, ma non nega di averli impiegati nel conflitto in Siria e di aver condiviso le informazioni raccolte con l'esercito siriano e con Hezbollah.
La domanda che ora si pongono a Gerusalemme è: Putin ha condiviso solo le informazioni o ha condiviso anche la tecnologia israeliana?
Nel primo caso la cosa sarebbe grave ma non gravissima. Nel secondo caso ci troveremmo invece di fronte a un fatto gravissimo che metterebbe in grave pericolo lo Stato Ebraico.
I progressi fatti di recente dall'Iran nel settore degli UAV (sigla che identifica gli aerei senza pilota), da Hezbollah e persino da Hamas qualche dubbio lo sollevano. Di sicuro sapere che Assad, un nemico di Israele, può disporre di tecnologia israeliana per la sua difesa, qualche imbarazzo lo provoca.

(Rights Reporters, 19 luglio 2019)


Un terrorismo che minaccia tutti gli ebrei, non solo "sionisti" o "israeliani"

di Ugo Volli

 
Fathi Hamad
Fathi Ahmad Hamad è un arabo di Gaza, nato nel 1961, dunque non un ragazzino; ha passato l'intera vita a militare come terrorista e poi come dirigente prima nella Fratellanza Musulmana e poi in Hamas, facendo carriera tanto da diventare membro del suo organo di governo (il "politburo", com'è chiamato con terminologia che rivela l'origine sovietica)) e del consiglio legislativo (il "parlamento") dell'Autorità Palestinese; soprattutto per alcuni anni è stato "ministro dell'interno" di Gaza, incaricato dunque del governo dittatoriale della striscia.
   Ne parlo perché l'altro giorno ha fatto un discorso molto istruttivo, soprattutto per quelli che si fanno illusioni sulla distinzione che i "palestinesi" farebbero fra ebrei e sionisti.
   A un discorso per i soliti tumulti del venerdì ("la marcia del ritorno") Hamad è partito da una rivendicazione interessante: "Essi [pensano] che noi siamo gente razionale. Invece non lo siamo, il popolo di Gaza non è razionale, anche se per settant'anni il nemico sionista ha cercato di cambiare i nostri geni. Invece i nostri geni non sono cambiati, sono andati ancora più avanti e ora sono pronti a esplodere in faccia al nemico." Ha poi fatto un ultimatum:
"Se entro una settimana non abbandonate l'assedio, non intendiamo morire passivi, ma uccidervi e tagliare le vostre teste […] esploderemo sulle facce dei nostri nemici Moriremo mentre esploderemo e taglieremo i colli e le gambe degli ebrei. Li lacereremo e li faremo a pezzi, se Allah vuole!"
Fin qui si tratta della solita retorica del terrorismo suicida. Il passo successivo è il più interessante: "L'esplosione non ci sarà solo a Gaza, ma anche in "Cisgiordania" e all'estero. I nostri fratelli all'estero si stanno ancora preparando, si stanno riscaldando i muscoli da un anno e mezzo. Oh, 7 milioni e mezzo di palestinesi all'estero, basta riscaldarsi: ci sono ebrei dappertutto, dobbiamo attaccare ogni ebreo del pianeta terra, dobbiamo attaccarli e sgozzarli, con l'aiuto di Allah" (c'è anche il filmato, molto interessante per il linguaggio del corpo).
   La minaccia è diretta e chiarissima. Hamad non è tipo da discorsi diplomatici o fumosi. L'anno scorso, in un'occasione analoga promise "la purificazione della Palestina della sporcizia degli ebrei, e la loro estirpazione da essa" entro il 2022. "La seconda cosa è l'istituzione del Califfato, dopo che la nazione sia stata guarita dal suo cancro - gli ebrei".
   Ed è lui stesso che offrì pubblicamente un milione e mezzo di dollari per il rapimento di un soldato israeliano; e quando Al Sissi smise di alimentare Hamas con le armi come aveva fatto Morsi, confessò tranquillamente che "metà dei Palestinesi sono egiziani e l'altra metà sauditi".
   Di fronte all'indignazione provocata dal discorso, si sono distanziate da esso sia l'Autorità Palestinese che la stessa Hamas, dicendo che quelle di Hamad sono posizioni personali.
   E' una vecchia storia, ripetuta molte volte. Per esempio di recente il solito professore filoterrorista di un'università americana è stato scoperto a falsificare il discorso del 1970 di uno dei padri del terrorismo, George Habbas, leader del "fronte popolare della liberazione della Palestina" che aveva dichiarato, fra l'altro poco prima dell'attacco terrorista al Tempio di Roma:
"Paesi come Germania, Italia, Francia e Svizzera, con molti ebrei tra la loro popolazione, permettono al loro territorio di essere usato come base per gli ebrei per combattere gli arabi. Se l'Italia, ad esempio, è una base contro gli arabi, gli arabi hanno il diritto di usare l'Italia come base contro gli ebrei. […] Gli attacchi del Fronte popolare sono basati sulla qualità, non sulla quantità. Crediamo che uccidere un ebreo lontano dal campo di battaglia abbia più effetto che ucciderne 100 in battaglia; attrae più attenzione. E quando incendiamo un negozio a Londra, quelle poche fiamme valgono la pena di bruciare due kibbutzim."
Bene, il professor Jamal Nassar, che insegna Scienze Politiche alla State University of California a San Bernardino, in un suo libro del 1991, ha pensato bene di indorare la pillola sostituendo la parola "ebrei" con "sionisti".
   Ma la verità è che Habbas, come Hamad, intendevano proprio parlare degli ebrei, tutti, anche quelli che si proclamano "pacifisti" e magari "filopalestinesi", come ha notato il centro Wiesenthal.

(Progetto Dreyfus, 17 luglio 2019)



Istruzione, startup e innovazione: è Israele il Paese per giovani

di Chiara Maggi

 
 
Periodicamente i riflettori internazionali si accendono su Israele. Le ragioni sono quasi sempre le stesse. Dopotutto, quando si parla di Israele non possono che venirci in mente le spinose questioni legate ai suoi conflitti militari e controversie geopolitiche. Noi di Millennials invece, vogliamo raccontarvi di un aspetto di questo paese di cui non si parla mai e che invece vale la pena conoscere: Israele è un paese giovane e per giovani. A noi Millennials italiani cresciuti con il leitmotiv della "stagnazione", del "debito", dell' "invecchiamento" o della "precarietà", sembrerà di fare un viaggio su Marte.
  Israele è un paese che nell'ultimo decennio è cresciuto a un tasso medio annuo di quasi il 4% (mentre noi ci attestiamo a un allarmante -0.4%). Non a caso, la distanza fra reddito pro capite in Italia e in Israele si va velocemente assottigliando, come mostrato nel grafico sotto.
  Guardando ai dati demografici, il 28% della popolazione ha meno di 15 anni (da noi sono il 14%) e il 9% della popolazione ha oltre 65 anni (da noi oltre il 20%!). Sebbene questi dati riflettono la crescente presenza di Ebrei Ortodossi (che registrano in media 6 figli per famiglia), bisogna comunque sottolineare che il tasso di fertilità della popolazione laica è di 2.2 figli per donna, uno dei più alti fra i paesi sviluppati (in Italia ci attestiamo a 1.35 figli per donna).
  Qual è il motore del successo economico israeliano? In una parola, "innovazione". Israele è il paese con la più alta densità di startups nel mondo: 1 startup ogni 1400 abitanti (20 volte più che in Germania, e 5 volte più che nello UK). In Israele c'è una delle più alte concentrazioni di ingegneri e computer scientists, e si registra la più alta percentuale di Pil spesa in Ricerca e Sviluppo (oltre il 4.5% del Pil nel 2017, con l'Italia all'1.35%). Già dieci anni fa c'erano più compagnie israeliane quotate nel NASDAQ, che nell'intero continente europeo, e un valore di investimento venture capital pro capite ben 2.5 superiore a quello degli Stati Uniti, e 30 volte superiore a quello europeo.
  In Israele oltre il 50% della popolazione è laureato (in Italia meno del 20%), e ben oltre il 20% della popolazione lavora nell'hi-tech (il doppio che in Italia). Nell'anno accademico 2017-2018, ci sono stati più iscritti in ingegneria, matematica e computer science che negli studi sociali (al contrario, l'Italia è il paese OCSE con la più alta percentuale di laureati in discipline umanistiche). Non stupisce, quindi, che Israele sia uno dei paesi OCSE con il più alto divario del tasso di occupazione e dello stipendio fra chi ha una laurea e chi ha, al più, un diploma. Laurearsi in Israele aumenta lo stipendio medio di oltre il 50%, rispetto a chi ha un diploma. Questo certamente aiuta a spiegare l'anomalia quasi tutta israeliana per cui il tasso di fertilità sia più alto fra i giovani con un più alto livello di istruzione.
  La grande disponibilità di capitale umano altamente qualificato nell'hi-tech ha attratto ingente capitale da società multinazionali. Motorola ha il suo più grande centro di R&D in Israele, Microsoft ha costruito il suo primo centro di ricerca al di fuori degli Stati Uniti, e poi vi sono Intel, Google altre centinaia grandi società. Non stupisce quindi che negli ultimi 20 anni, Israele sia riuscito a invertire il trend crescente della fuga di cervelli, che aveva raggiunto il suo picco nella seconda metà degli anni Novanta. Essere giovani e istruiti in Israele conviene, e quindi i giovani restano!
  La straordinaria crescita di Israele è stata studiata da molti. Come è possibile che un paese con meno di 9 milioni di abitanti, completamente privo di risorse naturali, circondato da nemici e perennemente in guerra possa diventare il principale hub tecnologico, secondo solo alla Silicon Valley californiana?
  Sicuramente buona parte di questo successo è motivato dall'istinto di sopravvivenza di un popolo con un passato e un presente difficile e controverso. Sicuramente il ruolo centrale del settore militare nell'economia del paese e nella vita di ciascun cittadino (il servizio militare di circa 3 anni è obbligatorio per la stragrande maggioranza della popolazione) ha contribuito e contribuisce a creare domanda di innovazione e formare capitale umano specializzato in prodotti ad alto contenuto tecnologico. Israele o innova o sparisce.
  Tuttavia, spiegare il successo tecnologico e imprenditoriale israeliano con l'importanza del settore militare è miope, e finirebbe per giustificare il nostro ritardo, come Italia. Israele non è l'unico paese con leva obbligatoria e ingenti risorse a disposizione in campo militare. Lo sanno bene a Singapore, dove nonostante la leva obbligatoria non sono ancora riusciti a realizzare l'obiettivo di diventare una startup nation. C'è infatti un'eccezionalità nella cultura israeliana e nella sua esperienza militare a cui dobbiamo guardare noi come Italia: una struttura organizzativa piatta e informale. Agli ordini si ubbidisce, ma di fronte a un problema da risolvere, l'opinione di tutti conta. Già dai primi mesi dell'esperienza militare, le giovani leve sono chiamate, appena ventenni, a proporre soluzioni rapide e creative a problemi reali e immediati. La competizione sulle idee è benvenuta e incoraggiata, e non importa da chi provengono. Offrire ai più giovani opportunità reali di esercizio di responsabilità e creatività è visto come un ingrediente necessario non solo per il futuro del paese, ma anche per il suo presente. Quando c'è da trovare una soluzione, tre teste funzionanti sono meglio di due.
  Ascolta bene quindi, Italia. Fortunatamente, non abbiamo nemici che minacciano il nostro diritto di esistere. Il nostro futuro non dipende dalla nostra forza militare. Il primo nemico dell'Italia è, piuttosto, l'Italia stessa. La nostra minaccia più grande è quella dell'irrilevanza politica ed economica, del declino, dell'impoverimento della nostra generazione e di quella dei nostri figli. E la soluzione, come ci insegna Israele, viene anche dal guardare ai giovani e al futuro come a un'opportunità. Anche l'Italia allora, o innova e punta sul futuro e sulle sue giovani leve, o sparisce.

(Linkiesta, 18 luglio 2019)


"Con Corbyn è cresciuto l'antisemitismo fra i laburisti"

La denuncia di sessanta Lord sul Guardian. "E' il periodo più vergognoso per il partito".

Tre giornali della comunità ebraica hanno parlato di minaccia esistenziale Problemi per Johnson accusato di frasi e comportamenti islamofobi

di Alessandra Rizzo

Jeremy Corbyn assieme al suo braccio destro John McDonnell e Jennie Formby
LONDRA - «Il partito laburista accoglie tutti senza distinzione di razza, fede, età, identità o orientamento sessuale. Tranne, a quanto pare, gli ebrei». È il durissimo attacco lanciato da un gruppo di Lord laburisti contro il leader Jeremy Corbyn, pubblicato in un annuncio a tutta pagina sul quotidiano «The Guardian».
   L'accusa getta benzina sul fuoco di una crisi da cui il Labour non riesce a uscire, e che nelle ultime settimane ha messo in secondo piano qualunque altro argomento all'interno del partito, perfino la Brexit. Mentre i conservatori che si apprestano a incoronare Boris Johnson come nuovo leader dovranno stare attenti a evitare che un caso speculare non scoppi in casa loro: Johnson nel passato è stato tacciato di islamofobia, accuse rinnovate nei giorni scorsi.
   Ma intanto è Corbyn ad essere sprofondato in una crisi di leadership per lui senza precedenti. Più di sessanta Lord, circa un terzo del gruppo laburista della camera alta britannica, hanno firmato la lettera che lo accusa di aver «consentito all'antisemitismo di crescere nel partito e aver presieduto alla fase più vergognosa della storia laburista». E ancora: «Non ti sei preso le tue responsabilità. Hai fallito la prova della leadership». Parole riprese da Theresa May, che durante il Question Time ai Comuni ha brandito la pagina del «Guardian» e invitato il rivale a scusarsi.
   Le accuse di antisemitismo rincorrono Corbyn dai tempi della sua ascesa a segretario nel 2015. Radicale di sinistra, anti-irnperialista e anti-americano, Corbyn nel passato ha definito Hezbollah e Hamas «amici», ma ha sempre difeso il diritto dello stato di Israele a esistere. Da quando è segretario, il numero di denunce per presunti casi di antisemitismo è cresciuto (come anche il numero di iscritti al partito), e Corbyn è stato accusato di essere troppo tollerante. Alcuni deputati hanno lasciato il partito e i tre più importanti giornali della comunità ebraica britannica hanno parlato di «minaccia esistenziale alla vita degli ebrei nel Paese» in caso di Corbyn al governo.
   Da ultimo, è stata un'inchiesta della Bbc a rintuzzare le polemiche: i fedelissimi di Corbyn, ha sostenuto il documentario, hanno cercato di interferire con i lavori di una commissione d'inchiesta, interna al partito ma indipendente, che gestisce le denunce, al fine di insabbiarle o quanto meno di sminuirle. Accuse smentite dal Labour con una reazione furibonda: ha accusato il programma di essere fuorviante e fazioso, e i testimoni che vi hanno partecipato di essere motivati dal desiderio di rimpiazzare Corbyn. Ieri il segretario ha ribadito la sua difesa ai Comuni: «Questo partito si oppone ad ogni forma di razzismo, qualunque sia - ha detto -. L'antisemitismo non ha spazio nella nostra società, nei nostri partiti e in nessuno dei nostri dibattiti». E ha cercato di passare la palla ai Tory, citando un sondaggio degli iscritti al partito in cui il 60% ha detto di vedere l'Islam come una «minaccia alla civiltà occidentale».
   Le situazioni dei due partiti rispetto a presunti casi di razzismo, stando a quanto è emerso finora, non sono paragonabili, ma i Tory non sono immuni alle accuse, né lo è il probabile futuro segretario e primo ministro. Johnson ha usato linguaggio offensivo nei confronti delle donne velate («sembrano cassette delle lettere»); ha scritto, secondo una rivelazione del «Guardian» di pochi giorni fa, che l'Islam ha lasciato i paesi musulmani «secoli indietro» rispetto all'occidente; e ha deluso molti quando, dopo aver promesso un'indagine interna sull'islamofobia, ha invece optato per un'indagine contro ogni forma di pregiudizio.

(La Stampa, 18 luglio 2019)


Il ritiro di Hezbollah dalla Siria è un bluff: individuata nuova grande base

L'annunciato ritiro di Hezbollah dalla Siria non è altro che un bluff. In realtà i terroristi libanesi si sono riposizionati nel tentativo di eludere la sorveglianza israeliana.

A pochi giorni dalla notizia del ritiro di Hezbollah dalla Siria l'intelligence israeliana ha scoperto che in realtà i terroristi libanesi starebbero consolidando la loro presenza nel paese dilaniato dalla guerra civile.

 Un semplice riposizionamento
Quello di Hezbollah, secondo l'intelligence israeliana, non sarebbe quindi un ritiro ma un semplice riposizionamento.
Hezbollah ha ritirato i suoi uomini dalla "prima linea" del fronte con Israele lasciando il posto alla Brigata di Liberazione del Golan per spostarsi in una nuova grande base appena costruita nei pressi del villaggio di Jdeidat Yabous, 45 km (30 miglia) a ovest di Damasco.
In realtà non si tratta proprio di una nuova base ma della ricostruzione da zero di una vecchia base di confine dell'esercito siriano.
Le immagini satellitari e quelle prese direttamente sul posto mostrano nuovi hangar, nuovi campi di addestramento, depositi di munizioni, un nuovo eliporto dove gli elicotteri atterrano diverse volte al giorno e soprattutto nuovi alloggi per le truppe.
Una fonte siriana ha riferito che alti funzionari di Hezbollah usano giornalmente gli elicotteri per spostarsi da Damasco alla nuova base e viceversa.
Tra di loro ci sarebbe anche Mohammad Jafar Qasir (Hajj Fadi), il coordinatore generale di Hezbollah in Siria, nonché responsabile del contrabbando di armi e denaro da Teheran al Libano, attraverso la Siria. Un target di altissimo livello.

 Le nuove rotte del contrabbando di armi
  La base di Jdeidat Yabous consente ad Hezbollah di aggirare le "solite" rotte di contrabbando di armi ormai scoperte da Israele e tenute costantemente sotto controllo.
L'intelligence israeliana ha infatti scoperto che Hezbollah ha aperto una strada sterrata che dalla base di Jdeidat Yabous arriva direttamente nel villaggio di Sultan Yaqoub al-Fawqa nella parte occidentale della valle della Bekaa.
I terroristi libanesi usano la strada che porta al villaggio di Aita al-Fakhar, a 1500 metri di altezza, passano quindi a nord della valle, dietro la collina di Wadi al-Luz per poi utilizzare una strada sterrata che attraversa il confine siriano.

 Hezbollah e Iran continuano a preparare l'attacco a Israele
  Al di la delle dichiarazioni ufficiali, Hezbollah e Iran continuano quindi a preparare l'attacco a Israele.
A dimostralo non c'è solo la scoperta della nuova base dei terroristi libanesi ma soprattutto la spasmodica ricerca di vie alternative per far giungere armi tecnologicamente avanzate attraverso la Siria.
Negli ultimi mesi Israele ha colpito diverse volte obiettivi iraniani in Siria, per lo più depositi di armi destinati proprio ad Hezbollah. Ora questo tentativo di cambiare le rotte del contrabbando di armi, tentativo che però non è sfuggito alla attenta intelligence israeliana.

(Rights Reporters, 18 luglio 2019)


"Ettore e Fernanda", una graphic novel per ricordare

di Nathan Greppi

 
Paolo Bacilieri, Ettore e Fernanda. Un'avventura Braidense, Coconino Press, pp. 72, € 19,00

Quella di Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca di Brera nella prima metà del '900, e della sua allieva Fernanda Wittgens è una storia molto toccante che però non tutti conoscono. Per tramandarne la memoria il fumettista Paolo Bacilieri ha recentemente pubblicato la graphic novel Ettore e Fernanda. Un'avventura Braidense.
  La storia inizia alla fine degli anni '20: la Wittgens è una giovane brillante che viene assunta sotto la guida di Modigliani, all'epoca direttore della Pinacoteca che nel 1930 diventa famoso per aver portato a una grande mostra a Londra oltre 900 opere d'arte da tutta Italia con un piroscafo, che rischiò di affondare nell'Atlantico a causa di una tempesta. Purtroppo, anche a causa delle sue origini ebraiche la sua carriera si interrompe prima con la sua opposizione agli ordini dei gerarchi fascisti e poi con l'avvento delle Leggi Razziali, tanto che durante la guerra sarà costretto a nascondersi sulle colline abruzzesi.
  Nel frattempo, la Wittgens diventa il nuovo direttore della Pinacoteca di cui riuscirà a salvare le opere dai bombardamenti, ma finì in prigione per aver aiutato delle famiglie ebree a espatriare con passaporti falsi. Per quest'ultimo gesto, solo nel 2014 le verrà dedicato un albero nel Giardino dei Giusti di Milano. Finita la guerra, i due riescono a ritrovarsi e a far rinascere la Pinacoteca distrutta dai bombardamenti.
  Nel corso dell'opera vi è una ricostruzione storica molto accurata, che attraverso il disegno ritrae con eleganza la Milano di quegli anni, prima e dopo che venne martoriata dalla guerra. Ma ad emergere è anche il lato umano della storia, quello di due persone le cui vite furono travolte da una delle più grandi tragedie della storia umana. Fa pensare, ad esempio, la tavola in cui Modigliani afferma di non essersi mai soffermato sulla sua "condizione" di ebreo, poiché come molti ebrei italiani si sentiva integrato nella società prima delle Leggi Razziali.

 L'autore: "Fra Ettore e Fernanda non fu solo una storia d'amore"
  L'idea dell'opera "nasce da un altro fumetto," spiega a Mosaico Bacilieri: "Un anno fa ho fatto un fumetto su Brera per la mia casa editrice, Coconino Press, come parte di un'iniziativa del Ministero dei Beni Culturali, dove 22 fumettisti fecero ciascuno un fumetto breve su un museo italiano. A Brera ho conosciuto il direttore, James Bradburne, che aveva una storia nel cassetto da raccontare attraverso qualcosa di più ampio di un fumetto breve. Quando mi ha raccontato la scena dell'Oceano Atlantico, ho deciso che quella era una storia che si poteva raccontare a fumetti. La tempesta è una sorta di rappresentazione simbolica di tutte le tempeste che i due protagonisti hanno affrontato nel corso delle loro vite."
  "Un'altra cosa bella che ha fatto Bradburne," aggiunge Bacilieri, "è stata fornirmi molta documentazione anche visiva, oltre a lasciarmi piena autonomia nel lavoro. Quando scrivo e disegno non c'è un prima e un dopo, le due operazioni proseguono di pari passo, e in questo modo ho potuto anche conoscere meglio Ettore e Fernanda e appassionarmi alla loro storia. Su di lei avevo più elementi, mentre lui era un personaggio più sconosciuto. Il loro è un rapporto del tipo "Hannibal Lecter/Clarice Starling", la loro non è una storia d'amore quanto di un rapporto tra maestro e allieva."

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2019)


Nove imprenditori israeliani che stanno rivoluzionando la tecnologia dei viaggi

di Erminia Donadio

Sono nove gli imprenditori israeliani che stanno interpretando un ruolo da protagonisti in questa rivoluzione dell'industria dei viaggi globale:

- Nir Erez, Co-Founder e CEO di Moovit, è un imprenditore seriale con oltre 20 anni di esperienza alla guida di startup tecnologiche. Insieme a Roy Bick ha fondato Moovit, la prima applicazione in crowdsourcing per muoversi con i trasporti pubblici che ha rivoluzionato la mobilità urbana. Oggi l'app di Moovit è usata da 150 milioni di viaggiatori in 2200 città di 80 Paesi e in 44 differenti lingue. Il suo segreto? E' scaricata mediamente da un milione di nuovi utilizzatori al giorno.
- Guy Michlin, Co founder ed ex CEO di EatWith ha dimostrato come la tecnologia non cambia solo il modo in cui viaggiamo ma anche quello in cui mangiamo. EatWith, la società da lui fondata, acquisita nel 2017 dalla francese VizEat, è stato uno dei primi siti a mettere in connessione i viaggiatori con chef e gestori di home restaurant permettendo loro di prenotare esperienze culinarie uniche. Michlin ha avuto l'idea di EatWith dopo un viaggio in Grecia nel 2012 dove, dopo aver cenato in vari ristoranti "spenna-turisti" riuscì a trovare un'esperienza gastronomica memorabile e si convinse che solo la cucina casalinga potesse ricreare quella sensazione. Considerata l'Airbnb del cibo, oggi Eatwith opera in 200 città di 50 Paesi e oltre a consentire ai viaggiatori di prenotare esperienze memorabili permette anche agli host di costruire un proprio business nell'hospitality.
- Amiad Soto, Co-founder e CEO di Guesty, ha fondato nel 2013 insieme al suo fratello gemello una piattaforma per la gestione delle proprietà immobiliari dedicate agli affitti brevi. L'idea di Guesty è arrivata dopo la scoperta di quanto tempo sia necessario per gestire l'annuncio di un appartamento su Airbnb e rispondere alle richieste degli ospiti, fare le pulizie e così via. In 6 anni Guesty è stata prima accelerata da Y Combinator e oggi è il software di gestione per property manager con più finanziamenti, avendo raccolto oltre 60 milioni di dollari nel corso di 3 round. L'azienda può vantare funzioni che semplificano tutti gli aspetti di gestione degli affitti brevi attraverso siti come Airbnb e Booking, una casella messaggi unificata in cui comunicare con gli ospiti di tutte le piattaforme e calendari multipli che sincronizzano le richieste che arrivano da più canali. E' inoltre tra le 8 startup scelte da Google per il suo Growth Lab Program 2019.
- Daniel Ramot, Co-Founder e CEO di Via, ha conseguito un Phd in neuroscienze a Stanford, costruito un supercomputer per scoprire nuovi farmaci e sviluppato i sistemi avionici dell'Air Force Israeliana. E tutto questo prima di fondare Via nel 2012, un'app di ride sharing che finora ha raccolto 450 milioni di dollari. Via fornisce pulmini su richiesta a un ampio pubblico di viaggiatori offrendo la possibilità di far salire più passeggeri che vanno nelle medesima direzione su un veicolo condiviso che sostituisce per tutti il bisogno di avere auto private.
- Dave Waiser, fondatore e CEO di Gett, ha creato la sua startup nel 2010 e da allora ha raccolto 813 milioni di dollari in fondi, di cui 380 milioni dal gruppo VolksWagen. L'azienda offre corse attraverso operatori taxi ufficiali, generando oltre un miliardo di dollari all'anno in servizi per la mobilità. La metà di questi sono generati solo a New York e Londra. L'ultimo sviluppo di Gett è la funzione "Gett Togheter" che permette di condividere opportunità di viaggio per le aziende in auto spaziose e senza il problema di dove assumere autisti o cercare parcheggio.
- Adi Zellner, Co-Founder e CTO di Roomer, una piattaforma online in cui puoi comprare e rivendere le prenotazioni di hotel effettuate che ha ricevuto 17 milioni di dollari di finanziamenti. Roomer connette persone che non possono più utilizzare una camera d'hotel prenotata con viaggiatori che sono alla ricerca di ospitalità a prezzi scontati. Prima di fondare Roomer nel 2013 Adi Zellner guidava un team di ricerca e sviluppo in una delle più avanzate realtà tecnologiche israeliane ed è stata consulente per aziende del settore difesa e sicurezza.
- Noam Toister, co-founder e CEO di Bookaway, era in viaggio di nozze nelle Filippine quando scoprì che non c'era possibilità per lui di prenotare online un biglietto per il bus per visitare un importante destinazione turistica. Nasce così Bookaway: piattaforma online che permette agli utenti di prenotare qualunque tipo di trasporto a terra in maniera semplice e senza stress. Bookaway permette a piccoli e medi fornitori di trasporti di diventare digitali e raggiungere un più ampio numero di clienti in giro per il mondo. Bookaway opera in oltre 20 paesi e riunisce oltre 2000 percorsi differenti. Anche Bookaway è tra le 8 startup selezionate da Google nel programma Startup Hrowth Lab.
- Uri Levine, co-founder di Waze, ha trovato la sua motivazione mentre era in coda in autostrada: stava guidando nel nord di Israele quando ebbe l'idea di condividere con altri driver informazioni in tempo reale sul traffico. Nasce così nel 2008 Waze, oggi considerata tra le più influenti e utili app che utilizzano i dati GPS per fornire di volta in volta informazioni sul traffico a chi guida. Waze è stata acquisita da Google nel 2013 per circa 1,15 miliardi di dollari
- Aviel Siman-Tov, co-founder e CEO di FairFly, è stato per 7 anni comandante nelle Forze di Difesa Israeliane dopo 4 anni di studio in economia e legge. Ha fondato nel 2013 FairFly, un software che è diventato tra i principali sistemi di tracciamento delle rotte aeree grazie ad algoritmi proprietari che permettono ai clienti di risparmiare una media di 254 dollari per volo. La compagnia ha ottenuto 7 milioni di dollari in finanziamenti da importanti venture capitalist e finanziatori, tra cui il già menzionato Uri Levine di Waze.

(Hospitality-News, 18 luglio 2019)


Buon compleanno Sami

 
Sami Modiano
Sami Modiano compie oggi 89 anni. Un traguardo invidiabile per chiunque, tanto più per chi come lui è sopravvissuto alla Shoah, per chi come lui - è sono veramente pochi - è uscito vivo da Auschwitz.
   Nato nel 1930 nell'isola greca di Rodi, all'epoca provincia italiana, ha conosciuto sulla sue pelle prima le infami leggi razziali fasciste nel 1938, con l'espulsione dalla scuola: «Quel giorno - spiegò - ho perso la mia innocenza. Quella mattina mi ero svegliato come un bambino. La notte mi addormentai come un ebreo».
   Con l'invasione di Rodi da parte delle truppe tedesche, la situazione per gli ebrei peggiora, prima con la segregazione e poi con la deportazione. Vengono caricati nella stiva di un vecchio mercantile in condizioni disumane, in un viaggio senza acqua e cibo da Rodi fino al Pireo: da lì vennero poi caricati sui treni, il 3 agosto 1944, stipati nel buio soffocante dei vagoni piombati, diretti verso il campo nazista di Birkenau, in un viaggio durato 13 terribili giorni.
   Nel campo di sterminio Sami Modiano riesce a superare la selezione insieme al padre e a una sorella (che verranno successivamente uccisi) e gli viene tatuato sul braccio il numero di matricola "B7456". Nel campo di sterminio Sami conoscerà un giovane deportato italiano, Piero Terracina, di soli due anni più grande di lui, proveniente da Roma, con il quale stringerà una insolubile amicizia che dura negli anni. Oggi Sami e Piero infaticabilmente, nonostante gli acciacchi dell'età, proseguono il loro compito di testimoniare cosa è stata la Shoah, e vengono accolti con affetto e commozione dai tanti ragazzi, che in silenzio ascoltano le loro parole. Sempre accompagnate dalle lacrime. Tanti auguri, Sami.

(Shalom, 18 luglio 2019)


In Israele i ricercatori puntano all'utero artificiale. Stampato in laboratorio

di Elisabetta Gramolini

Un utero artificiale, costruito in laboratorio strato su strato e provvisto di vasi sanguigni. Non è fantascienza ma l'obiettivo dei ricercatori dell'ospedale 1- chilov e dell'Università di Tel Aviv. Lo studio è già avviato, così come hanno spiegato i professori Dan Grisaru e David Elad in un'intervista al quotidiano Yediot Ahronot. «Abbiamo deciso di provare a far crescere un arto da zero e abbiamo visto che il tessuto reagiva proprio come farebbe in natura», dice Grisaru al giornale. Ma invece di una gamba, gli scienziati hanno copiato la struttura esterna e le attività di un utero femminile, costituito da strati diversi di cellule in grado di reagire agli ormoni e alle pressioni esterne. Allo stesso tempo, i ricercatori hanno cominciato a studiare i vasi sanguigni per garantire al tessuto l'ossigeno e gli altri elementi di nutrizione per proteggere l'eventuale embrione nella fase di sviluppo. L'israeliano Grisaru ha annunciato che il prossimo anno tenteranno di «stampare in laboratorio il modello di un utero tridimensionale e di impiantarvi cellule simili a quelle di un feto per verificarne il possibile sviluppo».
   Una serie di dubbi etici emerge sulle possibilità di questi studi. L'utero artificiale significherebbe una speranza per le donne prive per ragioni congenite o a seguito di una malattia, osserva il professor Antonio Lanzone, ordinario di Ginecologia dell'Università Cattolica di Roma. «Sul piano teorico - continua - una applicazione potrebbe essere nei casi di grave disfunzione placentale prima delle 23 settimane di vita del feto per far continuare lo sviluppo». Chiaro è inoltre che il rapporto di filiazione, quella relazione strettissima in grembo, non ci sarebbe. «Oggi sappiamo cosa avviene in utero: il dialogo fra la madre e il feto nei nove mesi di gravidanza è importante per l'esistenza del nascituro», ricorda Cleonice Battista, ginecologa del Policlinico Università Campus BioMedico di Roma. Riguardo alla ricerca israeliana, «l'interrogativo che ci dovremmo porre - afferma la specialista - è se vale la pena fare tutto ciò. Ogni volta che ci allontaniamo dall'esperienza umana non sappiamo in che modo la biologia evolverà. Può sembrare affascinante ma va ricordato che quel figlio non avrà il contatto con i genitori durante i nove mesi».

(Avvenire, 18 luglio 2019)


Ricerca inquietante. Tanto più perché proviene da Israele.


La dieta Kasher

Il mangiare kasher sembra diventato di moda anche fuori dell’ambiente ebraico. Ma che significa kasher? Una risposta autorevole si può trovare in questo articolo del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, tratto dal suo libro di ricette della cucina ebraico-romana “Buon appetito - Beteavon”.

di Riccardo Di Segni

Il termine kashèr in ebraico significa "adatto", "conforme alla regola" e viene prevalentemente utilizzato per indicare l'alimentazione conforme alle regole tradizionali. Nella pronuncia ashkenazita (e di qui in inglese) si usa il termine kòsher.
Le regole della tradizione sono fortemente radicate nella Bibbia, con interpretazioni e aggiunte della tradizione orale. Costituiscono nel loro complesso un aspetto molto caratteristico e significativo della pratica religiosa ebraica. Gli ebrei più osservanti rispettano rigorosamente l'intero sistema, gli altri secondo diversi livelli di rigore e scelte di osservanza più o meno blande di parti di divieti.

Il quadro delle norme principali può essere così riassunto schematicamente:

1. Il consumo della carne è considerato come un permesso temporaneo, non un diritto scontato.
    Queste considerazioni nascono dal confronto delle storie di Adamo e Noè nelle prime pagine della Genesi. L'umanità originariamente era vegetariana, e solo dopo il diluvio ebbe il permesso di consumare carne. Alla fine dei tempi tornerà al cibo vegetale. Tutto questo per porre un limite concettuale all'uso indiscriminato della carne che turba con violenza un equilibrio naturale.

2. Nel mondo animale solo alcune specie possono essere consumate.

    La Bibbia (Lev. 11 e Deut. 14) classifica gli animali secondo il loro habitat e per ogni gruppo definisce quali siano gli animali commestibili e quelli proibiti. Dei quadrupedi domestici sono ammesse solo le specie che siano sia ruminanti che con zoccolo fesso. In pratica risultano così permessi tra gli animali domestici i bovini, gli ovini, i caprini e alcuni animali selvatici (cervi, daini ecc). Sono invece proibiti il maiale, il cinghiale, il cammello, la lepre e il coniglio.
Tra i volatili la Bibbia fa una lista di specie proibite, che comprende soprattutto gli animali rapaci; poiché l'identificazione dei nomi è spesso problematica, ci si appoggia al criterio della tradizione per cui solo le specie che sono state nei secoli permesse si possono ammettere ora: più comunemente la lista comprende il pollame, i tacchini, le oche, le anatre.
Tra gli animali acquatici sono permesse solo quelle specie che, perlomeno in un momento limitato della vita, hanno squame e pinne. Questi criteri in pratica eliminano i crostacei e i mitili, e limitano il permesso alla maggioranza dei pesci con scheletro osseo (non quelli cartilaginei come gli squali). Balene e delfini sono proibiti. Controverso lo status dello storione.
Gli insetti sono proibiti. Unica eccezione alcune specie di locuste, ma solo nei luoghi dove c'è una tradizione e un'abitudine al consumo (in Europa restano proibite).
Il permesso e il divieto si estendono ai derivati: se un animale non è consentito non lo sono neppure i suoi prodotti: il latte di asina è per questo proibito. Il miele delle api non è considerato una parte dell'animale ma una specie di trasformazione e per questo è permesso.

3. Il sangue e alcune parti di grasso delle specie autorizzate (quadrupedi e i volatili commestibili) sono comunque proibite.

    Il sangue per la Bibbia rappresenta la vita e per questo non va consumato. In pratica la regola si riferisce al sangue dei quadrupedi e dei volatili, ma non a quello dei pesci. L'eliminazione del sangue è sistematica, non basta il dissanguamento al momento della macellazione, ma ogni pezzo di carne deve essere sottoposto a un processo di eliminazione del sangue (di solito mediante salatura e lavaggio). Il divieto del grasso è legato all'antico culto sacrificale, nel quale alcune parti di grasso degli animali sacrificati (omento, capsula adiposa renale ecc.) venivano sottratte all'alimentazione umana e bruciate sull'altare (Lev. 3 e 7). Questo divieto comporta che prima dell'immissione in commercio di carni commestibili un esperto provveda ad eliminare le parti proibite.

4. I quadrupedi e i volatili commestibili devono essere macellati con una tecnica speciale (shechità).
    Si tratta del taglio dei vasi maggiori del collo insieme a trachea ed esofago con un coltello affilatissimo. La procedura, diretta ad assicurare un dissanguamento rapido e indolore con immediata perdita della coscienza, viene eseguita da un tecnico molto esperto che deve controllare l'assenza di intaccature sulla lama, anche quelle meno percettibili, e deve eseguire il gesto di taglio con precisione e senza indugi.

5. Non è consentito il consumo di parti dell'animale prelevate quando questo è in vita.
    Sono le parti che richiedono un prelievo cruento. La mungitura è comunque permessa.

6. Non è consentito il consumo del nervo sciatico.
    Proibizione collegata alla storia della lotta di Giacobbe con l'angelo (Gen. 32), che lo colpì sul nervo sciatico causandogli una momentanea zoppia. In pratica questo comporta che i quarti posteriori dei quadrupedi siano sottoposti a una sistematica denervazione prima della vendita.

7. Non è consentito il consumo di animali morti per cause naturali, o vittime di incidenti o assalti di bestie feroci, o portatori di gravi malattie, anche se macellati regolarmente.
    Solo gli animali sottoposti alla shechità possono essere mangiati. La norma biblica si riferisce ad animali sbranati, ma la tradizione include anche quelli portatori di gravi malattie. Questo rende necessaria l'ispezione dell'animale dopo la macellazione, in particolare del polmone, ammettendo al consumo solo gli animali senza le alterazioni descritte dalle norme tradizionali.

8. Non è consentito cucinare insieme latticini e carni, anche se non li si mangia, né mangiare nello stesso pasto e non prima di un certo intervallo carni e latticini.
    In questo modo viene interpretato dalla tradizione il divieto biblico (Es. 23:19, 34:26, Deut. 14:21) di "non cucinare il capretto nel latte materno". Ciò implica praticamente l'adozione di un doppio sistema di pentole e stoviglie per la preparazione e il consumo separato di latticini e carne, oltre che la decisione sistematica di orientare i pasti sulla carne o sul latticino.

9. Il vino deve essere manipolato dalla spremitura dell'uva fino alla mescita da ebrei osservanti.
    Il vino era la droga più antica dell'umanità nell'area geografica originaria dell'ebraismo. Per questo il suo consumo è stato in parte sacralizzato, in parte limitato. La norma attuale discende da questa lunga tradizione, con rilevanti implicazioni sociali.

10. Nello stesso piatto non è consentito mangiare insieme carne e pesce.
     È una regola rabbinica relativamente tardiva giustificata in base a considerazioni sanitarie.
Nella pratica l'insieme di queste regole comporta che ci sia una linea di produzione di carne macellata secondo le norme, che viene poi venduta in negozi autorizzati; che per tutti gli altri prodotti, che siano domestici, artigianali o industriali ci siano le possibilità di un controllo che accerti che ingredienti proibiti non siano entrati nel processo produttivo; che per facilitare la produzione e la distribuzione ci siano autorità preposte al controllo, che emettano certificazioni, etichettino il prodotto e che vi siano poi negozi specializzati o spazi dedicati nei negozi per vendere i prodotti controllati; che nelle case ci siano due servizi separati di carne e latte. Non basta poi che l'ingrediente sia permesso, ma il suo trattamento (cottura e servizio) deve avvenire in recipienti permessi, nei quali non sia stato cucinato almeno recentemente un cibo proibito. La proibizione degli insetti comporta controlli domestici rigorosi delle insalate e ripetuti lavaggi. Le sostanze proibite continuano ad esserlo anche in piccole quantità, soprattutto quando se ne avverte il sapore o quando sono responsabili dello stato dell'alimento: una delle conseguenze di questo è il divieto di molti formaggi nella cui produzione viene impiegato caglio di origine animale, che determina la precipitazione delle proteine del latte.
Un problema complesso è quello della comprensione dei motivi di questo sistema. A questa domanda hanno risposto, dall'antichità fino ad oggi, numerosi interpreti, sia interni al mondo ebraico, sia esterni; le spiegazioni che sono state date sono differenti: sociali, economiche, sanitarie, morali, psicologiche, mistiche. Per un ebreo osservante la vera ed essenziale spiegazione è che queste norme sono prescritte nella Torà, che è il fondamento religioso dell'ebraismo e come tali debbano essere rispettate senza farsi domande sul perché, ma solo come obbedienza alla volontà del Creatore.

Considerando il contesto in cui appare questa nota, è bene precisare qualche dato sull'aspetto sanitario di queste regole. Da una parte è indubbio che esse possano tutelare da certi rischi, come alcune parassitosi o infezioni derivanti dalle carni animali o da crostacei. D'altra parte la protezione sanitaria non può essere considerata come la motivazione del precetto, anche perché la protezione è solo parziale, se non sostituibile o migliorabile. Una dieta Kashèr non salva dai rischi alla salute provocati da una alimentazione scorretta per quantità e qualità degli alimenti; d'altra parte oggi qualsiasi prescrizione dietetica razionale può essere conforme alle regole religiose ebraiche.
Un altro aspetto importante, da non confondere con le regole alimentari, benché a queste strettamente legato, è quello della cucina ebraica: la tradizione di ricette e di abitudini alimentari tipiche del popolo ebraico. Per la dispersione geografica e i continui movimenti migratori non esiste una cucina ebraica, ma tante differenti; in ognuna delle tradizioni si sente il peso delle regole religiose, che delimitano il campo delle scelte, e costringono all'uso della fantasia, nonché il rapporto con la cucina locale; gli ebrei italiani mangiano in qualche modo come gli Italiani, e ne conservano ricette molto antiche; quelli del Nord Africa come i loro vicini musulmani e così via. Ne deriva comunque una tradizione variegata, estremamente ricca di suggerimenti, che continua ad attrarre e incuriosire.

(Dal libro “Buon appetito - Beteavon” di Riccardo Di Segni)



Vestiti, telefoni e graffiti del Corano. Dentro il tunnel segreto di Hezbollah

La più lunga delle sei gallerie costruite dai miliziani libanesi per attaccare Israele da Nord nel prossimo conflitto armato Un chilometro nella roccia, fino a 70 metri di profondità. Attraversava la Blue Line dell'Onu, è stata neutralizzata dall'ldf.

L'escavatore utilizzava un motore italiano, a cui era attaccato un cilindro di 50 cm L'azione dell'Idf ha colto di sorpresa i militari di Nasrallah, che scavavano da anni

di Letizia Tortello

 
ZAR'IT - La nuova guerra del Libano era pronta a esplodere sottoterra, tra Zar'it e Shtula. Da un tunnel lungo un chilometro che sbucava sotto la collina d'Israele, scavato 50 centimetri alla volta con un «trapano» cilindrico che si tiene tra due mani, azionato da un motore italiano.
  I miliziani di Hezbollah ci avevano messo anni per costruirlo, la lentezza non era un problema: l'ultimo conflitto tra i due Paesi risale a luglio e agosto 2006. Sono scesi giù, nelle viscere della terra per 70 metri, bucando la roccia rossa per una profondità pari a quella di un palazzo di venti piani che affonda nel sottosuolo. Il varco era stato aperto da una casa privata nel villaggio libanese di Ramyeh, per non destare sospetti. L'obiettivo era preparare il canale più lungo, segreto e veloce, per infiltrare soldati di fanteria in Galilea e sorprendere lo Stato ebraico, attaccando una delle ventidue comunità di agricoltori al confine con il Libano del Sud, quando sarebbe stato il momento.
  La galleria di Zar'it era una delle sei già scavate dove corre la Blue Line, la linea di demarcazione invalicabile creata dalle Nazioni Unite nel 2000 per prevenire escalation tra i due Paesi. L'esercito israeliano l'ha scoperta il 13 gennaio scorso, nell'ambito dell'operazione «Scudo del Nord». Con Gaza e le alture del Golan, il confine Sud libanese sta diventando uno degli avamposti iraniani con cui lo Stato sciita vuole minacciare Israele. Ma il piano militare è stato duramente sventato dopo che la Difesa israeliana ha neutralizzato tutti i cunicoli, tra dicembre e inizio anno, scovandoli con la tecnologia sofisticata dei microsismi indotti, in grado di scandagliare il terreno in profondità.

 La tecnica di costruzione
  Quel che rimane, oggi, è il pezzo di galleria che ha invaso la parte israeliana: 77 metri che raccontano le conoscenze ingegneristiche impiegate dai combattenti di Hassan Nasrallah per preparare l'attacco. Da Ramyeh, il cunicolo tortuoso lungo un chilometro, largo un metro e alto due, quando va bene, dove non ti devi rannicchiare sotto fili penzolanti e tubi dell'acqua ancorati al soffitto che gocciola umidità, si infilava nel sottosuolo, tra curve brusche, grotte e gradini che scendono in picchiata. Noi accediamo dall'altro capo, quello che sarebbe sbucato in Israele, da dieci metri sotto terra. Fa freddo, le pareti sono rimaste grezze, appuntite, ondulate e piene di buchi, segno del passaggio della macchina escavatrice. Ci sono i binari, usati per movimentare i detriti. L'aria è fresca grazie a un sistema di ventilazione progettato per far sopravvivere soldati e operai. C'è la corrente elettrica, telefoni attaccati al muro. Un barile arrugginito che fungeva da impianto di raffreddamento del motore e pompava acqua dal villaggio libanese.

 Diversi da quelli di Gaza
  Restano segni di umanità, vestiti civili e graffiti del Corano. Tutto è com'era, prima della scoperta dell'esercito di Israele (Idf): il cunicolo ha violato la sovranità dello Stato ebraico e la risoluzione 1701-creata con il cessate il fuoco del 2006 -, come ha riconosciuto l'Unifil,forza di interposizione Onu guidata dall'Italia. La tecnica di scavo è diversa da quelle impiegate da Hamas a Gaza, perché laggiù il terreno è friabile, servono impalcature per aprire varchi nel terreno, che s'infiltra d'acqua. Qui no.
  Sono passati otto anni da quando Hezbollah ha creato le unità speciali Radwan, che avrebbero dovuto permettere alle milizie sciite di prendere posizioni chiave (con ostaggi nei villaggi israeliani) e iniziare a bersagliare gli obiettivi con cecchini e missili anti-carro. Non si sa quanto sia costato al «partito di Dio» realizzare i tunnel, quel che è certo è che dal 2014 i residenti del Nord di Israele avevano lanciato l'allarme, perché sentivano rumori sospetti provenire dal sottosuolo. «Abbiamo notato movimenti di giovani in età per il servizio di leva che perlustravano dalla nostra parte - dice l'ufficiale Idf che ci accompagna -. Ma non potevamo ricondurli ad Hezbollah senza prove».

 L'anniversario e le minacce
  L'esercito israeliano sospetta che «le operazioni di costruzione dei sei tunnel siano state mascherate con azioni di "Green without borders", un'Ong che si occupa di tutelare le foreste libanesi, «ma qui non si trattava di piantare alberi». Israele era a conoscenza dell'attività di scavo dal 2006, al termine della guerra «dei 33 giorni», ma solo ora le gallerie erano quasi pronte per offendere. La prima distrutta si trova fra la cittadina di Kafr Kila, sul lato libanese, e il centro abitato di Metula.
  L'azione dell'Idf ha colto di - sorpresa Hezbollah. Ma non ha impedito di proseguire con gli incontri trilaterali tra la Difesa israeliana, le forze armate libanesi (Laf) e Unifil, essenziali per la stabilità dell'area. Proprio in questi mesi, corre il tredicesimo anniversario della seconda guerra del Libano. La tensione tra i due Paesi resta alta, con Nasrallah che minaccia «un conflitto peggiore di quello passato e metterà sull'orlo dell'estinzione lo Stato ebraico». «Parole vane», per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ancor di più dopo la distruzione dei tunnel. A un attacco libanese seguirebbe «un devastante colpo militare» nei confronti dello Stato confinante, appoggiato e finanziato dall'Iran. .

(La Stampa, 17 luglio 2019)



Capo Hezbollah libanese: "L'Iran può bombardare Israele con forza e ferocia"

Hassan Nasrallah
"Con forza e ferocia" l'Iran può bombardare Israele. Venerdì sera il capo politico e spirituale degli Hezbollah sciiti libanesi Hassan Nasrallah ha affidato questa compiaciuta confidenza alla televisione "Al Manar", l'emittente del suo movimento. Ricorreva il tredicesimo anniversario della guerra con Israele divampata nel luglio del 2006, un conflitto che durò 34 giorni e che uccise 1200 persone in Libano, per lo più civili, e 160 israeliani, quasi tutti militari. Lo sfondo delle esternazioni sono le tensioni in ascesa fra gli Stati Uniti, il più potente alleato di Gerusalemme, e il Paese degli ayatollah.
   Il giorno dopo nello stretto di Ormuz si sono perse le tracce di una petroliera emiratina, la "Riah". Gli Emirati Arabi Uniti sono ferrei alleati dell'Arabia Saudita e dell'Egitto, due Paesi in lotta con Teheran da decenni. La notizia è trapelata solo oggi. Nelle stesse ore l'agenzia cinese Xinhua ha appreso da "fonti della sicurezza palestinese" che nella parte centrale della Striscia di Gaza è stato abbattuto un piccolo aereo israeliano che la stava sorvolando.
   Le dichiarazioni incendiarie di Nasrallah sono state appena addolcite da una dichiarazione di intenti. "La nostra responsabilità nella regione - ha detto - è quella di lavorare per prevenire una guerra degli Usa contro l'Iran. Quando gli americani capiranno che un conflitto potrà cancellare Israele dalla carta geografica, cambieranno opinione". Dal 2012 i combattenti degli Hezbollah, in particolare gli uomini delle forze speciali "Radwan" e delle "Brigate Al Abbas", sono stati schierati in Siria a sostegno del regime di Bashar Assad, e degli alleati iraniani, la tradizionale triplice intesa sciita alla quale si sono unite anche truppe irachene e russe. Mosca non aveva nessuna intenzione di perdere Latakia, la sua unica base navale nel Mediterraneo, e ha costruito nel 2015 un aeroporto militare a Khmeimim, alle spalle della città rivierasca siriana.
   Dalla fine di aprile i raid aerei dell'aviazione di Assad e di Mosca hanno preso di mira soprattutto Idlib, la città del nordovest siriano in mano a milizie di qaedisti e di ribelli riuniti nell'alleanza "Hayat Tahrir al Sham. Secondo il sito "Osservatorio siriano per i diritti umani" oltre seicento persone si sono aggiunte alle 370 mila cadute in otto anni di conflitto. Anche diversi combattenti Hezbollah hanno perso la vita. Per questa ragione Nasrallah ha annunciato che in Siria è stato "ridotto l'impegno sulla base delle necessità della situazione attuale", anche se "continuiamo a mantenere una presenza dove eravamo".
   Il segretario degli Hezbollah ha tenuto a precisare nell'Intervista ad "Al Manar" che negli ultimi tredici anni i suoi combattenti hanno messo a segno grandi progressi "nel numero, nella qualità e nella precisione" dei loro missili. Davanti alla telecamera ha srotolato una carta di Israele e ha sostenuto che ora i vettori possono arrivare fino a Eilat, la città dell'estremo sud che si affaccia sul Mar Rosso. "Possiamo infliggere danni enormi", si è compiaciuto, precisando che "stante la logica attuale delle cose" potrebbe un giorno recarsi lui stesso a Gerusalemme per pregare sulla Spianata delle Moschee.
   Nel colloquio fiume Nasrallah si è rifiutato di precisare se gli Hezbollah hanno ottenuto dai russi batterie di missili antiaerei S 300 come quelle che sono già state consegnate alle forze di Assad (apparati che però non sono ancora operativi). "Su questo punto mantengo una "ambiguità costruttiva", ha tagliato corto. Mosca è considerata "amica" degli uomini del suo movimenti che però, assicura , "si coordinano solo con le forze di Assad"
   Martedì 16 luglio è atterrato nella base di Murted Hava, 35 chilometri a nord ovest di Ankara, l'undicesimo aereo russo carico di componenti dei missili terra aria S 400. "Ci auguriamo che sia tutto pronto per il mese di aprile del 2020", è la previsione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Secondo il Pentagono il possesso degli S 400 è incompatibile con la consegna ai turchi dei sofisticati caccia F 35 americani, il cui complesso software rischia di finire nelle mani dell'intelligence di Putin. Per questa ragione sono stati sospesi gli addestramenti dei piloti di Ankara. Washington ha minacciato sanzioni.
   L'ultima mossa in direzione di un allontanamento della Turchia dallo scacchiere occidentale sono le trivellazioni alla ricerca di gas naturale e di petrolio al largo di Cipro. Ankara ha inviato due navi. Dall'inizio di maggio la "Fatih" è attiva a 75 miglia dalla costa occidentale dell'isola. Di recente si è aggiunta la "Yavuz". Il Consiglio degli Affari esteri dell'Unione Europea ha sospeso i negoziati con la Turchia per un accordo globale sui trasporti aerei e ha cancellato tutte le sessioni del Consiglio di associazione. "Sono misure da non prendere sul serio", ha minimizzato il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu, "debbono sedersi al tavolo con noi per questioni legate ai rifugiati e non solo (ndr. nell'ambito della Nato Ankara è il maggior acquirente di armi tedesche).Non hanno altra scelta e proprio per questo non è possibile sanzionarci".

(Quotidiano.net, 17 luglio 2019)


Fattoria di (contro)tendenza: l'azienda agricola di Giuseppe Zoff

La filosofia scelta dall'imprenditore agricolo si ispira molto alle tecniche gestionali messe in atto dagli allevatori israeliani.

 
L'obiettivo benessere animale è più di un semplice requisito normativo. Esso è qualcosa che si sente profondamente dentro, un principio positivo, ed un dovere morale prima ancora che i vincoli legislativi lo impongano. Allo stesso modo dovrebbe essere trattata la tutela dell'ambiente che ci circonda: senza la natura, l'uomo non può vivere.
L'imprenditore agricolo Giuseppe Zoff sente tutto questo; ha sposato una personalissima causa di cura del benessere animale e di tutela dell'ambiente ed ha chiesto a Ruminantia di aiutarlo a diffondere un importante messaggio, da rivolgere a tutti gli allevatori che ancora non si sono convertiti ad una filosofia produttiva capace di far esprimere il meglio della mandria senza spremere e stressare all'infinito le bovine. In qualità di promotore del progetto "Stalla Etica", Ruminantia condivide questo tipo di gestione dell'allevamento. La filosofia scelta, ci racconta Giuseppe Zoff, si ispira molto alle tecniche gestionali messe in atto dagli allevatori israeliani:
    "Seguo con interesse la zootecnia israeliana perché gli israeliani sono stati molto più brillanti di altri in fatto di gestione dell'allevamento bovino, partendo tanti anni fa con semplici soluzioni. La loro media produttiva al momento è di circa 146 quintali di latte. In Italia, sono tutti fenomeni a produrre 100 quintali: di cosa stiamo parlando? In vent'anni, in Israele sono state fatte essenzialmente alcune cose: l'introduzione del compost, senza l'uso di trucioli o cippato, considerando anche il "favorevole" fattore climatico che asciuga rapidamente le feci, e la concessione di tantissimo spazio in più e molta acqua a disposizione agli animali. Considero Israele il miglior riferimento ed ho pertanto copiato: copiare non è un delitto!".
(Ruminantia, 17 luglio 2019)


Processo al Labour

Più si indaga sull'antisemitismo nella sinistra inglese più ci si avvicina a Corbyn. Nomi e accuse Perché la sinistra inglese non risolve la questione antisemita? Le risposte (spaventose) dei testimoni

di Gregorio Sorgi

ROMA - Le accuse di antisemitismo nel Labour inglese hanno coinvolto alcune delle persone più vicine a Jeremy Corbyn, che lui ha contribuito a fare eleggere ai vertici del partito. L'inchiesta di Bbc Panorama mercoledì scorso non accusa mai direttamente il leader laburista, ma rivela le gravi responsabilità della nomenklatura corbyniana, che in alcuni casi avrebbe addirittura insabbiato le prove pur di non condannare i deputati accusati di antisemitismo. L'inchiesta della Bbc ha rigenerato la fronda più ostile al leader laburista guidata dal suo vice Tom Watson, che ha chiesto alla segretaria generale del partito - la corbyniana Jennie Formby- di rispondere alle pesanti accuse nei suoi confronti. C'è stata una frattura tra il governo ombra, composto da molti fedelissimi di Corbyn che hanno ritenuto le insinuazioni di Watson inaccettabili, e i deputati moderati che invece lo hanno sostenuto perché vivono la vicenda con un profondo disagio. Molti sono rimasti delusi dalla timida risposta del partito, che ha etichettato il documentario della Bbc come un complotto ordito da "alcuni ex dirigenti amareggiati", senza mai entrare nel merito delle accuse. Lunedì scorso il capo del gruppo parlamentare laburista, John Cryer, ha incontrato i deputati per discutere dell'antisemitismo e per annunciare che Corbyn ha programmato un vertice straordinario col governo ombra lunedì prossimo. Poche settimane fa il leader aveva annunciato una serie di incontri mensili in cui i deputati potevano prendere appuntamento con lui e con il suo staff per parlare di antisemitismo. Una misura puramente simbolica e insufficiente per affrontare un problema radicato nel partito, e a quanto pare inestirpabile.
   Il documentario della Bbc rivela un clima tossico nel Labour: i funzionari responsabili delle indagini sull'antisemitismo venivano minacciati dai vertici, che interferivano nel loro lavoro. Il giornalista John Ware ha intervistato sette ex dipendenti del Labour che hanno lasciato il loro incarico perché, hanno raccontato, la situazione era diventata ingestibile.
   "Mi è stato chiesto di fare delle cose che non mi facevano sentire a mio agio", ha confessato davanti alle telecamere Sam Matthews, ex capo delle investigazioni della sezione disciplinare dal 2017 al 2018: "A un certo punto ho addirittura considerato il suicidio". I due dirigenti ritenuti maggiormente responsabili per le interferenze sono entrambi molto vicini a Corbyn: si tratta di Jennie Formby e di Seumas Milne, il potentissimo portavoce del leader. La segretaria generale avrebbe cercato di influenzare la composizione del comitato disciplinare che doveva giudicare la condotta di Jackie Walker, attivista del Labour ed ex vicepresidente del gruppo corbynista Momentum, e a quanto pare ne erano tutti al corrente. Corbyn e i suoi collaboratori più stretti erano in copia nelle mail della Formby, che confessava di avere "cancellato i messaggi, senza lasciare alcuna traccia". Anche Seumas Milne, ex giornalista del Guardian e ideologo del corbynismo, avrebbe interferito con le attività del comitato disciplinare. L'enorme influenza di Milne nel partito è sempre stata oggetto di polemiche: è ritenuto il responsabile della linea oltranzista di Corbyn contro il secondo referendum sulla Brexit, e non solo. L'ex giornalista condivide le tesi del leader in politica estera, con un taglio ancora più estremista. Nel 2004 Milne pubblicò l'estratto di un discorso di Osama bin Laden nella pagina delle opinioni del Guardian di cui era responsabile, ed è anche un antiamericano convinto, tanto che la sua suoneria telefonica è una canzone rap contro il carcere di massima sicurezza di Guantanamo. L'immagine di oscuro manovratore gli è valso il soprannome di "Beria di Corbyn", come lo spietato direttore della polizia segreta sovietica ai tempi di Stalin. Ieri il Times ha ripescato le immagini di Seumas Milne e Andrew Murray, ex sindacalista e consigliere di Corbyn, che partecipano a un dibattito universitario nel 2012 con Kamal el-Helbawy, uno dei portavoce della Fratellanza musulmana ("gli ebrei israeliani non sono veri ebrei", ha detto nell'incontro). La figlia di Murray, Laura, ex collaboratrice di Corbyn accusata anche lei di aver interferito col processo disciplinare, è stata nominata lo scorso aprile a capo della commissione che deve filtrare le segnalazioni sull'antisemitismo prima di procedere alle indagini. Questi legami hanno dato voce a una corrente silenziosa nel Labour che vede le accuse di antisemitismo come uno degli effetti della svolta radicale effettuata da Corbyn nel 2015. "Dopo la sua elezione c'è stato un aumento di membri con una certa prospettiva", ha detto Mike Creighton, direttore del servizio disciplinare del Labour dal 2009 al 2017: "Hanno portato nel partito una certa visione del mondo che purtroppo ha aperto uno spazio per l'antisemitismo".

(Il Foglio, 17 luglio 2019)


Ritrovato maxi insediamento preistorico nei pressi di Gerusalemme

 
Un enorme insediamento preistorico, in cui si stima vivessero tra le 2000 e le 3000 persone, è stato scoperto a Motza, cinque chilometri a ovest di Gerusalemme. Secondo l'Autorità per le Antichità israeliana, è la prima volta che un insediamento di tale portata appartenente al periodo neolitico viene scoperto in Israele. Il team di archeologi che ha lavorato alla scoperta ha individuato grandi edifici, strutture pubbliche e luoghi di rito. Il ritrovamento offre la possibilità di ampliare ora gli studi e le informazioni sulle modalità in cui le civiltà si sono sviluppate verso la fine dell'età della pietra.

 Un insediamento davvero esteso
  Come riportano diverse testate internazionali, tra cui Bbc News e Euronews, la metropoli avrebbe circa 9000 anni ed è stata scoperta durante alcuni scavi che hanno preceduto la costruzione di un'autostrada. L'estensione dell'insediamento, davvero importante, ne fa uno dei ritrovamenti da record per il Paese: la metropoli copriva una dozzina di acri vicino a quella che è oggi la città di Motza. "Questo è probabilmente il più grande scavo di questo periodo nel Medio Oriente e consentirà alla ricerca di avanzare a grandi passi verso nuovi studi", ha detto Lauren Davis, archeologa dell'Israel Antiquities Authority. Lo scavo ha permesso di far venire alla luce grandi edifici, vicoli e luoghi di sepoltura, a testimonianza di un livello relativamente avanzato di civiltà, hanno riferito le autorità locali. Gli archeologi hanno potuto ritrovare capannoni di stoccaggio che contenevano grandi quantità di legumi, in particolare lenticchie, i cui semi si sono conservati nel corso dei millenni. "Tutto ciò è la prova di una pratica intensiva dell'agricoltura", hanno detto gli archeologi. "Le ossa di animali rinvenute nel sito, inoltre, mostrano che gli abitanti degli insediamenti si sono specializzati sempre più nella pastorizia, mentre l'uso della caccia per la sopravvivenza a quell'epoca era già gradualmente diminuito".

 Grandi quantità di oggetti ritrovati
  All'interno della grande quantità di oggetti presenti nell'insediamento, sono stati ritrovati anche strumenti di selce, tra cui migliaia di punte di freccia, asce per abbattere alberi, falci e coltelli. Sono emersi anche oggetti di pietra, alcuni dei quali nelle tombe, che hanno suggerito agli esperti si trattassero di offerte ai defunti. Inoltre ecco alcuni braccialetti di pietra di stili diversi, le cui piccole dimensioni suggeriscono che fossero indossati da bambini. La scoperta, hanno detto ancora gli esperti dell'Israel Antiquities Authority, smentisce chi, in precedenza, ha creduto che l'area della Giudea fosse disabitata durante l'epoca a cui risale l'insediamento.

(SkyTg24, 16 luglio 2019)


Federica Mogherini, l'Iran e l'arte di non dire

di Giacomo Kahn

Ieri si è tenuto un incontro a Bruxelles dei ministri degli Esteri dell'Unione che aveva in agenda il dossier iraniano e doveva predisporre una risposta unitaria alle violazioni di Teheran all'accordo di limitazione dell'arricchimento dell'uranio, per un uso quindi solo civile e non militare. Almeno una volta nella vita politica di Federica Mogherini, alto rappresentante della politica estera europea (titolo quanto mai pretenzioso), davanti alle palesi violazioni del regime iraniano, ci si sarebbe aspettati una dichiarazione di condanna, una presa di posizione netta, una denuncia. Ed invece dall'inesauribile arte di smussare e sminuire, per non offendere mai la sensibilità dell'interlocutore arabo o palestinese, la Mogherini piuttosto di dire la verità per come essa è evidente a tutti - ovvero che l'Iran ha violato gli accordi e sta minacciosamente arricchendo l'uranio per costruire testate nucleari - ha dichiarato che nonostante da parte dell'Iran vi sia un "significativo non adempimento" dei suoi obblighi, tuttavia "notiamo che tutti i passi che sono stati finora compiuti...sono al momento reversibili". Quindi l'invito della Mogherini all'Iran perché torni "ad un pieno rispetto dell'accordo".
Come si fa ancora a credere che l'Unione Europea possa mai giocare un pur minimo ruolo in Medio Oriente? Possa mai proporsi come interlocutore neutrale? Quando il suo massimo rappresentante politico usa parole così equivoche, tra il detto e il non detto?

(Shalom, 17 luglio 2019)


Netanyahu: l'Ue rischia di ignorare la minaccia dell'Iran fino al lancio di missili

ROMA - L'Unione Europea potrebbe non svegliarsi di fronte alla minaccia dell'Iran "finché i missili nucleari iraniani non cadranno sul territorio" del Vecchio continente. Lo ha affermato il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu.
Il premier dello stato ebraico ha paragonato l'approccio dell'Europa alle recenti violazioni dell'accordo del 2015 che limita il suo programma nucleare all'appeasement verso la Germania nazista.
Ha parlato dopo che i ministri degli Esteri dell'Unione Europea hanno spiegato che le violazioni non erano significative. L'Iran ha spiegato che si tratta di una risposta alla reintroduzione delle sanzioni degli Stati Uniti, ma ha ribadito che non sta cercando di costruire armi nucleari.

(askanews, 16 luglio 2019)


Nel ventre di Gerusalemme

La strada dei pellegrini ebrei torna alla luce dopo 2000 anni

Il percorso in pietra inizia dai resti della piscina rituale di Shiloah Nel canale di drenaggio dell'acqua trovate monete antiche "Libera Sion"

di Maurizio Molinari

 
La strada dei pellegrini
 
GERUSALEMME - L' antica strada dei pellegrini per salire verso il Tempio di Gerusalemme riappare dalle viscere della città e consente di immergersi in ciò che vi avveniva oltre 2000 anni fa. Il sottosuolo di Gerusalemme conserva intatte le tracce della genesi del monoteismo e quelle dei pellegrini iniziano ad affiorare, quasi per caso, in una giornata del 2004 quando salta una tubatura nel quartiere di Silwan, a sud-est della Città Vecchia.
   Il Comune fa intervenire un team di operai per riparare il guasto e, come avviene sempre in simili occasioni, vengono accompagnati da alcuni archeologi. Gli uni e gli altri scavano assieme, imbattendosi in una scalinata lunga una dozzina di metri proprio sopra l'antica piscina di Shiloah dove i pellegrini ebrei si immergevano per i bagni rituali prima di ascendere al Tempio di Gerusalemme, distrutto dai romani di Tito nell'anno 70. Gli archeologi riconoscono gli scalini perché sono simili a quelli delle Porte di Hulda, l'accesso al Monte del Tempio lungo la parete Sud bloccata da quando nell'anno 705 viene costruita la moschea di AlAqsa.
   La scoperta della piscina di Shiloach fa ritrovare anche un canale sotterraneo di drenaggio dell'acqua che serviva l'antica Gerusalemme: percorrendolo in circa 45 minuti si arriva all'interno della Città Vecchia. Fu uno degli ultimi nascondigli per gli ebrei in fuga dai legionari di Tito durante la fase più cruenta della distruzione del Tempio.
   Ma la vera sorpresa arriva da ciò che viene scoperto sopra il canale idrico ovvero il pavimento della «Strada dei pellegrini». Si tratta di un percorso in pietra levigata, largo circa 7 metri e lungo 600, che parte dalla piscina di Shiloah ed arriva fino al Monte del Tempio. A percorrerlo duemila anni fa erano milioni di pellegrini ebrei in occasione di tre festività annuali - Pesach, Shavuot e Sukkot - che ancora oggi segnano il calendario ebraico. I pellegrini si immergevano a Shiloah come in altre piscine laterali, per il bagno di purificazione, risalivano la strada ed arrivavano al Tempio per le preghiere ed i sacrifici offerti a Dio.
   Lo storico Giuseppe Flavio scrive che durante i pellegrinaggi circa 2, 7 milioni di ebrei arrivavano a Gerusalemme, celebrando 256 mila sacrifici. Percorrendo il pavimento biancastro della strada dei pellegrini scoperta dagli archeologi di Ronny Reich ed Eli Shukron ci si immerge nel mondo di allora. Sulla sinistra una piccola scultura in tre gradini ha le esatte fattezze descritte dal Talmud per il luogo dove venivano lasciati gli oggetti perduti affinché venissero restituiti ai legittimi proprietari, i lati della strada - che misura al millimetro la larghezza indicata dalla Mishnà - sono segnati da piccoli blocchi di marmo che si interrompono dove sorgevano le botteghe che offrivano ai viandanti ogni sorta di oggetti, cibi, bevande.
   Procedendo negli scavi gli archeologi hanno trovato monete dell'epoca - con la scritta «Libera Sion» coniata per sfidare gli occupanti romani - resti di palme, ossa umane ed animali, spade di legionari ed «anche molta cenere» come affermano i volontari che scavano nel sottosuolo. Saranno gli esami scientifici a dire se si tratta dei resti dell'incendio che distrusse il Secondo Tempio nell'anno 70 ma il percorso sotterraneo evoca in ogni dettaglio «il cuore del popolo ebraico» come riassume Doron Spielman, vicepresidente della Fondazione Ir David (Città di David) che finanzia gli scavi. Un esempio viene dalla discussione nel Talmud fra Hillel e Shammai - due importanti figure rabbiniche del Primo Secolo - su quale età doveva avere un figlio per essere obbligato a seguire il padre nel pellegrinaggio: Shammai, il più severo, sosteneva che il figlio doveva essere incluso se era in grado di stare seduto sulle spalle del padre mentre Hillel ribatteva che la condizione era di riuscire a salire da solo per 750 metri, ovvero percorrere da solo la Strada dei pellegrini. Fino ad ora a molti studiosi tale discussione era sembrata incomprensibile ma ora, davanti ai gradini ritrovati, diventa improvvisamente logica.
   Il percorso finora scavato è di circa 250 metri e un tratto arriva fin sotto le mura della Città Vecchia dove gli archeologi israeliani raccolgono ed esaminano con estrema cura e le tecnologie più avanzate ogni frammento di oggetto, ispezionando il terreno palmo a palmo. Prima di loro qui hanno scavato i britannici Frederick Bliss e Archibald Dickey, inviati dalla Regina Vittoria fra il 1894 ed il 1897, e Kathleen Kenyon a metà degli anni Sessanta, concentrandosi però solo - e invano - nella ricerca di mitici tesori. Furono proprio i britannici ad individuare la pianta di una chiesa bizantina costruita sulla Strada dei pellegrini - che quasi certamente anche Gesù percorse - che ora viene strappata ai detriti secolari. Guardando il terreno, colpisce la stratificazione per ere storiche di una città che dopo i romani è stata occupata da bizantini, crociati, arabi e turchi.
   Questi scavi fanno parte del «Piano Shalern» approvato dal governo israeliano nel 2017 per riportare alla luce l'antica Gerusalemme: includono la Città di David, dove si trovava il palazzo reale, ed anche l'area adiacente della fonte di Ghihon, il luogo dei Gevusei da cui la città ebbe inizio 3000 anni fa. Yisrael Hasson, direttore dell'Autorità israeliana per le Antichità, spiega che «il progetto consentirà di far tornare alla luce la vita che la città aveva durante il Secondo Tempio». Ad illustrarlo con chiarezza è la mappa che archeologi e scavatori hanno portato nel sottosuolo: mostra il percorso della Strada dei Pellegrini da Shiloah fino all'Arco di Robinson, costruito da Erode, lasciando comprendere come a Sud-Est dell'attuale Città Vecchia vi fosse un grande polmone di vita ebraica dovuto ai tre pellegrinaggi annuali.
   È in questo angolo sotterraneo di Gerusalemme che l'ambasciatore Usa, David Friedman, è venuto ad aprire a colpi di martello un varco lungo la Strada dei Pellegrini per rendere omaggio alle «scoperta delle radici del passato» ma sollevando le ire dell'Autorità nazionale palestinese che con Saeb Erakat lo ha paragonato ad un «colono estremista israeliano» affermando: «Gli scavi mettono a rischio il quartiere arabo di Silwan al fine di giudaizzare la città che è invece destinata ad essere la nostra capitale». È una tesi che nasce da quanto Yasser Arafat, leader dell'Olp, disse di persona a Bill Clinton nel summit di Camp David del 2000 lasciandolo di stucco: «Il Tempio di Salomone non si è mai trovato a Gerusalemme perché era a Nablus». Per Gabriel Barkay, archeologo israeliano sopravvissuto alla distruzione del ghetto di Budapest durante la Seconda Guerra Mondiale, «la negazione del Tempio di Gerusalemme è peggiore del negazionismo sulla Shoah perché vuole rescindere il legame stesso fra terra e popolo d'Israele». Anche per questo l'ambasciatore Friedman ribatte così Erakat: «Rinunciare alla Strada dei pellegrini per Israele sarebbe come per l'America privarsi della Statua della Libertà». Le polemiche, specchio del perdurante contenzioso territoriale fra israeliani e palestinesi, coesistono con i progressi degli scavi. -

(La Stampa, 16 luglio 2019)


Organizzazione israeliana fa causa all'Europa

Una ONG israeliana ha avviato un procedimento legale contro l'Unione Europea, nel tentativo di fermare l'INSTEX, il meccanismo europeo creato per eludere le sanzioni statunitensi contro l'Iran e salvare l'accordo sul nucleare del 2015.
   La Shurat Hadin Israel Law Center, una ONG che rappresenta le vittime del terrorismo in Israele, ha fatto causa, a nome di due famiglie, all'UE per la creazione dello Strumento a Supporto degli Scambi Commerciali, in inglese INSTEX, tra Paesi europei e la Repubblica Islamica. Tale meccanismo è stato lanciato a gennaio ed è diventato operativo il 28 giugno, grazie agli sforzi di Germania, Francia e Gran Bretagna. I querelanti sono tutti di origine israeliana e americana e sostengono che i loro parenti sono stati vittime di attacchi terroristici finanziati dall'Iran. Le famiglie presenteranno una causa alla Corte d'Assise francese, chiedendo che tutto il denaro e le risorse iraniane che passano per il meccanismo europeo vengano utilizzate per pagare un risarcimento alle vittime del terrore.
   Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di recedere unilateralmente dall'accordo sul nucleare, l'8 maggio 2018, e ha conseguentemente reimposto le sanzioni contro l'Iran. Nel maggio 2019, Washington ha ulteriormente inasprito le relazioni con Teheran, vietando a tutti Paesi e a tutte le compagnie di importare petrolio iraniano, minacciando in caso contrario l'esclusione dal sistema finanziario mondiale. In risposta, l'Iran ha cominciato a violare le disposizioni dell'accordo nucleare e ha iniziato ad arricchire l'uranio oltre i limiti fissati nel 2015.
   Teheran ha criticato aspramente i Paesi rimasti nell'accordo, denunciando il fatto che la sua economia non abbia ricevuto nessun supporto contro le sanzioni. I pessimi rapporti con gli Stati Uniti hanno causato una serie di tensioni nella regione. L'episodio più grave si è verificato il 20 giugno, quando un drone americano era stato abbattuto nello Stretto di Hormuz perché accusato di sorvolare nello spazio aereo iraniano. Washington si era difeso sostenendo che il velivolo stesse attraversando un'area compresa nello spazio aereo internazionale. A quel punto, Trump aveva ordinato un attacco contro l'Iran ma, nel giro di poche ore, aveva deciso di annullare l'operazione perché, secondo le sue parole, avrebbe causato un numero troppo elevato di vittime e "non sarebbe stato proporzionato" all'abbattimento di un drone.
   Domenica 14 luglio, i leader di Regno Unito, Francia e Germania hanno chiesto la fine dell'escalation delle tensioni nella regione e il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha affermato che il suo Paese è pronto a negoziare con gli Stati Uniti se Washington eliminerà le sanzioni economiche contro la Repubblica Islamica. In tale contesto, gli sforzi israeliani vogliono minare una soluzione europea a tale situazione e sostengono la posizione del loro principale alleato, gli Stati Uniti, contro il loro nemico regionale, l'Iran.

(Sicurezza Internazionale, 16 luglio 2019)


La lingua che visse due volte

Un viaggio alla scoperta di una lingua antica e insieme moderna, "sacra" ma anche molto concreta: l'ebraico

di Ugo Volli

Fra le molte meraviglie della storia del popolo di Israele, la rinascita della lingua ebraica, poco meno di centocinquant'anni fa, non è delle minori.
   Non esiste oggi una lingua altrettanto antica che sia ancora in uso e soprattutto non esiste una lingua che sia uscita dall'uso quotidiano per due millenni e che poi sia tornata a essere parlata, utilizzata per le faccende di ogni giorno, la letteratura, la scienza, la politica, con il successo che tutti conosciamo. Il merito è di Eliezer Perelman, nato in Lituania nel 1858 e rinominatosi Ben Yehuda al momento della sua immigrazione a Gerusalemme nel 1881. Nato in una pia famiglia hassidica, Ben Yehuda divenne sionista da ragazzo e in nome del sionismo concepì l'impresa incredibile di trasformare di nuovo la lingua della liturgia e dei dotti di Israele in un idioma vivo. In mezzo a mille difficoltà economiche, politiche e anche giudiziarie e di salute, per i successivi quarant'anni della sua vita Eliezer lavorò senza sosta a ricostruire un lessico della lingua antica adeguato a tutte le nuove realtà ed esigenze del mondo moderno, costruì un'accademia, un movimento politico per la lingua ebraica ed educò i suoi figli solo usando l'ebraico, facendone i primi parlanti nativi dopo venti secoli.
   Questo miracolo della rinascita linguistica è stato spesso celebrato ed è oggetto di molte pubblicazioni scientifiche e divulgative. È anche il punto di partenza di un libro appena uscito, che si intitola La lingua che visse due volte della ebraista universitaria Anna Linda Callow. Ma non si tratta affatto di uno studio di linguistica. Ogni lingua è la porta d'accesso alla cultura che la usa e questo è particolarmente vero per la tradizione ebraica, che non solo ha espresso nel suo linguaggio l'opera che certamente è la più influente nella storia dell'umanità e cioè la Bibbia, ma ha teorizzato un ruolo particolare per quella che si usa chiamare "lingua santa" o piuttosto "di santità". Con essa, secondo il pensiero tradizionale, si sono svolte la Creazione e la Rivelazione; essa ha accompagnato la storia antica del popolo ebraico e poi, dopo che se ne perse l'uso quotidiano fra l'esilio babilonese e l'invasione romana, è rimasta la base dell'identità degli ebrei dispersi in tutto il mondo, il linguaggio (insieme all'aramaico) in cui furono formulate le riflessioni, i sogni, le leggi, le aspirazioni del popolo ebraico.
   Il libro di Anna Linda Callow è dunque un'esposizione non tanto della lingua ebraica con le sue caratteristiche morfologiche e sintattiche, quanto un'introduzione alla cultura ebraica, scritta con grande competenza e capacità di sintesi. Si parla con garbo e chiarezza veramente rara di Talmud e di Kabbalah, del testo della Torah e del hassidismo, di Rashì e di Maimonide, Spinoza e di Sabbatai Zvi, si spiegano le tecniche ermeneutiche e le interdizioni alimentari, le etimologie bibliche e i miracoli di Mosè e molte altre cose ancora. È raro trovare un'esposizione così limpida, colta e piena d'amore per la tradizione ebraica. È un libro che anche gli ebrei che conoscono abbastanza la loro tradizione dovrebbero leggere per riflettere, ma anche da regalare ai ragazzi e agli amici che chiedono notizie sulla cultura ebraica.

(Bet Magazine Mosaico, 12 luglio 2019)


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«L'esercito dei difensori della lingua»

Continuando sul tema della rinascita della lingua ebraica, riportiamo un brano tratto dal libro “Dio ha scelto Israele”.

"Quando si vede un edificio già finito, non si pensa alla fatica impiegata per costruirlo", ha detto qualcuno. Questo è particolarmente vero per quel particolare edificio che è l'attuale lingua ebraica.
  Nel suo soggiorno di Parigi Ben Yehuda scrisse un articolo che era un accorato appello per il ritorno degli ebrei in Israele. Non fu facile trovare un giornale disposto a pubblicarlo, ma alla fine la risposta positiva arrivò da una rivista mensile ebraica di Vienna: "Hashahar", che significa "L'alba". Nell'articolo, apparso nel 1879 con il titolo "Una questione degna di nota", si diceva:
     
    «Se è vero che tutti i singoli popoli hanno diritto di difendere la loro nazionalità e proteggersi dall'estinzione, allora anche noi, gli ebrei, dobbiamo avere lo stesso diritto. Perché il nostro destino dovrebbe essere più misero di quello di tutti gli altri? Perché dovremmo soffocare la speranza di un ritorno, la speranza di divenire una nazione nella nostra terra abbandonata, che ancora piange i suoi figli cacciati in terre remote duemila anni fa? Perché non dovremmo seguire l'esempio delle altre nazioni, grandi e piccole, e fare qualche cosa per proteggere il nostro popolo dallo sterminio? Perché non dovremmo sollevarci e guardare al futuro? Perché restiamo con le mani in mano e non facciamo nulla che possa gettare le basi su cui costruire la salvezza del nostro popolo? Se ci importa che il nome di Israele non si cancelli dalla faccia della terra, dobbiamo creare un centro per tutti gli israeliti: un cuore dal quale il sangue scorra lungo le arterie di tutto il corpo e lo richiami a nuova vita. Soltanto il ritorno a Eretz Israel può rispondere a questo scopo. [...]
    Oggi, come nei tempi antichi, questa è una terra benedetta dove mangeremo il nostro pane senza umiliazioni, una terra fertile cui la natura ha donato gloria e bellezza; una terra che ha solo bisogno di forti mani laboriose per farne il più felice dei paesi. Tutti i turisti che visitano quei luoghi lo dichiarano all'unanimità.
    E ora è venuto il tempo per noi - gli ebrei - di fare qualche cosa di costruttivo. Creiamo una società per l'acquisto di terra a Eretz Israel; per comperare tutto quello che occorre per l'agricoltura; per dividere la terra fra gli ebrei che sono già residenti e quelli che desiderano emigrare, e per provvedere fondi per coloro che non possono trovare una sistemazione indipendente.»
Per coerenza con quanto aveva scritto, Ben Yehuda capì che doveva personalmente trasferirsi a Gerusalemme. Comunicò la sua decisione ai suoi amici e alla sua fidanzata in Lituania.

 La moglie adatta per una famiglia eccezionale
  Qui bisogna dire che il Signore per i suoi piani in questo caso non scelse soltanto un uomo, ma anche una donna, anzi due donne. Perché Eliezer sposò prima Deborah, di quattro anni più grande di lui, e in seguito, dopo la sua prematura morte, la sorella Pola, di quattordici anni più giovane di lui. Da queste due donne, a dir poco straordinarie, Eliezer ebbe undici figli. Molti morirono in tenera età, ma una figlia, Dola, è vissuta fino all'età di 103 anni.
  Deborah era una ragazza affascinante, istruita, appartenente a una famiglia benestante e di elevata cultura. I suoi genitori avevano accolto in casa il giovane Eliezer quando aveva quattordici anni, e Deborah, che allora ne aveva diciotto, gli aveva insegnato in casa il russo, il francese e il tedesco. Rimase sentimentalmente legata a lui anche quando partì per Parigi, e poi accettò con convinzione di sposarlo e di seguirlo in un progetto di vita che a molti poteva apparire folle.
  Si sposarono durante il viaggio verso Gerusalemme, dove arrivarono nel 1881. Pochi mesi dopo il loro arrivo, proprio alla vigilia di Pesach, la pasqua ebraica, ricevettero la visita inaspettata di un gruppo di giovani ebrei provenienti dall'Europa orientale. Erano sbarcati a Giaffa e avevano percorso a piedi ottanta chilometri per arrivare a Gerusalemme e incontrare Ben Yehuda. Erano i Biluim, giovani idealisti ebrei, quasi tutti studenti universitari, che avevano letto l'appello di Ben Yehuda sulla rivista viennese Hashahar" e avevano deciso di lasciare tutto alle spalle e di stabilirsi in Palestina per collaborare alla rinascita dello Stato di Israele.
  Insieme a loro e ad altri intellettuali ebrei Ben Yehuda pose subito il problema della lingua. In una riunione indetta a questo proposito i partecipanti si organizzarono in un movimento definito "L'esercito dei difensori della lingua" e firmarono un patto che tra l'altro diceva:
    «I membri residenti nella terra d'Israele parleranno la lingua ebraica fra loro, in società, nei luoghi di riunione, nelle strade, nelle piazze e non se ne vergogneranno. Si impegnano a insegnare la lingua ai loro figli, maschi e femmine, e a tutti gli altri componenti delle loro famiglie.
    I membri vigileranno sul linguaggio nelle strade e nei luoghi di mercato, e quando sentiranno parlare russo, francese, yiddish, inglese, spagnolo, arabo, o qualunque altra lingua non mancheranno di fare un rimprovero, anche alla persona anziana, dicendo: 'Non vi vergognate?'»
Ben Yehuda ebbe modo di mostrare subito la sua fedeltà al patto nell'organizzazione della sua famiglia. Alla moglie che stava aspettando un bambino fece fare una solenne promessa che suonava più o meno così:
    «Il bambino non dovrà sentire parola, altro che in ebraico. La nostra casa dev'essere un santuario dove nessuno parla altra lingua che questa. Chiunque ne passi la soglia deve accettare questo patto, deve entrare con parole ebraiche sulle labbra. Finché la nostra crociata non avrà incontrato il favore popolare, dobbiamo isolare il bambino dalla contaminazione delle lingue e dei dialetti della diaspora. Questo è molto più importante di tutti i miei scritti e del mio insegnamento, perché con l'esempio potremo riuscire a trascinare il mondo israelita alla nostra idea.»
Deborah accettò e mantenne la promessa. Nel 1882 nacque il loro primo figlio, un maschio, e la prima parola che la madre disse alla sua creatura quando l'ebbe fra le braccia fu una parola ebraica: "Yaldi" (figlio mio).
  Come si può facilmente immaginare, l'impegno preso non mancò di produrre qualche complicazione. Per fare solo un esempio, la signora che avrebbe dovuto assistere Deborah prima e dopo il parto era la moglie del capo della colonia degli ebrei britannici a Gerusalemme, che però non conosceva l'ebraico. Eliezer le aveva categoricamente proibito di parlare quando il bambino era nella stanza con la madre. Ma poiché non tutto si può esprimere a gesti, alla fine fu sostituita dalla moglie del rabbino, che parlava l'ebraico e gentilmente offrì il suo aiuto. In seguito, chi voleva entrare in casa Ben Yehuda doveva sottoporsi a una specie di esame di lingua, e nel caso questo non fosse superato, poteva entrare solo a patto di non aprire bocca.
  Ma l'impegno fu mantenuto e fu coronato da successo. I figli di Ben Yehuda furono i primi, dopo tanti secoli, ad avere come lingua materna soltanto l'ebraico. Non mancarono le difficoltà e anche i dubbi, instillati nella mente dei genitori dai soliti amici benintenzionati. Il loro primo figlio, Ben Zion, cominciò a parlare molto tardi, e non dev'essere stato piacevole per Deborah sentirsi dire da qualcuno che con il loro sistema stavano allevando degli idioti. L'educazione impartita nella sua famiglia era per Ben Yehuda una sfida: se l'avesse persa, lo smacco subito sarebbe stato incalcolabile. Ma così non fu. A cinque anni Ben Zion parlava un perfetto ebraico, ed era l'unico bambino al mondo che in quel momento parlava soltanto quella lingua.
    «Un giorno i due coniugi camminavano per una delle stradine contorte di Gerusalemme parlando ebraico tra di loro. Un uomo li fermò. Tirando la manica di Eliezer domandò in yiddish:
    - ‘Scusate, signore, quella lingua che parlate, che cos'è?’
    - ‘Ebraico’ rispose Eliezer.
    - ‘Ebraico? Ma la gente non parla ebraico. E' una lingua morta.’
    - ‘Sbagliate, amico’, replicò Eliezer. ‘Io sono vivo. Mia moglie è viva. Parliamo ebraico. Quindi è una lingua viva!’»
(Da “Dio ha scelto Israele”)


Bova Marina celebrata dal "Jerusalem Post" per un matrimonio ebraico

Reggio Calabria: il Jerusalem Post, lettissimo quotidiano israeliano in lingua inglese, dedica un ampio servizio al matrimonio ebraico celebrato in Calabria, precisamente a Bova Marina, lo scorso 4 giugno.

di Danilo Loria

Il prestigioso Jerusalem Post, lettissimo quotidiano israeliano in lingua inglese, dedica un ampio servizio al matrimonio ebraico celebrato in Calabria, precisamente a Bova Marina, lo scorso 4 giugno. Il lungo articolo firmato dal giornalista Michael Freund, contiene tantissimi apprezzamenti sia per l'evento che per la città che l'ha ospitato: ricordiamo che a Bova Marina sono stati rinvenuti i resti di una sinagoga risalente al IV secolo, uno dei rari esempi di sinagoghe del periodo romano di cui sono state ritrovate tracce. Ecco qualche estratto dal pezzo del JPost: "Situato lungo la costa meridionale dell'Italia, nella regione della Calabria, vicino alla punta estrema dello Stivale, il villaggio di Bova Marina appare un luogo improbabile per testimoniare la storia ebraica. La piccola città, che ospita poco più di 4.000 persone, si trova tra spiagge tranquille con viste mozzafiato sul Mar Ionio e colline selvagge che si estendono tra ampi tratti di terreni agricoli. Caratteristico e rustico, c'è poco in superficie da suggerire anche il più remoto legame con il popolo di Israele. Tuttavia, proprio a Bova Marina, sul sito di un'antica sinagoga, si è svolto il mese scorso un evento ebraico storico e ispiratore. Il 4 giugno, il dottor Roque Pugliese e la dott.ssa Ivana Pezzoli, entrambi 'Bnei Anusim' (discendenti di ebrei iberici costretti a convertirsi durante il XIV e il XV secolo), si sono sposati sotto un huppah, il tradizionale baldacchino nuziale, eretto appositamente per l'occasione.
 
   La coppia aveva scelto specificamente Bova Marina come luogo delle loro nozze. La ragione della loro scelta era tanto nobile quanto romantica: chiudere un cerchio storico e riportare la vita ebraica al sito. Mentre la maggior parte degli ebrei non ha mai sentito parlare di Bova Marina, in realtà è sede di qualcosa di unico: la seconda più antica sinagoga mai trovata in Europa, risalente al IV secolo d.C. Più di 35 anni fa, i costruttori di strade che cercavano di migliorare le infrastrutture di trasporto nella zona, hanno scoperto quello che sembrava essere un sito archeologico, uno dei tanti che si trovano spesso in un Paese come l'Italia. Ma i lavoratori non avevano idea del significato di ciò che avevano scoperto. Dopo che i detriti sono stati ripuliti, è diventato evidente che questo era qualcosa di speciale: le rovine di un'antica sinagoga risalente a 1500 anni fa.
   Al matrimonio era difficile contenere l'emozione e l'eccitazione tra i 100 o più invitati, poiché tutti noi sapevamo che questa era la prima volta dall'era talmudica che una coppia ebrea si sposava nel sito. Sottolineando il significato dell'evento, i leader dell'ebraismo italiano sono venuti da Roma, Milano e altrove per partecipare. Includevano il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, il rabbino Elia Richetti di Milano e Napoli, il Capo Rabbino di Firenze Gad Piperno e la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, la signora Noemi Di Segni. Il matrimonio è stato presieduto dal rabbino Umberto Piperno, l'ex rabbino capo di Napoli. Decine di altri 'Bnei Anusim' provenienti da tutta l'Italia meridionale e dalla Sicilia sono venuti a Bova Marina per partecipare ai festeggiamenti. Il matrimonio e la sua posizione sono stati un ricordo tangibile di questa parte del glorioso passato ebraico d'Italia.
   E, come hanno suggerito gli sposi, può servire per annunciare un nuovo capitolo di rinascita e ringiovanimento per i 'Bnei Anusim' della Calabria".

(Stretto Web, 16 luglio 2019)


Auschwitz visto attraverso la fede

di Rav Michael Ascoli

La Shoah pone ineluttabilmente una questione teologica. Per quanto mi sia interrogato sul tema, ho finora preferito la risposta di chi ammette l'incapacità di dare una spiegazione. Qualsiasi interpretazione sia stata fornita riguardo "il perché della Shoah" mi è risultata problematica, parziale, insoddisfacente quando non addirittura interessata. E a nessuno piace che la Shoah venga strumentalizzata. Ammesso che mai ci si arrivi, ci sarà bisogno del passare di alcune generazioni fino a che si potrà arrivare a dire qualcosa del tipo "il secondo Bet haMiqdàsh è stato distrutto a causa dell'odio gratuito". Su questo sfondo, la domanda circa la fede dopo Auschwitz è insidiosa. Coloro che sono passati per i campi, hanno trovato ciascuno la propria reazione, non giudicabile e né criticabile: a chi, se non a un sopravvissuto ai campi, può riferirsi il detto del Talmud "una persona non viene giudicata per ciò che fa quando è preda del proprio dolore"? C'è chi la fede l'ha persa, chi l'ha trovata o rafforzata, chi la ha mantenuta. È allora giusto fare una mostra su Auschwitz dove al centro viene posta proprio la fede? Così avviene ora con "Through the Lens of Faith", appena inaugurata a Auschwitz. Ogni storia di un sopravvissuto è fonte di ispirazione, ogni testimonianza è preziosa. Ma non si rischia paradossalmente di svilire la fede se questa viene vista come un mezzo che ha meglio consentito di sopravvivere ad Auschwitz? Nella sua definizione più alta, il credo è scevro da qualsiasi aspettativa di ritorno personale, nonostante faccia parte del credere che esista una ricompensa per il retto comportamento. "E cosa il Signore richiede a te se non… procedere riservatamente con il tuo Dio?".

(moked, 16 luglio 2019)


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